sabato 31 ottobre 2015

Dialettica riproposta - Stefano Garroni - LA CITTA' DEL SOLE



Sono raccolti in questo libro gli scritti cui Stefano Garroni stava lavorando prima della sua scomparsa avvenuta nell’aprile del 2014. In essi sono presenti i temi principali del suo lungo e intenso percorso di ricerca, nel corso del quale ha sempre cercato di coniugare con grande sensibilità teoria e prassi, filosofia e politica, etica e scienza. Tra questi temi ricordiamo la tesi dell’inscindibile legame tra Hegel e Marx, il quale – secondo l’autore – si sarebbe sempre mosso nel quadro della filosofia del suo grande predecessore, non attuando quel semplicistico “rovesciamento” della dialettica, su cui ha tanto insistito il materialismo scolastico e dogmatico e che scaturisce dall’interpretazione della “sinistra hegeliana”. L’altro tema, che ci preme mettere in risalto, è rappresentato dall’individuazione nel pensiero di Marx di un forte impegno etico, che si concreta nel Principio Morale di Base così definibile “la vita deve produrre vita”, che questo autore seminale impiega per indagare la società capitalistica e per delineare al contempo i tratti della futura società comunista. 


Nato a Roma nel 1939 e laureatosi in Filosofia alla Sapien­za della stessa città, Stefano Garroni è stato un brillante anima­tore del dibattito marxista sia italiano che internazionale. Ha lavorato per alcuni anni in qualità di assistente per la cattedra di Filosofia teoretica sempre alla Sapienza, per poi diventare ricercatore nel 1973 del Consiglio nazionale delle ricerche. Collaboratore della prestigiosa rivista cubana “Marx ahora”, diretta da Isabel Monal, è autore di numerose opere, in cui ha cercato di coniu­gare con grande rigore filosofia, etica e politica. Ricordiamo in particolare quegli scritti che ha dedicato all'approfondimento del pensiero di Freud come “Su Freud e la morale” (Roma 1983), “Sul perturbante” (Roma 1984), “Quaderni freudiani” (Napoli 1988).
Negli anni ’90 ha collaborato con l’Istituto italiano di Studi filosofici di Napoli e con la Casa Editrice Kappa, con cui ha pubblicato “Tra Cartesio e Hume” (1991) e “Tracciati dialettici: note di politica e di cultura” (1994). Ha tradotto alcune opere del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz e ha curato sia la pubblicazione di alcuni classici della filosofia e del marxismo, come il “Manifesto del partito comunista” di Marx e Engels (Laboratorio politico, Napoli 1994). La sua collaborazione con le Edizioni La Città del Sole inizia con la cura dell’opera collettanea “Engels cento anni dopo” (1995) e prosegue fino alla sua scomparsa. A questi anni appartengono anche “Su marxismo e stagnazione” (1994) e “Dialettica e differenza” (1997). L’ultima opera filosofica pubblicata da Stefano Garroni è “Letture marxiste di Hegel” (2013), in cui ripropone la cruciale riflessione sulla dialettica, tema al centro del suo interesse sia teorico che morale. Infine, tra le sue ultime attività ricordiamo il lavoro del Collettivo di formazione marxista, con cui ha curato la pubblicazione di libri di informazione politica e di divulgazione culturale, come per esempio “Finché c’è guerra c’è speranza” (2001), “Riproposte dialettiche” (2009), “Ricerche marxiste” (2012) e “Ripensare Marx” (2014). 
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       NOTA DELL’EDITORE

Stefano aveva voluto affidarmi questo testo, pur se, trattandosi di una prima stesura, ancora bisognosa di cure. Ne parlammo più volte, ma volle ugualmente che io lo custodissi.
Non so – e non ha senso parlarne – se in questa inusitata e ostinata decisione di affidarmi queste sue più recenti riflessioni ci fosse un qualche sentore o presagio del peggio. Sta di fatto che la sua scomparsa ha fatto di questo affidamento una sorta di legato testamentario al compagno ed amico editore per la pubblicazione.
Grazie all’impegno sollecito e discreto della sua compagna e moglie, Alessandra Ciattini, che ha curato il testo, oggi questo ultimo lavoro di Stefano va in stampa.
Esso conclude un sodalizio e una collaborazione – non soltanto editoriali – di molti anni nel comune percorso.
Affidiamo questo libro agli estimatori di Stefano e a tutti i lettori ancora o nuovamente interessati agli arricchimenti del pensiero critico materialistico e dialettico, soprattutto ai più giovani alla cui formazione Stefano fu sempre attento.
Non soltanto, dunque, un affettuoso ricordo del compagno e amico, ma un “testimone” che induca altri a proseguire quello stesso percorso, con altrettanto coerente impegno scientifico e politico.

             Ciao, Stefano. Grazie.
                                                 Sergio Manes 

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Indice 


Nota dell’editore
                                                                                                                                             













giovedì 29 ottobre 2015

La nostra forma di vita - Italo Testa

 La teoria del riconoscimento è  una particolare ricostruzione e variazione moderna della tesi dell'uomo come animale naturalmente sociale (Aristotele, Hegel, Marx). Il riconoscimento reciproco è qui inteso come il meccanismo attraverso il quale si costituisce la natura sociale dell'uomo sia come individuo sia come specie.

La teoria del riconoscimento è un bipode, che poggia da un lato su una ricostruzione fenomenologica e da un lato su una descrizione funzionale, in sospeso tra fenomenologia e biologia della forma di vita dell'essere umano. Riconoscere, già al mero livello biologico, non è solo identificare, ma anche attribuire un valore (ad esempio, attribuire ad un oggetto il valore di essere appetibile o meno...). Nessuno dei due lati del bipode sta al di fuori di un senso della naturalità (da un lato stanno le funzioni attraverso cui si riproduce la nostra natura biologica; dall'altro il modo in cui appare a noi stessi la nostra natura umana).

Il riconoscimento è in qualche modo legato alla nostra prima natura (si noti che la nozione di prima natura può essere diversamente caratterizzata: natura originaria, natura con cui siamo creati, natura con cui veniamo al mondo, natura innata, natura fisico-biologica. Per essa si intende in ogni caso qualcosa di dato e non acquisito). Secondo una caratterizzazione fisico-biologica del riconoscimento naturale, la prima natura riconoscitiva andrà allora intesa come quell'insieme di funzioni che supponiamo essere  la base biologica dei meccanismi di riconoscimento che coordinano l'interazione tra gli animali umani.

La tesi per cui la struttura della personhood (dell'essere persona) è costituita riconoscitivamente - la tesi, propria del modello hegeliano della teoria del riconoscimento, per cui l'autocoscienza personale teorica e pratica si costituirebbero tramite il meccanismo del riconoscimento reciproco - significa non solo che la personhood presuppone concettualmente il riconoscimento, ma anche che i meccanismi riconoscitivi sono all'opera prima e indipendentemente della costituzione della personhood.

