giovedì 31 gennaio 2019

Rispecchiamento, dialettica e neo-positivismo - Stefano Garroni


Da: Stefano Garroni, Dialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, lacittadelsole.Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano.




Nell’aggiunta 2 al § 19 della sua Enciclopedia1, Hegel descrive una rigida alternativa intorno al sapere, affrontando così un tema, di cui si discuteva non solo al suo tempo, perché al contrario proprio l’alternativa, di cui Hegel dice, è tornata d’attualità anche in epoca a noi contemporanea. Leggiamo, dunque, la pagina hegeliana.

“Due opposte opinioni che si hanno intorno al pensiero: «questo è solo un pensiero (Gedanke)!» lo si dice, per intendere che si tratta di qualcosa di soggettivo, arbitrario e casuale, che nulla ha a che vedere con la cosa stessa, con il vero e con il reale. Oppure, si può avere del pensiero un’opinione così diversa, da sostenere che solo mediante esso può conoscersi la natura di dio e non certo mediante i sensi.”

Come si vede, – una volta che si ricordi l’identificazione tra dio e logos o ragione, che Hegel eredita dalla tradizione classica – qui è perfettamente delineata l’alternativa fra una concezione del conoscere, fondata sulla mediazione del pensiero; ed un’altra concezione – che ad es. ritroviamo senz’altro in Schopenhauer e in Bergson (ma anche in tanti autori ad Hegel contemporanei), secondo cui la conoscenza effettiva, profonda, reale è resa im-possibile, proprio dalla presenza della mediazione del pensiero; nel proseguo della nostra analisi, vedremo che appunto questi due filosofi saranno oggetto privilegiato della critica neopositivista di Moritz Schlick.

Insomma, Hegel delinea l’opposizione fra una concezione scientifica e razionale del conoscere, ed un’altra, che punta piuttosto su cose come, il sentimento, l’intuizione, l’immedesimazione del soggetto con l’oggetto. In definitiva, il misticismo.

“Il sentimento in quanto tale – continua Hegel – è la forma della sensibilità, che ci accomuna all’animale; quella del sentimento è la forma più vile per il contenuto spirituale. Questo contenuto – cioè, dio stesso (ovvero, per chiarire ancora una volta, la razionalità, che si dispiega nel mondo, perché è la razionalità del mondo. Nota mia, S.G.) – è nella sua verità solo nel pensiero e in quanto pensiero. In questo senso, dunque, il pensiero non è solo pensiero, sì piuttosto il modo sommo e, se ben esaminato, l’unico, in cui l’Eterno, ciò-che-è-in-sé-e-per-sé può esser colto. La logica non serve solo a pensare – cosa che si presterebbe all’obiezione che gli uomini pensano normalmente, anche senza saper nulla di logica. Ma, da quando si è capito che del pensiero va fatta esperienza (erfahren) anche come il Sommo, il Vero, la logica non serve solo a questo: se la scienza della logica analizza il pensare nella sua attività e nella sua produzione (e il pensare non è un’attività priva di contenuto, poiché produce pensanti e pensati), allora il contenuto è il mondo soprasensibile (cioè quella dimensione, che non si riduce all’immediatezza del sentire, dell’esperire. Nota mia, S.G.) ed occuparsi di esso è mantenersi in tale mondo.

Raggiunta una prima chiarezza a proposito della pagina hegeliana, azzardiamo un accostamento, che ha effettivamente qualcosa di provocatorio.

Così leggiamo in Forma e contenuto di Moritz Schlick2: “Il risultato principale di questa nostra analisi è l’aver sgombrato il campo da tutti i pregiudizi contro la conoscenza scientifica e il suo metodo. Non è più possibile credere che la filosofia possieda un più alto genere di conoscenza che ci darebbe una visione profonda e definitiva della natura delle cose alla quale la scienza andrebbe sempre avvicinandosi senza mai riuscire a raggiungerla, poiché dovrebbe fermarsi all’improvviso a certi punti che segnano il confine ultimo di ogni conoscenza discorsiva, scientifica. Un tale confine non esiste, non esiste nessuna conoscenza intuitiva che la filosofia possa rivendicare come suo proprio metodo specifico” (Schlick, FM:94).

