giovedì 29 agosto 2019

La crisi politica italiana e la fine della politica - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza.
Leggi anche: (U.S.)America nell'epoca Tecnetronica*- Zbigniew Brzezinski (1968) 



La crisi italiana viene da lontano ed è provocata da numerosi fattori, tra cui l’imbarbarimento culturale e il dominio delle istituzioni UE, che riducono i politici a grossolani saltimbanchi. 


Se interpretiamo il problema da un certo punto di vista, la cosiddetta fine delle ideologie costituisce un fatto concreto e reale, la cui conseguenza è stata sostanzialmente il subdolo ritorno all’ideologia liberale naturalizzata, fondata sull’individualismo, sul particolarismo, sul pragmatismo, sull’abbandono delle grandi visioni onnicomprensive (le famose metanarrazioni). Tutti aspetti che purtroppo sono stati recepiti in maniera acritica ed inconsapevole anche dalla cosiddetta sinistra radicale, alcuni settori della quale li hanno rimessi insieme per dare vita all’ambiguo sovranismo e/o costituzionalismo, basato sulla convinzione che, partendo dal basso (quale?) e dalla Costituzione (mai realizzata ed ampiamente cambiata) si possa uscire dalla crisi, la cui natura internazionale nessuno può negare. Aprendo così il cammino a posizioni politiche ambigue e confuse, non so se per ignoranza o per opportunismo, da cui potrebbero derivare conseguenze devastanti per le classi popolari. 

Sin dalla fine degli anni ‘60, in seguito alle grandi trasformazioni, da cui è scaturito il tardo capitalismo, Zbigniew Brzezinski descriveva il fenomeno della disgregazione delle grandi organizzazioni di massa come uno slittamento dall’utopismo idealistico, assai critico del presente e prefigurante un futuro assai diverso, verso una politica pragmatica volta a risolvere problemi sempre più circoscritti dominati da personalità competenti (o che si presentano tali), i cosiddetti tecnocrati.
Questo processo di sfaldamento è dimostrato dalla grande astensione dal voto (alle elezioni europee del 2019 in Italia il 43,7% della popolazione non ha votato), dalla volatilità delle opinioni politiche dei votanti [1], sempre più confusi e ammaliati dalle capacità mediatiche degli “imprenditori della politica”, dalla spoliticizzazione di ogni attività “culturale”. Si pensi per esempio ai tanto celebrati talk show, dove non si fa che parlare degli scontri personali tra i grandi capi, delle loro bizze strampalate, del loro sfrenato interesse per il potere, che viene paradossalmente negato nel momento stesso in cui è affermato.

mercoledì 28 agosto 2019

Stalin oltre la doxa - Domenico Losurdo

Da: Giovanni Mannelli - Domenico Losurdo è stato un filosofo, saggista e storico italiano. 
Leggi anche: IL PAESE DELLE LIBERTÀ: stermini, repressione e lager nella storia degli Usa. - Maurizio Brignoli 
                         Analogia e/o comparazione - Aldo Giannuli 



1/5 Stalin oltre la doxa (gli ammiratori di Stalin-il Rapporto Krusciov) 





 

2/5 Stalin oltre la doxa (Goebbels si ricrede - Hitler erede del colonialismo)


3/5 Stalin oltre la doxa (i culti personali - i patti con Hitler ) 

4/5 Stalin oltre la doxa (vittime e carnefici-i lager e i gulag)

 
5/5 Stalin oltre la doxa (la 'purezza' dei giudici)

lunedì 26 agosto 2019

Analogia e/o comparazione - Aldo Giannuli

Da: http://www.aldogiannuli.it - Aldo_Giannuli è uno storico e saggista italiano. 



Nel mio articolo sul perché non ho firmato il manifesto di Camilleri, sottolineavo l’arretratezza metodologica della nostra storiografia, questo è particolarmente evidente a proposito dell’ossessione analogica che la caratterizza. Mi spiego meglio: mi è capitato di vedere, di recente, una trasmissione in cui si cercava una spiegazione del movimento dei gilet gialli sulla base di un’analogia con il sessantotto.