La dimensione subpersonale del riconoscimento naturale può essere descritta anche da altre prospettive e non dipende unicamente da una caratterizzazione biologico-funzionale della prima natura. (Una di tal prospettive, come vedremo, è la teoria dell'abitudine: un'altra è la teoria del background;  un'altra ancora è la teoria dell'io fungente e anonimo; un'altra ancora è la teoria del riconoscimento come potere anonimo e diffuso). 

VIAGGIO NELLA CRISI - Rita Bedon


 Iniziamo con questo articolo un serie dedicata alla crisi, al suo sviluppo, e ai suoi aspetti concreti. La fase attuale del capitalismo, quella che chiamiamo fase dell’imperialismo transnazionale, nome complicato ma che spiega bene il concetto di una produzione che ormai avviene mediante filiere che attraversano gli stati, è il prodotto (dialettico) del tentativo da parte del capitale di superare la sua ultima crisi da eccesso di sovrapproduzione iniziata negli ’60. Il capitale nel cercare di superare la sua crisi si è concentrato e centralizzato (ha fatto anche tante altre belle cosette) creando veri e propri giganti che si contendono il mercato mondiale, guerreggiando sia per la ripartirsi le risorse del pianeta che per spartirsi i profitti dello sfruttamento - sempre più intensivo - dei lavoratori. Il viaggio che faremo partirà dunque proprio dalla crisi cercando di coglierne in maniera sintetica le sue caratteristiche principali da un punto di vista si teorico che concreto per poi arrivare a definire gli elementi cruciali della fase attuale.

 In questo primo breve scritto svolgeremo una introduzione teorica all'interpretazione delle crisi che si manifestano nel modo capitalistico di produzione. 

domenica 25 ottobre 2015

LENIN: LA RIFLESSIONE SUL PARTITO. UN USO DELLA DIALETTICA* - Stefano Garroni

*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed. 

 E' probabilmente vero che l'esperienza storica, a partire se non altro dalla prima guerra mondiale, ci ha costretti a rinunciare ad una rappresentazione troppo semplice della dinamica di sviluppo della coscienza umana.

 Non solo sollecitandoci a veder meglio le differenze tra i suoi livelli (teorico, culturale e ideologico); ma anche - riguardo al suo livello più largamente diffuso (cioè l'ideologico) - mettendone in evidenza una dinamica del tutto particolare.

 La coscienza ideologica, infatti, sembra disponibile a compiere improvvisi, rapidi balzi "in avanti" (verso l'acquisizione di una consapevolezza realistica ed oggettiva) ma, anche, ad arresti inerziali e perfino a "ritorni indietro", almeno tanto profondi quanto possono esserlo stati i precedenti balzi in avanti. Ed è anche notevole che questo tormentato dinamismo sembra accompagnarsi ad una staticità fondamentale, nel senso che tutti i movimenti indicati sembrano svolgersi, comunque, all'interno di certi schemi fondamentali, costantemente riproposti. Un ulteriore paradosso (che può indurre, finalmente, a qualche ottimismo) è che nonostante una sostanziale ripetitività, sembra possibile affermare che, in qualche modo, l'ideologia non resta immune dall'esperienza storica: si direbbe, insomma, che le grandi svolte storiche riescano, comunque, a lasciar tracce anche sulla coscienza ideologica.

 Come dicevo è probabile che ad una rappresentazione così complessa della coscienza e dell'ideologia in particolare, si sia giunti per tappe, ovviamente drammaticissime - le guerre mondiali, il nazi-fascismo, le contraddizioni drammatiche ed il crollo, in fine, del mondo socialista.

 Naturalmente ciò non significa che tale processo di assunzione di consapevolezza si sia svolto linearmente - passando ordinatamente, questo voglio dire, da una tappa a quella successiva, e così via; né significa che il problema si sia posto sempre con la stessa intensità.

 Sembra vero, però, che nella riflessione sul Partito, di cui abbiamo tentato un disegno, esplicitamente o implicitamente, un ruolo di grosso rilievo lo giochi proprio il modo, in cui ci si rappresenta la dinamica della coscienza e della coscienza ideologica particolarmente. Già quel poco che sappiamo a proposito della riflessione di Lenin e della Luxemburg (ma anche dei comunisti di "sinistra") ci fa comprendere facilmente che, al contrario di Lenin, nella Luxemburg e negli altri l'evoluzionismo secondo-internazionalista si mantiene, forse, proprio nell'ottimistica convinzione che sulla base dell'esperienza politica e sociale - per quanto a tentoni e per prove ed errori - tuttavia la coscienza proletaria conosca un sostanzialmente continuo ritmo progrediente.

 Lenin appare, invece, assai meno convinto di questa "necessità" ed anche a tale scetticismo sembra legittimo ricondurre la sua enfatizzazione del ruolo del Partito.

 D'altronde, il marxista Lenin non poteva che esser consapevole del necessario protagonismo delle masse, se l'obiettivo era l'abbattimento del capitalismo e la costruzione del socialismo. Di qui, un problema, a cui abbiamo accennato in precedenza lasciandolo, però, senza ulteriore analisi: quali possono essere veramente e come possono sul serio funzionare organi di mediazione fra il Partito (ovvero il livello più elevato di coscienza) e le masse (necessariamente egemonizzate dal livello ideologico della coscienza)?

 E' anche qui che si pone la questione dei soviet...  

venerdì 23 ottobre 2015

Salario sociale reale - Gianfranco Pala

"Il salario non è una partecipazione dell'operaio alla merce da lui prodotta"

osservò senza esitazioni Marx; precisando che ciò che caratterizza il salario è dunque questo: quello che il lavoratore produce per sé non è la seta, l'oro, i palazzi, o le macchine, risultato del suo processo di lavoro, ma è il salario.

Ciononostante, dopo un secolo e mezzo si è costretti ancora ad assistere al trionfo dell'ideologia della partecipazione - in nome della cosiddetta qualità totale, della solidarietà, e di altre fandonie.

"Tutto questo ameno ragionamento - commenta Marx - si riduce a ciò: se i lavoratori possedessero a sufficienza lavoro accumulato, ossia il capitale per non essere costretti a vivere direttamente della vendita del loro lavoro, la forma del salario sparirebbe: cioè, se tutti i lavoratori divenissero capitalisti, ossia se anche il capitale potesse mantenersi senza il suo opposto, il lavoro salariato, senza il quale però esso non può esistere. Nondimeno, questa affermazione è da ricordare. Il salario non è una forma accidentale della produzione borghese, ma tutta la produzione borghese è una forma storica transitoria della produzione. Tutte le sue caratteristiche, il capitale come salario, la rendita, ecc., sono transitorie e suscettibili di essere soppresse a un certo punto dell'evoluzione". 

