venerdì 28 febbraio 2014

Sull'accumulazione originaria di Karl Marx , Il Capitale Libro I, Capitolo 24 - Ermanno Semprebene -

La teoria economica di Marx ci mostra come il processo storico dell’apparizione e dell’appropriazione del plusvalore costituisce una sola unità dialettica di tre momenti differenti:                                                              

1) Lo scambio ineguale che poggia su valori ineguali: è lo scambio che si sviluppa in una società ancora dominata dall’economia naturale [c’è una produzione di merci cui si affianca una semplice circolazione (M-D-M) che si struttura poi in un processo di circolazione di denaro che vede aumentare il suo valore sulla base di uno scambio ineguale dovuto all’appropriazione da parte del “commerciante” di merci pagate con quantità di denaro inferiori al loro valore reale e rivendute ad un valore superiore (D-M-D*)]. Questo meccanismo scorretto porterà ad una accumulazione di capitale che a sua volta si moltiplicherà grazie al sistema del prestito “ad usura” (altra palese forma di scambio ineguale). Sarà questo, dice Marx, l’inizio di quella accumulazione di capitale commerciale che darà la possibilità di creazione di quella gran massa di denaro che permetterà la formazione del capitale industriale necessario per il passaggio alla seconda forma, il secondo momento dialettico:                                                                                                                           
2) Lo scambio eguale che si basa su valori uguali(tipico del modo di produzione capitalistico), dove l’appropriazione del plusvalore (D-M-D*) non si afferma più sulla semplice circolazione delle merci ma scaturisce dall’insieme del processo di produzione (produzione- trasporto- scambio- consumo). [Il capitale acquista sul mercato macchine e materie prime (capitale costante) e forza lavoro (capitale variabile). La produzione di merci si sviluppa in una struttura organizzata ed efficacemente supportata da una rete di comunicazioni moderna ed efficiente che permetterà un’accumulazione enorme di merci che, a loro volta, si trasformeranno in denaro aumentato di valore nel processo di consumo]. La creazione del plusvalore non si avrà, come nel primo momento, da vendita e acquisto di merci a valore superiore o inferiore del loro valore reale, bensì le merci verranno scambiate al loro reale valore. E qui arriviamo al terzo momento dialettico:                                                                                                                                                                              
3) Lo scambio ineguale che poggia su valori eguali: la merce “forza lavoro”, l’operaio, presenta una caratteristica del tutto particolare, una sua peculiarità, è l’unica merce capace di creare, se inserita in un processo lavorativo determinato (appunto il processo di produzione capitalista), più valore del suo “costo” iniziale. (in altre parole la capacità lavorativa che viene acquistata dal capitale sotto forma di forza lavoro e che viene impiegata nelle sei, otto, dieci, ore che compongono la giornata di lavoro dell’operaio produce una quantità di merci il cui valore reale è di gran lunga superiore a quanto quel lavoratore percepisce per lo svolgimento della sua opera). Questa produzione di maggior valore sarà appunto un superprodotto a tutto beneficio di chi detiene, mantiene, riproduce l’organizzazione del sistema.                                                            
A questi tre momenti dialettici si aggiunge una ulteriore fase di scambio ineguale che risulta dai differenti livelli di produttività dei diversi paesi che partecipano al commercio capitalistico mondiale.   


"Port - Royal" - Aristide Bellacicco -


Ai bambini si insegnava soprattutto a non farsi illusioni.
Nessuno veniva sgridato né minacciato.
Non esistevano punizioni.
Ci limitavamo a renderli tristi. Ci sembrava giusto così
.

(maestro Arnauld)

Io la mattina mi alzavo alle quattro per dire messa. Poi leggevo la bibbia per un’ora e alle sei, con qualsiasi tempo, uscivo a passeggiare nel parco. Dall’angolo sud, accanto al glicine, si riusciva a vedere Versailles. Non mi è mai piaciuto guardare da quella parte, e ogni volta che ci capitavo tornavo indietro alla svelta. - Stai scappando? – mi chiedevo, e non volevo rispondermi. Bevevo un bicchiere di latte nella mia stanza, indossavo l’abito scuro e preparavo i libri per la lezione. La scuola occupava una sola aula al piano terra del convento, con le finestre che davano sul cortile interno alle spalle del parco. Da lì passavano solo le suore e qualche prete, nulla che potesse distrarre i bambini. Erano in tutto trenta, il più giovane aveva cinque anni e il più grande dodici. Si chiamava Blaise, era un ragazzino molto sveglio e il solo veramente indisciplinato. Era anche il meno triste, però, e io non sapevo se rallegrarmene o se considerarla una sconfitta personale. Questo dubbio mi è rimasto nei tanti anni che sono passati da allora, ma col tempo ho imparato a sottovalutarlo. Era una domanda legittima e insensata. Adesso racconterò la storia di Blaise e del suo maestro Arnauld, che sono io, e di Albertine, l’unica donna che ho amato in vita mia.

La principale scoperta di Port- Royal era che i bambini sono malinconici per natura e cercano di sfuggire al fascino di quel sentimento distraendosi. A questo servono i giochi, le monellerie, e quell’apparente spensieratezza che era la mia principale avversaria. Il mio lavoro consisteva essenzialmente nell’impedire ai bambini di distrarsi. C’era una tecnica: bisognava che non fosse mai concessa loro nessuna delle normali soddisfazioni di quell’età. Il sistema non si basava sui divieti, ma sulle assenze. Le cose sbagliate venivano semplicemente fatte sparire. Non si assegnavano voti e non venivano distribuiti elogi. Se qualcuno spiccava per intelligenza o acume, o addirittura per qualche tratto geniale, non gli si dava alcun peso. I primi della classe non esistevano e, di conseguenza, neanche gli ultimi. Un prato di erbe della stessa altezza e colore. E non si giocava, a Port- Royal. Non c’era nessuna proibizione formale, ovviamente. Era solo che ne mancava il tempo, e tutto era organizzato perché mancasse. I giorni erano tutti uguali e non era prevista una tregua. La mattina rimanevano in classe dalle sette all’una. Poi li si portava a mensa, dove pranzavamo insieme e io stavo a capotavola. Dopo mangiato riposavano un’ora nelle loro stanze. Alle tre c’era la messa. Nel pomeriggio, in primavera o nei giorni di bel tempo, Albertine li portava nel parco per un paio d’ore. A volte mi univo anch’io, ultimo della fila, per il piacere di ascoltare la sua voce mentre insegnava ai bambini i nomi delle piante. Verso le cinque tornavano nello loro stanze e studiavano o facevano i compiti fino alle otto. Dopo cena c’era la preghiera comune e alle nove erano già a letto. Col tempo, la malinconia diventava una droga potente di cui era impossibile fare a meno. I bambini la scoprivano in se stessi come un’estrema risorsa e imparavano ad amarla e a volerne di più. Usciva da loro come un colore uniforme che li rendeva indifferenti a tutto tranne che alle cose serie che gli insegnavo io. Stavano attenti, studiavano ed erano silenziosi. Quasi tutti, almeno. Blaise no.
Me l’aspettavo da lui quella domanda, e un giorno venne. 