Il lavoro era fatto bene e dimostrava buona conoscenza dei due fenomeni analizzati in breve ma con buon livello professionale. Ciò nonostante, la cosa non mi ha affatto convinto: un pezzo altamente suggestivo ma che, raschia raschia, si basava su una idea di fondo che non stava in piedi: che siamo di fronte ad un nuovo sessantotto. Il che non era certo colpa del giornalista, che ha indicato con sufficiente precisione sia le somiglianze che le dissomiglianze fra i due fenomeni (anche se di dissomiglianze potremmo aggiungerne parecchie altre). Il punto è che la nostra cultura storica vive nel culto dell’analogia che, invece è uno strumento di analisi molto ingannevole, per la semplice ragione che confrontando due cose qualsiasi (fosse anche l’impero dei Mogul ed il regno borbonico) qualche somiglianza c’è sempre, così come anche due cose sostanzialmente simili (il fascismo in Italia ed in Germania) spuntano delle inevitabili differenze: nulla è completamente diverso da qualsiasi altra cosa e nulla è identico a null’altro. Eppure, da sempre, gli storici sono affascinati da questo gioco intellettuale, ad esempio le “vite parallele” di Plutarco (che pure fu storico sui generis, più interessato a descrivere le caratteristiche del personaggio che non le vicende di cui fu protagonista) sono costruite su di esso. L’idea è che, attraverso l’analogia si possano stabilire leggi (o almeno regolarità) della storia, per cui i fenomeni hanno un numero limitato di varianti e tendono a seguire sequenze particolari. Ma possiamo anche accettare che la somiglianza fra Nicia e Crasso fosse la ricchezza dei due alla base della loro ascesa politica, ma i due hanno avuto, per ben altri aspetti, vite non molto simili ed anche caratterialmente, non ebbero tanto in comune, avidità a parte.

L’analogia è una suggestione cui è difficile sottrarsi e, in alcuni casi, può fornire allo storico utili elementi di riflessione: ad esempio, il confronto fra il passaggio dalla repubblica all’impero nell’antica Roma, quello dalla democrazia comunale alla signoria possono dare qualche spunto di riflessione sull’attuale autunno della democrazia e le nuove tendenze oligarchiche indotte dal neo liberismo. Ma, poi, occorre sviluppare una ricerca specifica o non si va molto avanti nella comprensione del fenomeno studiato. Ad esempio oggi si tende a spiegare l’ondata populista in termini di fascismo, magari sulla base delle idee personali o delle radici culturali di alcuni personaggi come Bolsonaro, Le Pen, Haider ecc. In realtà, anche se Bolsonaro, di suo, è certamente imbevuto di cultura fascista (assorbita per il tramite dell’esperienza della dittatura militare che, peraltro, era un fascismo molto sui generis), il suo movimento e la sua azione si svolgono in un contesto completamente diverso da quello degli anni trenta e non basta il richiamo ideologico. Il fascismo storico aveva alle spalle capitalismo molto diverso da quello attuale e fu strumento di esso, non dell’iper capitalismo finanziario dei nostri giorni.

Ma l’analogia ha una sua capacità di rassicurazione, autorizza a pensare di avere una bussola nel viaggio attraverso la storia. E questo spiega il suo fascino perdurante. 

domenica 25 agosto 2019

Karl Marx fra storia, interpretazione e attualità (1818-2018) - Luca Mocarelli, Sebastiano Nerozzi

Da: https://www.nerbini.it - https://www.nerbini.it/wp-content/uploads/Indice-Marx.pdf
MOCARELLI LUCA | Università degli Studi di Milano-Bicocca - NEROZZI SEBASTIANO - Docente Università Cattolica del Sacro Cuore

                                                          Introduzione 

Nel 2018 l’opera e la figura di Karl Marx sono tornate, ancora una volta, al centro dell’attenzione. Il bicentenario della sua nascita ha suscitato un intrecciarsi di riflessioni intorno alla rilevanza, al significato e alla attualità del suo pensiero. Numerose conferenze internazionali sono state organizzate già nel 2017 (per i 150 anni del primo libro del Capitale e i 100 anni della rivoluzione d’ottobre) e molte altre sono seguite nel 2018. Marx è stato celebrato anche sulle pagine del «Financial Times»1 e dell’«Economist»2 , con articoli dai toni a volte paradossali, ma tutt’altro che critici, in ogni caso concordi nel riconoscere la perdurante importanza del suo pensiero nel mondo di oggi. A Marx sono state dedicate opere cinematografiche di un certo pregio.