Dunque, quella forma - in quanto "forma" - risponde adeguatamente al contenuto del rapporto di capitale. Facendo così giustizia dello pseudo-criterio della partecipazione del lavoratore al risultato dell'impresa, la forma di salario rimane il perno del rapporto di lavoro col capitale: ed è precisamente questo il concetto da chiarire.

Prigionieri in un triangolo delle competenze* - Jacques Bidet

*manifesto 22.10.2015 


I grandi dibat­titi sulla società hanno sem­pre posto al cen­tro la rela­zione tra mer­cato e orga­niz­za­zione, fra que­sti due modi di coor­di­na­zione razio­nale dell’azione sociale. Marx indaga il capi­ta­li­smo in ter­mini di strut­tura, come stru­men­ta­liz­za­zione del mer­cato, della razio­na­lità mer­can­tile, avve­nuta attra­verso la mer­ci­fi­ca­zione della forza-lavoro. Ma è in ter­mini di ten­denza sto­rica di que­sta strut­tura con­cor­ren­ziale che egli giunge all’organizzazione, trat­tata a par­tire dallo svi­luppo della grande impresa. Egli inter­preta l’organizzazione come un altro tipo di razio­na­lità, oggi nelle mani dei capi­ta­li­sti, ma che finirà per sfug­gire loro e che for­nirà, quando la pro­prietà pri­vata e il mer­cato saranno abo­liti, il tes­suto stesso del socia­li­smo. È que­sto il nucleo duro del grande mito eman­ci­pa­tore del XX secolo.

Oggi ne misu­riamo i limiti. La rifles­sione cri­tica ha del resto preso mol­te­plici forme. Per parte mia, io pro­pongo di ripren­dere, di cor­reg­gere e di allar­gare il pro­ce­di­mento di Marx a par­tire dal suo «comin­cia­mento». La società moderna si carat­te­rizza per il suo rife­ri­mento alla ragione. Ma que­sta non è che la sua meta­strut­tura, che non è posta, come pre­tesa pre­sun­ta­mente con­di­visa di libertà-eguaglianza-razionalità, che nelle con­di­zioni della strut­tura di classe, che a sua volta la presuppone. 

mercoledì 21 ottobre 2015

Il salario nelle crisi: Modigliani e l’inizio della fine del Pci*



 Il dibattito economico odierno sulle possibili soluzioni per uscire dalla crisi si concentra sull’utilità o meno di una riduzione dei salari. Sebbene si citi spesso la frase di Marx (per cui la storia si ripete come farsa), in questo caso la farsa è che questo dibattito si ripeta ancora nel nostro paese. Infatti, durante la crisi degli anni ’70, lo stesso dibattito ebbe luogo proprio in Italia, e vide confrontarsi il futuro premio Nobel Franco Modigliani ed economisti eterodossi, molti vicini al Partito Comunista Italiano. Proprio il dibattito sul livello del salario nella crisi è un indicatore importante per misurare l’orientamento delle varie posizioni politiche e il loro cambiamento reale.

 Modigliani: la riduzione del salario reale e il compito dei sindacati

 Gli anni ’70 furono attraversati da diversi fenomeni economici. Da una parte si concluse il ciclo di lotte cominciano nei decenni precedenti, con la conquista di molti diritti, tra cui lo Statuto dei Lavoratori e la scala mobile per i salari. Dall’altro l’Italia, come le altre economie capitaliste fu colpita da una crisi di stagflazione, che univa quindi alla crisi della produzione un’impennata dell’inflazione.

 Per uscire dalla crisi era necessario, secondo Modigliani, una riduzione del salario reale, che sarebbe dovuta passare attraverso la modifica o la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione (conosciuto appunto come scala mobile). La tesi di Modigliani era che questo meccanismo, di cui a prima vista beneficiavano i lavoratori, andava in realtà contro i loro stessi interessi collettivi. La scala mobile infatti conduceva, a suo dire, a un aumento del salario reale ( a causa dell’impossibilità per gli imprenditori di scaricare tutto l’aumento salariale sui prezzi) determinando così un peggioramento della bilancia commerciale italiana (le importazioni sarebbero aumentate, mentre le esportazioni sarebbero diminuite). Inoltre l’occupazione sarebbe calata. In definitiva, secondo Modigliani, il meccanismo della scala mobile tutelava i lavoratori attivi a discapito dei disoccupati. Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei loro sindacati, cancellare la scala mobile e accettare un livello salariale più basso, che fosse compatibile con la piena occupazione. Inoltre la riduzione del costo del lavoro avrebbe fermato l’inflazione.

 In sostanza i lavoratori ci avrebbero guadagnato rispetto alla situazione che stavano vivendo: mentre la scala mobile generava inflazione e disoccupazione (tutelando solo una parte della forza lavoro), con le sue proposte si sarebbe sconfitta l’inflazione e si sarebbe ottenuta la piena occupazione. A fronte di un sacrificio momentaneo, si sarebbero quindi potuti ottenere benefici successivi.

martedì 20 ottobre 2015

La difficile unificazione politica del Mediterraneo dall'età classica ai nostri giorni - Luciano Canfora

FILOSOFIA O IDEOLOGIA? - Renato Caputo

 La filosofia, favorendo lo sviluppo di un sapere critico e di una visione del mondo scientifica, è stata sempre considerata con sospetto dai ceti sociali dominanti. Inoltre, ponendo la questione della verità come un compito collettivo, da realizzare attraverso un costante dialogo fra diversi, essa non può che essere avversata da chi auspica soluzioni autoritarie fondate sul diritto del più forte, la legge di natura quale legge della giungla. Un modo di pensare che parte dal sapere di non sapere non può che essere combattuto da ogni forma di fondamentalismo, di totalitarismo, di fanatismo.

 D’altra parte, essendo fondata sull’amore per la verità, la filosofia non può che, ancora, essere avversata da chi, per mantenere i propri privilegi, deve mantenerla celata, dal momento che la verità è rivoluzionaria. Il pensiero filosofico, come riconosceva lo stesso Benedetto Croce, è un sapere in sé e per sé democratico, in quanto si fonda sulla ragione quale caratteristica peculiare del genere umano, di cui ogni uomo è almeno potenzialmente portatore. Quindi non solo essa offre a ognuno la possibilità di uscire dallo stato di minorità, quale “incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”, per dirla con Kant, ma è presente in sé in ogni uomo, in quanto tale potenzialmente filosofo. In tal modo essa è animata da uno spirito radicalmente egualitario, tanto che i suoi più acerrimi nemici - quali Nietzsche - imputano al suo fondatore, Socrate, di essere il primo responsabile della rivolta degli schiavi e accusano il fondatore della filosofia moderna, Cartesio, di essere il nonno della rivoluzione.

lunedì 19 ottobre 2015

Immanuel Kant "La conoscenza" - Brandt, Düsing, Henrich, Hösle







Immanuel Kant - La conoscenza. prima parte: https://www.youtube.com/watch?v=X-Dl-6CVaLc 




Immanuel Kant - La conoscenza. seconda parte: https://www.youtube.com/watch?v=ExjTTwOFEuA 




regia di Maria Teresa de Vito.

