venerdì 31 gennaio 2020

Democrazia - Alessandro Barbero

Da: Academy X9 - Alessandro_Barbero è uno storico, scrittore e accademico italiano, specializzato in storia del Medioevo e in storia militare.
Vedi anche: Che cos'è la democrazia? - Luciano Canfora  
                       "La multinazionale ecumenica" - Eugenio Cefis
                         Marc Bloch - Alessandro Barbero

                                                                              

giovedì 30 gennaio 2020

Jugoslavia, memorie del Paese che non c’è più. - Angelo d’Orsi

Da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/ - Angelo+D'Orsi è professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Torino.

Jugonostalgia. La parola indica quell’insieme di sentimenti, pensieri, e una profondissima disillusione, che si agita nel cuore e nella mente di chi ha conosciuto e amato quello strano capolavoro che fu la Jugoslavia di Josip Broz Tito, che, alla fine di un’aspra guerra di liberazione antifascista e antinazista, la rifondò sotto forma di Repubblica Federativa nel 1945, che poi, nel 1963, divenne Repubblica Socialista Federale. Un capolavoro in quanto il maresciallo Tito seppe dosare centralismo e autonomia, alle singole etnie, che oggi, dopo la distruzione della Federazione sono diventati altrettanti Stati, o micro-Stati, che si sforzano, tra dramma e farsa, di costruirsi una individualità.

Come si sa quel mosaico di culture lingue e religioni fu cancellato dopo la caduta del Muro, non tanto per una implosione interna quanto per effetto di interventi esterni, a cominciare dalla Germania di Kohl e dal Vaticano di Wojtila, che innescarono un processo decennale di conflitti, che insanguinarono popoli e famiglie, spezzarono ciò che era stato unito, frammentarono molecolarmente un Paese, misero padri contro figli, fratelli contro fratelli, mogli contro mariti.

Abbiamo ricostruzioni storiche, memorie personali, testimonianze che ci hanno fatto conoscere questa vicenda truce, uno dei frutti avvelenati del 1989; ma proprio la sua gravità e la sua complessità fanno sì che ogni nuovo contributo, quale che sia il suo registro (letterario, storiografico, politologico…), sia il benvenuto. Come questo testo – tra memorialistica e narrativa – di Dunja Badnjevič (Come le rane nell’acqua bollente, Bordeaux Edizioni, 2019, 159 pp.) che costituisce uno dei più dolenti e amari messaggi d’amore per la Jugoslavia, non scevro tuttavia di spirito critico, che nasce anche dall’esperienza binazionale dell’autrice, interprete autorizzata del governo jugoslavo in Italia.

Dunja finisce per entrare nel mondo del PCI, e stabilisce rapporti significativi con la dirigenza del partito, e anche con esponenti del mondo intellettuale di area comunista. Ne fornisce frammenti di memoria, che non mancano di aspetti interessanti, talora nuovi, spesso anche divertenti: come quella volta che Berlinguer ricevette i complimenti della delegazione jugoslava all’ultimo congresso del PCI (Milano, 1983), e l’aggettivo “emozionante” usato dal capo delegazione fu tradotto malamente dall’interprete, diventando “divertente”. Berlinguer ne fu molto sorpreso: “è la prima volta che mi definiscono divertente. Dovrebbero sentirlo quelli che mi dipingono sempre con la faccia lunga e luttuosa! Che bello!”.

Gli episodi narrati sono numerosissimi, lungo gli anni di interpretariato politico, un ruolo, e non solo un mestiere, che l’autrice ha svolto con crescente competenza, via via che la sua conoscenza della lingua italiana migliorava, vivendo se stessa come un ponte che collegava le due sponde dell’Adriatico, un collegamento tra i comunisti italiani e quelli jugoslavi, gli uni e gli altri anomali rispetto all’ortodossia russo-sovietica. In questa attività Dunja mise passione politica, oltre che impegno scientifico, e visse le vicende ora esaltanti, ora mortificanti di una storia di cui si sentiva parte: in sintesi, l’autoritarismo di Tito in patria, autoritarismo spesso dittatoriale, che lei aveva sperimentato da vicino, con la deportazione del padre spedito in quell’isola-prigione che era Goli Otok (la cosiddetta “Isola nuda”, su cui aveva pubblicato un bel libro, da Bollati Boringhieri nel 2008); ma anche la lungimiranza di quel leader in politica estera, con la scelta dei “Non allineati”, l’allontanamento dall’URSS, il che comportò anche una feroce repressione dei “filorussi”, ossia degli ortodossi del socialismo reale: tra i quali appunto il padre dell’autrice, un importante diplomatico, che era convinto che non si dovesse mai voltare la spalle alla “patria del socialismo”, la Russia, a qualunque costo.

La nostalgia per il proprio Paese, la Jugoslavia socialista, emerge anche nel confronto con l’Italia, le sue disfunzioni, su vari piani. La Jugoslavia era uno Stato che assicurava una buona istruzione, del tutto gratuita, ma severa; garantiva assistenza sanitaria e sociale; favoriva la diffusione della cultura, come dello sport: piscine e teatri erano assai diffusi; le librerie erano sempre affollate e si leggeva molto più che in Italia.