In questa temperie si sono rianimati alcuni dei filoni di ricerca che avevano composto il dibattito intellettuale nel marxismo del secondo dopoguerra: economisti, storici, filosofi sono tornati ad interrogarsi intorno al pensiero di Marx e ai suoi possibili sviluppi, offrendo nuove prospettive o consolidando e sviluppando quelle esistenti. La stessa riedizione, ancora in corso, delle opere di Marx ed Engels, frutto di un meticoloso lavoro di sistemazione editoriale e di ricostruzione filologica, ha stimolato nuove letture del suo complesso pensiero e della sua tortuosa evoluzione. Il cantiere del pensiero marxiano è tornato, insomma, a brulicare di nuova vita.

Un recente convegno, organizzato da alcune fra le maggiori università lombarde (Università Cattolica del Sacro Cuore, Università di Milano-Bicocca; Università di Bergamo; Università di Pavia), ha contribuito a questo rinnovato dibattito ospitando un ricco confronto fra studiosi di diverse discipline e di diversi orientamenti teorici intorno alla complessa eredità del pensatore di Treviri3 . Questo volume mira, appunto, a raccogliere alcune delle relazioni esposte in quella occasione e a presentare nuovi spunti di ricerca e tentativi di sintesi che aiutino a fare un bilancio, inevitabilmente parziale e provvisorio, del pensiero di Marx e del suo impatto sulla storia degli ultimi due secoli. Ma, prima di addentrarci nelle tematiche affrontate dagli autori, ci sembra necessario chiederci: perché questo ritorno di interesse per Marx? Perché continuare ancora, dopo due secoli, a parlare di lui? 

venerdì 23 agosto 2019

Globalizzazione, postmoderno e “marxismo dell’astratto” - Roberto Finelli

Da: http://dialetticaefilosofia.it - Pubblicato in Cinzia Aruzza (a cura di), Pensare con Marx. Ripensare Marx, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 173-193. -
Roberto Finelli insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre e dirige la rivista on-line “Consecutio (Rerum) temporum. Hegeliana. Marxiana. Freudiana” (http://www.consecutio.org)

1. L’«americanismo» come idealtipo della globalizzazione. 

 La riflessioni che seguono nascono da quella che a me sembra la caratteristica più paradossale della realtà che stiamo vivendo: tanto caratterizzante l’intera realtà, storica e sociale contemporanea, da configurarla appunto come null’altro che un unico grande paradosso. Il paradosso è quello della contraddizione tra il piano dell’Essere e quello dell’Apparire, ossia tra il piano interiore e profondo della struttura del reale e quello esteriore della forme della coscienza individuale e collettiva con cui quella struttura viene appresa e conosciuta, anzi nel nostro caso bisogna dire viene distorta e misconosciuta.

 Con il crollo del comunismo cosiddetto reale il mondo conosce oggi solo l’«americanismo» come forma unica di civiltà e di organizzazione sociale. E l’americanismo, per quello che dirò subito, vale per me come la realizzazione, oggi, più completa e più avanzata del capitalismo, proprio come la maturità dell’Inghilterra valeva per Marx come la forma canonica del capitalismo dell’800. E americanismo senza America, americanismo oltre i confini d’America, può essere definita l’attuale globalizzazione, se la si considera come generalizzazione a tutti i paesi del globo, con gradi diversi ovviamente di sviluppo e di sottosviluppo, del medesimo modello di produzione, distribuzione e consumo di merci, della medesima ricerca di profitto, della medesima invasività e diffusione del mercato e della medesima attitudine a trasformare tutti i rapporti umani in rapporti quantificabili e mediati dal denaro.

