Roberto Finelli insegna Storia della filosofia all’Università di Roma Tre e dirige la rivista on-line “Consecutio (Rerum) temporum. Hegeliana. Marxiana. Freudiana” (http://www.consecutio.org)
1. L’«americanismo» come idealtipo della globalizzazione.
La riflessioni che seguono nascono da quella che a me sembra la caratteristica più paradossale
della realtà che stiamo vivendo: tanto caratterizzante l’intera realtà, storica e sociale contemporanea,
da configurarla appunto come null’altro che un unico grande paradosso. Il paradosso è quello della
contraddizione tra il piano dell’Essere e quello dell’Apparire, ossia tra il piano interiore e profondo
della struttura del reale e quello esteriore della forme della coscienza individuale e collettiva con
cui quella struttura viene appresa e conosciuta, anzi nel nostro caso bisogna dire viene distorta e
misconosciuta.
Con il crollo del comunismo cosiddetto reale il mondo conosce oggi solo l’«americanismo» come
forma unica di civiltà e di organizzazione sociale. E l’americanismo, per quello che dirò subito, vale
per me come la realizzazione, oggi, più completa e più avanzata del capitalismo, proprio come la
maturità dell’Inghilterra valeva per Marx come la forma canonica del capitalismo dell’800. E
americanismo senza America, americanismo oltre i confini d’America, può essere definita l’attuale
globalizzazione, se la si considera come generalizzazione a tutti i paesi del globo, con gradi diversi
ovviamente di sviluppo e di sottosviluppo, del medesimo modello di produzione, distribuzione e
consumo di merci, della medesima ricerca di profitto, della medesima invasività e diffusione del
mercato e della medesima attitudine a trasformare tutti i rapporti umani in rapporti quantificabili e
mediati dal denaro.
Per altro non v’è dubbio che la globalizzazione debba essere vista, ancora oggi, soprattutto come
maggiore velocità e ubiquità di spostamento del capitale finanziario e spesso solo speculativo, senza
cedere alla facile quanto superficiale rappresentazione che la prospetta come il darsi di un unico
mercato mondiale con un’unica concorrenza che genererebbe medesimi prezzi delle merci, del
lavoro del denaro1. Laddove la sua effettiva realtà si presenta come non solo profondamente
differenziata quanto asimmetrica, anzi tale che in essa polarità e distanze, differenze tra sviluppo e
sottosviluppo si acuiscono, almeno per chi ragioni in termini di statistiche comparate e relative e
non di dati assoluti di crescita e di progresso. Eppure la globalizzazione, pur sottratta al segno retorico di presunti universalismi e di omogenei sviluppi, può comunque essere considerata
unitariamente come «una immane raccolta di merci», nel senso dell’aumento sempre più ampio e
sempre più intenso della quota di popolazione mondiale che dipende per la propria riproduzione in
modo integrale dall’esposizione e dalla mediazione con il mercato.
Ora il paradosso di cui parlavo all’inizio consiste, a mio avviso, nel fatto che proprio quando, con
il venir meno del socialismo reale, si diffonde e s’impone, sia pure, torno a dire, con una
configurazione a macchie di leopardo, un unico modello di vita economica e sociale, capace di
stringere nella sua ricerca del profitto e della remunerazione monetaria qualsiasi tipologia, da quella
più avanzata a quella più arcaica, di lavoro, viceversa in termini culturali e simbolici, alla
consapevolezza e allo studio dell’uno e del modo in cui l’uno si articoli nella molteplicità delle
differenze, s’è venuta sostituendo una cultura del frammento, dell’informazione e dell’atto
linguistico-comunicativo da interpretare attraverso altre informazioni ed altri atti comunicativi,
ossia la prospettiva di un’ermeneutica infinita che considera come tramontati concetti come verità,
realtà, oggettività. S’è venuta facendo egemone insomma una cultura che rifiuta la prospettiva delle
cosiddette ideologie, delle concezioni unitarie del mondo. La sistematicità delle quali viene infatti
svalutata e degradata, quale grande favola narratrice o visione totalizzante e totalitaristica.
La contraddizione paradossale della realtà contemporanea si colloca perciò essenzialmente nello
scarto tra reale e simbolico, per cui mentre da un lato si intensifica e si approfondisce l’attualità del
capitalismo, che diviene cornice e legge unitaria del mondo, dall’altro si sviluppa un pensiero
postmoderno, diffuso ed egemone, secondo cui la nuova società postindustriale e postfordista nella
quale viviamo, almeno nell’Occidente avanzato - definita anche società della conoscenza e
dell’informazione o società della high tecnology o società della fine del lavoro - è una nuova
formazione storico-sociale, che romperebbe con i principi classici della modernità, ottocentesca e
novecentesca, inaugurando una nuova realtà che non si conforma più alla struttura di classi
contrapposte, alla regola dello sfruttamento, al capitalismo industriale.
Per sciogliere questo legame di opposizione tra l’approfondimento capitalistico del moderno e il
suo apparire nelle coscienze come postmoderno e postcapitalistico, io credo che, sia pure in modo
molto rapido e schematico, sia opportuno chiarire la natura di quello che ho chiamato
«americanismo». Riprendendo la concettualizzazione di Gramsci, che per primo ha introdotto il
termine nella letteratura sociologica e politica2, propongo di definire «americanismo» quella
tipologia di organizzazione sociale nella quale la «struttura» si estende e si dilata direttamente e
senza mediazioni di ceti intellettuali o politici, a «sovrastruttura», producendo, insieme con
l’economico, propriamente anche il culturale e il simbolico. Dove cioè l’«economico» produce nello stesso tempo a) le merci e i beni materiali; b) i rapporti sociali e le differenze di classe; c)
l’immaginario e le forme generali della coscienza, individuale e collettiva. E dove quindi tale
potenza, anzi onnipotenza, dell’economico, che si fa principio generatore dei diversi e molteplici
aspetti della vita sociale, assegna all’americanismo la caratteristica di compagine totalitaristica e
unidimensionale.