I viaggi di ritorno a Belgrado, la città natale della BadnJevič, negli anni più recenti erano altrettante pugnalate: tutto ciò che allora, sotto Tito, funzionava benissimo – dall’Università agli ospedali – ora era in rovina, o quasi; e si avvertiva nella società, un clima generale di sfiducia, di diffidenza, di latente conflittualità. Non tutto andava certo per il meglio fino al 1980, l’anno della scomparsa di quel padre della patria, e l’autrice sa tenere a bada il rimpianto governandolo con la fredda osservazione della realtà, quella di ieri, del passato socialista, comparata a quella di oggi, quando il capitalismo trionfa, a scapito di tutto e tutti. E la poesia del volontarismo nella illusione della costruzione del socialismo, riemerge, in squarci in cui si parla di politica, di sport, di teatro: una espressione tipica erano le Brigate del lavoro, in cui migliaia di giovani offrivano la loro opera nei campi più diversi, travolti dalla generosa utopia della edificazione della “patria socialista”, una patria multietnica in cui il socialismo, appunto, avrebbe favorito l’integrazione, salvaguardando le specificità dei diversi popoli del mosaico jugoslavo.

Le guerre degli anni Novanta, frantumarono definitivamente quelle speranze, o illusioni che fossero. E quel Paese fu distrutto, e ancora ci si chiede perché. L’auto-interrogazione dell’autrice sul Paese che non c’è più, ma anche sul partito che non c’è più assume nel finale un tono di profonda mestizia. “Provo nostalgia per le sicurezze che avevano i giovani una volta – la scuola, il lavoro, la casa, i figli, la pensione, la salute – e che oggi non esistono più. Per la certezza che un domani sarebbe stato migliore per i miei nipoti, più di quanto non lo sia stato per la nostra generazione. E invece accade tutto il contrario” (p. 131).

(13 dicembre 2019)

mercoledì 29 gennaio 2020

Produttività, salari, occupazione - Ascanio Bernardeschi

Da: https://www.lacittafutura.it/ - Ascanio Bernardeschi collabora con La Città futura.



Il nesso fra produttività, occupazione e salari, i limiti dell’impostazione keynesiana e la trappola delle statistiche ufficiali.


Federico Giusti, nel suo articolo della settimana scorsa, replicando ad alcune osservazioni a proposito della produttività del lavoro, ci fornisce alcuni elementi di riflessione importanti e condivisibili. Intendo con queste note integrare il suo discorso esplicitando maggiormente alcune considerazioni.
Nei primi passaggi Giusti specifica che non esiste una produttività dei fattori ma solo la produttività del lavoro e della natura. In particolare che sarebbe sbagliato parlare di produttività del capitale. Se qualche lettore è rimasto sorpreso da questa affermazione, che poi è quella di Marx, occorre spiegare meglio la cosa.
Il valore delle merci è dato, secondo la teoria marxiana, cui aderiamo, dal tempo di lavoro astratto socialmente necessario a produrle. Tale tempo di lavoro si suddivide in lavoro vivo, quello che viene effettivamente speso per la produzione finale di una data merce, e lavoro morto, cioè speso in processi produttivi anteriori e cristallizzato nel valore dei mezzi di produzione acquistati dal capitalista (macchinari, materie prime ecc.). Questo lavoro morto viene trasferito, senza nessuna variazione del suo valore (per questo viene denominato capitale costante), grazie al lavoro vivo che, mentre consuma i mezzi di produzione e con ciò il loro valore, produce nuove merci utili (carattere utile del lavoro concreto), vendibili, permettendo di inglobarvi il valore ereditato dai precedenti processi produttivi, che esso così non viene perduto. Contemporaneamente, spendendo nuovo lavoro astratto, aggiunge nuovo valore ed è quindi l’unico fattore produttivo.

martedì 28 gennaio 2020

La definizione di antisemitismo dell’IHRA - Ugo Giannangeli

Da: https://ecoinformazioni.com/ - Ugo Giannangeli, collaboratore di Arci ecoinformazioni e docente della Scuola Diritti umani del Coordinamento comasco per la Pace.

L’antisemitismo secondo la definizione della Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (IHRA): veramente è equiparato all’antisionismo? 