 Per altro non v’è dubbio che la globalizzazione debba essere vista, ancora oggi, soprattutto come maggiore velocità e ubiquità di spostamento del capitale finanziario e spesso solo speculativo, senza cedere alla facile quanto superficiale rappresentazione che la prospetta come il darsi di un unico mercato mondiale con un’unica concorrenza che genererebbe medesimi prezzi delle merci, del lavoro del denaro1.  Laddove la sua effettiva realtà si presenta come non solo profondamente differenziata quanto asimmetrica, anzi tale che in essa polarità e distanze, differenze tra sviluppo e sottosviluppo si acuiscono, almeno per chi ragioni in termini di statistiche comparate e relative e non di dati assoluti di crescita e di progresso. Eppure la globalizzazione, pur sottratta al segno retorico di presunti universalismi e di omogenei sviluppi, può comunque essere considerata unitariamente come «una immane raccolta di merci», nel senso dell’aumento sempre più ampio e sempre più intenso della quota di popolazione mondiale che dipende per la propria riproduzione in modo integrale dall’esposizione e dalla mediazione con il mercato.

 Ora il paradosso di cui parlavo all’inizio consiste, a mio avviso, nel fatto che proprio quando, con il venir meno del socialismo reale, si diffonde e s’impone, sia pure, torno a dire, con una configurazione a macchie di leopardo, un unico modello di vita economica e sociale, capace di stringere nella sua ricerca del profitto e della remunerazione monetaria qualsiasi tipologia, da quella più avanzata a quella più arcaica, di lavoro, viceversa in termini culturali e simbolici, alla consapevolezza e allo studio dell’uno e del modo in cui l’uno si articoli nella molteplicità delle differenze, s’è venuta sostituendo una cultura del frammento, dell’informazione e dell’atto linguistico-comunicativo da interpretare attraverso altre informazioni ed altri atti comunicativi, ossia la prospettiva di un’ermeneutica infinita che considera come tramontati concetti come verità, realtà, oggettività. S’è venuta facendo egemone insomma una cultura che rifiuta la prospettiva delle cosiddette ideologie, delle concezioni unitarie del mondo. La sistematicità delle quali viene infatti svalutata e degradata, quale grande favola narratrice o visione totalizzante e totalitaristica

giovedì 22 agosto 2019

LA TRAGICITÀ DEL COMICO - CARLO SINI

Da: Dante Channel https://www.facebook.com/Dante.Channel.69/ - Carlo Sini è un filosofo italiano.- CarloSiniNoema - http://www.archiviocarlosini.it 

IL PENSIERO QUALE RISPOSTA AL DRAMMA DELLA VITA. 
                                                    UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL TRAGICO E IL COMICO. 
                            
                                                                           

lunedì 19 agosto 2019

All’Europa serve un “new deal” di classe - Riccardo Bellofiore

Da: La rotta d’Europa  a cura di Rossana Rossanda e Mario Pianta, Sbilanciamoci/Manifesto - http://sbilanciamoci.info/la-rotta-d-europa-in-due-volumi-13127/ -
Riccardo Bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo.
Leggi anche: La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore - 
                         La_Grande_Recessione_e_la_Terza_Crisi_della_Teoria_Economica 



La crisi europea viene dagli Stati uniti, dal crollo del “keynesismo privatizzato”. Per uscirne, occorrono politiche opposte a quelle di Maastricht. Un new deal inedito, strumento di una “riforma”, non solo di una “ripresa”. E una sinistra di classe su scala continentale.



Dell’articolo di Rossanda una cosa mi ha conquistato: il titolo. Rótta può significare direzione; ma anche sconfitta, sbaragliamento. Di questo stiamo parlando, per quel che riguarda la sinistra. O si parte dalla coscienza che si è al capolinea – e dunque che è ormai condizione di vita o di morte un’altra analisi, un’altra pratica conflittuale, un’altra proposta – o siamo morti che camminano. La luce in fondo al tunnel è quella di un treno ad alta velocità che ci viene incontro.