Marx e la critica del liberalismo - Stefano Petrucciani

 Il vero punto cieco del liberalismo, il suo presupposto apparentemente ovvio ma in realtà questionabile, è l’idea che le regole sociali, i principi regolativi di base della convivenza civile, debbano avere come loro obiettivo primario se non unico quello di assicurare interazioni ordinate tra estranei potenzialmente nocivi l’uno all’altro. E che invece non debbano avere come loro scopo primario quello di garantire nel modo migliore la soddisfazione dei bisogni vitali e l’acquisizione del maggior benessere possibile per tutti. Il vero punto di fondo, che Marx non riesce a cogliere in modo esplicito, ma che la sua critica in qualche modo illumina, è che il pensiero liberale occulta quello che, anche per la filosofia politica antica, è sempre stato l’aspetto fondamentale della relazione sociale, e cioè che gli uomini stanno insieme per godere di una vita migliore e più agiata.

 Il punto fondamentale, a mio avviso, sta esattamente qui: il liberalismo politico borghese-moderno, rompendo con una tradizione bimillenaria, non pensa più la società come una cooperazione lavorativa per la migliore soddisfazione di ciascuno, ma, al contrario, la tematizza come una relazione tra estranei potenzialmente nocivi, che non nasce dal problema di soddisfare le necessità vitali di ciascuno, ma da quello di garantirgli l’ordinato godimento dei suoi beni dopo che egli ha provveduto da solo a procurarseli. Per questo aspetto, il nocciolo razionale non immediatamente visibile della critica marxiana può essere così riassunto: il pensiero liberale e neoliberale non è in grado di esibire nessuna buona ragione a sostegno del suo assunto fondamentale, e cioè che lo Stato e la politica abbiano come primo compito quello di garantire la sicurezza, la proprietà e le transazioni di mercato, e non invece quello di operare per assicurare a ciascun individuo condizioni di benessere e di sviluppo umano.

 Marx riflette sulle modalità della cooperazione sociale e, a partire da lì, sulla questione del feticismo delle merci. Nella società mercantile la dipendenza di ciascuno dalla cooperazione lavorativa con tutti gli altri viene occultata dal fatto che gli attori economici agiscono ognuno per conto proprio e senza un piano. La dipendenza reciproca si occulta dietro l’indipendenza apparente, che in realtà non è indipendenza ma dipendenza in una forma non consapevole, non programmata e mediata dal denaro. Ma questa è esattamente la prospettiva nella quale si colloca il liberalismo, quando considera l’associazione politica come un rapporto che nasce da individui originariamente indipendenti, e il cui bisogno di legarsi reciprocamente sotto norme comuni è motivato solo dalla necessità di conseguire la sicurezza fisica (Hobbes) o la tutela della propria persona e dei propri averi (Locke).

 perché chi ragiona in termini di società mercantile vede solo ciò che accade nella sfera della circolazione (dove regnano “Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham”) e non vede ciò che accade nel regno della produzione, dove vige invece il dominio del capitale sul lavoro.

 L’idea della società di mercato, che caratterizza la tradizione liberale e che rappresenta oggi il sogno o l’utopia del neoliberismo, è una rappresentazione immaginaria (e naturalmente anche apologetica) perché le relazioni di mercato non sono autosussistenti, non bastano a se stesse, ma possono sussistere solo in quanto si inscrivono e sono supportate a monte e a valle da forme di coordinazione sociale non mercantile, come ad esempio la fornitura di beni pubblici (quali ad esempio strade, infrastrutture, mantenimento di un ambiente salubre) da parte dello Stato o lo scambio di “servizi” alle persone nell’ambito delle relazioni familiari, amicali e affettive.

 la società di mercato che il (neo)liberalismo vagheggia è, oltre che indesiderabile, illusoria, perché – e questo è un punto che neppure Marx vede adeguatamente – la soddisfazione dei bisogni sociali, anche e soprattutto nella tarda modernità, passa in larghissima parte per ciò che mercato non è, ovvero da un lato per lo Stato e dall’altro per i legami familiari o di solidarietà. Perciò la pretesa della mercatizzazione integrale distrugge (paradossalmente) le basi sociali che rendono possibile il mercato stesso. 

domenica 18 ottobre 2015

Psicologia delle Folle (1895, terza parte, conclusione) - Gustav Le Bon


PARTE TERZA


CAPITOLO I
Classificazione delle folle.

1.° Le folle eterogenee - Come si differenziano - Influenza della razza --- L'anima delle folle 'é
tanto più debole quanto é più forte l'anima della razza - L'anima della razza rappresenta lo
stato di civiltà e, l'anima della folla lo stato di barbarie - 2.° Le folle omogenee - Divisione
delle folle omogenee - Le sette, le caste, le classi.

Abbiamo veduto quali sono i caratteri generali comuni alle folle. Ci resta da studiare i
caratteri particolari sovrapposti a questi caratteri generali, secondo le diverse categorie delle
collettività. Anzitutto facciamo una breve classificazione delle folle.
Il nostro punto di partenza sarà la semplice moltitudine. Essa raggiunge la sua forma più
bassa quando è composta da individui appartenenti a razze diverse. Il suo unico legame è la
volontà, più o meno forte, del capo. Come esempio di tali moltitudini, si possono dare i
barbari di origini diverse, che per parecchi secoli invasero l'impero romano.
Al di sopra di queste moltitudini senza coesione, stanno quelle che, sotto l'azione di certi
fattori hanno acquistato caratteri comuni e hanno finito col formare una razza. Esse
presentano le caratteristiche speciali delle folle, ma sempre insieme a quelle della razza. Le
diverse categorie delle folle che si possono osservare in ogni popolo possono dividersi così

A. - FOLLE ETEROGENEE
1° Anonime (Folle delle vie, per esempio).
2° Non anonime (Giurie, assemblee parlamentari, ecc.).

B.- FOLLE OMOGENEE
1° Sette (Sette politiche, sette religiose, ecc.). B. –
2° Caste (Casta militare, casta sacerdotale, casta operaia, ecc.).
3° Classi (Classe borghese, classe contadina, classe operaia, ecc.).