Quell’acuto geografo storico-sociale che è David Harvey, ai cui studi sul postmoderno da una
prospettiva marxista è, insieme al lavoro di Frederic Jameson, assai utile richiamarsi, scrive in un
testo del 1990, intitolato appunto The Condition of Postmodernity, che “un particolare sistema di
accumulazione può esistere perché il ‘suo schema di riproduzione è coerente’. Il problema consiste
nel dare ai comportamenti di tutte le categorie di individui – capitalisti, lavoratori, dipendenti
statali, finanzieri e tutti gli altri agenti politico-economici – una configurazione che permetta al
regime di accumulazione di continuare a funzionare. Deve esistere perciò una materializzazione del
regime di accumulazione sotto forma di norme, consuetudini, leggi, reti di regolazione, ecc., che
garantisca l’unità del processo, cioè la coerenza dei comportamenti individuali con lo schema di
riproduzione”3. Vale a dire che, se nella vita della società l’ambito culturale-simbolico comanda
l’accesso al piano motivazionale dei comportamenti individuali, in una riproduzione sociale basata
sull’accumulazione di capitale ne deriva, per l’istanza totalitaristica che si diceva la caratterizza, che
anche quell’ambito virtuale e costituito dai modi del percepire, del rappresentare e del valutare,
deve essere mediato e governato dalla logica di quell’accumulazione.
Ma comprendere in che senso la globalizzazione oggi sia una globalizzazione intenzionata ed
egemonizzata dell’americanismo e che tipo peculiare di accumulazione di capitale oggi la
caratterizzi implica sapere e dover distinguere all’interno della categoria generale di americanismo
le due diverse tipologie di accumulazione, quella fordista o, come anche viene detta,
dell’accumulazione rigida e quella postfordista o dell’accumulazione flessibile, che ne hanno
scandito la storia durante il secolo scorso per giungere fino ai nostri giorni.
Converrà però fare, ai fini della mia esposizione, un passo indietro. Prima di definire e
concettualizzare la differenza tra accumulazione rigida e accumulazione flessibile mi sembra utile
infatti schematizzare quelle che, a mio avviso, sono state le acquisizioni teoriche fondamentali,
ancora oggi - anzi oggi ancora maggiormente - valide di Marx sulla struttura economica del
capitalismo. Esse possono, io credo, essere sintetizzate in quattro punti:
Primo (Quantità versus qualità). Il capitalismo è obbligato costantemente alla crescita. Il capitale
è ricchezza astratta, quantità di moneta che deve essere aumentata e accumulata. La natura quantitativa della sua ricchezza, espandibile tendenzialmente all’infinito proprio perché
quantitativa, impone che il capitalismo per realizzare il profitto e l’accumulazione deve espandere
costantemente la produzione, non curandosi del mondo umano e qualitativo, ossia operando
indipendentemente dalle conseguenze di ordine sociale, politico, geopolitico ed ecologico.
Secondo (Lavoro astratto versus lavoro concreto). La crescita dipende dallo sfruttamento della
forza-lavoro durante il processo produttivo. Sfruttamento non significa pauperizzazione, ossia che i
lavoratori guadagnino poco o in modo scarso e insufficiente rispetto alla loro riproduzione, bensì
che il profitto nasce e dipende dalla differenza tra ciò che i lavoratori guadagnano e quanto creano.
Il controllo della forza-lavoro durante il processo di lavoro, ossia la lotta di classe nella produzione,
è dunque la condizione fondamentale della crescita e dell’accumulazione. La chiave di questo
controllo sta nell’imposizione alla forza-lavoro di erogazione di lavoro astratto, ossia il riuscire a
porre da parte della direzione d’impresa gran parte delle conoscenze, delle decisioni tecniche e
dell’apparato disciplinare fuori dal controllo della persona che concretamente effettua il lavoro.
Terzo. Il capitalismo è costantemente dinamico dal punto di vista sia dell’innovazione tecnologica
che dell’innovazione organizzativa. Ogni capitalista è esposto a una doppia concorrenza: quella con
gli altri capitalisti e quella con i propri lavoratori. Gli investimenti nell’innovazione tecnologica e in
quella organizzativa sono indispensabili, insieme, sia per la produzione di profitti ed extraprofitti sia
per il controllo della lotta di classe.
Quarto. La dinamica del capitalismo è comunque di necessità esposta alla crisi. La struttura di
classe della distribuzione del reddito non consente infatti l’assorbimento continuo dell’espansione e
della crescita. Il capitalismo tende ad entrare in fasi periodiche di sovraccumulazione, in cui capitale
inutilizzato e forza lavoro inutilizzata si fronteggiano inoperose e da cui in genere si torna ad uscire
attraverso enormi distruzioni di capitale, merci e forza lavoro.
Di questi quattro punti che nella teorizzazione di Marx rappresentano le invarianti del modo di
produzione capitalistico quello che costituisce la frontiera decisiva del confronto di classe è, come
dicevo, almeno a mio avviso, il secondo, quello concernente la necessità da parte dell’impresa
capitalistica di riuscire ad imporre alla forza lavoro – sia essa manuale o intellettuale non importa –
l’erogazione di lavoro, non concreto, ma astratto, giacché «lavoro astratto» significa lavoro
disciplinato e disciplinabile, da cui è espulsa la soggettività della forza-lavoro, con tutte le implicazioni di non regolarità, discontinuità, non manipolabilità, non omologabilità che il
soggettivo porterebbe con sé.