- Maestro Arnauld – mi domandò Blaise - perché non ci fate mai giocare? Avevamo appena finito la lezione e stavamo andando a mensa. 
- Non è così - risposi - chi te lo impedisce? Se vuoi, gioca.
- E con chi? Qui nessuno ne ha voglia. Non posso mica giocare da solo come un matto
- Questo è vero, Blaise. Ma se nessuno ne ha voglia, ci sarà pure un motivo. Che ne dici? Non volevo che gli altri sentissero il nostro discorso. Lasciai che entrassero nel refettorio e restai fuori con lui. Passando per ultima, Albertine mi strizzò l’occhio. 
- Ascolta Blaise. E’ semplice. Hai mai letto nel vangelo che Gesù da piccolo perdeva tempo a giocare? Non mi sembra che c’è scritto. C’è scritto invece che andava a discutere con i dottori del tempio. Ed era più piccolo di te
Blaise si mise a ridere. Era l’unico che rideva ancora in tutta la classe.- Dai, maestro Arnauld, non mi prendere in giro. Questo non significa niente. Nel vangelo non ci sono scritte un sacco di cose che invece devono essere successe per forza. Insomma, le cose ovvie
- E sarebbero, queste cose ovvie?
- - disse Blaise - ad esempio non c’è mai scritto che Gesù andava al bagno. Eppure gli sarà scappata ogni tanto. Oppure che gli venivano le bolle o che si grattava il naso o…
- Blaise! - lo interruppi - Il vangelo non ha il tempo di occuparsi di queste sciocchezze
- Appunto, dico. Il vangelo racconta solo le cose importanti. Ma le altre sono avvenute lo stesso. E’ impossibile che Gesù non giocava. Non ci posso credere
Per il momento, pensai che era meglio piantarla lì. Gli dissi che ne avremmo riparlato e lo portai a mangiare.
- Però, Blaise – gli dissi a bassa voce – non ti mettere a parlare con gli altri di queste cose. Dille solo a me, d’accordo? 
- D’accordo – rispose – non ti preoccupare. Non ti voglio mica creare problemi, maestro Arnauld
Ah, ecco: non voleva “crearmi problemi”. Mi offriva una solidarietà complice, quasi da collega, non certo da allievo. Restai di sasso, ma non riuscivo a sentirmi arrabbiato con lui. Blaise non era come gli altri, non era triste. Ed era resistente. 

Nel primo pomeriggio, verso le due, Albertine venne nella mia stanza.
- Dai – mi disse – che non ho molto tempo. Ho detto alla madre superiora che andavo a cambiare i fiori nella cappella.
- I fiori? Albertine, siamo in novembre. Non ci sono fiori.
- Figurati. Quella non sa nemmeno se piove o c’è il sole. Non mette mai il naso fuori. E poi mi copre suor Angela. 
Mi tirai di colpo a sedere sul letto.- Lo hai detto a suor Angela. Non può essere. Albertine, dimmi che non è vero.
Albertine mi coprì gli occhi con una mano. Faceva così ogni volta che stavamo per litigare.
- Stai buono, maestro Arnauld. Non c’è pericolo. Qui dentro io e te facciamo come ci pare. Però facciamolo presto.
Mi abbracciò e io mi dimenticai di ogni cosa per un buon quarto d’ora. Mentre si rivestiva gli dissi di Blaise.
- Però – commentò Albertine – mica male. Bel cervellino.
- Anche troppo- dissi io – anche troppo. Non so cosa fare. Mi sbilancia.
Albertine finì di sistemarsi il velo. Non c’erano specchi, a Port- Royal, e si guardò nel vetro della finestra chinandosi appena. Con le dita fece sparire una ciocca nera dalla fronte. Era l’unica suora che avessi mai visto senza velo e la sola che mi piacesse a prescindere.
- Il fatto è che ti piace – disse.
- Chi? – domandai. Mi ero distratto – Chi mi piace?
- Blaise. Ti piace da morire, ammettilo. Vorresti essere come lui. Lo sai che scrive?
- Cosa? Chi? Scrive, Blaise? E che scrive?
- Ah non lo so – disse Albertine - Ha un quaderno segreto. Lo tiene nel tiretto dello scrittoio. L’ ho scoperto mentre riordinavo la stanza.
- E non lo hai aperto?
- Ci mancherebbe altro. Sopra c’era scritto “i miei pensieri”. E io non faccio parte dell’inquisizione, mi sembra.
Prima di andarsene mi baciò.
- Oh – disse – che non ti venga in mente di raccontare in giro questa storia. Era seria.
- Non ti preoccupare, Albertine. A Blaise non gli voglio mica creare problemi.
Appena fu uscita mi rivestii alla svelta. Dovevo dire la messa delle tre. Faceva freddo e mi sentivo strano e triste. Mi fermai con i calzoni in mano.- Stai scappando? – mi chiesi – stai scappando, maestro Arnauld? Ma non c’era risposta. 

C’era solo un altro bambino che mi dava delle preoccupazioni. Si chiamava Alphonse de Cligny, aveva otto anni ed era figlio di un nobile. Se non avessimo abolito l’istituto del primo della classe, quel titolo sarebbe toccato a lui. In aula di studio, Alphonse non mi toglieva mai gli occhi di dosso. Credo che ricordasse a memoria ogni mia parola. Quando leggevo i suoi componimenti rimanevo ammirato e inquieto. Aveva una grafia da bambino e uno stile da adulto. No, non è esatto: aveva uno stile da vecchio. Davanti a quelle righe di aspetto ingenuo e di contenuto astrattamente elevato mi sentivo perduto e mi veniva voglia di aprire la finestra anche in inverno. Sembrava di leggere gli scritti di un nano–prodigio. Per Alphonse il mondo e la vita non avevano più sorprese né attrattive. “ Noi tutti - aveva scritto una volta – siamo schiavi della concupiscenza e della stupidità. E’ per questo che l’uomo è infelice, perché desidera senza tregua cose senza valore: la ricchezza, gli onori, gli agi, i divertimenti.. Se capisse che tutto questo affannarsi non ha scopo alcuno, e che l’unica cosa che conta è l’eternità, sarebbe salvo per sempre. Invece la maggior parte delle persone cerca di dimenticarsi dell’unica cosa certa e duratura, che è la morte, distraendosi con le cose incerte ed effimere che il mondo gli offre e che nulla possono contro quella. Io mi impegno a non seguire questa strada. Voglio vivere senza mai dimenticare che devo morire.” E poi c’era anche questo:“ Mia madre mi ha messo al mondo nel peccato. Non poteva farne a meno. Nessuno può nascere senza che qualcun altro commetta peccato nella carne. E’ questo il segno della corruzione della natura umana, il vero significato e la principale conseguenza della colpa originale. Ma per l’uomo consapevole non tutto è perduto. Egli sa infatti che un peccato può essere cancellato da un peccato più grande.” Erano più o meno le cose che insegnavo io, solo che Alphonse le diceva meglio. Ma c’era anche qualcosa che non veniva da me: quell’idea che un peccato più grande potesse annullarne uno meno grave. Era un’affermazione strana, di sapore esoterico e di colore nero, e non sapevo spiegarmi da dove l’avesse presa. 

