venerdì 1 febbraio 2019

La giornata lavorativa - Maria Grazia Meriggi

Da: http://www.consecutio.org - Maria Grazia Meriggi, Accademia di Brera, Milano - mgmeriggi@fastwebnet.it -


Parlerò da storica soprattutto e quindi cercando di dare conto della pertinenza delle analogie ed esemplificazioni storiche che Marx fornisce intorno al tema della giornata lavorativa e ricordando inoltre, per semplificare, che la durata cronologica della giornata lavorativa, legale e poi anche contrattuale, è il frutto dei rapporti di forza prodotti nel conflitto di classe. Si inizia a definire che cos’è – al di sotto dell’evidenza empirica e contrattuale – la giornata lavorativa.

Una precisazione si rende però necessaria. Dei molti modi in cui sono presenti le narrazioni storiche nel Capitale ne sottolineo soprattutto due. Marx talvolta riassume e sintetizza comprimendo nel tempo in una narrazione in raccourci vicende che si sono sviluppate secondo le linee di tendenza da lui indicate in un lungo arco di tempo. Esempio caratteristico: l’accumulazione originaria in cui Marx comprime il passaggio secolare dall’agricoltura di villaggio con ampie aree comuni alla formazione di una eccedenza di popolazione che alimenta il proletariato industriale passando attraverso le enclosures. Agli inizi del Novecento Paul Mantoux (1906) ha ricostruito analiticamente i passaggi indicati da Marx, attraverso la formazione di un numeroso proletariato di salariati agricoli, attestandone anche la lucidità interpretativa. Altre volte invece – come nel caso di questo capitolo – Marx descrive processi in atto e ricorre a fonti di prima mano che sono le stesse cui ricorrono anche gli storici successivi dell’economia e della società inglesi ed europee del XIX secolo. Queste fonti sono gli atti ufficiali e i materiali statistici prodotti dagli ispettorati del lavoro che di mano in mano si formano presso i ministeri economici. In particolare i famosi blue books, i «libri azzurri» degli ispettori incaricati di verificare il rispetto della legislazione sulle fabbriche. In questo caso Marx è al tempo interprete e cronista appassionato dei processi che descrive con grande fedeltà.

1. Limiti della giornata lavorativa 

Il capitalista – come sappiamo dalla lettura dei capitoli precedenti – acquista insieme alla forza-lavoro e al suo valore fissato dal mercato del lavoro anche il diritto di usarla per un’intera giornata. Ma che cos’è una giornata lavorativa?

In sé, la giornata lavorativa rappresenta una grandezza indeterminata e mutevole. Non è determinata una volta per tutte nel suo limite minimo. Però sappiamo che nel modo di produzione capitalistico il lavoro necessario rappresenta sempre e soltanto una parte della giornata lavorativa. Essa dunque deve eccedere rispetto al tempo di lavoro necessario. Ha invece un limite massimo, che non è prolungabile per motivi fisici e sociali. Infatti, durante una parte del giorno, l’operaio deve nutrirsi, riposare, ecc.; mentre ha bisogno di altro tempo per poter soddisfare i bisogni sociali secondo il grado di sviluppo civile raggiunto. Ma anche in questo secondo aspetto i limiti restano molto elastici. Pur essendo certo che una giornata lavorativa è in ogni caso minore di un giorno naturale di vita, rimane il problema: di quanto è più breve?

Il capitalista acquirente si comporta esclusivamente come personificazione degli interessi del capitale che deve acquisire la massima quantità possibile di pluslavoro. Come ogni altro compratore il capitalista cerca di spremere dal valore d’uso della merce acquistata il maggior utile possibile. Esso fa quindi lavorare l’operaio più che può. Dal canto suo l’operaio, che ha tutto l’interesse ad impedire un consumo smodato della propria forza-lavoro e a preservarne il normale sviluppo, alza la voce e ribadisce che una cosa è l’uso della forza-lavoro, una cosa ben differente è il suo depredamento. Se, supposta una misura media di lavoro, un uomo vive in media 30 anni, il valore giornaliero della forza-lavoro corrisposto dal capitalista è:
                                                                   1 : (365 x 30) ossia 1/10.950 del valore complessivo.

Ma il capitalista, se consuma in 10 anni la forza-lavoro, paga solo un terzo del suo valore giornaliero: paga l’operaio per un giorno e lo usa per tre. L’operaio esige quindi una giornata di lavoro dalla durata normale e lo fa non appellandosi alla benevolenza del capitalista, ma rivendicando come venditore il valore della propria merce.