Per altro la questione e la realtà del lavoro astratto sono centrali nel pensiero maturo di Marx, non
solo perché definiscono quanto di disumano si gioca nella produzione di capitale ma anche perché
sono il fondamento della teoria del valore-lavoro, giacché come scrive lo stesso Marx nei
Grundrisse, il fatto che sotto i prezzi monetari ci siano le quantità di lavoro, e di lavoro appunto
omogeneo e scambiabile – come vuole appunto la teoria del valore-lavoro – se sul piano del
mercato e dello scambio di compere e vendite può sembrare una ipotesi solo soggettiva, del solo
Carlo Marx, pari quanto a verosimiglianza alle ipotesi delle altre teorie economiche, si fa invece
realtà vera, in modo oggettivo, «praticamente vera»4, come scrive Marx, quando nel cuore della
produzione e dunque per milioni di uomini e donne che costituiscono la forza lavoro il lavoro si fa
necessariamente astratto e per tutti tendenzialmente eguale ed omogeneo quanto all’uso capitalistico
e alle modalità con cui viene praticato. Non a caso l’operaismo, con la sue mitologie e le sue
forzature di una soggettività lavoratrice sempre all’attacco e sempre anticipata, quanto a iniziativa
storica, rispetto al capitale, ha dovuto rimuovere da sempre dal suo orizzonte la questione sia del
lavoro astratto che della teoria del valore-lavoro considerandoli residui di un Marx subalterno a
Ricardo e alla scienza economica borghese5.
2. Americanismo di prima e di seconda generazione
Ma torniamo all’americanismo e alla centralità del comando sul lavoro nelle due fasi storiche
dell’accumulazione rigida e dell’accumulazione flessibile.
Riguardo a tale distinzione, possiamo definire il fordismo come un compromesso particolare e
specifico tra capitale e lavoro, per cui mentre la forza lavoro cede al capitale il controllo della
produzione, dei tempi, dei ritmi, del proprio corpo, la stessa forza lavoro ottiene in cambio l’accesso
all’acquisto dei beni di consumo di massa e, attraverso il welfare, ma questo avviene soprattutto in
Europa, ottiene la partecipazione ai servizi dello Stato sociale.
Il fordismo-taylorismo si è basato, com’è noto, sullo strutturarsi insieme della grande fabbrica,
organizzata secondo catena di montaggio, e dello scientific management, che imprigiona il corpo
della forza-lavoro in una serie di operazioni parcellizzate e ripetitive. Solo che, come dicevo all’inizio, il fordismo-taylorismo è stato controllo del corpo non solo dal lato della qualità e quantità
della prestazione lavorativa ma anche dal lato dei bisogni e dell’immaginario ad essi legati. Il
fordismo ha significato infatti anche produzione standardizzata di beni di consumo di massa e
tendenziale aumento, storicamente significativo, del salario reale, in conseguenza della maggiore
concentrazione e forza contrattuale dei ceti operai.
Nell’arco del primo cinquantennio del XX° sec., soprattutto con il decollo economico legato allo
sviluppo della produzione durante il secondo conflitto mondiale, il fordismo ha trasformato pertanto
la funzione sociale della forza-lavoro, aggiungendo alla sua identità classica, ottocentesca, di
erogatrice di energia lavorativa e di mero oggetto di sfruttamento all’interno della produzione,
quella di soggetto del consumo nella sfera della circolazione e dell’uso delle merci. Ed è appunto a
muovere da qui, dalla produzione di beni di consumo durevole di massa (abitazioni, macchine,
autostrade, elettrodomestici), la cui disponibilità faceva uscire buona parte dei ceti popolari da
un’esistenza di mera riproduzione fisica per introdurli a un’esistenza da cittadini, che
l’industrialismo americano ha iniziato a produrre anche i bisogni, il desiderio e l’immaginario
sociale del lavoratore-consumatore. Così, nell’orizzonte di una cittadinanza cui si accedeva
attraverso il consumo, l’industria capitalistica, direttamente, nel periodo storico considerato - e
senza bisogno della mediazione di ceti intellettuali e politici che fossero preposti all’elaborazione
del consenso e delle ideologie – ha prodotto le forme dominanti e generali della coscienza
individuale e collettiva. Basti pensare in tal senso a quanto radio, televisione e industria
cinematografica abbiano amplificato, ma né inventato né originalmente concepito, l’immagine
tipica e ideale della famiglia americana, cellula della democrazia e della libertà, con l’uomo
procacciatore di reddito attraverso il lavoro e la donna riproduttrice dei figli e di una vita domestica
abbellita e alleggerita dagli elettrodomestici e dai beni di consumo durevole del nuovo
industrialismo.
Quando nella prima metà degli anni ’70 questa tipologia, insieme di accumulazione capitalistica e
d’integrazione sociale, entra in crisi, per la concomitanza di più cause, tra cui in primo luogo la
saturazione del mercato dei beni di consumo durevole e il cambiamento nei rapporti di forza
internazionale per cui gli Stati Uniti passano dalla condizione di paese creditore alla condizione di
massimo paese debitore del mondo, e quando il crollo del sistema di Bretton Woods testimonia che
gli Stati Uniti non hanno più il potere di controllare da soli la politica monetaria mondiale,
l’americanismo si trova obbligato a concepire un nuovo modello di accumulazione la cui base
tecnologica è costituita, per dirla assai in breve, dall’applicazione dell’informatica e delle macchine
dell’informazione ai processi produttivi, alla distribuzione e ai servizi, oltreché dall’utilizzazione della forza-lavoro, riferita non al corpo e alla manipolazione di oggetti materiali di lavoro, bensì
riferita alla mente e ad operazioni logico-calcolanti su dati alfa-numerici.
Tale rivoluzione tecnologica, legata alle macchine informatiche, consente una nuova
organizzazione del tempo e dello spazio, dando vita a quella che è stata chiamata correttamente una
nuova «compressione spazio-temporale» del mondo capitalistico. Una riorganizzazione del tempo e
dello spazio che appunto ha offerto all’americanismo la possibilità storica di sviluppare una nuova
tipologia del processo di accumulazione capace di confrontarsi e di aggirare tutte le rigidità
dell’accumulazione fordista. La flessibilità e la mobilità, la maggiore velocità del tempo di
rotazione del capitale, al pari del tempo di rotazione dei consumi e della durata dei beni, divengono
infatti i nuovi criteri con cui riorganizzare l’intero mondo economico: rispettivamente i processi
produttivi e la tipologia dei prodotti, i mercati dei lavoro, perché di mercati e non di un solo mercato
del lavoro bisogna parlare, e i modelli di consumo.