Un pomeriggio alla fine del mese, dopo la messa delle tre, gli dissi che volevo parlargli e lo portai nella mia stanza. Alphonse mi seguì senza dire una parola. Lo feci sedere sull’unica sedia e io restai in piedi. 
- Volevo chiederti una cosa – gi dissi, e gli mostrai il compito con quella frase sui peccati.- Vuoi leggere da qui, per favore? Alphonse mi guardò fisso negli occhi, poi abbassò lo sguardo sul foglio e lesse. Alla fine mi guardò nuovamente negli occhi. 
- Ecco- dissi – volevo sapere da dove hai preso questa idea. Non voglio dire che sia giusta o sbagliata. E’ un’idea come un’altra. Niente di che. Ma da dove ti è venuta? Niente elogi né critiche, nessuna manifestazione di sorpresa che potesse compiacere la sua vanità. Era lo stile di Port- Royal. Ma con Alphonse era proprio superfluo. Alphonse non la conosceva affatto, la vanità. 
- Dalle scritture- rispose senza esitare – è il sacrificio di Gesù. L’uomo era caduto nel peccato originale e per redimerlo è stato necessario che venisse commesso un peccato ancora più grande. Solo così poteva esserci la salvezza
- E quale sarebbe questo peccato più grande?- gli chiesi. Avevo paura. Alphonse mi guardo serio serio. Forse pensava che volessi esaminarlo. 
- L’uccisione di Gesù, maestro Arnauld. La crocifissione. Non esiste un peccato più grande. Ma solo così si poteva cancellare il peccato originale. E salvarci. Quindi, il peccato più grande annulla quello più piccolo. 
- Ho capito Alphonse, ora puoi andare – gli dissi, e lo congedai quasi di fretta. Restai da solo in camera qualche minuto per cercare di cancellare dalla mia mente ciò che avevo visto. Ma non era sbagliato fare così? Non era vietato distrarsi? Versai la brocca nel catino e immersi la faccia nell’acqua fredda. Mi bruciava. 

Il giorno dopo, verso le quattro, andai a trovare Blaise nella sua stanza. Entrai senza bussare, come usava a Port- Royal. Blaise girò la testa verso di me e, con estrema calma, infilò nel cassetto dello scrittoio un grosso quaderno sul quale stava scrivendo. Chiuse il cassetto e si alzò in piedi. 
- Maestro Arnauld – disse, e sorrise 
- Che stai facendo, Blaise? 
- Studio, maestro Arnauld. Che altro? - La penna d’oca oscillava ancora nel calamaio. 
- Siediti, Blaise. Voglio chiederti di fare una cosa per me
- Certo. Con piacere
- Siediti, però. Ecco, bravo. Stammi a sentire. Hai presente Alphonse de Cligny? 
- Come no. Quello che non parla mai
- Esatto. Proprio lui. Vorrei che tu, ecco… lo facessi giocare un po’. Dopo pranzo, magari. Invece di andare a riposare. Ti do il permesso io. Portalo nel parco e giocate un po’. Ti va? 
Blaise si accigliò per un istante. Pregai che fosse intelligente quanto pensavo. Lo era, sì.- Per me va bene – disse – anzi, benissimo. Ma non credo che lui vorrà. Quando gli parlo a volte nemmeno risponde. E poi a che giochiamo? 
- Sai giocare a nascondino? Ecco, giocate a nascondino. Se non lo conosce insegnagli tu. Poi farò in modo di procurarvi una palla. Giocate a palla, o a tirarvi i sassi, nel frattempo. A quello che vi pare, Blaise. Basta che lo fai giocare. 
- Una palla – disse Blaise – bè, maestro Arnauld, una palla è qualcosa. Niente male. Io ci sto. Ma speriamo che ci stia anche Alphonse. 
- – dissi – speriamo. Tu fai il possibile, Blaise. E adesso studia, hai capito? 
- Ma certo che studio, maestro Arnauld. Che altro dovrei fare? 
Uscii dalla sua stanza sentendomi un traditore. Non sapevo cosa avevo tradito, ma in ogni caso non mi dispiaceva averlo fatto. In quel momento desideravo stare solo con Albertine, ma chissà dov’era. Scesi nel parco e camminai fino al glicine. La campagna era coperta di nebbia, Versailles era invisibile. Il parco aveva i colori e la serietà dell’inverno. Pensai a Alphonse e a quel disgraziato di Blaise e pregai quel nostro strano e invisibile dio, che ci univa e ci divideva tutti, di dare una mano. E alla svelta, maledizione. 

Mi capitò una cosa che prima non era mai successa: durante le lezioni mi distraevo e perdevo il filo. Forse la maggior parte dei bambini non se ne accorgeva, ma Blaise e Alphonse sicuramente sì. Una volta confusi le lettere di san Paolo con l’Apocalisse. E poi mi sfuggì una frase infelice.- “Preferisco la misericordia al sacrificio” – dissi citando il vangelo – ricordatevelo, ragazzi. Blaise, Alphonse e anche gli altri. Qualche volta andate a giocare. Divertitevi un pò, ogni tanto Non è mica peccato. Davvero, non lo è, credetemi. Non ci furono repliche né domande. D’altra parte, non era nello stile di Port- Royal interloquire durante le lezioni. E io avevo preoccupazioni di tutt’altro genere per angustiarmi troppo di quei dettagli. 