La recente dichiarazione d’amore di Salvini per Israele si aggiunge alla lunga lista delle precedenti di esponenti della destra, anche estrema come Orban. Israele, invece di essere indignato o quanto meno imbarazzato, ne è compiaciuto. Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all’Onu, ospite d’onore al recente convegno leghista sull’antisemitismo, ha apprezzato le parole di Salvini ed ancora di più avrà apprezzato la sua intenzione di accelerare l’iter parlamentare sulla adesione del governo italiano alla definizione dell’IHRA e sul disegno di legge Anti – BDS. Complice la vicinanza della Giornata della memoria si susseguono iniziative pro Israele associate a un pressing mediatico che ha pochi precedenti ed è raro non trovare riferimenti alla definizione di antisemitismo dell’IHRA.
La vulgata corrente su questa definizione vuole che essa equipari antisionismo e antisemitismo ( si veda, anche,  da ultimo, il Corriere della Sera del 17 gennaio 2020 sul convegno leghista). Così non è e, a onor del vero, neppure intende esserlo. Si ha l’impressione che i più scrivano e parlino della definizione senza averla neppure letta. Ogniqualvolta il commento del testo sia stato affidato a giuristi o, quantomeno, a non addetti alla propaganda sionista la critica alla definizione è stata radicale e ferma è stata la denuncia dei suoi enormi limiti. Certamente non vi si può trovare alcuna equiparazione tra antisionismo e antisemitismo. Perfino il redattore della definizione, l’avvocato statunitense Kenneth Stern, ritenuto non di sinistra ed autodefinitosi sionista, contrariato dalla strumentalizzazione del suo testo ha preso le distanze da queste mistificazioni.
Andiamo per punti e cerchiamo di intenderci innanzitutto sui termini.

lunedì 27 gennaio 2020

LIBERARE TUTTI I DANNATI DELLA TERRA

Da: http://www.controappuntoblog.org/ -
Leggi anche: Daniel Defoe: La vera storia di Jonathan Wilde -

Da LIBERARE TUTTI I DANNATI DELLA TERRAedizioni Lotta Continua, 1972 https://www.inventati.org/apm/archivio/P6/10/dannatidellaterra.pdf): 

Il capitalismo è violento, si basa sulla sopraffazione dell’uomo sull’uomo, sull’egoismo, in un sistema dominato dai capitalisti, l’uso individuale della violenza per il proprio profitto  è ampiamente propagandato e pubblicizzato. Per chi non dispone per nascita e condizione economica dei mezzi legali (istituzioni borghesi) per l’esercizio di tale violenza, l’alternativa di porsi “fuori legge” è  spesso vista come l’unica via per sottrarsi allo sfruttamento. I primi sono i “padroni” i secondi quelli che i padroni chiamano ” delinquenti”. 

Da dove ha origine la cosiddetta delinquenza? Da un cromosoma in più , oppure da cause come la divisione della società   in classi con conseguente disuguaglianza economica, culturale, sociale? E’ questa società stessa che genera il crimine e le carceri che servono a riprodurlo e a specializzarlo.

Chi sono i delinquenti? Sono i proletari e sottoproletari che per sfuggire alla loro condizione di disoccupazione e sottoccupazione, costretti a cercare un lavoro nelle grandi città , sottoposti alle spinte del “benessere”, ne vengono scacciati indietro, esclusi, e non hanno altra strada che infrangere le leggi dei padroni.



        Da "La proprieta non è piu un furto" di Elio Petri: 
                                                                                        


Da K. Marx - Teorie sul plusvalore - http://www.bibliotecamarxista.org/marx/Marx_Karl_-_Teorie_sul_plusvalore

"Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. 

Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. 

Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare]. 

Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione […]. 
Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? 
Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza? 

Il Mandeville, nella sua Fable of the Bees (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti i mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione […]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonché il Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e più onesto degli apologeti filistei della società borghese." 

domenica 26 gennaio 2020

Le pensioni di nonni e genitori rendono sostenibile il precariato di figli e nipoti - Roberto Ciccarelli

Da: il manifesto, 16.01.2020 - http://www.rifondazione.it/ - Roberto Ciccarelli è filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto.


Istat. Le pensioni sono il primo reddito per 7,4 milioni di famiglie italiane. Da ricordare quando scatterà la prossima geremiade contro l’«apartheid» dei precari. Non sono i «vecchi» ad avercela con i «giovani». Sono entrambi sfruttati in una guerra che mantiene tutti in povertà. Non è una guerra tra generazioni. È il saccheggio di tutte le generazioni operato dal capitalismo oggi

Il Welfare più arretrato, disfunzionale e ingiusto d’Europa si regge grazie ai pensionati. La crisi sociale acutissima prodotta dal precariato strutturale di massa nell’ultimo trentennio è sostenibile solo grazie all’integrazione al reddito garantita dai genitori e dai nonni che mettono a disposizione l’assegno mensile e le varie forme di rendita accumulate nel corso di una vita di lavoro di una o più generazioni per sostenere figli e nipoti che vivono nell’economia dei «lavoretti».

Nel rapporto sulle condizioni di vita dei pensionati pubblicato ieri dall’Istat emerge un aspetto drammatico. Per quasi 7 milioni e 400 mila famiglie, circa una su tre, le pensioni rappresentano il primo reddito. La crisi del reddito e del salario, la vera questione politica oggi, è arrivata a questo punto: davanti alla casualità assoluta dei guadagni delle generazioni nate dopo il 1970, quelle precedenti suppliscono in maniera quasi totale alla vita di una popolazione composta da poveri e da lavoratori poveri, giovani e meno giovani. Questo dato rivela che la solidarietà familiare ha sostituito il patto intergenerazionale sulla quale è fondata la previdenza. La famiglia è stata trasformata in una rete di ultima istanza. È una supplenza alla mancanza di un Welfare universale che tutela il diritto di esistenza, un principio che dovrebbe essere fondativo di uno stato costituzionale di diritto. Non lo è in nessun modo. Al contrario, si dà ormai per scontato l’esistenza di tale disponibilità finanziaria per evitare di riconoscere il diritto al lavoro, al reddito, alla casa, a una vita dignitosa nel e soprattutto fuori da un lavoro sempre più miserabile.