Molto è già stato scritto sull’applicazione della robotica e dell’informatica alla produzione, sui
sistemi di gestione del magazzino just-in-time, sull’esternalizzazione di funzioni e servizi prima
all’interno del ciclo produttivo, sulla crescita del subappalto e delle attività di consulenza, sullo
smembramento delle grandi unità produttive, sulla delocalizzazione delle imprese, sulla riduzione
della durata di vita e di consumo delle merci, sulla sostituzione delle economie di scala con le
cosiddette economie di scopo, ossia sulla crescente capacità di produrre una gran varietà di beni a
basso prezzo e in piccole quantità. Molto è stato scritto insomma sulla differenza tra il paradigma
industriale del vecchio capitalismo basato su una struttura meccanicistica e il paradigma
postindustriale del nuovo capitalismo basato sulle reti di mercato. E molto è stato scritto, oltre che
sulla frantumazione del mercato del lavoro, sull’utilizzazione di lavoro precario, di lavoro connesso
con le masse di emigranti, sulla grande riorganizzazione del sistema finanziario mondiale
coordinato per mezzo di telecomunicazioni istantanee, che ha visto da un lato la formazione di
conglomerati finanziari e di intermediari di estensione mondiale, con un’enorme capacità di
spostare denaro, e dall’altro un decentramento dei flussi finanziari attraverso la creazione di nuove
borse e di mercati finanziari assolutamente nuovi, come quello dei fondi d’investimento, o
l’espansione di mercati finanziari già esistenti come quello di futures su merci o dei debiti a
termine.
3. Al moderno il corpo, al postmoderno la mente.
Pure non va evitata la domanda di fondo che il passaggio dal paradigma industriale a quello
postindustriale pone sul piano storico e sociale.
Si tratta del transito ad una formazione storico-sociale diversa e nuova rispetto a quella moderna,
come vogliono i sostenitori del postmodernismo, con la loro teorizzazione della fine della società
fondata sulle classi e sulla lotta di classe, con la loro teorizzazione della fine della società del
lavoro, e il passaggio dalla fatica del lavoro manuale alla creatività del lavoro intellettuale e
comunicativo, con la caduta del comunismo cosiddetto reale e la fine delle ideologie?
O si tratta, nel passaggio, dal fordismo al postfordismo, di una mutazione solo superficiale e
apparente del capitalismo che non ne modifica la struttura di fondo e che lascia inalterate e valide
tutte le categorie della classica interpretazione marxiana. Da parte di chi sostiene quest’ultima tesi,
si sostiene che di fondo non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Che tutto si può ricondurre al
plusvalore assoluto e al plusvalore relativo di Marx, spiegando la prima categoria la dislocazione
delle imprese da regioni ad alto salario e a orario contenuto a regioni di basso salario con giornata
lavorativa lunga, e spiegando la seconda categoria le innovazioni organizzative e tecnologiche che
consentono extraprofitti temporanei alle aziende innovatrici e poi profitti più generalizzati dovuti
alla riduzione del costo dei beni che costituiscono il salario reale dei lavoratori. Che la tendenza del
capitalismo alla mondializzazione, all’espansione dei mercati, al trasferimento di capitali, c’è
sempre stata. E che dunque nulla cambia se non per un ampliamento delle quantità o per una
utilizzazione più intensa delle categorie del capitalismo classico.
Bene io credo che non si possa seguire nessuna delle due strade, né quella della discontinuità
storica dei postmodernisti né quella della continuità, senza trasformazioni radicali, teorizzata dai
marxisti tradizionali. A mio avviso va invece percorsa un’altra strada che unisca insieme modernità
e postmodernità, senza rinunciare nello stesso tempo ad utilizzare gli strumenti teorici concepiti da
Marx. A patto però, come si vedrà subito, di abbandonare il marxismo tradizionale e classico della
«contraddizione» e di estrarre dallo stesso Marx un altro paradigma teorico che da ormai un
trentennio io provo a proporre, a concettualizzare e a definire come il «marxismo dell’astrazione».
Solo il marxismo dell’astratto può consentire infatti di comprendere e di definire il nesso tra
postmoderno e moderno come un nesso non diacronico, come se fossero due tempi od epoche
storiche diverse, ma come un nesso sincronico, per il quale il postmoderno è null’altro che il
moderno, ma un moderno capace come non mai di nascondersi e dissimularsi a sé stesso. Solo un
marxismo che usa come sua categoria fondamentale interpretativa e di ricerca non la
contraddizione, ma l’astrazione può cioè confrontarsi con la nuova totalità storico-sociale che il
capitale oggi pone in essere, legando le nuove modalità dell’accumulazione economica con il nuovo
sistema di regolazione ideologico e politico, con il nuovo sistema di rappresentazioni collettive, che
quelle stesse modalità richiedono e producono.
A tal fine è bene ritornare sull’americanismo, sull’americanismo che possiamo chiamare di
seconda generazione, e mettere a fuoco che tipo di relazione specifica si dia oggi tra il nuovo
lavoro, il cosiddetto lavoro intellettuale o mentale, e le nuove tecnologie dell’informazione. Non
perché questa nuova organizzazione del lavoro coincida con la globalizzazione, dato che il capitale
è in grado oggi, com’è noto, di utilizzare, ovunque ne abbia la convenienza, e come parti non
accessorie del suo sistema produttivo, vecchi sistemi di lavoro a domicilio, artigianale, patriarcalefamiliare o paternalistico-mafioso. Ma perché è il possesso e l’uso, quanto più avanzato, della
tecnologia informatica che garantisce le posizioni di punta e l’egemonia sia nei diversi comparti del
capitale produttivo che di quelli del capitale finanziario.
Da parte dei più, non solo dagli imprenditori e dalle direzioni aziendali, ma anche dai sociologi,
dai sindacalisti, dai politici, dagli intellettuali di varia natura, ci è stato e ci viene detto che con la
tecnologia informatica e con la messa al lavoro, non del corpo, ma della mente, si conclude
finalmente un’antropologia lavorativa connotata dalla fatica e dal gravoso confronto con la durezza
del mondo materiale e si inaugura l’epoca di un lavoro cognitivo e creativo, basato sull’uso
dell’intelligenza e della conoscenza e sul confronto, agile e dinamico, con un mondo di dati virtuali.