Una mattina, molto presto, venne a cercarmi l’assistente del Rettore. Mi stavo ancora vestendo. 
- Maestro Arnauld, scusate per l’ora- mi disse- ma sua eccellenza vuole parlarvi subito
Monsignor Duprè mi aspettava nel suo studio. Accanto a lui, in piedi, c’era la madre superiora. Non aveva espressione e non mi guardava. Temetti il peggio. 
- Maestro Arnauld – disse il rettore – accomodatevi. Solo due minuti, non voglio sottrarvi al vostro lavoro. Sedetti di fronte a lui, dall’altro lato dell’enorme tavolo intarsiato. - Vengo subito al punto – disse monsignor Duprè – E il punto è questo: ieri pomeriggio, alle due e mezza, la madre superiora, passando per caso davanti a una finestra della cappella, ha notato che nel parco c’erano due allievi. Alle due e mezza, maestro Arnauld. Quella è l’ora del riposo pomeridiano. O no? 
- Certo – risposi – dalle due alle tre
- Perfetto- Duprè si passò un dito sotto al naso – perfetto. Non dubitavo. Ora, la madre ha subito incaricato un degli istitutori di verificare quello che stava succedendo. I ragazzi, a quanto pare, avevano un comportamento assai singolare. Uno dei due, quello un po’ strano, come si chiama? ma sì, Blaise, era inginocchiato dietro un cespuglio. L’altro, e sto parlando di Alphonse de Cligny, il figlio di monsieur de Cligny, aveva un braccio poggiato sul tiglio e la faccia premuta contro il braccio. Sono stato chiaro? 
- Ma certo – dissi – forse stavano giocando
- Naturalmente – disse Duprè – questo l’abbiamo capito tutti. E a che stavano giocando? 
- Non so. A nascondino, a occhio e croce. Almeno credo
- Esatto. Complimenti, maestro Arnauld. Proprio a nascondino. E’ quello che ci ha detto Alphonse de Cligny quando l’abbiamo interrogato. 
Lo guardai.- L’avete interrogato? E perché ? 
- Come perché? Per sapere cosa stavano facendo.
- E cosa stavano facendo? 
Il rettore si mise a ridere e guardò la madre superiora. Un lieve oscillare del busto mi rivelò che forse rideva anche lei. Non riuscivo a vederle gli occhi.- Maestro Arnauld – disse il rettore sempre ridendo – ma ce l’avete appena detto voi. Stavano appunto giocando a nascondino. 
- Certo – dissi – a nascondino. E allora? Cioè, Monsignore, con tutto il rispetto: perché lo viene a dire a me? Se i ragazzi hanno mancato non è colpa mia. Io sono il loro maestro, non il loro guardiano. C’è altro personale per questo. 
Il rettore smise di ridere e picchiò una mano sul tavolo.- Il fatto è – disse serio – che siete stato voi ad autorizzarli. Ce l’ ha detto Alphonse de Cligny. E a lui l’aveva detto quel, come si chiama? ah sì, Blaise. Guardi, non so cosa sia successo e non so perché sia successo. Voi , maestro Arnauld, siete un ottimo insegnante, ma questa volta avete sbagliato. In buona fede, ne sono sicuro, ma avete sbagliato. Avete permesso ai ragazzi di contravvenire alle regole. Avete creato un tempo libero che non ci deve essere. Port- Royal non è un asilo infantile. Qui non si gioca. Si girò un momento verso la madre superiora e poi tornò a guardarmi negli occhi. 
- Lo so- dissi – ma questa volta è diverso. Anzi, forse ho colpa di non averne parlato subito con lei ma…insomma, pensavo che con un po’ di svago…innocente, Alphonse magari…Mi interruppi. Non stavo dicendo niente. Duprè aspettava con aria perplessa.- Alphonse de Cligny – dissi – non sta bene. Ha scritto delle cose che mettono i brividi. Bisogna aiutarlo. Forse è il caso di avvertire il padre
- Alphonse de Cligny è in ottima salute – disse Duprè – e ho letto anch’io i suoi componimenti. Se non fosse contrario allo stile di Port – Royal, lo proporrei per una nota di merito. Certi allarmismi sono fuori luogo, maestro Arnauld. Comunque – concluse – i ragazzi hanno capito l’errore. E non lo ripeteranno. In ogni caso, la vostra autorità non è stata messa in discussione. Alla fine, hanno ammesso entrambi di aver frainteso. 
- Di aver frainteso – ripetei. 
- Esattamente – disse Duprè – e mi raccomando, non prendete altre iniziative del genere senza consultarmi. Anzi, non ne prendete affatto. Sono stato chiaro, maestro Arnauld? Mi alzai, mi inchinai senza rispondere e uscii da quel posto infame. Mi aspettavo di essere accusato per via di Albertine, certo, e sarebbe stata la fine. Ma quello che era successo era assai peggio. Raggiunsi l’aula e cominciai la lezione. 

Nei giorni seguenti feci il possibile per evitare Blaise. Non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi. Sapevo che Blaise era perfettamente in grado di capire quello che era successo e che non ce l’aveva con me. Ma ero io che mi sentivo un vigliacco. Mi domandavo anche cosa stava capitando ora nella testa di Alphonse, e quanto male gli avevano fatto, quanto gliene avevamo fatto tutti quanti, me compreso. E avevo paura. 

Un pomeriggio di sole, mentre i bambini erano nel parco con Albertine, raggiunsi la stanza di Blaise. Mi sedetti al suo scrittoio, che mi andava piccolo, e tirai fuori il famoso quaderno. Lo lessi da cima a fondo due volte. Blaise era salvo, senza alcun dubbio. Su di lui non avevamo potuto nulla. Era ironico, sereno, libero. E geniale. Sentii qualcosa di caldo fluirmi nel petto. Port- Royal e quel ragazzino si fronteggiavano ma non ad armi pari, perché il più forte era lui. Ricordo una frase che mi fece particolarmente bene. “Se dio c’è – aveva scritto Blaise – non può essere quello che ci insegnano qui. Se dio c’è, sta altrove. Dio non è un allievo di Port.- Royal. Se lo fosse, non potrebbe essere dio. Dio non perderebbe tutto questo tempo a parlare continuamente di sé. Ogni tanto, parlerebbe anche di qualcun altro. ”E poi quest’altra: “M.A. è una brava persona. Non è come gli altri. Non ha mica il culo incollato alla sedia. E’ uno di quelli che a un certo punto prendono e se ne vanno. ”Ottimo, Blaise, figlio mio. 

Non successe più nulla fino all’antivigilia di Natale. I bambini aspettavano la festa con indifferenza e serietà, nello stile di Port - Royal. Il ventitre dicembre scesi nel parco la mattina presto, raggiunsi il glicine, guardai Versailles, mi feci una domanda senza risposta e alle otto ero in classe. Cominciai a fare l’appello ma mi interruppi subito. Il posto di Alphonse era vuoto. - Qualcuno di voi ha visto Alphonse de Cligny? – domandai. I bambini si guardavano l’un l’altro senza dire niente. Poi Blaise si alzò e si avvicinò alla cattedra.
- Stamattina sono passato a prenderlo in camera sua – mi disse – lo faccio sempre da un po’ di tempo. Ma lui non c’era. 
- E perché non mi hai avvisato subito? 
- Perché non sono una spia, maestro Arnauld. E tornò al suo posto. Feci chiamare un istitutore, gli dissi di badare alla classe e uscii a cercare Alphonse. Salii di corsa nella sua stanza. C’era già stato Blaise e quindi era inutile, ma forse volevo solo perdere tempo. La camera era in ordine, il letto già rifatto, i libri e i quaderni ancora sullo scrittoio. Li sfiorai con le dita. Tornando via, aprii a caso la porta di qualche altra stanza, meccanicamente, senza aspettarmi di trovarci niente, e non le richiusi. Forse era il caso di avvisare Duprè, pensavo, o Albertine, ma nello stesso tempo mi dicevo che in un caso o nell’altro sarebbe stato uguale e senza scopo. Mi affacciai ancora un momento dall’aula di studio, ma l’istitutore mi guardò e scosse il capo. Allora, riattraversando il cortile interno, uscii nel parco. Fuori era molto freddo, le piante erano bianche e immobili e forse già morte nella gelata. Camminai per un po’ sulla neve guardandomi intorno. Mi ricordai di quando avevo promesso a Blaise di procurargli una palla. E mi venne in mente una parola, l’unica parola naturale detta da Duprè quando ci avevo parlato. Cominciai a correre. Tagliai fra i sentieri, calpestando il roseto e l’orto disabitato, e mi immersi fino alle caviglie nello stagno delle ninfee. Poi attraversai delle spine , qualcuna mi graffiò la faccia, scivolai sul ghiaccio e sentii un gran male al ginocchio. Quando mi rialzai lo vidi. Il tiglio era l’albero più alto del parco, stava quasi al centro, fra cespugli di malva e ortica. Era grande e spoglio, usciva nero da tutto quel bianco come un fiammifero spento. Alphonse era lì, seduto con la schiena appoggiata al tronco e le gambe allungate. Aveva la testa abbassata. 
- Alphonse – chiamai. La neve era caduta dai rami e gli era finita in testa, formando una calotta banca che gli nascondeva i capelli. Mi abbassai per guardarlo in viso. Il ginocchio mi bruciava forte. 
- Alphonse, che ci fai lì? L’occhio destro era otturato dalla neve. L’altro era aperto e fissava qualcosa fra le gambe. Ma non c’era niente.- Alphonse. Gli presi una mano. Era coperta di brina. Subito dopo cominciai a urlare e in un attimo il parco si riempì di gente. 

