venerdì 31 maggio 2019

Trump e la fine dell’American dream - Sergio Romano

Da: Fondazione Centro Studi Campostrini - Sergio_Romano è uno storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano.

                                                                           

lunedì 27 maggio 2019

domenica 26 maggio 2019

Fare la propria parte e lasciare che la natura faccia la sua - Bertolt Brecht

Da: Bertolt Brecht, Me-ti - Libro delle svolte, Einaudi, Torino, 1979 - Traduzione di Cesare Cases - http://www.contraddizione.it - 



Nel paese di Tsen imperversava un’aspra lotta tra mol­ti gruppi l’un contro l’altro armati. Mi-en-leh si schierò dalla parte dei fabbri d’aratri, poiché credeva che solo co­storo potessero far progredire il paese. Da essi ci si poteva aspet­tare i massimi sforzi, e i loro sforzi massimamente giovavano a tutti gli altri uomini.

Egli diceva: Se sono soltanto i contadini a raddoppiare i loro sforzi, il raccolto sarà poco più grande. Se invece si forniscono aratri in numero sufficiente, si otterrà molto. Vi erano infatti a quel tempo due sorte di aratri. Gli uni era­no fatti di legno, secondo l’antico costume, gli altri in­vece, più moderni, di ferro, e li si fabbricava in grandi of­ficine che appartenevano a potenti signori. Ma di siffatti aratri di ferro ve n’erano relativamente pochi. Erano co­stosi e po­tevano essere vantaggiosamente utilizzati solo per grandi estensioni di terreno, e trainati da cavalli. In­vece i semplici aratri di legno potevano essere fabbricati e usati dai contadini stessi. Il suolo lo incidevano assai poco profondamen­te. Questi aratri venivano usati dai contadini poveri. I quali avevano per di più tanto poca terra che non bastava a dar loro il cibo di un campicello.

Spesso dovevano lavorare anche nei grandi poderi, contro mercede. Molti figli di contadini migravano nelle città e chiedevano lavoro nelle fucine dei fabbri e in altre offici­ne. Ma solo una parte di coloro che la campagna non nu­triva erano nutriti dalle città. Il commercio degli aratri era contenuto in ristretti limiti. In primo luogo il nume­ro dei gran­di poderi era piccolo, e in secondo luogo i pa­droni delle fucine dovevano tenere alti i prezzi degli ara­tri. Il loro gua­dagno essi non l’aumentavano aumentando le vendite di aratri, ma principalmente aumentando l’op­pressione degli operai. Per la continua fuga dalle cam­pagne dei figli dei contadini poveri gli operai delle fucine si trovavano sempre a buon mercato. Essi versavano in grande miseria.

Con l’aiuto di Mi-en-leh i fabbri di aratri cacciarono i padroni delle fucine e conquistarono il potere.

I contadini poveri avevano appoggiato i fabbri nell’e­spellere i padroni delle fucine, e ora i fabbri li aiutarono ad espellere i padroni della terra. I contadini poveri sud­divisero subito tra loro la terra così conquistata.

Prima di giungere al potere Mi-en-leh aveva insegnato che prima di tutto bisognava provvedere tutto il paese di aratri di ferro. E molti avevano inteso che volesse subito sopprimere interamente i piccoli poderi. Ma quando egli assunse il potere insieme ai fabbri di aratri, fece il contra­rio. Egli lasciò la terra ai contadini poveri, come le offici­ne agli operai, e più precisamente a ognuno tanta terra quanta poteva coltivarne con le proprie forze. In tal mo­do egli perfino aumentò il numero dei campicelli, che era­no troppo piccoli per gli aratri di ferro. Solo pochi grandi poderi li amministrò lui stesso insieme ai suoi scolari.

Il filosofo Sa biasimò fortemente Mi-en-leh, dicendo: Mi-en-leh è come tutti gli altri. Il potere indebolisce la me­moria. E aggiunse: Chi è arrivato alla mèta, dimentica molte cose.

Mi-enleh rispose: Io ho insegnato, ora essi imparano. Essi hanno ascoltato, ora fanno esperienza.

Mi-en-leh rise di tutti coloro che credevano che in un sol giorno si potesse por fine con dei decreti ad una mise­ria millenaria, e proseguì nel suo cammino.