Anche dagli operaisti, sempre pronti a scoprire formule che stupiscano, ci viene detto che il
lavorare è ormai un comunicare e che l’essenza della prassi, di quella che appunto una volta era la
prassi materiale, oggi è il linguaggio, da cui muove la possibilità di stringere in un general intellect
discorsivo, in una rete di comunanza comunicativa, la massa dei nuovi lavoratori della mente.
Io credo, al contrario, che sia essenziale sottrarsi a questo riduzionismo linguistico che è diventato
oggi l’orizzonte generale del senso comune, non solo intellettuale ma generalizzato e di massa, e
considerare che l’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente organizzato non è mai
solo descrittiva ma è sempre anche prescrittiva; implica cioè un codice di senso predeterminato che
obbliga la forza-lavoro in questione a muoversi secondo un contesto di possibilità già definite e
strutturate. Non va dimenticato infatti che la caratteristica fondamentale delle nuove tecnologie è
quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano. Tale mente
artificiale può valere come ampliamento di memoria, a disposizione di un soggetto elaboratore e
creativo, solo nel caso di attività private e ad alto contenuto di professionalità. Nel caso di processi
lavorativi finalizzati alla produzione-circolazione di merci, alla produzione di servizi, alla
informatizzazione di funzioni burocratiche pubbliche funziona invece come mente esterna che
sistema e accumula le informazioni secondo un codice che implica contemporaneamente schede o
disposizioni predeterminate di lavoro, ossia modalità flessibili ma predeterminate d’intervento e di
risposta da parte della mente del lavoratore non manuale.
E’ dunque l’«anima», diciamo così, del nuovo lavoratore cognitivo, la sua intelligenza sia come
comprensione globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva, ad essere ora subordinata a
un programma di senso e di operazioni già predefinite. Vale a dire ossia che proprio ciò che finora
veniva definito come la caratteristica più personale e non omologabile del soggetto umano, proprio
ciò che il fordismo teneva ben lontano dal campo di battaglia nel suo confronto di classe – appunto
le anime dei lavoratori - ora entrano in un campo di fungibilità interagente ma subalterna con la
macchina dell’informazione. La quale per suo verso, accumulando quantità d’informazioni alfanumeriche sulla base del linguaggio binario, dell’alternanza cioè di zero ed uno, riproduce il mondo
reale eliminando da esso qualsiasi ambivalenza e contraddizione dalla realtà secondo la riduzione
che è propria di una semplificazione matematico-quantitativa. Matematizzazione e codificazione
del mondo che dal lato del lavoratore cognitivo e della sua prestazione richiede la cooperazione di
una soggettività istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che non sulla
messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.
Ma è proprio in questa riduzione della coscienza e del lavoro mentale di massa ad operazioni
precodificate di senso che si colloca a mio avviso il passaggio da moderno a postmoderno, nel
senso della negazione della profondità della mente o meglio dello svuotamento di una soggettività,
la quale nel momento stesso in cui viene valorizzata e messa in campo, è obbligata invece a
rinunciare alla sua autonomia, ad una verticalità di percezione e di giudizio che dovrebbe aver le
sue radici nella profondità del proprio corpo emozionale e nello stratificarsi della sua memoria. Lo
svuotamento della soggettività, il venir meno della sua profondità ha come effetto speculare la
superficializzazione del mondo, un mutamento cioè storico-antropologico del sentire, per cui il
mondo, l’esperienza del vivere, la vita sociale e individuale appaiono e vengono percepite
necessariamente come una superficie frammentata, fatta di momenti ed eventi fondamentalmente
slegati tra loro proprio perché non tenuti insieme da una struttura di profondità. Così il
postmoderno, la visione del mondo che afferma, per esprimerci con i termini della filosofia, che
l’Essere è linguaggio, che non c’è nessuna realtà-verità oggettiva, che non ci può essere nessun
pensiero forte e sistematico, ma che viceversa tutto è segno da interpretare attraverso altri segni, è
legittimamente l’ideologia del postfordismo, in quanto è un modo di rappresentare e percepire il
mondo che viene prodotto con lo stesso atto della produzione dei beni economici, materiali o
immateriali che essi siano.
Marx ci ha insegnato che se il capitale è ricchezza astratta in processo, una delle condizioni
fondamentali della sua riproduzione e accumulazione è che astratto, cioè non concreto, bensì
controllabile e normalizzabile sia il lavoro che costituisce la fonte di quella ricchezza: secondo
quell’organizzarsi tecnologico della produzione, che appunto lui nel Capitolo VI inedito definisce la «sussunzione reale» del lavoro al capitale. Ad ogni generazione di lavoratori, ad ogni nuova
immissione generazionale di forza-lavoro, il capitale deve affrontare, ogni volta di nuovo e con
nuove innovazioni tecnologiche, questo problema, per risolverlo e garantirsi la condizione
fondamentale della sua esistenza e riproduzione.
Con il fordismo la sussunzione reale, il controllo e la disciplina concernevano il corpo della forza
lavoro e rispetto a ciò il punto di vista di classe poteva riconoscersi in un marxismo della
contraddizione che teorizzava il darsi di soggettività collettive e sociali contrapposte, in
opposizione tra loro, riguardo alla battaglia sul corpo appunto e sulla sua normalizzazione
lavorativa. «Contraddizione» perché la normalizzazione della forza-lavoro si compiva attraverso
un’ortopedia del corpo operaio imposta con costrizione dall’esterno e dalla forza del macchinismo.