Il medico mi fece un impacco d’erbe per il ginocchio e mi ordinò delle tisane. Passai natale a letto e in quei tre giorni non vidi nessuno, tranne una suora che mi portava da mangiare e mi cambiava l’impacco. Avevo l’impressione che di notte chiudessero la porta con la chiave. Nelle tisane c’era qualcosa che mi faceva dormire. Ogni tanto pensavo ad Albertine. Il ventisette mi svegliai presto e provai a mettermi in piedi. Potevo camminare, anche se zoppicavo un po’. Mi vestii lentamente. Alle sette venne la suora a portarmi il latte e la tisana del mattino. Si stupì di trovarmi già vestito. La ringraziai e le dissi che potevo fare da me. Ma dovetti insistere.- Grazie, sorella – dissi – sto meglio. Ce la faccio. Davvero, può andare. Indugiò ancora mentre io la guardavo a braccia conserte. Alla fine si ritirò di malumore. Bevvi il latte e versai la tisana giù dalla finestra. Il freddo era intenso e attorno era ancora tutto pieno di neve. L’orizzonte della campagna era sprofondato nella nebbia. 

Alle otto bussarono alla porta e Duprè entrò senza aspettare che dicessi avanti. Con lui c’era la madre superiora. Mi abbracciò.- Come va? Maestro Arnauld…La suora fece un minuscolo inchino con la testa senza dire niente. Duprè sedette sul letto ancora disfatto. Io restai in piedi.- Ho saputo che stava un po’ meglio - disse – ma volevo vedere di persona. Gli risposi che stavo bene e che ero guarito.- - disse Duprè con un breve sorriso – questo magari lo lascerei decidere al medico. Lo faccio venire subito. E si girò vero la madre superiora. 
- La ringrazio – dissi – ma non ce n’è bisogno. Mi sono riposato in questi giorni. Non ho fatto che dormire. Ora mi sento in forma. Sul serio, monsignor Duprè, non si preoccupi. E lo informai che alle nove volevo dire messa nella cappella. Percepii un lieve movimento della madre superiora. Se avesse avuto una qualsiasi espressione, poteva essere rabbia.
- Questo è lodevole da parte sua – disse Duprè – ma…insomma maestro Arnauld, con la gamba in quelle condizioni, e poi… insomma, la faccenda di Alphonse ha avuto degli strascichi. Lei non c’entra, per carità, questo noi lo sappiamo, ma monsieur de Cligny ha preteso dei chiarimenti. E’ un uomo importante. Ha molte conoscenze a corte. 
Mi colpirono le parole “faccenda” e “strascichi”. Mi sembravano simili al rumore dei chiodi sulla bara di Alphonse, che non avevo sentito. 
- Per quanto mi riguarda – dissi – sono pronto a prendermi tutta la colpa. Alphonse si è ucciso a causa delle cose che gli insegnavo io
- Ucciso? – monsignor Duprè scatto in piedi – maestro Arnauld, ma che sta dicendo? Alphonse è morto di polmonite. Il medico è stato chiarissimo su questo punto. Si era avventurato fuori per giocare e non si è reso conto del freddo. Era anche vestito leggero. Il freddo lo ha…ecco, lo ha addormentato. E poi una polmonite fulminante. Così ha detto il medico. Duprè era rosso in volto. Afferrò la ciotola vuota del latte.- L’ ha bevuto questo? – mi chiese. Risposi di sì. - Bene. Allora adesso vorrà riposare. Maestro Arnauld, io capisco che tutto ciò l’abbia terribilmente addolorata. E chi ci vorrà tempo perché lei recuperi la sua…lucidità, ecco. Tutti, tutti siamo sconvolti, a Port- Royal.. E le siamo vicini. Aspetti ancora qualche giorno, dia retta a me. .Si riprenda del tutto. E preghi, certo, preghi. La preghiera aiuta. Ma per ora, niente messe né lezioni. Si alzò- Ormai è quasi tutto chiarito – aggiunse senza guardarmi – la colpa è unicamente dei sorveglianti. Non si sono accorti della fuga di Alphonse. Forse dormivano, non lo so. Ma era già successo, ricorda? quando Alphonse e quell’altro, ma sì, Blaise erano usciti nel parco a giocare a nascondino. Lei stesso mi disse che la responsabilità era del personale di sorveglianza. E aveva ragione. Anche se li aveva autorizzati lei. L’inchiesta è ancora in corso. Ma secondo me, in due o tre giorni risolviamo tutto. Coraggio. Mi battè una mano sulla spalla e uscì. La madre superiora lo seguì senza fare un gesto. Non chiusero la porta a chiave, ma tanto era inutile. Stavano facendo un ottimo lavoro. Ancora due o tre giorni, e Port- Royal sarebbe tornato alla normalità. Mi domandai chi avrebbe fatto lezione ai ragazzi nel frattempo. Duprè, sicuramente. O la madre superiora. Ma parlava, quella? A parte quando doveva fare la spia, naturalmente. Mi stesi sul letto. Avevo una voglia furiosa di stare con Albertine. E mi dispiaceva non poter dire messa. Non che significasse qualcosa in sé, ma era l’ unica cosa che mi veniva in mente per fare finta, almeno per un po’, che Alphonse non fosse morto. 