Si vede chiaramente, che conoscenza scientifica vale, in Schlick, come sinonimo di conoscenza discorsiva – ovvero, di conoscenza che avviene, che si conquista con il medio della ragione (in questo senso, è chiaro, Schlick non sta riferendosi solo alla conoscenza, che assicurano le scienze propriamente, ma sì anche di quella – specifica – che può risultare da una filosofia a carattere scientifico, razionale); ed è chiaro, ancora, che, qui, per filosofia Schlick intende, invece, la prospettiva dell’intuizionismo, dell’immediata identificazione tra soggetto e oggetto, insomma quella stessa prospettiva, che abbiamo visto Hegel rifiutare.

Aggiungiamo un altro breve testo, assai significativo, di Moritz Schlick: “È solo in tempi recenti che la conoscenza scientifica e quella filosofica sono state messe a confronto in questo modo disorientante. Ciò è stato fatto, nel modo più deciso, da Schopenhauer e da Bergson i quali dichiarano che la scienza guarda al mondo solo dal di fuori, mentre la filosofia, grazie all’intuizione, guarda ad esso dal di dentro”. (Schlick, FM: 94). In somma, al contrario di quanto vogliano gli intuizionisti e tutti coloro che parlano di “rapporto intimo con la cosa stessa”, la conoscenza per Schlick non può ottenersi, se non mediante una complessa attività di mediazione, che comprende il comparare, il classificare, l’astrarre e l’ordinare.

Come ha ricordato A, Schaff, è proprio in linea con la tradizione neo-positivista, che Schlick prende posizione contro il bergsonismo, la fenomenologia husserliana e il neo-kantismo.

«Moritz Schlick, allora leader filosofico riconosciuto del Circolo di Vienna, scrisse nell’editoriale del primo fascicolo del periodico neopositivista Erkenntnis, sotto il significativo titolo La svolta in filosofia: «Che cos’è dunque la filosofia? Bene, non è una scienza, ma è qualche cosa di molto grande e importante, per cui anche adesso può essere considerata la regina delle scienze, pur non essendo una scienza essa stessa. Non è scritto da nessuna parte che la regina delle scienze debba essere a sua volta una scienza. Oggi vediamo in essa – ed è questo il tratto caratteristico della grande svolta della filosofia contemporanea – non un sistema di risultati conoscitivi, ma un sistema di atti. La filosofia è un’attività mediante la quale si afferma o si spiega il significato delle asserzioni. La filosofia spiega gli enunciati, e le scienze li verificano”». (A. Schaff, IS: 64)3. Lo stesso Schlick spiega ulteriormente che sostenere che il significato di una parola è il suo uso entro un determinato gioco linguistico, significa togliere il significato come qualcosa, che accompagna la parola; sul piano logico-matematico, significa togliere oggettività agli “enti logico-matematici”.

Come sottolinea Paolo Parrini, che scrive l’introduzione al libro del neopositivista tedesco di cui ci occupiamo, “Schlick cita con piena approvazione la tesi di Jevons che «la scienza nasce dalla scoperta dell’identità nella diversità». A suo parere, infatti, il conoscere (erkennen, to know), di cui il sapere scientifico rappresenta l’espressione più compiuta, consiste nel riconoscere (wiedererkennen, to recognize) qualcosa come qualcos’altro”. (Schlick, FC: 11)4.

Cosa intende esattamente Schlick, quando afferma l’identità di conoscere/riconoscere? Intende qualcosa che ha diretta relazione con la sua maniera di concepire il linguaggio.

“Com’è possibile che, percependo una cosa (cioè un segno. Nota mia, S.G.), noi acquisiamo la consapevolezza di un’altra, la quale non è, chiaramente, presente in alcun modo nella prima? L’immediata risposta che si è tentati di dare a questo interrogativo è la seguente o qualcosa del genere: per comprendere l’Espressione … è sufficiente rimandare al semplice fatto della rappresentazione, ossia a una sorta di corrispondenza fra due cose che noi stabiliamo arbitrariamente convenendo che l’una starà per l’altra, che la sostituirà in un dato contesto, che significherà l’altra ... Non è naturale supporre che, allo stesso modo, i nostri enunciati o le nostre proposizioni stiano per i fatti che essi esprimono? … In tal modo la possibilità di rappresentare cose per mezzo di segni sembra dar conto della possibilità del linguaggio, e pare che non occorra nient’altro per spiegare la natura dell’espressione” (Schlick, FC: 49).