Con il postfordismo e l’accumulazione flessibile la sussunzione reale di Marx concerne, come
dicevo, la mente dell’erogatore di lavoro. Ma ciò significa – e questo snodo io credo sia essenziale
per la comprensione del presente – che, attraverso la colonizzazione della mente da parte
dell’informatica organizzata a scopi di profitto viene prodotta e riprodotta, insieme al capitale, una
tipologia capitalistica di soggettività. Tale tipologia di soggettività patisce lo svuotamento della sua
concretezza di vita da parte dell’astratto capitalistico e della sua tecnologia e contemporaneamente
la compensazione di tale svuotamento attraverso il sovrinvestimento, la sovradeterminazione,
isterica e imbellettata, della superficie del proprio esperire6. Così mentre partecipa dell’esaltazione
ideologica collettiva dell’informatica, della partecipazione a una comunicazione generalizzata e
dell’emancipazione dal lavoro che ne dovrebbe conseguire, soffre invece di vuotezza emotiva, di
piattezza e d’indeterminatezza d’esistenza.
Di questo nesso tra svuotamento dell’interno e sovradeterminazione dell’esterno – assai più che
delle vecchie categorie dell’alienazione e della contraddizione – deve dar conto il nuovo marxismo
dell’astratto. E ciò proprio per poter riproporre alla fine, di nuovo, un marxismo della
contraddizione, attraverso la formazione di una nuova soggettività, individuale e collettiva, che, a
partire dalla mortificazione e dallo svuotamento compiuti dal mondo dell’astratto ai danni del
mondo della vita, ritorni a pensare e a praticare il valore epocale della fuoriuscita storico-sociale dal
capitalismo.
Ma per giungere a ciò è necessario passare oggi attraverso il marxismo dell’astrazione e rileggere
alla sua luce Das Kapital di Karl Marx, comprendendo che Marx ha fatto, prima che storia, scienza
del presente e che questa scienza non si basa sulle volontà e sulle azioni di soggetti individuali,
bensì su un fattore impersonale di socializzazione che si chiama appunto Capitale, costituito da una
ricchezza non antropomorfa, ma astratta e non finalizzabile a scopi di armonia e di benessere umano, di cui Marx ha codificato la struttura secondo metamorfosi e passaggi, regole finanziarie e
produttive, rapporti di subordinazione di classe, la cui natura obbligata s’impone agli attori sociali e
individuali che di volta in volta, secondo tempo, luogo, merce e mercato determinati, e se si vuole
anche secondo diverse caratterizzazioni psicologiche, svolgono quelle funzioni, invece, di per sé
impersonali e rette da una logica in ogni dove eguale. Certo ci sono ovviamente i molti capitali e il
passaggio dall’Uno ai molti, dalla configurazione del Capitale in generale ai molti e concreti
capitali, costituisce il problema del passaggio dal 1° al 3° libro di Das Kapital, coincidendo con la
travagliatissima questione della trasformazione dei valori in prezzi. Ma quel passaggio è
problematico per lo stesso Marx, oltre che per la natura incompiuta della sua opera, proprio perché
Marx vuole essere fedele all’impostazione del primo libro, alla definizione impersonale e
meramente quantitativa che ha dato del Capitale come valore in processo, e continuare a pensare e a
concettualizzare l’agire concreto dei molti capitali secondo gli obblighi di regole e proporzioni della
creazione e distribuzione di «quantità» di valore, che consegnano gli individui umani, quale che
siano le loro capacità d’iniziativa e d’intraprendenza, a vivere solo come personificazioni di
funzioni economiche, ovvero, secondo quanto dice Marx, ad essere solo Charaktermasken,
maschere teatrali che recitano un copione che già è stato loro scritto e predatato7.
4. Una produzione capitalistica di soggettività.
Tra moderno e postmoderno dunque, secondo la tesi che qui si propone, si dà discontinuità, non
quanto a modo di produzione e a formazione economico-sociale, bensì quanto a tipologia di lavoro
astratto erogato e quanto ad effetto generale di feticismo che la ricchezza astratta del capitale e la
sua accumulazione sono in grado di mettere in atto. Il passaggio da un’accumulazione di lavoro
astratto, che mette in scena e in gioco il corpo, a un’accumulazione che mette in scena la mente,
conduce infatti il capitale a una sorta di accentuata invisibilità. Al passaggio cioè da una coreografia
esterna, fatta di materia e di spazialità, ad una coreografia interna e immateriale, fatta di operazioni
e funzioni calcolanti-discorsive. E appunto in tale dislocazione dall’esterno all’interno, il capitale
assume una configurazione sempre meno sensibile-percettiva, per inaugurare una modalità
d’esistenza più impalpabile e virtuale. E’ il fantasmatizzarsi del capitale, il suo farsi puro spirito,
come realizzazione di una tecnologia e di un’organizzazione di sé ancor più adeguati al suo concetto, secondo la definizione marxiana di ricchezza astratta – cioè non confinabile in nessuna
materia particolare – che accumula se stessa.
A tale farsi interiore e fantasmatico del capitale, a tale suo smaterializzarsi e rendersi pressoché
invisibile, corrisponde, come abbiamo detto, un’eccesso di visibilità nella superficie delle cose e
dell’esperire. La tecnologia informatica conduce infatti a un tale svuotamento-colonizzazione della
mente da parte dell’astratto da privarla della propria dimensione di profondità e di renderla
funzionale alla sola dimensione di acquisizione-elaborazione di dati esteriori. Per cui
all’interiorizzarsi del capitale si accompagna una produzione capitalistica di soggettività8
capace di
esperire il mondo solo nella sua trama di superficie, quale serie di eventi e di fatti, che, senza
rimandare a nessi più interni, si concludono nell’attimo appariscente della loro vita accidentale e
seriale.
La produzione capitalistica di soggettività, attraverso la nuova tipologia dell’accumulazione
dell’astratto, produce dunque una soggettività esposta più al dominio della quantità che non
all’esperienza della qualità. Cioè più un io che si fa spettatore e fruitore di pezzi di mondo sciolti da
ogni vincolo reciproco che non un io capace di sintetizzare e riunificare il proprio esperire
attraverso valenze significative di relazione.
E’ un tipo di individualità definibile - in conformità all’orizzonte storico del capitale-quantità –
come un «io-quantità», ben esplicabile attraverso la categoria hegeliana della cattiva infinità, in
quanto io che, non riuscendo a padroneggiare, attraverso sintesi, la molteplicità del proprio mondo,
interno ed esterno, è destinato a trascorrere in «un assoluto divenir altro», in un allontanamento da
sé che si traduce nell’essere colonizzato dall’«esteriore».