Presto si delineò la seguente situazione. I fabbri d’ara­tri, dopo aver cacciato i loro oppressori, fabbricavano più aratri di ferro che potevano, senza chiedersi quale prezzo ne avrebbero ricavato. I padroni della terra erano stati parimenti cacciati e la loro terra l’amministrava ora lo stato, oppure gli innumerevoli piccoli contadini indipen­denti. Tra i contadini ve n’erano di quelli che di terra ne avevano quanto bastava, e avevano anche i cavalli per ti­rare gli aratri. Per loro non valeva la pena di comprare aratri di ferro, perché la loro terra era troppo poca. I con­tadini più poveri non avevano cavalli e soffrivano la fame. Essi dovevano rivolgersi di nuovo a quelli più bene­stanti e compiere lavoro a mercede o lavoro per ottenere in pre­stito i cavalli. Presto si trovarono ad essere assai malcon­tenti. Il loro odio si indirizzò verso i contadini benestanti

Mi-en-leh non fece nulla contro questo odio, anzi l’attizzò. I fabbri di aratri inviarono nei villaggi persone che fa­cevano propaganda per gli aratri di ferro. Essi consiglia­vano ai contadini poveri di riunirsi in gruppi più numero­si che potessero e di mettere insieme più terra che potes­sero, onde valesse la pena di usare un aratro di ferro. A colo­ro che li seguivano essi inviavano aratri di ferro a credito. Invece ai contadini benestanti non davano credi­to e in­viavano gli aratri solo dopo molto tempo. Diceva­no tranquillamente: Noi e i contadini poveri stiamo bene insieme, noi fabbri di aratri non possediamo neanche noi ognuno la sua propria morsa, ché in questo modo non si potrebbe­ro fabbricare aratri.

La parola d’ordine di Mi-en-leh fu: Voi volevate la terra per il grano; ora datela via per il grano! Il che vole­va di­re: Se voi darete via i vostri piccoli appezzamenti di terreno, avrete più grano. Questa era la verità.

Presto si formarono gigantesche fattorie, più grandi delle fattorie padronali che c’erano prima. Dopo qualche tempo anche i contadini più benestanti dovettero entrare a far parte di queste fattorie, perché non si trovarono più lavoratori a mercede e i loro campi davano poco grano, perché i vecchi aratri di legno incidevano troppo poco il terreno. Così Mi-en-leh aveva attuato il suo programma facendo la propria parte e lasciando che la natura facesse la sua.



martedì 21 maggio 2019

Vitalità della riflessione marxiana e marxista sull’ideologia - Alessandra Ciattini

Da: http://www.marxismo-oggi.it - Alessandra Ciattini (Sapienza – Università di Roma) 



 Premessa 


In un mondo, nel quale a detta di alcuni, stiamo assistendo al trionfo della cosiddetta post-verità, in cui siamo intrisi sino alle midolla di ideologie invisibili che si presentano come l’effettiva rappresentazione dei fatti, in cui il paese più potente del mondo legge la storia attuale e futura come il dispiegamento del “secolo americano”, in cui trova spazio l’estremismo islamico, in cui risorge il populismo neofascista e neonazista, non possiamo in nessun modo accantonare la nozione di ideologia.

E ciò soprattutto perché si tratta di un’idea pericolosa, come dice il titolo italiano della traduzione del libro dello studioso britannico Terry Eagleton Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa (2007) (il titolo in inglese invece è Ideology. An Introduction1991)[1]. Idea pericolosa perché stabilisce una correlazione, complessa e articolata, tra certe idee e una certa struttura di potere. Oltre a queste considerazioni teniamo in conto che, dopo la caduta del muro di Berlino, alcuni non sprovveduti, cui i mass media hanno dato notevole e continua risonanza, hanno anche osato parlare di fine delle ideologie, evidentemente ignorando che la verità è solo un processo interminabile di paziente studio e ricerca, sul cui sfondo sta il nostro modo di concepire la vita sociale. 
Un’altra considerazione che ci consiglia di tornare a riflettere sull’ideologia e le sue molteplici valenze è rappresentata dal fatto che costituisce un nodo problematico del pensiero marxista, sul quale molti si sono divisi, accusandosi di riproporre con l’opposizione struttura / sovrastruttura l’antico dualismo positivistico, di ricadere nel volgare economicismo per l’uso della categoria del riflesso o di finire nell’idealismo per l’accento posto con enfasi sulle idee rispetto alla dimensione materiale.

La dialettica marxiana come critica immanente dell’empiria - Stefano Breda

Da: http://www.consecutio.org Stefano Breda, Freie Universität Berlin. 