Ora indicheremo con poche parole i caratteri che differenziano le diverse categorie delle folle.

FREUD TRA SCIENZA ED ETICA* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 

"Ogni virtù, secondo Aristotele, è posta tra due vizi, uno dei quali è la mancanza, e l'altro l'eccesso; essa non è, in un certo modo, se non una delle nostre inclinazioni naturali, alla quale la nostra ragione ci proibisce e di resistere troppo e di obbedire troppo" (Condorcet) 


 L'Es, tra le province o istanze psichiche, è la più primitiva. Il suo contenuto è dato da tutto ciò che è ereditario, che compare con la nascita stessa e che è fissato costituzionalmente. Insomma, prima di tutto, è circoscritto dalle pulsioni (Triebe), che derivano dalla costituzione somatica. Per tutta la vita, questo livello primitivo resta il più importante: è ad esso, quindi, che si volge in modo particolare la ricerca psicoanalitica.

 L'Io punta a conquistarsi il dominio sulle spinte pulsionali, avocando a sé la decisione di soddisfarle, subito o nel tempo, orientandosi in base alla valutazione delle circostanze obiettive ma, anche, ispirandosi alla regola di evitar dolore e ricercar piacere - laddove, più è alto il livello di spinta pulsionale, meno è piacevole la sensazione. 

 L'Io, come sappiamo, è sottoposto a sollecitazioni, che sono contrastanti - quando non addirittura contraddittorie - in diversi sensi: perché le spinte pulsionali, che vengono dall'Es né si curano di definirsi, né di rendersi reciprocamente compatibili; perché, parzialmente, costituiscono gli imperativi e i divieti del Super-io ed, infine, perché vi sono sollecitazioni, che provengono da tutt'altro "luogo", dalla realtà esterna. L'Io è chiamato ad orientarsi in questo insieme intricato, a manipolarlo per poterlo controllare ed, infine, a (realisticamente) conciliarlo (versohnen, appunto). Se vi riesce, la sua azione è corretta. 

 L'ottica di Freud può comprendere concetti quale "equilibrio", "misura", "conciliazione" ed il loro opposto (l'Es, la spinta pulsionale, ecc.), perché è costruita sulla giustapposizione, sullo scontro fra ordine e disordine, organizzazione e mancanza d'organizzazione. E ciò nel senso che lo spazio ritagliatosi dalla psicoanalisi è quello di una problematica centralissima per l'etica (almeno per una certa tradizione etica), che viene ri-presentata, ma su un altro terreno: quello delle istanze psichiche e dei loro drammatici rapporti. 

venerdì 16 ottobre 2015

Orario e condizioni di lavoro: due facce della stessa medaglia - Riccardo Bellofiore

Riccardo Bellofiore è professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo. 


 Recentemente, su queste colonne ha avuto luogo una discussione tra Giovanni Mazzetti e Ernesto Screpanti in merito alla possibilità, alle forme e alle prospettive di una riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. La questione andrebbe affrontata,certamente, attraverso il vaglio di una indagine disincantata della natura attuale del processo di accumulazione capitalistico; come anche attraverso una valutazione realistica dei limiti della politica economica nell'intervenire dall'alto sui termini del conflitto di classe. Spero di poterlo fare in futuro,se me ne sarà data l'opportunità. Adesso, preferisco invece prenderla per così dire più alla lontana, trattando l'argomento della riduzione dell'orario di lavoro sul terreno apparentemente più generico, ma forse ricco di qualche insegnamento, delle fondazioni concettuali, con l'aiuto di due testi che mi è capitato di (ri)leggere in questi giorni, uno di Guido Calogero, l'altro di Claudio Napoleoni: grandi maestri, l'uno filosofo l'altro economista, che ci propongono due modi di affrontare il tema non poco diversi, e però entrambi attuali.

 Lo scritto di Calogero è il testo di una conferenza tenuta nel 1955 intitolata"Lavoro e giuoco nella civiltà di domani" (la si può leggere in Scuola sotto inchiesta, Einaudi).Calogero definisce lavoro "ogni attività che svolgo per ritrarne una remunerazione, e che cesserei di svolgere se tale remunerazione non mi fosse più corrisposta ... l'attività produttiva di beni economici, i quali quando vengono scambiati diventano merci". Il lavoro salariato, insomma, come paradigma del lavoro in generale. Giuoco è invece "ogni altra attività,non determinata dall'intento di un vantaggio economico perché o la svolgo senza ritrarne alcun guadagno, o la svolgerei egualmente anche se guadagno non ne ritraessi": una definizione che ha una qualche parentela, per esempio, coni 'lavori concreti' di cui parla Giorgio Lunghini, o l' 'economia sociale' (il'terzo settore') di cui parla Marco Revelli.

giovedì 15 ottobre 2015

LA CADUTA TENDENZIALE DEL TASSO MEDIO DEL PROFITTO (e sue controtendenze)* - Guglielmo Carchedi

*Recenti dibattiti teorici su Marx nel mondo anglosassone: una introduzione, Karl Marx 2013 (Il Ponte) a cura di Roberto Fineschi, Tommaso Redolfi Riva e Giovanni Sgrò.

Per Marx, il lavoro astratto è “l’erogazione della forza lavoro umana in astratto” (Marx, 1967a, p. 200). Esso è l’erogazione di energia umana indipendentemente da, e cioè astraendo da, le forme specifiche che esso prende (il lavoro specifico, o concreto, secondo la terminologia di Marx). Esso è la sostanza del valore. invece il lavoro concreto crea “il carattere specifico” delle merci e “le trasforma in concreti valori d’uso distinti da altri” valori d’uso. (Marx, 1967b, p.92). Siccome il lavoro è sempre e allo stesso tempo sia astratto che concreto, il valore delle merci è contenuto nei loro valori d’uso. Il valore quindi è generato durante la produzione delle merci nella loro specificità, e quindi prima del loro scambio (compra/vendita) sul mercato.

Se il lavoro astratto è comune a tutte le società, è solo nel capitalismo che esso acquisisce una rilevanza sociale perché esso crea il valore contenuto nelle merci prodotte sotto relazioni di produzione capitaliste e quindi serve per misurarne il valore come suo tempo di erogazione. Esso è quindi sia materiale che sociale. Il “valore delle merci è una realtà puramente sociale” perché è una realtà solo nel capitalismo ma “le merci acquisiscono tale realtà solo nella misura in cui esse sono l’espressione, perché incorporano, una identica sostanza sociale, cioè il lavoro umano” (Marx, 1967a, p.47, enfasi mia, G.C.). Questa identica sostanza sociale è una sostanza materiale                                             che diventa socialmente rilevante solo nel capitalismo.