Vale a dire che, con la produzione capitalistica di soggettività, si genera un individuo catturato più
dall’esterno che non dall’interno e incapace perciò di far riferimento alla propria interiorità
emozionale come luogo fondamentale, in ultima istanza, di valutazione e di sintesi del proprio
vivere. E dove solo la sovradeterminazione retorica e artificiale, «isterica» è stato giustamente detto,
di un mondo esterno, frantumato in immagini di superficie, compensa, sul piano degli affetti,
l’eclisse di questo fondamentale senso interno. E’ l’individualità postmoderna che, priva
dell’interiorità dell’emozione e della memoria, trasferisce l’investimento affettivo, rimosso se non
addiritura forcluso, nella sovradeterminazione, imbellettata ma vuota, del mondo esteriore.
Ora appunto per comprendere le conseguenze di un’erogazione costante di attività astratta sulla
soggettività astratta, nella quale viene meno ogni capacità di dar senso e forma profonde al proprio
agire, – per porre come problema fondamentale dell’oggi il nesso tra eclisse dell’emotività e suo
trasfert sull’esterno di un mondo ridotto a pellicola di superficie – il marxismo dell’astratto obbliga ad abbandonare il marxismo della contraddizione e dell’antropologia semplificata del giovane
Marx, per il quale alienazione e sfruttamento dell’essere umano non possono non generare una
forza sociale rivoluzionaria, pronta a recuperare la sua essenza e dignità conculcata e a contraddire
l’assetto economico e politico dominante.
Questa teoria meccanica e automatica del conflitto sociale nasce, nel Marx prima del Capitale,
dalla valorizzazione indiscussa dell’homo faber, quale soggettività indiscussa e prometeica del
materialismo storico, e da una conseguente visione delle forze produttive come elemento comunque
progressivo e accumulativo della storia umana. Per cui a muovere dalla centralità dell’uomo
produttore e dalla sua sempre più dispiegata e collettiva produttività non potrebbe non darsi, in
presenza di rapporti sociali di proprietà e di distribuzione privata, un inevitabile configgere tra la
socialità del produrre e l’appropriazione individualistica di una ricchezza collettivamente generata.
Per dire insomma che nel Marx della contraddizione, quale istituzione fondativa della società
moderna, opera la mitologia di un soggettività umana, fabbrile e comunitaria, presupposta al
concreto svolgersi delle realtà storico e sociali9, che non può non costituirsi come opposizione e
alterità irriducibile a qualsiasi relazione pratico-economica che presuma di tradurla da soggetto in
oggetto, da soggetto in predicato del proprio agire e del proprio creare ricchezza. E quando il Marx
maturo in un celebre passo dei Grundrisse afferma che il lavoro è il «non-capitale»10, torna ad
assegnare al lavoro lo statuto di essere per principio altro, ossia ontologicamente eterogeneo e
antagonista rispetto al capitale e alla sua pretesa di dominio incontrastato e assoluto.
Invece il passaggio alla tipologia dell’accumulazione flessibile sottrae a mio parere ogni
legittimità al paradigma della centralità operaia, non tanto o non solo nel senso della riduzione
drastica del lavoro manuale nell’ambito dei settori economici tecnologicamente più avanzati, quanto
e soprattutto nel senso socio-politico dell’esistenza di una classe dotata, malgrado la violenza dello
sfruttamento e dell’espropriazione cui viene sottoposta, di un’autonomia di origine e di funzione
che la renderebbe comunque eccedente rispetto alla totalizzazione capitalistica. Il postfordismo non
toglie la centralità del nesso forza lavoro-capitale come chiave di volta della società contemporanea
ma toglie l’illusione di una forza lavoro quale per definizione soggettività collettiva e antagonista.
Anzi pone una realtà paradossalmente rovesciata, quale quella di una forza lavoro mentale che
presume di sapersi soggetto, non a dispetto e in opposizione, ma proprio nella coincidenza con il
suo svuotamento e il suo essere reso oggetto.
Per cui, senza dimenticare nulla di un secolo di lotte dell’operaio fordista e dell’enorme
permanenza del lavoro manuale nell’attuale economia-mondo, quello che qui preme sottolineare è
che, nel passaggio dal fordismo al postfordismo, il capitalismo a base tecnologica informatica rende
a sé più facilmente interno, ed omogeneo al proprio processo di valorizzazione, il lavoro. Possiamo
aggiungere, non reprimendo o violentando la soggettività, bensì impedendole di nascere e costituirsi
in quanto tale. O per dir meglio, negandola proprio attraverso la messa in scena di un processo
fittizio di soggettivazione e la valorizzazione di null’altro che la sua medesima silhouette.
Ma affermare questo, non può non avere, com’è evidente, conseguenze profonde quanto a decostruzione/ricostruzione dell’intero apparato categoriale di Marx. Giacché l’espulsione o la
marginalizzazione della categoria della contraddizione rispetto alla centralità di quella
dell’astrazione implica il rifiuto di ogni soggettività presupposta, qual è quella che invece a mio
avviso continua ad operare in tutta l’opera di Marx. Ed implica, a muovere dalla cruda realtà della
nostra moderna postmodernità, l’assunzione in tutta la sua più ampia serietà del Capitale quale
totalità, che produce, come si diceva, il triplice piano dei beni mercantili, dell’asimmetria delle
disuguaglianze sociali, e dell’immaginario dissimulatorio attraverso cui quella asimmetria deve
essere negata e coperta. Ricordando, a chi critica tale analisi di reiterare il vecchio discorso sul
totalitarismo dell’integrazione capitalistica della scuola di Francoforte, che autori come Adorno,
Horkheimer, Marcuse non hanno fatto mai del processo di lavoro e dello specifico uso capitalistico
della forza-lavoro il luogo generativo della socializzazione e di una totalizzazione inclusiva persino
della produzione delle forme di coscienza, interessati com’erano più al capitalismo della
circolazione, del feticismo della merce, dell’omologazione dei consumi e dell’industria culturale.