Senonché, bisogna ben intendere che “l’Espressione è completamente diversa dalla mera Rappresentazione … Il vero e proprio parlare è qualcosa di completamente nuovo rispetto alla semplice ripetizione di segni di cui è stato mandato a memoria il significato. Un pappagallo emette enunciati significanti, ma non parla effettivamente, nel senso vero e proprio della parola” (Schlick, FC: 50). La caratteristica essenziale dell’espressione “consiste nella sua capacità di esprimere nuovi fatti, ossia, in realtà, qualsiasi fatto e ciò è possibile, perché il medesimo insieme di segni che è stato usato per descrivere un certo stato di cose, con una ridistribuzione può essere usato per descrivere uno stato di cose completamente differente in modo tale che noi conosciamo il significato della nuova combinazione senza che ci sia stato spiegato.” Insomma, come si legge in Schlick, FC: 52 – l’ordine del linguaggio è la sua struttura logica.

A questo punto è chiaro perché conoscere = riconoscere: quando conosciamo qualcosa di nuovo (o di semplicemente possibile, ma non effettivo), ciò che facciamo è riconoscere i segni, di cui il nostro linguaggio si serve abitualmente; da ciò possiamo concludere che l’essenza del nostro linguaggio è data dalla “disposizione, il peculiare ordine o combinazione di segni”, nel senso che le modifiche, che avvengono a questo livello (combinazione, ordine, disposizione), rendono capace il linguaggio di esprimere il nuovo, il possibile, il non già sperimentato, ciò con cui non abbiamo familiarità. (Schlick, FC: 52)5.

“Un unico e medesimo fatto può essere espresso in mille linguaggi differenti, e le mille differenti proposizioni avranno tutte la medesima struttura, e il fatto che esse esprimono avrà, pure, la medesima struttura, perché è appunto per questa ragione che tutte quelle proposizioni esprimono questo particolare fatto. In linea di principio, un linguaggio deve essere in grado di esprimere qualunque fatto con le sue proposizioni, qualunque cosa possa avvenire deve poter essere espressa dal linguaggio. Per esprimere il mondo dobbiamo essere in grado di parlare di tutti i fatti possibili, compresi quelli che non esistono affatto dato che il linguaggio deve essere in grado di negare la loro esistenza” (Schlick, FC: 53a).   

Per riassumere le tesi, che Schlick ha finora esposto, possiamo dire così: (a) qualunque linguaggio esprime uno stato di fatto – il linguaggio, dunque, è espressione; (b) ma cosa rende possibile l’espressione? Il fatto di basarsi su convenzionali rapporti di rappresentazione; (c) non va dimenticato che l’espressione è diversa dalla rappresentazione, perché in quest’ultimo caso il linguaggio esprime tutti i fatti possibili (per i quali, dunque, non pre-esistono convenzioni rappresentative); (d) fattore fondamentale dell’espressione è l’ordine, che le consente un largo spettro di manifestazioni e di applicazioni; infine (e) se la significazione di un simbolo semplice (un nome) deve ricevere una spiegazione separata (come si vede, torna la convenzionalità del rapporto tra simbolo e cosa da esso rappresentata), invece, il significato di un’espressione (una proposizione) si spiega da sé, basta che si conoscano il significato e la grammatica del linguaggio6. Procediamo, ora, verso una fondamentale differenza, che opera Schlick e che, come cercheremo di argomentare, ha un largo sapore hegeliano.

“La differenza fra struttura e materiale, fra forma e contenuto è, approssimativamente, la differenza fra ciò che può essere espresso e ciò che non può essere espresso. Non si sottolineerà mai abbastanza la fondamentale importanza che ha per la filosofia ciò che si indica vagamente con questa distinzione. Eviteremo tutti i tipici errori della filosofia tradizionale se ci imprimeremo nella mente che l’inesprimibile non può essere espresso, neppure dal filosofo” (Schlick, FC: 54s).

L’osservazione più immediata, che viene da fare, è che certamente una costante della riflessione di Schlick è la polemica contro ogni concezione del conoscere che, proprio in quanto basata sull’esaltazione dell’intuizione, della immedesimazione, dell’identificazione tra soggetto ed oggetto, non riesce a coglier la differenza tra ciò, che è sensato – e dunque conoscibile – e ciò che, invece, è privo di senso e, quindi, non conoscibile, proprio perché non c’è nulla in esso da conoscere; si lega a questo motivo la polemica contro una filosofia “ebbra”, la quale pretende di costituire un sapere più alto e completo di quello consentito alle scienze, esattamente per la sua pretesa capacità di entrare nella intimità della cosa7.