Per Marx, i lavoratori sono i protagonisti perché il loro lavoro, sotto coercizione, produce sia i valori d’uso  delle merci che il valore in essi contenuto.

Sia c il capitale investito in mezzi di produzione in senso lato e v il capitale investito in forza lavoro. Marx chiama il primo capitale costante e il secondo capitale varabile. Avendo investito c e v, il capitalista fa produrre dai suoi lavoratori una merce che incorpora un plusvalore (un valore al di sopra di c e v) uguale a s. Il valore contenuto (V) è quindi V=c+v+s. Se la merce si vende a un prezzo, (P) uguale a V, cioè se essa realizza il valore incorporato in essa, il suo prezzo è uguale al suo valore (P=V). Questo è il caso più semplice di trasformazione di valori in prezzi. Tuttavia, la diatriba riguarda il caso (che è la regola) in cui il valore realizzato (prezzo) non è uguale al valore incorporato. L’assunto fondamentale è che solo il lavoro produce valore e quindi plusvalore. In tal caso, ceteris paribus i vari capitali producono plusvalore in quantità differenti e cioè secondo il capitale variabile investito. Se ragioniamo in termini percentuali, più alta è la percentuale di capitale constante, più bassa è quella del capitale variabile, minore è il lavoro impiegato e quindi minore è il (plus)valore generato. Marx chiama il rapporto c/v la composizione organica del capitale. In breve, tanto più alta è la composizione organica, tanto più basso è il plusvalore generato che a questo livello di astrazione possiamo ipotizzare sia uguale al profitto. Il tasso di profitto generato da ciascun capitale è s/(c+v). Percentualmente, tanto maggiore è la composizione organica, tanto minore è il plusvalore generato e tanto minore è il tasso di profitto.

La competizione tecnologica riduce percentualmente la forza lavoro e aumenta la proporzione dei mezzi di produzione. Dato che solo il lavoro genera valore, il TMP (Tasso medio del Profitto) cade. Tuttavia, gli innovatori, producono più output (valori d’uso, nella terminologia di Marx). Essi, potendo vendere un numero maggiore di prodotti allo stesso prezzo dei concorrenti ad altri settori, si appropriano attraverso il sistema dei prezzi del plusvalore di chi non ha innovato. Aggiungiamo ora che questa è la tendenza. Essa, si manifesta nonostante le controtendenze che ne ritardano il manifestarsi ma che non possono ritardala indefinitivamente.

Se i mezzi di produzione aumentano relativamente alla forza lavoro mentre il TMP (e quindi il plusvalore relativamente al capitale investito) cade, i primi non possono produrre plusvalore. Ma allora non possono produrre neanche valore. Dato che ci sono solo due fattori di produzione, i mezzi di produzione e il lavoro, è il lavoro e solo il lavoro che produce valore e plusvalore. La legge del valore è empiricamente supportata.

Consideriamo ora l’aumento del tasso di sfruttamento. Tra il 1987 e il 2009, nonostante la crescita della composizione organica, il TMP aumenta a causa dell’aumentato tasso di sfruttamento, cioè che la controtendenza sopraffa la tendenza.
Per stabilire se l’aumento del tasso di sfruttamento sia veramente una controtendenza che frena l’aumento della composizione organica e quindi la caduta del TMP, ho calcolato quale sarebbe stato il TMP nell’assenza di un incremento del tasso di sfruttamento. Più precisamente, ho calcolato il tasso medio di sfruttamento. Questa procedura mostra quale sarebbe stato il TMP nel periodo 1987-2009 se il tasso di sfruttamento non fosse aumentato al di sopra della media di tutto il periodo precedente e quindi isola il corso del TMP dall’aumento dello sfruttamento nel periodo 1987-2009. Il grafico 4 evidenzia che il TMP sarebbe caduto drammaticamente. Quindi, il TMP è cresciuto perché il tasso di sfruttamento è cresciuto di più di quanto non sia cresciuta la composizione organica, perché la controtendenza ha sopraffatto la tendenza. Nel 2006 il TMP era del 14% ma sarebbe stato del 8% senza l’aumento del tasso di sfruttamento.

La causa dell’aumento del TMP dal 1987 è stato un salto senza precedenti nel tasso di sfruttamento. Ciò indica la grandezza della sconfitta della classe lavoratrice nell’era neo-liberale. La triste peculiarità è che la classe lavoratrice non è stata ancora in grado di risollevarsi ed esigere una fetta maggiore del nuovo valore prodotto da essa stessa. L’attacco continua.

mercoledì 14 ottobre 2015

LA SCRITTURA - Carlo Sini

Da: Società.filosofica.italiana.Bergamo - Carlo Sini è un filosofo italiano.- CarloSiniNoema 


       Sul tema della scrittura.

       Sulla centralità dell'alfabeto greco come forma logica del pensiero occidentale e sui suoi pericoli.

                                                                               


lunedì 12 ottobre 2015

La rivoluzione delle donne


   Non c’è liberazione della donna se non in una società socialista: questo è il senso che diamo alla lotta delle donne. Comuniste dunque, anche in quanto donne, per realizzare quella liberazione che dentro la società della divisione del lavoro e della divisione in classi non può realizzarsi. E questa è la ragione per cui le donne comuniste non si pongono solamente come antagoniste all’esistente: lottano contro, certo, contro lo sfruttamento, contro il patriarcato, contro la violenza, contro la collocazione in ben precisi ruoli sociali e culturali…, ma lottano anche per “abolire lo stato di cose presenti” e per costruire un mondo nuovo, di liberi ed uguali: un mondo socialista. La condizione delle donne è - al pari di quella degli uomini - il prodotto di relazioni sociali che si sono affermate storicamente e che si modificano con il modificarsi delle diverse forme economiche e politiche.
   Dunque, anche il ruolo della donna (se così vogliamo definirlo, perché è evidente che questo ruolo non è lo stesso per le donne lavoratrici e per le donne della classe dominante) è un prodotto storico-sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo attraverso la trasformazione della società che determina questi ruoli. Questo vuol dire che quando si tenta di analizzare la posizione della donna nella società in cui viviamo non si può fare a meno di partire dall’analisi della natura di questa società dunque, nel nostro caso, una società capitalista che si fonda essenzialmente sulla divisione in classi e sullo sfruttamento del lavoro di una classe da parte di un’altra classe. In altri termini, non possiamo non tenere conto che esiste una classe - fatta di uomini e di donne - che viene sfruttata e che ne esiste un’altra - anch’essa composta da uomini e da donne - che sfrutta, domina e accumula profitto sulle spalle dell’altra. Questo è per noi l’elemento centrale da cui partire, perché siamo convinti che la contraddizione tra i sessi si collochi all’interno di un’altra contraddizione fondamentale che è quella tra lavoratori salariati e capitalisti.