Invece io credo che, muovendo dal modo in cui l’astratto pervade oggi e svuota le nostre vite
consegnandole alla compensazione isterica di un fantasma di soggettività, s’illumina di verità, con
un potente effetto di retroazione storica, proprio la teorizzazione marxiana di Das Kapital come
soggetto, di fondo unico e dominante, della storia moderna in quanto accumulazione,
tendenzialmente senza fine, di ricchezza astratta. A patto però di porre questo Marx appunto contro
il Marx della contraddizione operaia e proletaria, della soggettività presupposta dell’homo faber, del
socialismo come esito necessario di una filosofia della storia fondata sullo sviluppo delle forze
produttive, della concezione materialistica della storia come supposto predominio in ogni fase della
storia e in ogni formazione sociale della materia di contro allo spirito. A patto cioè di liberarci della
pretesa facilità di una contraddizione oggettiva e di collocarla invece nell’animo e nella mente della
soggettività di Marx, quale certamente genio ed eroe eponimo della modernità, ma pensatore anche
multiverso e contraddittorio, e dotato perciò di molte arretratezze accanto a profondissime
intuizioni e concettualizzazioni. Senza alcuna intenzione, come talvolta è stato detto, di riscoprire, con il sovrappiù di un filologismo colto e accademico, la purezza originaria e incontaminata, al di là
dei marxismi, del suo pensiero. Qui non si tratta di far rivivere, oltre le deformazioni di scuola e di
partito, un Marx autentico, ma di far morire il Marx da sempre impari a pensare la modernità a
fronte del Marx ancora vivo, anzi ogni giorno ancora più attuale.
Ma appunto pensare ciò che da sempre è vivo e ciò che è morto nell’opera di Marx significa, a
mio avviso, liberare la sua matura critica dell’economia, quale scienza di un soggetto astratto e nonantropomorfo, dalle pastoie della filosofia della storia che pure il Moro ha intensamente concepito,
quale divenire predeterminato di un soggetto antropomorfo e antropocentrico.
Detto questo, per i limiti di spazio in cui questo intervento va contenuto, non è possibile
aggiungere altro e svolgerlo analiticamente. Deve perciò essere rinviata altrove la pars costruens
del discorso: quella volta al futuro e alla configurazione di una soggettività, individuale e collettiva,
che possa farsi carico, ma in modo profondamente diverso ed originale, degli ideali di
emancipazione e di trasformazione sociale delle generazioni e delle classi subalterne che ci hanno
preceduto.
Qui posso solo dire che non potrà darsi ipotesi alcuna di fuoriuscita storica dal capitalismo se non
si abbandona il materialismo spiritualistico e fusionale dell’antropologia di Marx e non la si
sostituisce con un nuovo materialismo che attinga come sua fonte fondamentale d’ispirazione alla
psicoanalisi. Come ho già detto altrove11, la psicoanalisi ha complicato enormemente l’antropologia
dell’umano, perché ha scoperto e teorizzato che prima dell’alterità orizzontale, della relazione cioè
con gli altri esseri umani, il principio dell’alterità è interiore e si dà per ciascuno di noi nella
compresenza e nell’irriducibilità del corpo alla mente. Ossia nel convincimento che la mente e il
pensiero nascano nell’essere umano con il compito primario di dare coerenza e padroneggiare la
complessità impulsiva e riproduttiva della vita corporea. E che tale costruzione verticale della
soggettività sia, nello stesso tempo, inscindibilmente intrecciata con la sua costruzione orizzontale,
quanto cioè a necessità dell’essere riconosciuta, accolta e legittimata da un’altra (o altre)
soggettività.
Senza muovere da tale nuovo materialismo, che integra i tradizionali bisogni materiali con il
bisogno di ciascuno al riconoscimento della propria irripetibile singolarità, non ci potrà essere, io
credo, nessuna proposta antropologica e politica capace di contrastare la messa in gioco della falsa
soggettivazione posta in essere dall’astrazione capitalistica. Per questo il marxismo dell’astratto
lascia cadere la vieta antropologia giovanil-marxiana e si apre alla fecondazione della scienza
antropologica più innovativa del Novecento qual è stata ed è la psicoanalisi.
Ma di tutto questo sarà bene argomentare altrove, con spazi e moduli analitici più appropriati.
1 Cfr. su ciò R. Bellofiore, Dopo il fordismo, cosa? Il capitalismo di fine secolo oltre i miti, in R.Bellofiore (a cura di), Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 1998, pp. 23-50.
2 Cfr.. A. Gramsci,, Quaderni del carcere, ed, critica a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino 1975, III, pp. 2139-2181
3 D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, pp. 151-52.
4 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), trad. it. a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi 1976, vol. I, p.30.
5 Per una discussione critica delle principali categorie dell’operaismo cfr. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, manifestolibri, Roma 2005.
6 Sulla cultura dell’immagine o del «simulacro» cfr. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di S.Velotti, Garzanti, Milano 1989.
7 Sull’uso e il significato di Charaktermaske in K. Marx cfr. W.F. Haug, Charaktermaske, in Id. (a cura di), HistorischKritisches Wörterbuch des Marxismus, Hamburg 1995, Bd. 2, pp. 435-451.
8 Per l’introduzione di questa espressione cfr. D. Balicco, Non parlo a tutti, Franco Fortini intellettuale politico, manifesto libri, Roma 2006.
9 Cfr. su ciò E. Screpanti, Comunismo libertario. Marx, Engels e l’economia politica della liberazione, manifestolibri, Roma 2007, pp. 32-44. Sull’organicismo e il comunitarismo del giovane Marx, che assegnano, a ben vedere, una fondazione spiritualistica al suo preteso materialismo mi permetto di rinviare al mio Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2005
10 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), op. cit., p. 244.
11 Cfr. R. Finelli, Il diritto a una prassi futura, in R.Finelli-F.Fistetti- F. Recchia Luciaini- P. Di Vittorio ( a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004, pp. 15-28.
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