Infine, l’osservazione più importante: per Schlick ciò, che è conoscibile, non è il contenuto, ma sì la struttura logica; e cosa intende il filosofo neopositivista con le espressioni «struttura» e «contenuto»?

Per struttura, Schlick intende il sistema di relazioni, in cui un certo dato è inserito, rispetto al quale si differenzia in qualche misura e mediante il quale raggiunge la propria determinazione: questo insieme di relazioni è la struttura logica del dato di fatto. Passiamo ora al «contenuto».

“La parola «intuizione» è un termine ottimo per denotare certi atti mentali – precisamente quelli di azzeccare le proposizioni vere prima che si sia dimostrato che lo sono, e questi sono davvero atti di acquisizione di conoscenza – ma non vi è alcuna giustificazione per usare il termine come fa Bergson, poiché egli ne parla come ne parla, come se fosse un atto con cui si coglie il contenuto. L’intuizione di Bergson non ha assolutamente nulla a che fare con la conoscenza nel senso che questa parola ha tanto nella scienza, quanto nella vita quotidiana. Nondimeno la “conoscenza intuitiva” di Bergson non è che una formulazione particolarmente enfatica di un’idea molto antica che pervade quasi tutti i sistemi filosofici tradizionali. Si tratta dell’idea che vi sono gradi diversi di conoscenza (il che è perfettamente vero) e che il grado di conoscenza dipende da quanto intimo è il contatto fra conoscente e cosa conosciuta (il che è assolutamente falso). Si riteneva che ogni conoscenza esplicativa, comune e scientifica, che descrive la cosa conosciuta in termini di qualcos’altro, dovesse, proprio per questa ragione, rimanere superficiale, meramente descrittiva, e che non potesse mai giungere al livello più alto, poiché pareva che ciò che veramente si voleva conoscere fosse la cosa stessa, e non una mera descrizione di essa. La conoscenza scientifica, pertanto, sembrava essere solo un’introduzione al genere più alto di conoscenza (o un suo sostituto), consistente nella consapevolezza immediata dell’oggetto stesso” (Schlick, FC: 88s). “ … il più alto grado di conoscenza di una cosa è la più completa, la più perfetta descrizione di essa, e non la cosa stessa”.(Schlick, FC: 89).

Sarebbe errato ricavare da ciò una posizione intellettualistica di Schlick, nel senso della negazione in ogni senso dell’intuito, di ciò con cui si ha familiarità, anche se – è ben chiaro – tutto questo è ben diverso dal conoscere.

Ad esempio, Schlick, FC: 88 scrive: “il contenuto semplicemente c’è”; così come, a proposto della Bekannschaft, egli la considera uno dei presupposti del kennen: l’inafferrabile è sempre presente, fondamento di tutto il resto, anche della conoscenza, (Schlick, FC; 91); resta vero, tuttavia, che la conoscenza non richiede una reale intimità fra il conoscente e il conosciuto e … la conoscenza non consiste in una fusione di entrambi.” (Schlick, FC: 92).

Ricostruendo, sia pure a grandi linee e molto sommariamente la riflessione epistemologica di M. Schlick, abbiamo incontrato la tesi, secondo cui le differenti espressioni linguistiche, che esprimono uno stesso dato di fatto, hanno tutte una stessa struttura logica, la quale si ritrova d’altronde nello stesso stato di fatto. Non sembra forzar le cose, leggere quest’ultima tesi come una delle versioni possibili della teoria (epistemologica) del rispecchiamento, che così grande ruolo ha giocato in una filosofia che, in un modo o nell’altro, intendeva rifarsi alla tradizione hegeliana (per quanto “rovesciata” – qualunque cosa significhi quest’ultima espressione): il marxismo-leninismo8.

È per questo che, ora, passeremo ad esaminare lo scritto di uno dei più importanti e prolifici filosofi marxisti contemporanei: il tedesco Hans Heinz Holz.

Lo scritto a cui ci riferiamo ha per titolo Widerspiegelung ed è stato pubblicato nel volume 4 della Europäische Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften9.