   Dopo la Rivoluzione di Ottobre – avvenuta nel 1917 – le donne russe ottennero conquiste che le donne del resto del mondo avrebbero ottenuto solo molti anni dopo: per esempio, la prima donna ministra al mondo fu Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione, mentre in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947, dopo la Resistenza; in Russia le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo attendere gli anni ’70-’80.

   Prendiamo la situazione della donna rispetto al mondo del lavoro. Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore gli effetti della crisi economica del capitalismo. Gli attacchi durissimi portati alle conquiste sociali ed economiche del mondo del lavoro hanno avuto conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle donne. Il processo generale di ristrutturazione e di precarizzazione del lavoro che è stato portato avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, qualunque fosse il loro segno politico, ha prodotto l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà del lavoro, portando con sé lo smantellamento di diritti che i lavoratori e le lavoratrici avevano conquistato nelle lotte della fase precedente. Le donne (e gli immigrati, per altro verso) sono i soggetti più colpiti dal supersfruttamento attraverso contratti di lavoro “atipici”, come il lavoro interinale o i contratti part-time che molte donne chiedono non allo scopo di liberare tempo per sé stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia. Quindi: doppio sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che lavorano in casa. Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica porta con sé l’aumento della violenza sulle donne (e magari anche la diminuzione delle denunce, le due cose non sono affatto in contraddizione). 

http://www.antiper.org/pensieri/la-rivoluzione-delle-donne/238-iasp-donne-1.html                                                                               http://www.antiper.org/archive/autoproduzioni/rivoluzionedonne/opuscolo.pdf

domenica 11 ottobre 2015

MARX: INTRODUZIONE DEL 1857. SCHEMA DELL'OPERA* - Stefano Garroni

*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed.



   Se si tengono presenti, ad es., le pagine dedicate al tema <denaro> nel Per la critica dell'economia politica, e quelle dedicate, nei Grundrisse,alle <Forme precapitalistiche di produzione>, si può sostenere che Marx interpreta lo svolgersi della storia come processo di effettiva separazione di parti che, all''inizio', giacciono confuse l'una nell'altra in una totalità immediata (la forma 'asiatica' di produzione, basata su proprietà comune e possesso privato), anche se - dal punto di vista logico - sono, invece, concepibili separate  l'una dall'altra. Questo modello - dell'effettiva separazione nel Dasein di ciò, che è logicamente concepibile come separato - è rigorosamente applicato da Marx, anche nel senso che diverse sono le forme, in cui si realizza effettivamente la separazione, posto che tale diversità sia logicamente concepibile. Ecco cosa significa, veramente, la distinzione, operata da Marx, tra modo di costruzione del concreto nella mente, e modo di costruzione dello stesso nella storia. Ed ecco perché Marx critica il pensare speculativo, in quanto accusato di attenersi rigidamente ad una sola, presupposta forma di movimento dialettico.

   La polemica di Marx non è esattamente contro Hegel (che egli conosceva bene, utilizzava largamente e che rileggeva, quand'era impegnato nella stesura di Das Kapital); la sua polemica è contro un certo modo di essere hegeliano, che trovava nella cosiddetta sinistra hegeliana  - o movimento dei 'giovani hegeliani' - e che radici nel testo di Hegel doveva pur averle. Indubbiamente la polemica di Marx è contro una determinata interpretazione di Hegel, accompagnata, però, dalla consapevolezza che difficilmente una interpretazione è appieno arbitraria.

   Dunque la polemica di Marx è contro quello Hegel, che può condurre alle tesi giovani-hegeliane; contro quei lati, quelle oscurità, quelle ambiguità, presenti nel testo di Hegel e che, in qualche modo, possono concludersi con le posizioni della sinistra hegeliana.

   Senonché, questo non è tutto Hegel, né forse è lo Hegel essenziale. E', però, un certo modo, in cui Hegel ha funzionato di fatto e che, per Marx, va respinto. 

venerdì 9 ottobre 2015

Karl Marx - Il metodo dell’economia politica*

*Da Introduzione a "Per la Critica dell'Economia Politica", Capitolo 3


   Marx insiste sul momento analitico del metodo che propone. Ricordiamo che, nella Logica, Hegel deduce le categorie (determinazioni del pensare) analiticamente: appunto per via d’analisi si svolge il fondamentale processo del passaggio in altro. In questo senso, la procedura dialettica è esplicativa, fa emergere progressivamente ciò che è contenuto nel punto di partenza. Se questo è vero, non meraviglia che muoversi nella prospettiva dialettica implica, anche, la necessità di differenziare l’analiticità dialettica, appunto, da un’altra analiticità, che si limita ad esplicare formalmente, nel predicato, ciò che è contenuto nel soggetto. Dunque, l’interesse di Hegel e di Marx verso le proposizioni tautologiche consegue direttamente da caratteri essenziali della prospettiva dialettica.

    La procedura dialettica ... si completa ora mediante la sintesi. Per Hegel, l’analisi consiste nell’esposizione..., sulla sola base della necessità concettuale, di ciò che è contenuto in sé nel concetto originario, colto come totalità; quanto alla sintesi, essa è ai suoi occhi una procedura, che implica una esteriorità del ragionamento in rapporto a se stesso, l’assunzione di un’alterità reale. In questo senso il metodo dialettico, per Hegel, non è né analitico né sintetico -o, piuttosto, è contemporaneamente e l’uno e l’altro. 

   La conclusione di Marx, dunque, è che il risultato è l’effettivo punto di partenza. Esattamente come Hegel sosteneva (G.W.F. Hegel, Science de la logique...: 42s). Altrettanto chiaro è che Marx sta ricollegandosi alla critica a Feuerbach, che aveva svolto -in età giovanile- nelle Thesen über Feuerbach.