Si chiede Rossanda: non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? Come si ripara? L’unificazione monetaria in Europa non sarebbe che la figlia legittima della fiducia hayekiana nella mano invisibile del ‘liberismo’. È questo che avrebbe retto i decenni ingloriosi che ci separano dalla svolta monetarista. Le economie europee dovevano ‘allinearsi’ a medio termine, grazie alla politica deflazionistica della Bce. Il problema sarebbe la frattura con la linea continua Roosevelt-Keynes-Beveridge, che si sarebbe materializzata nei Trenta gloriosi in un ‘compromesso’ tra le parti sociali. È la vulgata ‘regolazionista’. Pace sociale e sviluppo trainato dai consumi salariali come perno dello sviluppo postbellico. In Europa, lo spartiacque sarebbe il crollo del Muro di Berlino. Di lì il Trattato di Maastricht, e poi l’istituzione dell’euro. Ne discendono: liberalizzazione dei movimenti dei capitali, primato della finanza, fuga dall’economia reale, delocalizzazioni, indebolimento del lavoro. La bolla finanziaria scoppiata nel 2008 viene in fondo di qui, dalla finanza perversa e tossica.

È un quadro non convincente in tutti i suoi snodi. Il keynesismo era stato abbattuto da Reagan e Thatcher, e prima ancora da Volcker. Ma cosa era stato davvero il ‘keynesismo’? Non un ‘compromesso’ tra capitale e lavoro. Tanto meno un’era di crescita capitalistica trainata dai consumi. Il salario non traina la domanda, lo fa la domanda ‘autonoma’ – anche se una migliore distribuzione del reddito può alzare il moltiplicatore. La Grande Crisi e la Seconda Guerra Mondiale avevano prodotto una gigantesca ‘svalorizzazione’ di capitale e una potente iniezione di domanda pubblica in disavanzo, grazie a quel deficit spending che Roosevelt ritenne di poter accettare solo con l’entrata in guerra: mentre lo aveva rifiutato nel new deal. C’era l’Unione sovietica, e la fresca memoria degli effetti della disoccupazione di massa. Conservatori e democratici non potevano che optare per la ‘piena occupazione’. Prevalentemente maschile, e orientata a una produzione accelerata di merci, distruttrice dunque della natura. Quando i diritti del lavoro e la crescita del salario reale (e in una certa fase, anche del salario relativo) vennero conquistati, furono strappati con la lotta. Presto – per questa contraddizione tra le altre, ma per questa in modo cruciale – l’eccezione keynesiana si inabissò.

domenica 18 agosto 2019

IL PAESE DELLE LIBERTÀ: stermini, repressione e lager nella storia degli Usa. - Maurizio Brignoli

La bibliografia e la storiografia dell’articolo, indicati dall’autore, sono disponibili al seguente indirizzo web: http://www.contraddizione.it/scritti.htm 



Gulag, lager e imperialismo

Un lungo processo di lotta ideologica, ben condotta da parte del capitale, volto a identificare nazismo e comunismo ha fatto sì che quando si parli di campi di concentramento, si faccia immediato riferimento a due realtà storiche: lager (per lo più nell’accezione ristretta di campo di sterminio sul modello di Auschwitz, Sobibór, Treblinka, ecc.) e gulag (Glavnoe upravlenie lagerei, Direzione generale dei campi). Un paese che invece, impropriamente, non è mai associato all’“universo concentrazionario” sono gli Usa.