Widerspiegelung è termine – osserva Holz –, che va usato in modo assai preciso e, dunque, non va confuso con una vaga corrispondenza (Entsprechung), nel senso di una omomorfia o isomorfia; analogamente bisogna ben giustificare il modo di tradurre la metafora: si tratta di una illustrazione evocativa o piuttosto vanno intese determinazioni formali, che non possono essere espresse se non ricorrendo alla metafora dello specchio? In ogni caso, bisogna tenere a mente che l’uso metaforico di un’immagine deve sempre essere giustificata da identità parziali di tratti essenziali e strutturali – in questo senso va detto che Widerspiegelung è una metafora “esatta” (Holz: 826).

Se confrontiamo questa pagina con le precedenti di Schlick, cominciamo a formarci un’opinione, ovvero che il dissenso tra i due autori, in realtà, sia linguistico, nel senso che secondo Holz la grammatica d’uso del termine Widerspiegelung (e, come vedremo, del suo associato Spiegel) è più rigorosa, ammette meno possibilità di quanto non paia a Schilick. La difficoltà, che sorge, tuttavia, è che lo scritto di Holz – certo al di là delle intenzioni dello stesso autore, sembra –, di fatto, ridursi all’analisi delle possibilità d’uso di un termine (e di alcuni altri ad esso connessi), invece che essere la proposizione di una epistemologia, fondata su una ben determinata ontologia (cosa questa che, in effetti, non potrebbe esser fatta per mera via speculativa e linguistica, ma sì ricorrendo infine ad un esame accurato dell’effettivo precedere delle scienze. Ma di tutto questo non c’è traccia nell’articolo dell’autore tedesco).

Come scrive risolutamente Holz, la tesi della Widerspiegelungstheorie si ridurrebbe ad una qualunque metodologia ermeneutica, se non potesse esser ricavata da una ontologia generale dei rapporti dell’essere. La Widerspiegelungstheorie rimanda necessariamente ad un certo Weltbild (Holz: 826).

Sappiamo da altre opere di Holz che, secondo l’autore, le ricerche scientifiche per potersi sviluppare con coerenza teorica e, quindi, suggerire un approccio alla realtà non episodico, ma sistematico, non casuale, ma giustificato, hanno bisogno di una rappresentazione del mondo (Weltbild) che, con il proseguo stesso delle conquiste scientifiche è destinata a cadere e ad esser sostituita da altri Weltbilder.

Com’è noto (anzi, in realtà, non è noto affatto), la cultura sovietica10 dimostrò un particolare interesse per la figura e l’opera di Einstein e proprio in un volume collettaneo sul grande fisico, il sovietico B.G. Kutznezov attribuisce ad Einstein di aver introdotto un nuovo stile di pensiero scientifico, innestato sul terreno di una nuova immagine scientifica del mondo [Weltbild] e nel quadro di una nuova rivoluzione tecnico-scientifica. Irreversibilità della conoscenza, ovvero, la scienza non può tornare indietro o rigettare le creazioni della ragione, per quanto queste possano essere radicalmente modificate e specificate; se in questo senso si può parlare di immortalità dei prodotti della ragione, non si tratta tuttavia della stessa immortalità, che può riconoscersi ad un cristallizzato, rigido monumento, dacché – nel caso dei prodotti della ragione – si ha a che fare con un’immortalità vivente, operante – d’altronde, il concetto di invariante è inseparabile da quello di trasformazione11. Della rivoluzione scientifica, Kuznetsov sottolinea la trasformazione del Weltbild e sostiene che la forza che guida gli sviluppi della scienza è proprio la ricerca e costruzione di un nuovo Weltbild12

Data la funzione dell’articolo di Holz – cioè la cura di una voce dell’Enciclopedia, a cui ci stiamo rifacendo –, non sorprende che l’autore esamini storicamente il tema, assegnandoli tre tappe fondamentali: Tommaso d’Aquino, Nicola da Cusa e Leibniz; naturalmente, ciò che interessa Holz è sottolineare l’uso di termini come Spiegel e Widerspiegelung per definire una certa prospettiva epistemologica; Tommaso giunge a prospettare dio come specchio del mondo, aprendo in questo modo ad una visione panteistica, nel senso che dio non sarebbe altro se non il concetto dell’unità strutturale e intenzionale del mondo: è evidente l’anticipo tomista rispetto alla tesi leibniziana, per cui dio è monade delle monadi.