Così, da un lato il capitalista sostenendo i suoi diritti di compratore cerca di prolungare al massimo la giornata lavorativa; dall’altro l’operaio, affermando i suoi diritti di venditore (la natura specifica della merce che vende implica un limite al suo consumo da parte del compratore) vuole limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale. Diritti del compratore e diritti del venditore si urtano reciprocamente: a decidere l’esito dell’urto è la forza. Così la regolazione della giornata lavorativa nel regime del lavoro salariato si presenta come lotta per i minimi della giornata lavorativa tra classe capitalistica e classe operaia.

2. La voracità di pluslavoro del capitale

Il pluslavoro non vige – secondo Marx in questo luogo; altre interpretazioni e altre posizioni saranno discusse in altra sede – solo nella società capitalistica. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, sia libero che schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario per il suo sostentamento il tempo di lavoro soverchio per produrre l’occorrente al possessore dei mezzi di produzione. Tuttavia, quando in una formazione sociale prevale non il valore di scambio, ma il valore d’uso del prodotto (schiavitù, servitù della gleba), allora il pluslavoro è limitato da una cerchia di bisogni più o meno estesi.

Quando invece domina il valore di scambio (nella formazione economico-sociale capitalistica), sorge dal carattere stesso della produzione un bisogno illimitato di pluslavoro. Allora far lavorare quanto più è possibile diventa per il capitalista una necessità assoluta. L’operaio deve lavorare il più possibile, il capitalista deve estorcere il massimo di pluslavoro rispetto al tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro in condizioni sociali date. Il prolungamento orario, il grignotage di minuti di lavoro non pagato, di pause non concesse, possono anche, in seguito, essere sostituite da una messa al lavoro più produttiva grazie a innovazioni nell’organizzazione del processo lavorativo. Il fenomeno però non cambia.

Inoltre un fenomeno interessante che si esaminerà in seguito è il particolare atteggiamento verso certe forme di retribuzione della giornata in cui è particolarmente evidente la volontà di controllare la ripartizione della giornata lavorativa a proprio esclusivo favore: le forme di truck-system[1].

L’avidità di pluslavoro del fabbricante moderno supera quella del padrone di schiavi e del signore feudale. L’istinto del capitale a estorcere pluslavoro dalla forza-lavoro acquistata è illimitato. Tanto illimitato che si è resa perfino necessaria, per frenare la brama di pluslavoro del capitale e scongiurare in tal modo il pericolo di esaurimento delle energie vitali della popolazione lavoratrice, la limitazione coatta della giornata lavorativa da parte dello stesso Stato dei capitalisti. Lo Stato è quindi chiamato a interpretare l’interesse strategico della classe dei capitalisti contro i comportamenti distruttivi dei singoli.

Una statistica regolare ed ufficiale dell’avidità di pluslavoro è fornita dalle relazioni degli ispettori di fabbrica inglesi.

3. Lo sfruttamento disumano dell’operaio

Le relazioni degli ispettori di fabbrica mettono inoltre in luce come la produzione capitalistica tenda irresistibilmente ad appropriarsi di pluslavoro durante le 24 ore del giorno. Poiché tale istinto urta contro limiti fisici oltre che sociali, il capitale aggira l’ostacolo avvicendando le forze-lavoro mediante turni. Così al lavoro diurno si alterna quello notturno.

Lo sviluppo della formazione sociale capitalistica coincide con migrazioni interne, urbanizzazione, aumento della ricchezza prodotta, coincidente col pauperismo determinato dalla formazione di un vero e proprio mercato del lavoro. Mantoux, nel testo prima citato, ha anche quantificato in termini di costi determinati dall’approvvigionamento degli alimenti sul mercato, l’impoverimento relativo degli operai anche in presenza di aumenti dei salari monetari. Dunque in Francia, in Inghilterra e anche in Italia – va ricordato il caso di Carlo Ilarione Petitti di Roreto – si sviluppa una ricca pubblicistica di inchieste sulle condizioni di degenerazione prodotte dalla proletarizzazione della popolazione.

Le inchieste inglesi e in particolare le informazioni raccolte dagli ispettori di fabbrica costituiscono quindi un materiale documentario importantissimo anche se potrebbe e qualche volta ha potuto far credere che solo nei suoi aspetti particolarmente sanguinosi sia possibile parlare di pluslavoro e di guerra intorno alla giornata lavorativa. Vedremo che non è affatto così. Ma cominciamo a seguire alcuni aspetti delle inchieste utilizzate da Marx.