Gulag e lager vengono sempre uniti all’interno dell’indefinita categoria di “totalitarismo” [cfr. la Contraddizione, no. 112] volta ad assimilare due sistemi sociali ed economici antitetici, a nascondere come le matrici del nazismo facciano parte della “tradizione occidentale” (razzismo, eugenetica, guerra totale, sterminio seriale, colonialismo) e a tentare di occultare come i fascismi, insieme alle “democrazie occidentali”, si inseriscano a pieno titolo nel sistema economico e politico imperialistico. Al di là di questo fraintendimento creato ad arte, anche nel caso specifico dei campi di concentramento vi sono radicali differenze che dovrebbero essere note: i lager sono suddivisibili sostanzialmente in tre principali categorie: Konzentrationslager (campi di concentramento), Arbeitslager (campi di lavoro forzato), Vernichtungslager (campi di sterminio), tre realtà differenti che nel caso esemplare di Auschwitz venivano a coincidere; nel gulag l’eliminazio­ne del prigioniero non è l’obiettivo ultimo, il gulag è uno strumento, un mezzo per imprigionare i cosiddetti “nemici del popolo”, e non gli è costitutivamente estraneo il problema della “rieducazione” del condannato (impossibile nel momento in cui il discrimine sia costituito dall’immodificabile elemento razziale), mentre nel caso nazista l’eliminazione delle razze inferiori e dei comunisti è un fine; la pena nel gulag ha una durata temporalmente definita; nelle tipologie dei gulag non è presente il campo di sterminio e la mortalità è molto più bassa, mediamente meno del 10% (il 4,8% prima dell’assassinio di Kirov nel 1934 che porta a intensificare la lotta di Stalin contro i suoi avversari), mentre l’eccezione è costituita dal periodo 1941-43 quando le condizioni determinate dalla guerra rendono più alto il numero dei morti e si può arrivare nel 1942 a una percentuale del 25%; i tassi di mortalità nei lager tedeschi superano il 40-50% e ancor più significativo un confronto con un campo di sterminio come Auschwitz: ebrei sopravvissuti 5,6%, zingari 6,5%, sovietici 0,8%. 

Dopo l’apertura degli archivi sovietici, tutte le più recenti ricerche, peraltro condotte da storici non accusabili di simpatie comuniste, hanno ridotto drasticamente il numero delle vittime del periodo staliniano. Richard Overy stima che fra il 1930 e il 1953 fra esecuzioni e morti nei campi si arrivi come cifra massima a 2.700.000 vittime. Nel 1993 la prestigiosa American historical review pubblica una ricerca di Arch Getty, Gábor. T. Rettersporn e Viktor N. Zemskov, relativa esclusivamente alla contabilità dei campi e giunge a una cifra di morti che supera di poco il milione nel periodo 1934-53. Ludo Martens, autore di un’opera simpatetica con Stalin, fra collettivizzazione delle campagne e repressione in ogni sua forma arriva a 1.300.000. È poi importante capire la realtà di un paese circondato a lungo da potenze ostili che cercano in ogni modo di rovesciarlo, dalle invasioni a partire dal 1918 a sostegno delle armate bianche ai tentativi di accordo delle “democrazie occidentali” coi nazisti per spingere Hitler contro il “comune nemico” e all’interno caratterizzato da fenomeni di “guerra civile” che si reinfiamma regolarmente. In un arco di tempo simile pressoché sovrapponibile agli anni di governo di Stalin (1924-1953) il capitale ha mietuto oltre 80 milioni di vittime con le due guerre interimperialistiche, per non parlare degli stermini coloniali. Mentre solo nei lager nazifascisti fra il 1933 e il 1945 si contano 11 milioni di vittime. 

sabato 17 agosto 2019

Come si viveva ai tempi dell'URSS?


Prima parte:  

                                                                                                                                        Seconda parte:  
                                                                                                                                       

giovedì 15 agosto 2019

A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Una sintesi storico-geopolitica della fase post-bipolare. - Andrea Vento

Da: https://www.marxismo-oggi.it - Stralcio dell'intervento preparato per l'iniziativa dedicata a "Il nuovo ordine mondiale a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino" di martedì 23 luglio presso la Festa di Liberazione di Poggibonsi (Siena). - Andrea Vento  (Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati)
                         

La fine del bipolarismo, iniziata con la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989 e sancita dalla disgregazione dell’Urss nel dicembre del 1991, ha aperto una nuova fase storica che autorevoli analisti hanno denominato "Nuovo ordine mondiale". Da un periodo storico protrattosi per circa 45 anni e caratterizzato dal predominio geopolitico e militare globale di Usa e Urss, si è repentinamente passati ad un nuovo scenario internazionale dominato da un’unica superpotenza.