Con Nicola da Cusa giungiamo ad una desostanzializzazione di dio, il quale vien trasformato nel mero concetto di struttura: un dio – così commenta Holz la posizione di Cusano – che non è altro che lo specchio e la raffigurazione (Gestalt) delle raffigurazioni e che dunque possiede un contenuto reale solo nella riflessione di ciò, che ad esso si contrappone nel mondo, ha certamente abbandonato ogni divinità personale (Holz; 829).

Leibniz riprende il discorso dello Spiegel e ne fa, in forma sistematica, la conclusione della comprension  dell’essere in generale: la monade è lo specchio dell’intero mondo ma, a sua volta, il mondo come un tutto è solo il prototipo di tutte le rappresentazioni nella singola monade, a questo punto dio = mondo. Insomma, la metafora dello specchio/Spiegel rimanda alla concezione dell’universo come l’insieme di tutto ciò, che è mondano (Holz: 830)13. Per Leibniz – continua Holz – la relazione tra le sostanze è quella di una rappresentazione vicendevole, dunque, per lui, ogni sostanza è come un intero mondo e come uno specchio di dio o, piuttosto, dell’intero tutto: per tale motivo in Leibniz, quella dello specchio è una metafora esatta per rappresentare la struttura dell’intreccio reciproco delle sostanze (Holz: 831).


Note


1Leggo l’opera di Hegel nell’edizione tedesca della Suhrkamp Verlag del 1970. La traduzione è mia.
2 Moritz Schlick (1882-1936) fu l’organizzatore del Wiener Kreis. Il volume Forma e contenuto (tradotto da Boringhieri nel 1987 ed introdotto da Paolo Parrini) raccoglie lezioni, che Schlick tenne a Londra nel 1932.
3 Adam Schaff, Introduzione alla semantica, Roma Editori Riuniti 1965.
4 Su questo tema del conoscere come riconoscere, il quale consente un ulteriore accostamento ad Hegel, v. di S. Garroni, “Limiti della prospettiva dialettica di Hegel e di Marx”, in Rosso XXI settembre 2002.
5 È evidente, dunque, che conoscere non si identifica con l’aver familiarità con qualcosa. Se Schlick riprende questa distinzione/differenza da Bertrand Russell (Schlick, FC: 87), la stessa differenza la si trova in Hegel, che distingue tra Bekanntschaft machen (aver familiarità con) ed erkennen (conoscere).
6 Quest’ultima tesi la si trova in Schlick, FC: 53.
7 Già in Locke è chiaramente espressa questa diffidenza verso la pretesa di entrare in intimità con la cosa. Cf. “Patologia/coazione a ripetere” in S. Garroni, Sul perturbante, Roma 1984. 8 Diamat è l’abbreviazione dell’espressione tedesca dialektische materialismmus. In varie parti del mondo, dal Latino-America, alla Francia, Inghilterra, Italia e perfino Germania, oggi, esistono marxisti, che mettono a tema la critica e il superamento del Diamat.
9 L’editore fu Meiner di Amburgo nel 1990.
10 Einstein and the Philosophical Problems of 20.Century PhysicsMoscow 1979.
11 Di fatto, con questa osservazione lo scienziato sovietico sottolinea i grandi limiti delle tesi epistemologiche di Thomas Kuhn, che pure larga eco ebbero nella nuova sinistra nata col 1968 e che contribuì in gran parte alla messa in mora del marxismo.
12 Nota che Barone mette in questione il fatto che esista una necessità epistemologica o filosofica di elaborare un Weltbild. Cf. Il neo-positivismo logico, Laterza 1977: 476.
13 A questo punto, sembrerebbe legittima un’osservazione: se la prospettiva dialettica implica la nozione di totalità, per distinguersi da una prospettiva (o concezione) metafisica, allora non può che coniugare quella nozione di totalità con ciò che la smentisce, ovvero, con la divisione, la scissione, l’indiretto e l’incompiuto: per questo, quella dialettica è un totalità dinamica. A questo punto, non è più chiara la ragione per cui la totalità dialettica implichi la nozione di Spiegel specchio e di Widerspiegelung/rispecchiamento: sembrerebbe che queste due nozioni implichino, al contrario, l’enfatizzazione dell’identità, più che della differenza e del «no».

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