La rotazione fra il giorno e la notte degli operai può avvenire attraverso procedimenti vari; l’importante è che i mezzi di produzione non restino inattivi, in quanto, dal punto di vista del processo di valorizzazione, il tempo in cui essi restano inutilizzati equivale a una inutile anticipazione di capitale; e per di più si richiedono spese supplementari per l’avvio ad ogni ripresa del lavoro. A parte gli effetti nocivi che il lavoro notturno esercita sulla salute degli operai, il sistema dei turni si presta molto bene al prolungamento della giornata lavorativa «nominale», persino di quella contrattuale. Il grignotage, la guerriglia sulle pause, fanno parte del prolungamento illegittimo della giornata lavorativa.

In quanto forza-lavoro, l’operaio esiste solo in funzione dell’autovalorizzazione del capitale. Questi, nella sua smisurata avidità di pluslavoro, tende non solo a ridurre il più possibile i limiti sociali della giornata lavorativa, ma anche a violare quelli fisici. Usurpa il tempo necessario a un sano sviluppo fisico. Ruba il tempo per consumare aria e sole. Lesina sul tempo dei pasti. Riduce il sonno a poche ore di torpore. Avendo come unico scopo l’estorsione della massima quantità possibile di lavoro gratuito che può essere assorbito in una giornata lavorativa, il capitale causa l’esaurimento precoce della forza-lavoro: abbrevia la vita dell’operaio.

Ora parrebbe essere interesse del capitalista curarsi della salute degli operai, in quanto senza di essi non potrebbe prosperare. Ma non è così. L’esperienza mostra l’esistenza di una costante sovrappopolazione in relazione ai bisogni momentanei di valorizzazione del capitale. E d’altra parte, mentre lo scopo del capitalista è quello di appropriarsi di plusvalore senza alcun riguardo per la salute fisica e la vita dell’operaio, la concorrenza dal canto suo annulla le volontà individuali e pone i singoli capitalisti di fronte alle leggi immanenti della produzione capitalistica[2].

A questo punto le relazioni sociali tradizionali, che in termini contemporanei potremmo definire caratterizzati dalla “coesione sociale”, impongono allo Stato di preoccuparsi del prolungamento della giornata lavorativa come delle carceri, della prostituzione, dell’esplosione delle nascite illegittime, della degenerazione delle relazioni famigliari nelle workhouses. Così – persino da preoccupazioni sulla diminuzione della statura media rispetto alle esigenze militari – nasce la disponibilità dello Stato ad accettare le richieste operaie.

4. Legislazione sulla giornata lavorativa

Fino a quando non è limitato da un’autorità legale, il capitale spreme la forza-lavoro al massimo. La fissazione della giornata lavorativa normale – ma che a mio parere sarebbe più opportuno definire semplicemente “normata” – è il risultato di una lotta multisecolare tra capitalista e operaio. Questa lotta è caratterizzata da due indirizzi contrapposti: mentre la legislazione sul lavoro, che va dal secolo XIV al secolo XVIII (metà e oltre) tende a prolungare la giornata lavorativa, quella moderna tende invece ad abbreviarla.

Qui inizia una serie di osservazioni che manifestano la tendenza di Marx, cui si accennava all’inizio, a operare dei raccourcis – certo efficaci e potenti – in cui sfumano le differenze empiriche fra le condizioni di mercato e di lavoro nel passaggio dalla manifattura all’industria. Comunque esse vanno percorse.

Sono occorsi secoli, in cui si afferma sempre più senza riserve il modo di produzione capitalistico, perché il lavoratore “libero” si adattasse a vendere volontariamente l’intero periodo della sua vita attiva in cambio dei mezzi di sussistenza. Con sforzi secolari il capitale riesce a prolungare la giornata lavorativa fino ai suoi limiti massimi normali, e, al di là di questi fino alla giornata lavorativa di 12 ore. Con la nascita della grande industria, nella seconda metà del secolo XVIII in Inghilterra, e progressivamente in Francia, Germania e altri paesi nel primo sessantennio del XIX, ogni limite fisico e morale viene travolto annullando le differenze di sesso, di età, le distinzioni fra il giorno e la notte: la giornata lavorativa arriva alle 16 ore e talvolta le supera.

Tale intensificazione è suscitata dalla necessità di valorizzare con continuità il capitale investito nelle macchine. La classe operaia iniziò subito importanti lotte di resistenza innanzitutto nel paese di nascita della grande industria, in Inghilterra. Sennonché per tre decenni (1802-1833) le concessioni strappate al capitale rimasero pressoché inutili, in quanto il parlamento non fece nulla per mettere in esecuzione le leggi approvate.