Il rapporto Istat fornisce un’altra informazione che permette di comprendere l’insostenibilità e l’ingiustizia di questo sistema. Non solo l’anziano permette al più giovane di sostenersi, ma un pensionato su tre è anche povero. Il 36,3%, riceve ogni mese meno di mille euro lordi, il 12,2% non supera i 500. Un pensionato su quattro percepisce un reddito lordo sopra i 2 mila euro. Tra i pensionati esiste una disuguaglianza di reddito molto significativa che si riflette sul territorio: il Nord assorbe metà della spesa. Le più penalizzate sono le donne, le più precarie nel lavoro, nella famiglia e anche quando arrivano all’età della pensione. Tutte le famiglie che dipendono dai redditi poveri dei pensionati sono, a loro volta, a rischio povertà: il 15,9% ha calcolato l’Istat. Inoltre, i redditi precari, sommati alle pensioni povere, permettono anche agli anziani di sopravvivere. Il cumulo di pensioni e redditi da attività lavorativa abbassa il rischio di povertà al 5,7% rispetto al 17,9% di quelle costituite da soli pensionati.

Un altro dato è significativo. Si dice che la «silver economy», l’«economia d’argento» che sfrutta il potere di acquisto dei pensionati in termini di consumi, sia il futuro. Con l’allungamento dell’età pensionabile, e il cumulo del reddito da pensione e da lavoro, i pensionati che possono permetterselo lavoreranno per sostenere figli e nipoti.

Uno scenario da ricordare quando scatterà la prossima geremiade contro l’«apartheid» dei precari. Non sono i «vecchi» ad avercela con i «giovani». Sono entrambi sfruttati in una guerra che mantiene tutti in povertà. Non è una guerra tra generazioni. È il saccheggio di tutte le generazioni operato dal capitalismo in regime neoliberale.

venerdì 24 gennaio 2020

Il problema tedesco - Heiner Flassbeck

Da: contropiano.org - Originariamente pubblicato in tedesco su https://makroskop.eu -  Heiner Flassbeck è un economista tedesco e intellettuale pubblico.
Vedi anche: COME FANNO A PRIVATIZZARE TUTTO: IL SACCO DELLA GERMANIA DELL'EST - Vladimiro Giacché
Leggi anche: Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica. - Francesco Schettino 


Bisogna ammettere che i media mainstream hanno creato un senso comune fasullo, ma decisamente “forte”, tale per cui la Germania attuale non è criticabile. Qualsiasi porcata faccia (e ne ha fatte molte, alcune delle quali oltre limite della rapine, come nel caso della Grecia, affossata per salvare le proprie banche troppo “esposte” verso quel paese).

Siamo perciò al punto che soltanto un tedesco può oggi prendersi la libertà di dire qualcosa di sgradevole nei confronti del pensiero economico dominante nel proprio paese, e che notoriamente passa sotto il nome di ordoliberismo. Ovvero liberismo totale (le imprese e i loro interessi sono al posto di comando), ma lo Stato crea le condizioni (l'”ordine”) per cui questa dominanza possa esprimersi senza ostacoli, anzi, con tante facilitazioni.

Nell’imporre questa visione teorico-ideologica-concretissima anche alle istituzioni europee, ispirandone i trattati e i criteri di funzionamento, la Germania è riuscita nel capolavoro di concentrare sul proprio sistema produttivo e finanziario tutti i vantaggi di una Unione di mercato di quasi mezzo miliardo di abitanti senza mai rischiare di condividere gli oneri di una vera unione politico-statuale.

La sintesi di questi vantaggi unilaterali sta nella libertà di sforare ogni parametro di Maastricht senza mai incappare in nessuna “censura” comunitaria. Prima sforava il deficit ma veniva perdonata perché stava pagando i costi dell’unificazione con la Ddr, poi ha cominciato a sforare – e alla grande – sistematicamente il surplus, ma viene sempre perdonata perché “non si possono punire i virtuosi”. E dire che anche uno studente del primo anno capisce che, in una economia “chiusa” dalle stesse regole se qualcuno va in surplus qualcun altro dovrà andare per forza in deficit…
Ma il vero problema della “teoria economica” dominante in Germania è che… non funziona. E’ un falso clamoroso, una sciocchezza spacciata per “scienza”. Una truffa sul piano della teoria che serve a coprirne decine di altre su quello pratico.

Questa analisi impietosa di Heiner Flassbeck aiuta a ricostruire le ragioni storiche e teoriche di questo “grande abbaglio” che sta distruggendo da circa 20 anni l’economia europea e, da diversi mesi, sta intaccando ora anche l’economia tedesca.