… da due giorni non riuscivo a incontrare Albertine. Il terzo giorno si presentò in camera mia verso le tre. Entrò senza bussare. 
- Albertine, devo dire messa
- La dici dopo. La messa può aspettare. Io ho solo dieci minuti. Ma erano più che sufficienti. Dopo, avevo ancora voglia. Cercai di nuovo i suoi seni. Albertine mi fermò la mano e me la strinse. Sembrava diversa dal solito.
- Ascolta – disse – ascolta bene quello che ti dico. Te lo dirò una volta soltanto. La sua mano era fredda. Chinò la testa sulla mia mano. - Mi vuoi sposare? Maestro Arnauld, mi vuoi sposare? Rispondimi. O sì o no. Rispondimi ora. 
- – dissi – ti voglio sposare. Certo. Lo sai. Ma io sono un prete e tu una suora. Non è una novità. Dura da un sacco di tempo. Siamo stati anche bene qui. Cosa vuoi che faccia? Vuoi che scappiamo da Port- Royal ? Vuoi che lasciamo tutto? Albertine si vestì di fretta. Non disse più nulla fino a quando non si fu sistemata il velo guardandosi nella finestra. Poi si voltò verso di me. 
– disse – non me ne importa più. Questo è un cimitero. Io non ho voglia di farmi seppellire qui, è troppo presto per me. Tu fai come vuoi. Ma vieni con me, maestro Arnauld, amore mio. E’ meglio così. Te lo giuro. Ci aiuta Angela
- Suor Angela? Che c’entra suor Angela? 
- Non c’è più suor Angela. Non ci sono più suore a Port – Royal. Sono scappate tutte con i loro uomini. Pensavi che io e te fossimo gli unici amanti qui dentro? Povero scemo. Ora se la spassano a Parigi. Angela viene stasera a prenderci con una carrozza. 
- E Duprè? – dissi – Quello ci cerca fino in capo al mondo. Albertine scoppiò a ridere e non si fermava più. Non riusciva a trattenersi, si agitava tanto che a un certo al punto il velo si staccò e cadde in terra, ma lei non lo raccolse. Allora mi meravigliai di quanto fossero diventati lunghi i suoi capelli. Le arrivavano alla cintura. 
- Duprè – disse – se n’è andato anche lui. Con la madre superiora. Ora vivono a Marsiglia. Lui gestisce un bordello. Lo faceva anche prima, a quanto pare
- E tutti gli altri? 
- Svegliati, Arnauld. Qui non c’è più nessuno. Ci siamo rimasti solo noi. Vieni a vedere. E spalancò la finestra. Fuori c’era un sole immenso, che riempiva la metà del cielo. Il parco era affondato nella luce e nel calore. Le piante e gli alberi erano secchi, bruciati, e tutto era morto. Vidi dei cani rotolarsi nello stagno secco delle ninfee e poi mordersi l’un l’altro con furia, come se avessero fame di se stessi. 
- Com’è possibile – dissi – in così pochi giorni. E anche i tuoi capelli
- Non sono pochi giorni – rispose Albertine – è tutta la vita. E i miei capelli sono così perché non li ho più tagliati. Sono dieci anni che non li taglio. Se una cosa la lasci perdere, cresce. Guardai ancora nel parco. C’era qualcuno. Stava seduto sotto il tizzone spento dell’albero di tiglio. Aveva un cappello bianco e giocava con una palla facendola rimbalzare accanto a sé. 
- Ma quello è Alphonse – gridai – Alphonse! Allora non è vero che è morto! Sta giocando con la palla di Blaise. Alphonse! Mi sporsi dal balcone e lo chiamai ancora. Agitavo le braccia verso di lui, lo volevo prendere in braccio. Albertine mi afferrò per la spalla. 
- Piantala Arnauld, sei patetico. Alphonse è morto stecchito. 
- Ma se è lì – gridai – non lo vedi che è lì? Alphonse! 
- Sì che lo vedo. E’ l’unico rimasto. E’ un morto, ed è il guardiano di Port- Royal. Perciò sta lì. Andiamo via prima che si accorga di noi, Arnauld. Ce l’ ha a morte con noi. 
- Lo so. E’ stata colpa mia. Sono stato un vigliacco. Dovevo difenderlo
- Questo non c’entra niente, scemo – disse Albertine – ce l’ ha con noi perché qui dentro io e te ci siamo anche trovati bene. E questo che non sopporta. E se ci trova ci mangia vivi. Li hai visti i cani? 
Io mi girai verso di lei. Albertine aveva i capelli tutti bianchi, e le rughe… 

Mi svegliai tutto bagnato e feci una gran fatica per rimettermi a respirare. Nella stanza era quasi buio, doveva essere pomeriggio tardi. Avevo freddo. Insomma era nel latte, maledizione, non nelle tisane, quelle erano a posto. Mica stupidi, però. Mi alzai e accesi il lume ad olio. Mi sciacquai la faccia nel catino. Il ginocchio andava molto meglio. Recuperai il respiro normale. Avevo fame. Provai la maniglia e vidi che la porta era aperta. Mi avviai lungo il corridoio, orientandomi sulla mia ombra alla luce fioca delle candele, e scesi nel refettorio. Era ancora presto per la cena, la sala era vuota, ma avevano già apparecchiato. Sentivo rumori dalla cucina. Mi sedetti al mio posto, a capotavola.- Voglio mangiare – dissi ad alta voce. Una suora venne fuori dalla cucina. Mi sorrise. 
- Maestro Arnauld – disse – che ci fa qui? E’ presto. Se torna in camera, le porto subito qualcosa. 
- No – dissi – voglio mangiare qui. Adesso. Per favore, sorella. Quello che c’è. Un po’ di carne magari. E del vino
- Vino ? – fece la suora – Ma non abbiamo vino, quando mai? Maestro Arnauld, torni in camera, la prego. Non mi faccia avere dei guai
Mi voltai a guardarla. Era giovane, sicuramente una novizia, erano loro a fare servizio in cucina. 
- Non è vero che non abbiamo vino. Quando dico messa, secondo lei cosa ci metto nel calice? Vada in cappella e prenda il vino della messa. Ce n’è un piccola botte nella sagrestia. Oppure, in camera di monsignor Duprè. O nella cella della madre superiora. Loro ne hanno. Ma se ha paura, ci vado io
- Maestro Arnauld… - disse la suora. 
- Va bene – dissi – lasciamo perdere il vino. Ma mi porti la carne. E il pane. E l’ acqua, per favore. Dopo cinque minuti mi portò un piatto di arrosto e una pagnotta. Poi tornò con una caraffa d’acqua. Mangiai di buon appetito, masticando con piacere la carne ben cotta e accompagnandola con il pane. 

Insomma, ero l’unico. Port- Royal era tutta sulle mie spalle. Port – Royal ero io. I vivi e i morti dipendevano da me. Mi avevano lasciato insegnare perché ero il più bravo e avevano fatto i loro conti. Io formavo i bambini, li addestravo ad essere dei futuri maestri Arnauld. E anche loro, da grandi, avrebbero trovato un compromesso, una distrazione o un compenso supplementare alla teologia e alla devozione sotto forma di un’Albertine o di un’Albert, a seconda dei gusti. Ma questo non aveva importanza. Tutti abbiamo le nostre debolezze. La salvezza non viene dalle buone azioni, ma dalla fede. Pecca più forte che puoi, e credi più forte che puoi. E nelle pause fotti, perché no. I bambini erano tristi: e allora? Da grande sarebbero diventati uomini seri e attenti. Gente che guardava al sodo, come Duprè e la madre superiora. Polmonite, non dolore. Gli Alphonse sarebbero sempre esistiti, quelli che prendono tutto alla lettera e si macerano sui versetti . Tipi di quel genere distruggono se stessi, mica gli altri. Non servono e danno noia. Meglio se si fanno fuori da soli, a un certo punto. Così che l’esigua e utile stirpe dei maestri Arnauld possa ancora prosperare su questa terra fino alla fine dei tempi. 

Mangiai tanta di quella carne e tanto pane che alla fine uscii nel parco e vomitai tutto. Il freddo mi fece bene. Tornai nella mia stanza, bevvi un sorso d’acqua dalla brocca e poi andai a cercare Albertine. Entrai nel convento. Le suore mi guardavano con spavento. Ne fermai una.- Dov’è Albertine? Tirò indietro le braccia e scappò via. Nessuna mi rispondeva, si limitavano ad appiattirsi verso il muro quando passavo. - Insomma, dov’è Albertine ? gridavo. 
A una svolta del corridoio incontrai la madre superiora. - Maestro Arnauld – mi disse senza espressione nella voce – esca subito. Lei non sta bene. Ora faccio chiamare il medico
- Vuole che faccia una gita sotto la neve come Alphonse ? – dissi – Dov’è Albertine? 
Non rispose più nulla. Rimase immobile con le mani strette sotto la tonaca. Me la lasciai alle spalle e continuai a percorrere i corridoi chiamando Albertine.- Albertine! 
Le porte delle celle si aprivano e si richiudevano subito , uno sguardo e via. Il colore bianco e grigio dei veli. Almeno, stavo facendo qualcosa che non avrebbero dimenticato. - Albertine! In ultimo venne fuori dalla sua cella, che non avevo mai visto, al secondo piano. Sembrava che uscisse per caso e senza fretta. Camminava verso di me come se io non ci fossi. Le misi le mani sulle spalle per fermarla. 
- Ti sono cresciuti i capelli? – le chiesi – E’ una settimana che non ti vedo. Vuoi sposarmi? 
Le mie parole mi sorpresero. Non pensavo che le avrei domandato proprio quello, Albertine mi guardò con un sorriso terribile. Era molto bella. 
- Ciao, maestro Arnauld. Ma che straordinaria trovata. Ottimo, non potevi fare di meglio. Tu proprio non ci sai stare al mondo, è vero? Ma io sì. Lo disse sussurrando e durò due secondi al massimo. Poi mi scansò e scomparve. Nessuno l’aveva sentita. Non la inseguii. Continuai a camminare fino alla scala che dava all’esterno, spalancai la porta con un calcio e tornai nel parco. Stavo scappando.