La giornata lavorativa normale fu decretata per l’industria (in particolare per le numerosissime industrie tessili, di filo e tessuto di cotone, lana, lino, seta) a partire dal Factory act del 1833. Ma niente serve a definire ciò che potremmo chiamare lo «spirito del capitale» meglio della legislazione inglese sulle fabbriche (dal 1833 al 1854). Bisogna anche ricordare che a partire dal 1832 con la nuova legge elettorale, il Reform Bill, arriva al potere la classe degli imprenditori wighs, ben più feroci e determinati dei tories. Infatti la spietata legge del 1834 sul mercato del lavoro, la New Poor Law, venne introdotta in nome degli stessi interessi. La legge del 1833 stabilisce che la giornata lavorativa ordinaria di fabbrica deve cominciare alle cinque e mezza di mattina e finire alle otto e mezza di sera, comprese le interruzioni intermedie per il consumo dei pasti. Proibisce nella maggior parte dei casi il lavoro dei bambini al di sotto dei 9 anni. Gli adolescenti dai 9 anni ai 13 anni dovrebbero lavorare otto ore al giorno.

I legislatori erano tanto lontani dal volere attaccare la libertà dei capitalisti di sfruttare gli operai adulti a fondo, che escogitarono subito il rimedio contro le conseguenze della legge, adattando la giornata dei fanciulli a quella degli adulti mediante l’impiego di una doppia serie di fanciulli: la prima dalle cinque e mezza all’una e mezza di pomeriggio; la seconda dall’una e mezza alle otto e mezza di sera (sistema a relais). Da parte loro i capitalisti, insoddisfatti di quelle soluzioni compromissorie, iniziarono una vasta agitazione per l’abbassamento dell’età lavorativa dei fanciulli rispettivamente a 8 e a 12 anni. Il governo, colpito dalla pressione della classe operaia, non si sentì di modificare la legge. Questa rimase in vigore fino al 1844; ma più sulla carta che in pratica. Le relazioni ufficiali degli ispettori di fabbrica traboccano, a tale riguardo, di lamentele.

L’atto aggiuntivo sulle fabbriche del 7 giugno 1844 viene elaborato in un contesto parzialmente nuovo. Gli interessi di fondo di tories e wight erano convergenti ma non in tutti i paesi – l’Italia in questo senso è un esempio contrario – i primi, più consolidati, frenavano i secondi. Negli anni Quaranta e in particolare nel periodo 1844-1847 si assiste alla battaglia condotta, in Inghilterra, dalla Anti Corn-laws League che i suoi iniziatori cercano di estendere – senza successo – ai lungimiranti cartisti. L’atto prende in considerazione le donne al di sotto dei 18 anni e le equipara ad ogni effetto agli adolescenti. Per esse la giornata di lavoro doveva durare 12 ore ed era loro vietato il lavoro notturno. L’atto stabiliva inoltre che la giornata lavorativa venisse calcolata dal momento della mattina in cui il fanciullo cominciava il lavoro e cessasse al suo termine prescritto. I capitalisti non permisero però tale progresso senza compensarsi a loro volta. Infatti ottennero dalla Camera dei Comuni – dove la rappresentanza dei loro interessi era diretta – la riduzione a 8 anni dell’età minima dei fanciulli da consumare col lavoro.

Gli anni 1846-47 sono il periodo d’oro del libero scambio: vengono abrogate le leggi sul grano e i dazi di importazione sul cotone e su altre materie prime. Dall’altro lato il movimento cartista (che trova nei tories un sostegno inedito) riesce ad imporre una nuova legge sulla giornata lavorativa.

Il nuovo Factory Act dell’8 giugno 1847 stabilisce che, a partire dal 1° luglio, la giornata lavorativa degli adolescenti (anni 13-18) e delle operaie deve essere ridotta a 11 ore, mentre, a partire dal 1° maggio 1848 essa deve essere portata definitivamente a 10 ore. I capitalisti iniziarono una campagna contro l’esecuzione della legge; ma il 1° maggio, nonostante le accanite resistenze, essa entrò in vigore.