Come accade ai tossicodipendenti, però, questa crisi cancerosa non viene attribuita a un “errore di sistema” ma una insufficiente applicazione delle regole bacate del sistema. E quindi le “nuove regole” che si stanno discutendo ai tavoli europei – dal Mes a Solvency II, alla politica monetaria della Bce – vanno tutte nella direzione del “rafforzamento” della garrota che  strangola tutti.

Contando sul fatto che la morte altrui – delle economia mediterranee, in primo luogo – sarà una buona occasione per mantenere in vita, ancora un po’, quel sistema moribondo, export oriented in tempi di guerre commerciali globali e quando non si ha più quasi nulla da offrire ai “mercati” in termini di innovazione tecnologica (depressa per troppa “austerità”).
Buona lettura. (Contropiano) 

Il mondo ha un problema con la Germania. In Germania, tuttavia, le persone non sono completamente disposte ad ammetterlo. La Germania è diventata un esempio eccellente di dissonanza cognitiva collettiva.
I tedeschi, nel complesso, vorrebbero essere buoni europei. Il problema è che vorrebbero essere i migliori europei. Ma le due cose non vanno insieme: non puoi essere un buon europeo e il miglior europeo allo stesso tempo.
È la stessa storia a livello globale. I tedeschi vorrebbero essere cittadini del mondo alla pari, aperti, tolleranti ed eloquenti. Ma, ancora di più, vorrebbero avere il ruolo di modello globale: salvatore del clima, utilizzatore del vento, adoratore del sole, àncora di stabilità e la più potente nazione commerciale del mondo – tutto allo stesso tempo.
Anche l’unione monetaria tedesco-tedesca è stata un completo successo, secondo questo metro. Chiunque veda le cose diversamente nella Germania dell’Est non ha capito cosa hanno fatto i tedeschi occidentali per liberarlo.
Anche se è ovvio che l’aspirazione e la realtà sono spesso molto distanti, le persone in Germania sono convinte che questo debba essere il caso, perché altrimenti non c’è semplicemente modo di procedere. Gli europei devono rendersi conto che abbiamo a cuore solo i loro migliori interessi. Il mondo deve rendersi conto che siamo gli ingegneri superiori. E gli Ossis (tedeschi orientali) devono capire che la nostra economia di mercato è il sistema superiore. Bisogna usare il giorno della riunificazione tedesca (3 ottobre) per riflettere sul modo di pensare tedesco (occidentale). 


Sia fenice che pedagogo

giovedì 23 gennaio 2020

Crisi, Mes e conflittualità interimperialistica. - Francesco Schettino

Da: https://www.lacittafutura.it/ -
 Francesco Schettino (Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli) è un economista italiano. (http://www.contraddizione.it/Contraddizioneonline.htm)
Leggi anche: MES, l'intervento di Vladimiro Giacché in audizione alla Commissione Bilancio.
Ascolta anche: https://www.radiondadurto.org/2018/09/15/2008-10-anni-dalla-crisi-tra-passato-e-futuro-di-una-fase-mai-finita-lintervista-a-francesco-schettino/



Il MES è lo strumento del capitale europeo per difendersi dalla concorrenza e scaricare i costi delle ristrutturazioni sui lavoratori. Ecco perché.

La questione del Mes in pillole
Cavalcando il puledro del nazionalismo ormai palesemente vincente in larga parte d’Europa, l’estrema destra italiana ha colto l’occasione della cosiddetta riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per gridare all’ennesimo schiaffo da parte della Germania verso l’Italia e i “poveri” paesi del sud del continente – tentando così di racimolare qualche voto in più in vista delle varie tornate elettorali locali che la vedranno principale attrice.
Prima di tentare di capire come si colloca nella fase attuale e perché una lettura “locale” è giustamente coerente con un quadro proprio delle “teorie” nazionaliste, mentre è incompatibile con una visione di classe dei fenomeni economici, sembra corretto, senza alcuna velleità di essere esaustivi, data la brevità del saggio, almeno descrivere sinteticamente di cosa si tratta.
Per dirla in parole molto semplificate, il Meccanismo europeo di stabilità, come lo stesso acronimo suggerisce, nasce nello stesso ambito politico economico del processo di integrazione politica ed economica iniziato sostanzialmente negli anni ‘90 con il famoso patto di Maastricht, passando per l’adozione della valuta unica tra la fine dello stesso decennio e l’inizio del nuovo millennio, attraversando l’esplosione della crisi post 2008, l’imposizione della disciplina del pareggio di bilancio e il fallimento ellenico “gestito” dalla troika intorno all’anno 2012.
In sostanza il Mes, che sostituisce di fatto il precedente Efsf, Fondo europeo per la stabilità finanziaria, ha l’obiettivo di definire un meccanismo automatico che riduca dunque gli spazi di discrezionalità – di stabilizzazione finanziaria che, attraverso potenziali “aiuti” monetari, di cui si fanno carico i contribuenti di tutti gli stati membri, eviti che eventuali difficoltà legate principalmente al debito di un singolo paese producano effetti contagiosi o di cosiddetto trascinamento per l’intera zona euro. Non a caso, utilizzando un pessimo eufemismo, in gergo viene anche chiamato “fondo salva-stati”.

mercoledì 22 gennaio 2020

sullo scritto di Ernesto Che Guevara "L'uomo e il socialismo a Cuba" - Alessandra Ciattini

Da: Università Popolare Antonio Gramsci - Approfondimenti teorici (Unigramsci) - https://www.facebook.com/unigramsci/ - 
Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 
"Mi propongo di leggere insieme ai partecipanti al corso questo testo semplice e al contempo fondamentale per riflettere sull'interrogativo "Esiste un'etica marxista?", e in subordine sugli eventuali contenuti di questa etica. 