Resistenza, lotta di classe e religiosità popolare a Cuba - Alessandra Ciattini

   La nuova Costituzione del 1976 definiva la Repubblica di Cuba uno stato socialista di operai, contadini e lavoratori, alleati tra loro e guidati dalla classe operaia diretta dal Partito comunista cubano. Essa stabiliva l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di razza, sesso, origine nazionale. Sanciva la libertà di espressione, la libertà religiosa, connessa a quella di praticare il culto prescelto, e la libertà di non credere (AA.VV., 1994:294-295). 
   Ma la Costituzione del 1976, approvata con un referendum popolare da circa il 98% dei votanti, considerava anche la concezione scientifica materialistica come ideologia ufficiale dello Stato cubano. Sulla stessa linea si collocano le Tesis sobre Religión, la Iglesia y los Creyentes discusse in precedenza dal primo Congresso del Partito comunista cubano, tenutosi nel 1975, nelle quali si ribadisce il diritto a praticare qualsiasi forma di culto, purché ciò avvenga nel rispetto della legge e della morale socialiste. In tali tesi si indica come obiettivo da raggiungere l’affermazione della conoscenza scientifica libera da pregiudizi e superstizioni, e si esclude che i credenti possano far parte del partito. Questa decisione scaturì sicuramente dalla volontà di rispondere all’aggressività mostrata soprattutto dalla gerarchia cattolica nei confronti della Rivoluzione, la quale con l’abolizione delle scuole private, approvata negli anni ’60, perdeva un potente                                                                                                strumento di influenza e di penetrazione culturale. 
   Nonostante tali posizioni considerate da molti antireligiose, lo Stato rivoluzionario rivalutò i contenuti estetici, artistici, i valori folclorici legati alla religiosità popolare, tentando di mettere in secondo piano i suoi aspetti religiosi e mistici. Tale atteggiamento e l’effettiva preminenza dei membri del partito comunista nella vita sociale avrebbe spinto quella parte della popolazione, che in qualche modo seguiva una fede religiosa, a nascondere tale fede. Tuttavia, nonostante l’adesione all’oggettivismo positivistico e all’ateismo scientifico, lo Stato cubano perseguì sicuramente la rivalutazione delle tradizioni popolari cubane, come mostrano, ad esempio, l’istituzione del Conjunto Folklórico Nacional (lo straordinario corpo di ballo tutt’ora esistente) e lo spazio dato ad opere teatrali, in cui si rappresentavano idee e valori legati al retaggio africano. Come osserva Lázara Menéndez (2004: II parte) tale rivalutazione fece sì che tali forme culturali e al contempo religiose continuassero ad operare come un fattore di identificazione, come era avvenuto già nelle epoche passate. Ma poiché, ciò avveniva accantonando i contenuti religiosi pur caratterizzanti larga parte della popolazione cubana, si produsse il fenomeno, di cui è difficile valutare l’estensione, che i cubani chiamano della “doble moral”: essere credenti senza dichiararlo apertamente. Sicuramente tali osservazioni, sviluppate per esempio da Lázara Menéndez (2004), sono fondate, ma pongono grossi problemi a chi voglia auspicare e sostenere una radicale trasformazione sociale, i quali non possono essere risolti difendendo a tutti i costi le le antiche tradizioni pur cariche di esperienze esistenziali. Infatti, cambiando il contesto storico-sociale, inevitabilmente queste ultime, anche se con maggiore lentezza e gradualità, si trasformano e si riadattano alla nuove circostanze. 
   Non si capisce pertanto perché un’organizzazione sociale, che si propone di cambiare dalle sue basi la precedente struttura sociale, non debba intervenire per orientare l’innovazione spontanea delle pratiche e delle credenze, favorendo lo sviluppo di convinzioni e valori funzionali alla nuova strutturazione sociale. È questo un processo che si è prodotto in tutte le epoche storiche, sia in quelle rivoluzionarie che in quelle restauratrici. 
   Naturalmente tale intervento non può essere in nessun modo repressivo e del resto a Cuba non lo è mai stato, anche perché come diceva Lenin ai lavoratori interessa mettersi d’accordo sul “paradiso” in terra, lasciando agli altri le dispute sull’aldilà. 

venerdì 2 ottobre 2015

LA DIALETTICA MISTICA DI HOLDERLIN - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 

   L'amore (e l'amicizia, e l'abbandonarsi, l'immergersi nella natura) definisce un certo livello d'esperienza, in cui si esplicano forze profonde ed essenziali, le quali realizzano un "disegno", attualizzando un'aspirazione radicale, che è degli uomini e dei viventi in generale. Si tratta dell'aspirazione all'unità, alla ricomposizione, al superamento d'una condizione di scissione, separatezza, che produce angoscia, che rende vana, sterile l'esistenza, la svuota di senso. Ma questo va tenuto ben presente: esiste uno scarto fra il piano in cui si collocano separatezza e angoscia, e l'altro in cui si realizza la ricomposizione. Il primo, infatti è il piano dell'intelletto, della riflessione, del sapere scientifico e dell'agire politico (è il livello del "tempo, insomma); l'altro è quello a cui si perviene, quando, superati illusori furori, ci si allontana dal pensare e dall'agire (nel senso sopra detto) e si ritorna ad una relazione immediata, emozionale con la madre-natura.

   Dato questo scarto, è vero, allora, che le riconquistate armonia ed unità rigorosamente,non sono tali, ma piuttosto lo sono metaforicamente, allusivamente. Perché fossero effettive armonia ed unità, dovrebbero, infatti, risultare da un intervento attivo sul mondo della scissione; un intervento che cambiasse questo mondo, che operasse, a dir così, sul "tempo", per introdurre un diverso "tempo". 

giovedì 1 ottobre 2015

Psicologia delle Folle (1895, seconda parte) - Gustav Le Bon




          PARTE SECONDA

                       CAPITOLO I

Le opinioni e le credenze delle folle - I fattori lontani




Fattori preparatorii delle credenze delle folle. - Il fiorire delle credenze delle folle è la
conseguenza di un'elaborazione anteriore. - Studio dei diversi fattori di queste credenze. - 1.°
La razza. - Preponderante influenza esercitata dalla razza. - Essa rappresenta la suggestione
degli antenati. - 2.° Le tradizioni. - Esse sono la sintesi dell'anima della razza. - Importanza
sociale delle tradizioni. Come, dopo esser state necessarie, diventano dannose. - Le folle sono
le conservatrici più tenaci delle idee tradizionali - 3.° Il tempo. - Esso prepara
successivamente la formazione delle credenze, poi la loro distruzione. -- In grazia sua l'ordine
può uscire dal caos. - 4.° Le istituzioni politiche e sociali. Idee errate sulla loro funzione. - La
loro influenza é debolissima, - Sono effetti, e non cause. I popoli non saprebbero scegliere le
istituzioni che a loro sembrano migliori. - Le istituzioni sono etichette che, sotto uno stesso
titolo, nascondono le cose più dissimili. Come possono nascere le costituzioni. - Necessità per
certi popoli di alcune costituzioni teoricamente cattive, come la centralizzazione. - 5.°
L'istruzione e l'educazione. - Errore delle idee attuali sulla influenza dell'istruzione sulle folle.
- Statistiche. Funzione demoralizzatrice dell'educazione latina. - Influenza che l'educazione
potrebbe esercitare. Esempi che ci forniscono diversi popoli.

L'EURO E' DI DESTRA? ...SI! - Vladimiro Giacchè



https://www.youtube.com/watch?v=l41ijsT-nl0