Il 1847 è però un anno di grave crisi economica, di una grave sconfitta politica dei cartisti (che meriterebbe un’analisi specifica) cui segue il giugno 1848 a Parigi, cui Marx ha dedicato osservazioni straordinarie. In nome della salvezza della proprietà – e della famiglia, della religione, della società che la garantivano – Marx osserva e denuncia la riunificazione dei capitalisti con i proprietari fondiari, il clero, il mondo della cultura. La legge delle 10 ore – che in Francia era stata una delle prime misure della Repubblica per tutti gli operai – venne sottoposta a critiche e accuse e con essa tutta la legislazione, che dal 1833 in avanti aveva cercato di frenare in qualche modo il “libero” dissanguamento della forza-lavoro. Fu ristabilito per gli adulti il lavoro notturno; vennero ridotte o eliminate del tutto le pause legali per i pasti, fu introdotto per gli adolescenti il sistema a relais.

Gli operai, che in tutto il periodo della reazione cercarono di resistere ai capitalisti, cominciarono in alcuni distretti a protestare in modo minaccioso. Gli ispettori di fabbrica ammonirono il governo che l’antagonismo di classe si era acuito incredibilmente. Le decisioni contraddittorie dei magistrati circa l’interpretazione delle leggi sul lavoro avevano creato una situazione disomogenea e scarsamente controllabile che provocava lamentele fra gli stessi fabbricanti; i quali vedevano così violato il diritto del capitale all’eguale sfruttamento della forza-lavoro. Fu in questa situazione che si venne ad un compromesso fra operai e fabbricanti: compromesso che venne suggellato dall’atto aggiuntivo del 5 agosto 1850.

La giornata di lavoro viene elevata da 10 ore a 10 ore e mezza per i primi 5 giorni della settimana e ridotta a 7 ore e mezza per il sabato. Per gli uomini, gli adolescenti e le donne, il lavoro doveva svolgersi dalle 6 del mattino alle 6 di sera, con pause di un’ora e mezza per i pasti da concedersi contemporaneamente. Caduto il sistema a relais per i fanciulli, rimase in vigore la legge del 1844. Poiché per questa legge il periodo nel quale i fanciulli potevano essere impiegati andava dalle 5 e mezza del mattino alle 8 e mezza di sera, essi rimasero sfruttabili ancora per mezz’ora prima dell’inizio, e per due ore dopo la fine dell’orario normale per gli adulti, pur durando 6 ore e mezza il lavoro complessivo della loro giornata di lavoro normale. Dopo molte lotte, l’atto del 1850 venne finalmente, nel 1853, integrato con la proibizione di adoperare i fanciulli prima e dopo del lavoro degli adolescenti e delle donne.

5. La lotta della classe operaia per la riduzione della giornata lavorativa e l’ipocrisia dei capitalisti

Dopo mezzo secolo di lotta, il principio della limitazione legale della giornata lavorativa trionfava definitivamente. Lo sviluppo delle grandi fabbriche tra il 1853 e il 1860, accompagnato dalla rinascita fisica dell’operaio, colpì anche l’occhio meno attento. Quegli stessi capitalisti, ai quali la regolazione della giornata lavorativa era stata strappata pezzo a pezzo attraverso una lunga guerra civile, ora andavano ostentando la differenza esistente tra le loro fabbriche e quelle dei settori rimasti ancora senza disciplina legale, mentre dal canto loro i teorici apologetici dell’«economia politica» andavano proclamando che il principio della regolazione della giornata lavorativa era una conquista qualificante della loro «scienza».

Dopo che i signori del capitale dovettero adattarsi all’inevitabile, si indebolì la loro resistenza, mentre crebbe contemporaneamente la forza di attacco della classe operaia, che dal 1860 attraversa un periodo di rapidi progressi.

6. Come l’operaio entra nel processo produttivo e come ne esce

Abbiamo visto che sul mercato il lavoratore si presenta come proprietario della merce forza-lavoro e che il contratto con il quale esso la cede al capitalista dimostra che dispone liberamente della merce stessa. Ma, una volta concluso il contratto, si scopre che il tempo per il quale egli è libero di cedere la forza-lavoro è il tempo per il quale egli è costretto a cederla. Il contratto stipulato con il capitalista non è affatto l’atto di un libero agente. Senza una legge strappata con la forza della propria classe l’operaio si vede divorare dal capitale. Perciò, per realizzare la solenne dichiarazione «dei diritti inalienabili dell’uomo», l’operaio deve ottenere una legislazione che fissi quando termina il tempo da lui venduto al capitalista e quando incomincia invece il tempo libero per sé. Per la riproduzione biologica della forza lavoro, per la socialità e anche per attività liberamente scelte.