Non ho più saputo nulla di Blaise. Recentemente, mi è capitato fra le mani un libro di un autore che porta il suo nome con un cognome diverso. L’ ho letto, e ho fantasticato a lungo che si trattasse di lui. E’ un libro di successo. Questo Blaise è stato a Port- Royal, non c’è dubbio. E se invece non c’è stato, è riuscito ad immaginare ciò che noi eravamo con una precisione e una lungimiranza che solo i grandi scrittori possono avere. Perciò, potrebbe trattarsi proprio del mio Blaise. Il libro mi fa compagnia tutti i giorni, ormai. La mattina, quando scendo al porto a fare la mia solita passeggiata, lo infilo nella tasca del cappotto. Amburgo è una bella e strana città . Ti lasciano vivere e non ti danno tropo fastidio. Io mi guadagno da vivere insegnando il francese ai figli dei commercianti di qui. Non mi vogliono né bene né male. Gli sono utile, ecco tutto. Mi pagano regolarmente e ogni tanto mi regalano un tacchino o una pollastra. In cambio, io leggo loro qualche passo del libro, quando li vedo troppo stanchi. Si divertono ad ascoltarmi. Ma leggo quasi sempre le stesse frasi. Ad esempio dove dice: “il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce.” Ci torno su di continuo e poi dico: 
- Ragazzi, il cuore: che parola scema, non vi sembra. Cosa ne pensate? 
- Ach, Meister
E I bambini ridono, forse per farmi piacere, forse perché sono vecchio e un po’ scemo. O perché sanno che subito dopo li mando fuori a giocare. 




su Althusser - Stefano Garroni -

http://www.filosofico.net/althusser.htm

giovedì 27 febbraio 2014

IL MARXISMO DI PAUL MATTICK



Le opere di Mattick pubblicate in Francia hanno avuto scarsa eco e nessun commento favorevole. Non c’è da stupirsi, poiché gli scritti di questo vecchio radicale tedesco, del tutto indifferente alle fisime degli intellettuali, sono una vigorosa denuncia dei miti e delle ideologie, la cui fioritura ha accompagnato il lungo consolidamento del capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale. Anche negli anni in cui il capitalismo in Germania, in Italia e in Giappone passava di "miracolo in miracolo", Mattick non ha assolutamente creduto che le politiche Keynesiane o neo-keynesiane mettessero in discussione le previsioni di Marx sulle contraddizioni e i limiti dell'accumulazione del capitale. Ma, soprattutto, Mattick non ha solo perseverato nel contrapporre Marx a Keynes, ma ha pure, e ciò è molto meno scontato, opposto Marx a tutti coloro che pretendono di parlare in suo nome. I pretesi continuatori di Marx non sono altro che i suoi epigoni, colpevoli nel modo più assoluto di aver affossato, dalla fine del XIX secolo, il significato del marxismo, rifiutando di vederci una teoria del crollo del capitalismo o deducendo il crollo da presupposti che non erano quelli di Marx. (Pierre Soury - Pag 172)                                                                                                                                                 
Marx, laddove esamina le conseguenze ultime dello sviluppo del macchinismo rispetto agli elementi costitutivi del rapporto capitalistico di produzione ... sembra porre un problema squisitamente astratto, poiché la realtà capitalista, allora, era ancora lontana dalla situazione limite, che egli si sforzava di analizzare. La nascita e lo sviluppo dell’automazione hanno oggi ridotto in modo significativo questa distanza, e i problemi che porrebbe al capitalismo una decrescita continua del lavoro produttivo tende a diventare sempre di più un problema attuale e concreto. Il poderoso sviluppo tecnologico, cui è giunto il capitalismo nel corso degli ultimi decenni, non consente al sistema di travalicare le contraddizioni dell’accumulazione e, agli occhi di Mattick, rappresenta solo una fuga in avanti che – supponendo che debba proseguire – avrebbe il solo effetto di avvicinare sempre di più il regime capitalista ai suoi limiti storici. (Pierre Soury - Pag 174)                                        
Mattick si guarda bene dal pronosticare che, dagli abissi della società «unidimensionale», la crisi faccia risorgere rapidamente la lotta rivoluzionaria, come se la combattività e la lucidità politica del proletariato si debbano elevare in funzione inversa al calo della redditività. Mattick appartiene a una generazione che non ha l’ingenuità di credere che la rivoluzione appare non appena il capitalismo entra in crisi. La rivoluzione, dice, non è mai una certezza ma non è neppure un «semplice sogno marxista», perché se il proletariato non può farsi affossatore del capitalismo, e non ne concepisce l’idea stessa durante le fasi in cui il sistema riesce a consolidarsi – ritrovando la capacità di accumulare –, nessuno può dare un giudizio preventivo su quanto avverrà, se si conferma che le contraddizioni del regime sfasciano i fondamenti economici su cui è stata costruita la società integrata. Il catastrofismo di Mattick non è tanto più ottimista di quello di Marx o anche di Rosa Luxemburg. Ma non è neppure tanto disperato. ( Pierre Soury - pag 175)
http://www.contra-versus.net/uploads/6/7/3/6/6736569/un_omaggio_a_paul_mattick__contra-versus.pdf

venerdì 21 febbraio 2014

Le principali teorie economiche - Riccardo Bellofiore

Da:  UniBgTube - puntorosso.it - Riccardo-Bellofiore è un economista italiano


Sulla Dialettica Logica di Evald Ilyenkov - (1974) -


From the History of Dialectics

 Il compito, tramandatoci da Lenin, di definire una logica (con una “L” maiuscola), cioè di procedere ad una esposizione sistematicamente sviluppata della comprensione dialettica come logica e teoria della conoscenza del materialismo moderno, è oggi particolarmente urgente. Il carattere marcatamente dialettico dei problemi aperti in ogni ambito della vita sociale e della conoscenza scientifica rende sempre più chiaro che solo la dialettica marxista-leninista ha la forza di costituire il metodo della comprensione scientifica e dell’attività pratica, e aiutare gli scienziati nella comprensione teorica dei dati fattuali e sperimentali e nella soluzione dei problemi che essi incontrano nel corso della ricerca.