1. Un campo di tensione teorica

La questione della specificità del metodo dialettico seguito da Marx nella sua critica dell’economia politica rispetto a una dialettica idealista è stata al centro di accesi dibattiti fin dalla prima pubblicazione del primo libro del 
Capitale. L’inconsistenza della celebre metafora del capovolgimento attraverso la quale Marx definiva il rapporto tra il suo metodo dialettico e quello di Hegel è stata convincentemente messa in luce da Althusser (1965, 87 ss.), il quale, però, non ha fornito alcuna vera alternativa complessiva. Indicazioni più concrete si possono trovare in alcune fondamentali intuizioni di Adorno e nella loro elaborazione da parte della Neue Marx-Lektüre, la nuova lettura di Marx sviluppatasi in Germania a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Se si seguono tali indicazioni, il rivoluzionamento della dialettica da parte di Marx non consiste in un capovolgimento di soggetto e predicato rispetto alla sua forma hegeliana, bensì nel riconoscimento del fatto che la dialettica tout court non è che l’espressione filosofica di quegli specifici rapporti sociali in cui soggetto e predicato si presentano oggettivamente capovolti: i rapporti capitalistici (cfr. Reichelt 1970, 81)[1]. Se dunque la dialettica, nella sua forma hegeliana, presenta un mondo capovolto, non la si rimette coi piedi per terra rovesciandola in quanto sistema di pensiero, ma svelandone l’oggettivo radicamento nei rapporti capitalistici e criticando un rovesciamento operante in tali rapporti. Da rovesciare, al più, sono allora i rapporti sociali materiali, non la dialettica: essa va piuttosto demisticizzata, de-naturalizzata, individuandone i presupposti storicamente determinati. Molto più appropriata di ogni immagine legata al capovolgimento è dunque un’immagine legata alla delimitazione: «la forma dialettica d’esposizione è corretta solo se conosce i propri limiti» (MEGA II.2, 91)[2], ovvero i punti nei quali la dialettica, da explanans, diviene essa stessa parte dell’explanandum, in quanto prodotto storico bisognoso di una spiegazione altrettanto storica.

Tutto ciò, però, rimane solo un’astratta concezione generale della dialettica finché non si sia data una risposta soddisfacente al problema fondamentale sollevato da Althusser: demisticizzare la dialettica non significa solo pensarla in termini diversi, ma, al contempo, trasformarne i principi operativi. Ora, se la demisticizzazione della dialettica corrisponde ad una sua limitazione, il problema si pone in questi termini: che cosa significa, operativamente, utilizzare la forma dialettica d’esposizione conoscendone i limiti?

lunedì 20 maggio 2019

La fine del mondo liquido e il superamento della modernità - Carlo Bordoni

Da:Fondazione Centro Studi Campostrini Carlo_Bordoni è un sociologo e scrittore italiano. 
                         Daniel Defoe: La vera storia di Jonathan Wilde - Ermanno Semprebene

       "L'uguaglianza non c'è mai stata... non è mai esistita... 
                          l'uomo l'ha sempre detta - a voce - ma non c'è mai stata." (Z. Bauman)                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

domenica 19 maggio 2019

Osservazioni a proposito di scienza e filosofia - Stefano Garroni

Da: Stefano GarroniDialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, (Dialettica riproposta - Stefano Garroni - lacittadelsole).Stefano Garroni  è stato un filosofo italiano.  




      Indice:


Nota dell’editore
                                                                                                                                                                                              
Stefano Garroni: Dialettica riproposta - Presentazione di Paolo Vinci 











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Riproporre, oggi, la questione del rapporto scienze e filosofia è cosa, non solo utile, ma addirittura necessaria1, in particolare se si tengono presenti due circostanze storicamente obiettive.


In Marx, termini come materialismo o materialista sono perfettamente sostituibili con scienza o scientifico – il che significa che, proclamandosi materialista, Marx non sta per nulla riproponendo la disputa speculativo-metafisica tra il materialismo, appunto, e il suo opposto l’idealismo2. E fa molto bene a comportarsi così, se è vero – come è vero – che quelle due espressioni non solo hanno avuto storicamente significati diversi, ma addirittura, in situazioni diverse son servite ad indicare uno stesso atteggiamento. Per fare un esempio a noi molto vicino, si ricordi che nella rivista di Gramsci Ordine nuovo vennero pubblicati articoli, in cui si esaltava l’idealismo di Lenin, intendendo con tale espressione ciò che noi siamo abituati, invece, a considerare il suo materialismo.