Come è noto, si tratta di un argomento assai controverso per varie ragioni, e proprio per questo è stato oggetto di studio da parte di vari autori marxisti, tra i quali menziono il francese Maxilien Roubel, il messicano Adolfo Sánchez Vásquez, il tedesco Ernst Bloch. 

In primo luogo, possiamo sottolineare con Sánchez che nelle opere degli stessi Marx ed Engels si trovano posizioni contraddittorie riguardo la morale, giudicata ideologica e quindi legata ad una certa classe, secondo la classica teoria della sovrastruttura. 

Allo stesso tempo, possiamo leggere affermazioni, il cui contenuto etico è certamente innegabile. 

Per quanto riguarda il primo punto, per esempio, nel Manifesto si può leggere <<Per il proletariato la legge, la morale, la religione sono pregiudizi borghesi che nascondono gli interessi specifici della borghesia>>
Nell'Ideologia tedesca si legge <<I comunisti non predicano la morale. Non si rivolgono al popolo con l'imperativo morale "amatevi l'un l'altro, non comportatevi da egoisti">>
D'altra parte, sempre nel Manifesto si trovano parole di fuoco contro l'ipocrita immoralismo borghese, che accusa i comunisti di voler introdurre la comunanza delle donne, mentre di fatto questo principio regola il matrimonio nella società capitalistica, inteso come prostituzione ufficiale e non ufficiale. 
Inoltre, nei Manoscritti del 1844, insieme di appunti e di estratti, e in altre opere giovanili si incontrano altre osservazioni morali di carattere critico sulla società capitalistica, nella quale è costantemente violato l'imperativo categorico di valorizzare l'individuo come membro della specie umana. Infatti, egli si trova ad essere "un essere degradato, asservito, abbandonato, spregevole". Da questa constatazione scaturisce la necessità di rovesciare tutti questi disumani rapporti di subordinazione. 

L'altro aspetto controverso della questione relativa all'esistenza di un'etica marxista sta nel fatto che nella riflessione filosofica occidentale vengono costantemente contrapposte la dimensione etica e quella scientifica e conoscitiva. Per esempio, è assai nota la feroce critica rivolta a Marx da Karl Popper, fatto poi baronetto dalla regina di Inghilterra, che proprio per le sue implicazioni etiche considerava priva di qualunque valore conoscitiva l'opera marxiana. 
Ritroviamo la contrapposizione tra etica e scienza anche nella famosa frase del matematico francese Jules Henri Poincaré, per il quale è impossibile fondare i giudizi morali sulle leggi della scienza, soprattutto per ragioni "linguistiche". Infatti, gli asserti della scienza sono espressi al modo indicativo, mentre quelli morali al modo imperativo (essere / dover essere) ed è impossibile dedurre conclusioni imperative da premesse espresse nella modalità indicativa. 

Ovviamente non dobbiamo ricavare dalla presenza di temi etici nell'opera di Marx la conclusione che egli abbia tentato di sviluppare un sistema etico sistematico. 

In conclusione, oltre a leggere Che Guevara e tentare di approfondire la sua visione economica, collegata alla costruzione dell'"uomo nuovo", cercheremo anche di comprendere se scienza ed etica possono convivere in un'opera che si propone di conoscere il mondo per poi trasformarlo." 
(A. Ciattini)

Primo incontro (solo audio): https://www.youtube.com/watch?v=MzxE1kSCVxg&feature=emb_logo

Secondo incontro:
                                 

Terzo incontro (solo audio): https://www.youtube.com/watch?v=Vjzf52iGIz8


sabato 18 gennaio 2020

Da Labriola a Gramsci, quel marxismo che ha saputo essere originale. - Marcello Mustè

Da: http://www.strisciarossa.it/ - marcello mustè, Università di Roma Sapienza (Filosofia teoretica), è uno storico della filosofia e filosofo italiano.
Leggi anche: Del materialismo storico - Antonio Labriola 


Dopo gli eventi del 1989 e la rapida dissoluzione dell’impero sovietico, fu facile pronosticare la prossima morte del “marxismo teorico” (secondo la definizione che, in un saggio del 1937, ne aveva data Benedetto Croce). Con la fine del comunismo, si ripeté, anche il marxismo come filosofia era destinato a perire, a vantaggio di un orizzonte culturale ormai dominato dalle figure del mercato globale e della liberaldemocrazia. 