Concluderei la lettura del capitolo suggerendo un paio di riflessioni. L’analisi della giornata lavorativa precisa e permette di cogliere la realizzazione concreta della scoperta marxiana secondo cui la merce forza-lavoro nasconde una potenzialità che la rende diversa da ogni altra merce e produttiva di plus-valore. D’altra parte mette in scena direttamente l’altra irriducibile peculiarità della forza-lavoro: quella di essere indisgiungibile dai soggetti che ne sono portatori. Vediamo dunque, si può dire sotto i nostri occhi, formarsi una classe operaia capace di comportamenti collettivi che investono l’intera società. Anche quando la silenziosa coazione dei rapporti economici costringe i singoli operai ad accettare il furto di tempo a danno proprio e dei propri figli, collettivamente essi pongono la lotta per la giornata lavorativa normale al centro di una lotta economica che è anche difesa di un’economia morale che rende possibile l’affermarsi della dignità umana degli operai. Si tratta di lotte e comportamenti che ritroviamo in tutti i paesi in cui si afferma e si generalizza il sistema di fabbrica.

Chi volesse approfondire le questioni dell’uso della storia in Marx può leggere ancora molto utilmente le ricerche di Maurice Dobb citate in bibliografia e l’introduzione di Renato Zangheri, che a sua volta ricostruisce sinteticamente il dibattito svoltosi negli anni Cinquanta cui parteciparono insieme a Dobb e Paul Sweezy, tra l’altro Cristopher Hill, Georges Lefebvre, Albert Soboul e Giuliano Procacci.

Il riferimento a Braudel è obbligato anche se la vastità del volume qui citato, che rappresenta la sintesi di una vita di ricerche, esorbita dal nostro tema.


Note

[1] Il «truck-system», espressione inglese adottata anche in Germania, in Francia, in Italia nel gergo operaio, è il salario in cui una parte della retribuzione viene pagata in beni di consumo. Rivela due aspetti egualmente significativi. Da una parte molti capitalisti vi si attaccano con estrema tenacia, dimostrando di tenere al controllo di un monopolio sicuro rappresentato dai propri consumatori operai e quindi di ricorrere strumentalmente al libero mercato. Gli operai hanno dimostrato un’ostilità tenace a questa forma di retribuzione. Essa da un lato contravveniva ad abitudini e scelte sui luoghi dove acquistare e consumare i posti che erano anche scelte di socialità e qualche volta si traduceva in una spesa più elevata. Poi metteva in luce con estrema chiarezza – salario come approvvigionamento degli elementi indispensabili alla vita quotidiana – il carattere di pura sussistenza che il salario assume per il capitalista. Il cosiddetto «programma di Erfurt», adottato dal primo congresso dell’Spd tornato alla legalità nel 1891, ne chiedeva esplicitamente il divieto. In Italia un sostenitore attivissimo di questa forma di salario fu il grande industriale laniero Alessandro Rossi di Schio.
[2] Salario di sussistenza, prolungamento della giornata lavorativa, assoluta precarietà del rapporto di lavoro sono condizioni connesse e configurano l’identificazione secolare del lavoratore con il povero. Per gli estensori delle inchieste sociali del XIX secolo, che spesso erano o erano stati alti funzionari in ruoli connessi all’ordine pubblico, fabbrica, workhouse e carcere fanno parte della «questione sociale» allo stesso titolo. Chi volesse approfondire questi aspetti può tra l’altro consultare i miei lavori più recenti, da scorrere in bibliografia. Non si deve pensare tuttavia che non esistessero situazioni in cui operai molto qualificati di industrie semiartigianali, assai rappresentate in Francia, erano importanti per assicurare un prodotto spesso di lusso. Non erano però risparmiati dagli effetti della precarietà – licenziamenti nella «morta stagione», crisi economiche generali – ma erano vincolati dal «libretto operaio» che serviva non solo a segnalare gli operai conflittuali ma anche a impedire la mobilità alla ricerca di migliori condizioni salariali.

Bibliografia

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Dobb, M. (1946), Studies in the Development of Capitalism, London: Routledge&Kegan; trad it. Problemi di storia del capitalismo, Roma: Editori Riuniti, 1958 (seguita da altre edizioni, in particolare la seconda del 1974).
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Meriggi, M.G. (2005), Cooperazione e mutualismo: esperienze di integrazione e conflitto sociale in Europa fra Ottocento e Novecento, Milano: FrancoAngeli
Procacci, G. (1955), Dal feudalesimo al capitalismo, una discussione storica, in «Società», 11: 123-138.

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