La nuova situazione ha comportato significativi cambiamenti di ruolo sia da parte dell’Onu che della Nato. Venendo a mancare gli scopi per cui era stata fondata, vale a dire il contenimento del presunto espansionismo sovietico, l’Alleanza Atlantica, invece di essere disciolta al pari dell’antagonista Patto di Varsavia (1955-1991), ha subito una significativa trasformazione in termini di finalità e strategie.  

La nuova strategia statunitense enunciata nella direttiva “National Security Strategy of United States”, pubblicato dall’amministrazione di Bush padre nell’agosto del 1991 all’indomani della I Guerra del Golfo, indica chiaramente che “al fine di stabilire un nuovo ordine mondiale risulta indispensabile l’affermazione della leadership mondiale statunitense” e che “dobbiamo lavorare con gli altri ma                                                                                                                            dobbiamo anche essere leader”.

In questo quadro di previsioni viene ridisegnato il ruolo della Nato: da organizzazione politico-militare difensiva (art. 5 dello statuto) a mezzo più rapido di intervento nell’applicazione delle strategie geopolitiche e, nel contempo, di sostituzione e ridimensionamento del ruolo dell’Onu. Il concetto di fondo è riconducibile al seguente ragionamento: invece di cercare faticose mediazioni all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con potenze non alleate e dalla capacità militare inferiore (come Cina e Russia) sarebbe risultato più agevole trovare un accordo con gli alleati europei in sede Nato. 

martedì 13 agosto 2019

AFFIDAMENTI DI MINORI! PSICHIATRIA, PSICOLOGIA E TRIBUNALI - Intervista a PAOLO DI REMIGIO

Da: http://italiaeilmondo.com - Paolo di Remigio è professore di storia e filosofia e studioso di Hegel.
Leggi anche: L'AVVENIRE DI UN'ILLUSIONE, IL DISAGIO DELLA CIVILTA' - Sigmund Freud


Una Precisazione 

Come suggerisce l'Autore, la cultura postmoderna dell'ideologia capitalistica neoliberista sembra ambire a deresponsabilizzare il ruolo educativo del genitore (e spesso persino dell'insegnante),  lasciando quindi ai soggetti imprenditoriali il ruolo educativo, i quali però hanno ovviamente scopi culturali ed interessi propri. Nella critica al sistema capitalistico bisogna salvare quelle istituzioni che, nel complesso, possano costituire un tessuto sociale potente e un contrappeso all'ideologia capitalistica. 

Le cose hanno vari aspetti che eticamente possono essere giudicate positive o negative.

Effettivamente nel sistema tardo capitalistico-finanziario attuale la famiglia svolge un ruolo di resistenza all'individualismo e allo strapotere acritico e omologante del mercato del consumo, nonché esercita una resistenza alla barbarie dell'accettazione di un "impiego", qualsiasi esso sia, a qualsiasi condizione, pena restare senza casa, senza legami, senza nulla. 

Pensiamo ad un giovane che vive con i genitori in una città e non lavora o fa lavoretti. Gli offrono 500 euro in un'altra città: dovrebbe accettare e trasferirsi lì ed affittarsi una stanza che pagherebbero comunque i genitori (assurdo, sarebbe inutile), oppure dormire per strada, in auto, alla Caritas, ecc. Se fosse senza sostegno familiare sarebbe costretto ad  accettare e si arrangerebbe.  

C'è, non a caso, esasperata acredine nelle pagine di giornalisti e propagandatori dell'ideologia neoliberista nel descrivere le famiglie che aiutano i propri figli a sopravvivere e resistete in un mercato del lavoro schiavizzante e precario, chiamati quest'ultimi, appunto, "bamboccioni". Ciò in quanto la famiglia  consente,  o può  consentire, un tetto sotto cui stare, una cena, una solidarietà morale e concreta. Non è una soluzione, né una resistenza anticapitalistica, ma un sostegno familiare che il capitalismo attuale vorrebbe, potendo, scardinare, come vorrebbe scardinare il sindacato (quello buono, quello vero). Per l'ideologia familiare post-moderna la famiglia dovrebbe dare un calcio in culo ai figli appena finito di studiare, così da accettare qualsiasi condizione lavorativa. 