L’89 e la crisi del “marxismo teorico”

La diagnosi si rivelò per molti versi esatta, nel senso che la lunga tradizione di pensiero che aveva sostenuto le esperienze del movimento operaio mostrò presto la corda, e su aspetti tutt’altro che marginali. Sia lo schema socialdemocratico – scaturito dall’ultimo Engels e dall’ortodossia di Kautsky – sia le dottrine del “materialismo dialettico” – da Lenin a Stalin fino ai loro ultimi seguaci –, si trovarono meritatamente ai margini del dibattito europeo. Anche le teorie marxiste meno sclerotizzate, si pensi a un Lukács o a un Korsch, per quanto capaci di mediarsi con le novità degli scritti giovanili di Marx (l’alienazione) e di generare correnti originali (la Scuola di Francoforte), pagarono il pegno di un’impostazione fondata sull’idea hegeliana di totalità e su nozioni di ordine etico o metafisico.
Tuttavia il “marxismo teorico” non morì (né nel 1900, come aveva sentenziato Croce, né nel 1989), e in certo modo riuscì persino a ravvivare la sua immagine, spesso fondandosi su uno strumento incisivo, e direi persino di “purificazione” intellettuale, come la filologia. È il caso di Marx, la cui opera, dal 1975 e con un secondo inizio nel 1998, viene pubblicata nella seconda MEGA  (Marx-Engels-Gesamtausgabe, edizione delle opere complete di Marx ed Engels) con scoperte inesauribili, che vanno dai manoscritti preparatori del Capitale a duecento quaderni di appunti. È il caso di Gramsci, che dopo l’89 ha conosciuto la sua maggiore e più vasta fortuna globale, anche con l’avvio della Edizione nazionale degli scritti (promossa dalla Treccani e dalla Fondazione Gramsci) e grazie a innovative ricerche filologiche e cronologiche. È interessante osservare come in questo Marx Revival (così lo ha definito Marcello Musto nella sua recente biografia einaudiana) gli studiosi italiani abbiano acquistato una posizione ragguardevole, osservata con attenzione in tutto il mondo. 

giovedì 16 gennaio 2020

Orientamenti politici e materialismo storico - Roberto Fineschi

Da:  https://www.lacittafutura.it/ Approfondimenti teorici (Unigramsci) https://marxdialecticalstudies.blogspot.com/ 
Roberto Fineschi è un filosofo italiano. (Marx. Dialectical Studies) 


Il nesso fra il livello strutturale e quello sovrastrutturale non è immediato. È un errore accettarne l’identità immediata e pensare che lottando contro uno dei due lati, immediatamente si lotti anche contro l’altro. 
Chiarito ciò è possibile comprendere il carattere non rivoluzionario o addirittura reazionario di alcuni movimenti politici attuali. 

Il seguente articoletto mira a esporre in termini inevitabilmente schematici ma spero chiari e orientativi alcuni posizionamenti politici a livello sia strutturale che sovrastrutturale [1]. Ciò permette di descrivere almeno a grandi linee fenomeni in atto. Gli schieramenti politici indicati riflettono orientamenti individuali che non immediatamente corrispondono a partecipazione attiva a un partito, ma a un modo di vedere. Tutte le mediazioni vanno ovviamente svolte per fornire un’analisi più adeguata. Qui, schematicamente, si pongono delle basi per procedere in questo senso.
Nella tabella che segue, nelle colonne si considerano cinque questioni di fondo, 3 a livello strutturale, 2 a livello sovrastrutturale. 
Per il livello strutturale: 
A1) essere favorevoli o meno al (per adesso non meglio specificato) capitalismo; 
A2) essere favorevoli o meno a una sua regolamentazione che includa l’intervento diretto dello Stato (o altra istituzione per lui) nella gestione della riproduzione sociale, ma senza uscire dal contesto capitalistico. 
Come accessoria, si aggiunge una terza posizione A3), vale a dire essere o meno favorevoli alla presenza dello stato sociale (o in subordine di soli ammortizzatori sociali). 
A livello sovrastrutturale tutto è ridotto a due nozioni base: 
B1) essere favorevoli o meno all’universalità del concetto di persona; 
B2) essere favorevoli o meno alle istituzioni rappresentative parlamentari e alla divisione dei poteri classica borghese. 
Nelle righe invece si hanno 10 posizionamenti politico-ideologici possibili (numerati progressivamente da 1 a 10). 
Negli incroci tra righe e colonne, la “V” sta per “sì”, la “X” sta per “no”.

