Stefano
Garroni (Roma,
26 gennaio 1939 – Roma, 13 aprile 2014) è stato un filosofo
italiano. Assistente presso la Cattedra di Filosofia Teoretica
(Roma Sapienza) diretta, nell'ordine, dai Proff. U. Spirito, G.
Calogero e A. Capizzi. Nel 1973 entrò a far parte del Centro di
Pensiero Antico del CNR diretto dal Prof G. Giannantoni. -
Leggi anche: CONTRO
LA GUERRA! - Stefano Garroni
Pubblichiamo, in forma di "Riflessioni", un'altro breve scritto inedito di Stefano Garroni.
Ci sembra opportuno farlo in quanto esplicita la situazione di smarrimento in cui gli appartenenti ad una vasta area "di sinistra" si sono ritrovati all'indomani del crollo dei paesi socialisti nell'Est europeo.
La preoccupazione di fondo descritta da Garroni relativamente all'incapacità del cosidetto marxismo italiano (e non solo) di farsi "arma critica radicale" nell'affrontare la situazione in corso, per rivolgersi, invece, ad una "oscillante nuova cultura" al contempo "rigida ed accomodante, sclerotica e disponibilissima, spocchiosa e incoerente" ma appunto incapace di leggere la gravissima fase storica, lascia intendere (profeticamente) quella che sarà poi la deriva autodistruttiva fino ai nostri giorni.
E' una denuncia chiara della scelta di rinunciare all'analisi marxista della lettura dei fatti.
Una scelta che s'è rivelata, lo vediamo bene oggi, l'annichilimento totale di una sinistra "perbene" pronta a credere nella possibilità di un capitalismo riformabile.
Stefano Garroni ci ha lasciato il 13 aprile 2014. Vogliamo oggi così ricordarlo. (il collettivo)
"Smarrimento" - Stefano Garroni 20/02/1990
Tentiamo
una prima riflessione sulle reazioni della sinistra, in particolare
della cultura di sinistra, agli eventi dell’Est europeo.
È
certo, ciò che subito si nota è smarrimento (non perché sia
l’unica reazione, ma sì la più visibile e diffusa).
D’altra
parte contenuti, modi e ritmi di quegli eventi son tali da
giustificare tale smarrimento, data la grande difficoltà di
organizzare gli eventi stessi entro parametri e inferenze, che
consentano valutazioni sufficientemente pacate e ragionevoli.
Tuttavia
in quello stesso smarrimento c’è anche qualcosa di assai meno
ovvio. Lo testimonia il linguaggio della sinistra, che si va sempre
di più connotando per il ricorso a termini generici, retorici
(“democrazia”, “libertà”, “valori universali”,
“modernità”), quasi non fosse vero che un concetto è
scientificamente attendibile, quando è internamente articolato fino
al punto da specificarsi, puntualizzarsi e, quindi, divenir
comprensibile ed usabile in contesti storici e politici determinati.
Ciò
che preoccupa è che, di fronte ad eventi sicuramente epocali (come
che vadano, poi, giudicati per la loro dinamica e il loro
significato), la sinistra e la sua cultura riescano, solo, a compiere
un clamoroso balzo all’indietro, riscoprendo modalità di
ragionamento e di giudizio storicamente così datati (la sinistra, ad
esempio, sembra a volte rilanciare perfino la dottrina sociale della
Chiesa), da renderle sempre meno capaci di orientarsi nel mondo
attuale.
È
una preoccupazione, questa, largamente fondata. Non è infatti la
prima volta (si pensi agli anni del cosiddetto miracolo economico, o
agli inizi degli anni ’60, o al ‘68) che la sinistra e la sua
cultura non riescono a recepire, egemonizzare, anticipare (mentre è
proprio questo che dovrebbero fare) eventi grandi, che interessano la
società tutta ed, in particolare, le masse del proletariato
tradizionale e moderno.
In
questo senso, il periodo, che iniziò col ’67-’68, è largamente
significativo: è lì che abbiamo visto la sinistra oscillare
smaccatamente fra i poli di un marxismo sclerotizzato ed una cultura
vissuta come “nuova”, che non altro, invece, significava se non
l’immediata espressione di una crisi vasta, profonda, insieme al
rilancio di temi spiritualistici ed irrazionalistici.
Quell’oscillare
ed il tentativo di saldare temi del marxismo sclerotizzato con pezzi
interi della cosiddetta “nuova” cultura, ovviamente,
testimoniavano di guasti profondi già avvenuti: in definitiva , di
uno scarto apertosi fra la cultura (e la politica) di sinistra ed i
processi profondi, che specificano il nostro tempo.
Questo
forse è l’elemento più di fondo. Quali che ne siano i motivi (che
vanno studiati puntualmente), anche il cosiddetto marxismo italiano è
andato progressivamente perdendo il carattere di arma critica
radicale, per trasformarsi in un pasticcio di tradizioni spurie (se
non opposte addirittura) con un sostanziale esito mistificante. Il
realismo proprio della grande tradizione marxista è stato sostituito
da una cultura , ad un tempo, rigida ed accomodante, sclerotica e
disponibilissima, spocchiosa e incoerente. L’innesto, poi, di
motivi “moderni” – ma, in realtà, fortemente ideologici,
addirittura nel senso dello spiritualismo e dell’irrazionalismo –
certo, non potevano migliorare la situazione.
Se
così stanno le cose, allora ecco il significato più vero ed
allarmante di quello smarrimento, di cui dicevamo all’inizio.
E
possiamo, a questo punto, anche comprendere perché proprio la
sinistra non riesca a fornire degli eventi dell’Est Europa una
lettura non di maniera, non ideologica, ma che tenga conto, invece,
di un gioco più nascosto di fattori (militari, economici,
diplomatici), che per il fatto di non essere “televisivi”, non
per questo risultano meno reali e determinanti.
Insomma,
se è vero – come è vero – che un’epoca è finita, sarebbe
auspicabile che ne iniziasse una nuova, in cui i marxisti si
mostrassero capaci di “tornare a Marx” nell’unico modo in cui
ciò è possibile. Ossia, non certo mettendo tra parentesi la storia
e leggendo finalmente il “vero” Marx (che in un certo senso non
esiste); ma sì riprendendo del marxismo la criticità radicale e la
disponibilità piena all’uso della ragione per leggere gli odierni
processi contraddittori del capitalismo e costruire, su questa base,
la strada per il socialismo.