Le famiglie esercitano anche un baluardo ed una sponda culturale per non cedere acriticamente all'ideologia del consumismo e dell'asservimento al mercato, al conformismo consumista. Ciò può avvenire nelle famiglie culturalmente più consapevoli in cui è sviluppato il senso critico, la logica, ecc. e ciò viene trasmesso ai bambini; ma in ultima analisi anche nelle famiglie meno istruite, ugualmente, rapporti di solidarietà, di buon senso, di ancoraggio a tradizioni laiche e religiose che siano, comunque sganciate dai dettami del mercato capitalistico, generano una autocoscienza strutturata e meno favorevole all'asservimento. 

E' quindi vero che la ristrutturazione capitalistica rimette in gioco un certo carattere solidaristico dell’istituzione familiare. Ma che dividere un salario o una pensione allo scopo di far sopravvivere chi non trova lavoro sia un’azione di “resistenza” all’ideologia capitalistica non è certo sostenibile, si tratta di un semplice stato di necessità. Restare in famiglia, o meglio essere costretti a restarvi perché non si percepisce un salario, sia pur basso e precario, è un’umiliazione. 

La crisi della famiglia non è stata un fatto casuale ma dovuta all'uso delle macchine (meno braccia), e dallo stato sociale che si sostituiva ad essa. 

Nonostante tutto questo è anche vero che, le famiglie sono state, nel secondo dopoguerra, l’elemento portante dello sviluppo basato sulla produzione in forma capitalistica dei beni di consumo: elettrodomestici, automobili, vacanze, alimentazione ecc. Quindi totalmente inserite nel "progetto" del nuovo modello economico. 

domenica 11 agosto 2019

La crisi dell’Occidente, in mano a pochi vampiri ciechi. - Claudio Conti

Da: http://contropiano.org - Claudio Conti, redazione “CONTROPIANO” - http://www.marx21.it
Leggi anche: "La multinazionale ecumenica" - Eugenio Cefis 


Come sta il capitalismo, oggi? Se guardiamo il suo lato occidentale, la risposta è inevitabilmente: “mica tanto bene”.
La crisi della lunghissima egemonia anglosassone (prima con l’impero inglese, poi con gli Stati Uniti) è evidente da molti dati. Per esempio, la classifica Fortune sulle prime 500 imprese multinazionali dei pianeta segnala per la prima volta il sorpasso delle aziende cinesi rispetto a quelle statunitensi: 129 contro 121.
Le multinazionali Usa restano nel loro insieme leggermente in vantaggio quanto ad entrate complessive, ma la velocità di crescita di quelle cinesi è incomparabilmente più alta. Fermo restando il quadro generale, anche su questo piano il sorpasso è questione di mesi.
Situazione ancora peggiore nel sistema bancario, in cui – tenendo d’occhio gli attivi e non solo le dimensioni – il predominio cinese appare pressoché totale. L’analisi dell’Ufficio Studi di Mediobanca mette al primo posto la Industrial and Commercial Bank of China, con attivi per 3.517 miliardi di euro, davanti all’Agricultural Bank of China con 2.871 miliardi e la China Construction Bank  con 2.856 miliardi.  Il primo istituto non cinese è solo al quarto posto, con la ben nota (e famigerata) JpMorgan Chase. Poi c’è Bank of China, che vanta attivi per 2.701 miliardi.

Pubblico batte privato

Ma il dato più significativo riguarda la struttura proprietaria delle aziende dei due paesi, che descrive anche con molta precisione le differenze di sistema economico. Le multinazionali cinesi sono in genere di proprietà statale (la seconda assoluta, Sinopec Group, si occupa di petrolio ed energia), e persino la “terribile” Huawei, bandita da Donald Trump, non è neppure quotata in borsa perché “di proprietà dei dipendenti”. Una cooperativa, insomma, che si piazza al 61° posto nel mondo, subito dietro la Microsoft di Bill Gates.