giovedì 9 gennaio 2020

Vent’anni di fondi pensione - Sandor Kopacsi

Da: Sandor Kopacsi - 

Il prof. Roberto Pizzuti ci consegna il consueto curatissimo rapporto sullo stato sociale (http://www.editricesapienza.it/…/Pizzuti_Rapporto_2019_estr…). Il lavoro è talmente ricco di dati e osservazioni che non è possibile darne nemmeno una sintesi qui. Mi concentro perciò sul tema dei fondi pensione.
Per decenni, l’intero quadro politico, i media e ovviamente l’industria finanziaria hanno spinto per la crescita dei fondi pensione. Tutti tutti tutti erano a favore. Persino nella FIOM CGIL, chi si opponeva veniva liquidato come residuato bellico, e i sindacati usavano i delegati come promotori finanziari per piazzare i fondi. I governi hanno varato uno sgravio fiscale dopo l’altro gettando sui contribuenti l’onere del decollo dei fondi pensione. Nel 2007 un geniale governo di centrosinistra fece una legge sul silenzio-assenso per costringere i lavoratori ad aderire senza nemmeno volerlo. In quei mesi, chi provava in assemblee o direttivi sindacali a dire che si trattava di una porcata veniva aggredito non solo verbalmente.
Dopo tutto questo enorme circo, in cui nulla è stato lasciato intentato per spingere i lavoratori italiani ai fondi pensione, qual è stato l’esito? Pizzuti lo sintetizza magistralmente. Innanzitutto non molti hanno creduto alle sirene della finanza: “Il tasso di adesione rispetto a tutti gli occupati che c’era nel 2007 – prima dell’entrata in vigore del «silenzio assenso» era del 15%; dopo è salito fino al 28,9% del 2017 che, tuttavia, si ridimensiona al 22,1% considerando solo gli iscritti che versano i contributi. Tuttavia, questa quota è ancora lontana dal 40% fissato come obiettivo di quel provvedimento agevolativo” (p. 47). 4 lavoratori su 5 hanno fatto il dito medio alla finanza. Che ingrati!
Venendo al rendimento, i fondi hanno reso di più del TFR (in particolare quelli negoziali il 13% in più, che poi per vent’anni significa meno dell’1% in più annuo e solo grazie alle migliaia di miliardi di espansione monetaria delle banche centrali dopo la crisi del 2008); spiega Pizzuti: “Tuttavia, i proventi offerti dal TFR sono stati molto più stabili e sempre positivi cosicché il suo titolare – non potendo scegliere l’anno del pensionamento in base all’andamento dei mercati finanziari – non avrebbe mai rischiato di doversi ritirare con un capitale addirittura minore ai versamenti effettuati” (p. 48). A meno che uno non sia un giocatore patologico, non sceglierebbe mai quel rischio a fronte di un esile e variabilissimo rendimento…Per ottenere questi miseri e incerti risultati, come detto frutto della politica monetaria espansiva a livello mondiale e non certo delle capacità dei gestori, le commissioni arrivano a incidere in alcuni casi per il 36% dell’ipotetico capitale accumulato. Del resto, la professionalità si paga! E la finanza ha dato decisamente prova di elevata competenza, come si è visto nel 2008, quando ha gettato l’economia mondiale giù da un dirupo.
È anche interessante notare che quasi il 73% dei fondi è investito in titoli di debito (in pratica BTP). Ossia quello che facevano i risparmiatori italiani già 40 anni fa, solo senza pagare commissioni a nessuno. Quindi lo stato elargisce sgravi fiscali ai fondi pensione che lo finanziano comprandosi titoli di stato. Che marchingegno finanziario efficiente! Faccio sconti a un mio debitore così che possa prestarmi dei soldi! Non avrebbe molto più senso, allora, che lo stato chiedesse soldi ai contribuenti retribuendoli? Si risparmierebbero commissioni, sgravi fiscali, speculazioni…ma appunto, poi dove finirebbe la finanza? Infine una prece per chi, soprattutto tra i centrosinistri iper-moderni, ci spiegava che i fondi pensione servivano per sviluppare la “democrazia economica” permettendo a tutti di avere azioni: “una parte irrisoria del patrimonio dei fondi viene impiegata in azioni di imprese italiane” (p. 49). I cortigiani del capitale avevano come sempre torto, difficile dire se sia peggio che fosse in buona o in mala fede.
È facile oggi prendersi gioco della finanza e degli entusiasti dei fondi pensione. Dopo tutto siamo reduci dalla più grande crisi finanziaria della storia e già se ne annuncia un’altra. Ma in effetti era facile anche ieri, nel senso che queste dinamiche erano assolutamente prevedibili e sono state previste da chi non aveva fette di salame (magari gentilmente offerte da banche e assicurazioni) sugli occhi. Per fare un esempio, i marxisti lo dicevano già nel 2009 (http://old.marxismo.net/…/nuovo-opuscolo-la-trappola-dei-fo…) o nel 2007 (https://old.marxismo.net/…/art…/no-al-tfr-nei-fondi-pensione) opponendosi alla legge sul silenzio assenso, e, saltando diversi passaggi intermedi, con noiosa ripetitività già nel 1998 (https://old.marxismo.net/…/i-fondi-pensione-non-migliorano-…), quando c’era ancora la lira e i fondi pensione erano una cosa esotica tipo i koala.
Oggi dopo vent’anni tutti capiscono che le pensioni integrative non danno benefici ai lavoratori. Questo ovviamente, tolti i dirigenti sindacali, che sono rimasti gli unici fedeli difensori della finanza. E se qualche complottista sostiene che sono pagati da Soros, non possiamo che far notare che Soros di finanza ci capisce e di sicuro non farebbe investimenti così penosi. È che sono proprio così! fedeli a un capitalismo decadente sino all’ultimo nostro centesimo.