    Negli ultimi dieci o quindici anni, ben pochi lavoro sono stati scritti rivolti a separare le branche che sono parti dell’intero che noi solo sogniamo; essi possono appena essere considerati come paragrafi, persino capitoli, della futura Logica, come blocchi più o meno completi dell’edificio che deve essere eretto. Non si può, naturalmente, cementare tali blocchi meccanicamente in un insieme; ma dato che il compito di una esposizione sistematica della logica dialettica può essere svolto solo con uno sforzo collettivo, dobbiamo almeno determinare i principi più generali del lavoro d’insieme. Negli studi qui presentati tentiamo di concretizzare alcuni punti di partenza per tale lavoro collettivo.

 

In filosofia, più che in ogni altra scienza, come Hegel ricordava con qualche contrarietà nella sua Fenomenologia dello Spirito il termine o il risultato finale sembra…dover assolutamente esprimere il fatto completo stesso nella sua reale natura; in opposizione ad esso il mero processo di portarlo alla luce, sembrerebbe, propriamente parlando, non avere significato essenziale”.

sabato 15 febbraio 2014

Hegel - La Fenomenologia dello spirito - Antonio Gargano


«Del resto non è difficile a vedersi, che la nostra è un’età di gestazione e di passaggio ad una nuova era». Hegel ha piena consapevolezza che noi viviamo in un’età di trapasso in cui vecchie certezze si sono sgretolate e nuove certezze non sono nate. «Lo spirito ha rotto con quello che è stato fino ad ora il mondo del suo esserci e del suo rappresentare; esso è in procinto di calare tutto ciò nel passato, ed è impegnato nel travaglio della sua trasformazione». Viviamo troppo al di dentro di una trasformazione per rendercene conto: c’è un travaglio doloroso, che sembra implicare solo disgregazione, ma che è la preparazione di una nuova era: «In verità esso non è mai in quiete, ma è preso da un movimento sempre progressivo. Ma allo stesso modo che nel bambino [vuol dire nel nascituro, nel feto] dopo un lungo e silenzioso periodo di nutrizione, il primo respiro interrompe – con un salto qualitativo – il processo graduale di quello sviluppo soltanto quantitativo, ed allora il bambino è nato, così lo spirito in via di formazione matura lentamente e silenziosamente verso la sua nuova figura». Anche se non ce ne accorgiamo, l’epoca storica sta, faticosamente, per partorire qualche cosa di nuovo, però, appunto, secondo una delle leggi della dialettica, la quantità all’improvviso si trasforma in qualità, cioè si accumulano prima gradualmente le condizioni di un cambiamento e poi il cambiamento sboccia all’improvviso. Non ci rendiamo conto che viviamo in un’epoca di trasformazione, in cui si stanno accumulando le condizioni di una nuova nascita; sentiamo ogni tanto i gemiti di un parto che sta per venire, non lo abbiamo ancora visto, «ma io sono certo, dice Hegel, che lo spirito, cioè il divenire dell’uomo, sta per generare una nuova era, che poi sboccerà all’improvviso». Hegel è un filosofo rivoluzionario, per lui la storia presenta discontinuità: procede silenziosamente per anni, anche per secoli, poi, all’improvviso, emerge un’epocanuova.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                [...] Lo spirito non è qualche cosa di passeggero, di destinato ad essere sconfitto, a essere sorpassato: lo spirito dà luogo a creazioni permanenti. Lo spirito è il momento più alto perché è il momento in cui la comprensione dell’uomo si attaglia pienamente alla realtà, quindi dà luogo a costruzioni che rimangono, a quelle che Hegel chiama “seconda natura”. Nello spirito l’uomo è creatore. L’uomo si trova di fronte la natura, ma crea un altro mondo, una seconda natura, che è il mondo del diritto, della famiglia, dello Stato, dell’arte, della religione, della filosofia. Lo spirito non è transeunte, non è destinato ad essere sconfitto; esso si radica nella realtà, perché corrisponde al momento più alto di comprensione dell’uomo, che veramente afferra la realtà con la sua ragione e si riesce a radicare nella realtà, riesce a impiantarvi qualche cosa di duraturo, che Hegel chiamerà nella Filosofia del diritto “seconda natura”, nel senso che è quasi una seconda creazione. Le creazioni mature dello spirito sono i grandi sistemi religiosi. I grandi sistemi religiosi cercano di cogliere l’assoluto e di organizzare popolazioni intere intorno a credenze che rimangono nei secoli, se non nei millenni, ma le religioni sono solo il penultimo stadio dello spirito, perché esse colgono l’assoluto, il divino, l’infinito, in una maniera inadeguata, ancora legata al mito, alla rappresentazione. Lo sviluppo supremo dello spirito, l’ultimo stadio della Fenomenologia, è il sapere assoluto, cioè il momento in cui l’uomo capisce, al di là della religione, che l’infinito, il divino, l’ideale, sono perfettamente razionali, hanno una forma razionale, e quindi devono essere capiti allo stesso livello, cioè nella forma della ragione.                                                                                                 http://www.iisf.it/scuola/idealismo/Hegel_fen.htm

sabato 1 febbraio 2014

Su Hegel politico. - Stefano Garroni -


In italiano possiamo dire <quella persona non ha carattere>, per intendere che su quella persona non si può contare - in particolare nel caso si tratti di assumere un qualche atteggiamento deciso, di mostrare una certa risolutezza e volontà  e continuità nella decisione presa. Una persona che non ha carattere ha in sé qualcosa di indefinito, non è né questo né quell’altro ed, in tal senso, possiamo anche dire che <quella persona non esiste>, appunto perché né è definibile in modo sufficientemente preciso, né ha ‘il polso’, la ‘robustezza morale’, che ci si attende da una persona, che sia effettivamente tale.

Tuttavia, potremmo (e dovremo) dire che quella stessa persona tuttavia esiste: però nel senso particolare, che mi sembra ben precisato in questa pagina, scritta da Sartre nel 1943:
“(la persona) è in quanto evento, nel senso che posso dire che Filippo II è stato; che il mio amico Pierre è, esiste; è in quanto compare in una situazione che egli non ha scelto; in quanto Pierre è un borghese del 1942 e Schmitt era, invece, un operaio berlinese del 1870; egli è, perché gettato nel mondo, abbandonato in una ‘situazione’; è, in quanto pura contingenza; è nella misura in cui –per lui, come per tutte le cose di questo mondo -per questo muro, per questo albero, per questa tazza-, è legittimo porsi la questione originaria <perché questo essere qui è così e non altrimenti?> Esso è nella misura in cui vi è qualcosa di cui esso stesso non è il fondamento, ovvero la sua                                                                             presenza al mondo.” [1]

Lo sappiamo, al senso ed al linguaggio comuni può capitare di trasmettere, sia pure in modo largamente inconsapevole, una saggezza,  a volte perfino profonda  -ed è questo, appunto, che capita nel nostro caso.

Cosa ci insegna, infatti, quel comune uso linguistico, che abbiamo richiamato e che stiamo esaminando?

Che una persona mancante di carattere non esiste propriamente; ma, anche, ci mostra come questo sia un giudizio che generalmente diamo di persone, le quali in un altro senso -ovvero empiricamente- tuttavia esistono, son presenti, stanno lì, possono essere indicate a dito; ovvero, persone di cui potremmo scattare una foto, che potremmo sentir parlare, ecc.