D’altra parte è noto, anche, che critici attenti hanno colto, nel lukàcciano La distruzione della ragione, non la ripresa e continuazione della fumosa e difficilmente precisabile contrapposizione e lotta tra materialismo e idealismo, ma – assai più realisticamente – quella tra sviluppo di un pensiero, fondato sulle scienze e capace di mettere in evidenza anche il loro implicito etico-politico, e dall’altra parte, invece, le tendenze irrazionalistiche e formalistiche, promosse – sempre secondo Lukàcs – da necessità interne allo sviluppo imperialistico.3

Dunque no alla contrapposizione metafico-speculativa tra idealismo e materialismo; invece alla perfettamente comprensibile e precisabile opposizione tra sviluppo – anche filosofico – delle scienze, e/o sua riduzione e falsificazione da parte della società imperialistica: come si vede, abbiamo il riproporsi dell’opposizione, di cui diceva Platone, fra amici e nemici delle forme. 

sabato 18 maggio 2019

"La più bella delle teorie" - Carlo Rovelli

Da: http://www.filosofiprecari.it - Il presente articolo è tratto da “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli. - Carlo_Rovelli è un fisico italiano.

Da ragazzo, Albert Einstein ha trascorso quasi un anno a bighellonare oziosamente. Era a Pavia, dove aveva raggiunto la famiglia, dopo avere abbandonato gli studi in Germania. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, fatto che spesso dimenticano i genitori degli adolescenti. Era l’inizio della rivoluzione industriale, e il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in Italia. Poi Albert si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli in un’unica busta alla principale rivista scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui spero di dire qualcosa in futuro su questa pagina. Il terzo presentava la Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), che chiarisce che il tempo non passa eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa un fisico rinomato e riceve offerte di lavoro da diverse università. Ma qualcosa lo turba: la sua Teoria della Relatività non quadra con quanto sappiamo sulla gravità. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla nuova teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «Teoria della Relatività Generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau. 

mercoledì 15 maggio 2019

LA CINA SPIEGATA BENE - Michele Geraci

Da: byoblu - 
Michele Geraci, economista, ex docente di Economia e Finanza all'Università di New York a Shanghai. E' sottosegretario allo Sviluppo Economico del Governo Conte. 
Leggi anche: La nuova via della seta. Un progetto per molti obiettivi - Vladimiro Giacché

"L'importante e' che si parli di Cina, che si cerchi di comprendere cosa sta succedendo, senza preconcetti.  
Approfitto per aggiungere e chiarire un concetto importante: La Cina ha avuto uno sviluppo economico cosi' impressionante grazie a 5 pilastri: 
1) controllo dei dazi, 
2) controllo della migrazione 
3) controllo demografico, 
4) controllo del cambio  
5) controllo dei tassi d'interesse. 
E ovviamente, batte moneta, il che e' una grande arma se usata bene." 

                                                                     

martedì 14 maggio 2019

Vittoria del capitalismo? - Hyman Minsky

Da: http://www.fondazionezaninoni.org - hyman-philip-minsky è stato un economista statunitense.
Leggi anche: EPITAFFIO PER L’URSS: UN OROLOGIO SENZA MOLLA - Christopher J. Arthur
                     Socialismo di mercato” - Gianfranco Pala


"Il 25 ottobre 1990 il Centro culturale Progetto di Bergamo ha organizzato il convegno Vittoria del capitalismo?, relatore Hyman Minsky. Pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, quando c’era chi preconizzava la fine della storia con la vittoria finale del capitalismo, Minsky contrapponeva una lucida lettura, anticipando le caratteristiche del nuovo fragile sviluppo capitalistico..."
(PAOLO CRIVELLI)



Vittoria del capitalismo? 

Il collasso delle economie di tipo Sovietico è stato salutato come una vittoria del Capitalismo e il crollo simultaneo dei regimi politici comunisti è stato usato per convalidare l’identificazione del Capitalismo con la democrazia.

Da alcune parti si avanza l’idea che questa vittoria segni la fine della Storia così come noi l’abbiamo conosciuta. Ma le vicende del Golfo, la fragilità della prosperità capitalistica e le pressioni nazionaliste risvegliate dal collasso dell’egemonia Sovietica nell’Europa orientale indicano che la Storia non finisce, ma fluisce come il Mississippi che nella canzone “...continua a scorrere”.

Non c’è dubbio che il Socialismo centralistico autoritario di tipo Sovietico è crollato. Ma questa forma di Socialismo non è la sola possibile. Il modello Sovietico ha sempre avuto la caratteristica di non consentire che le preferenze e i desideri della gente influenzassero la produzione. Segnali effettivi (decisioni) nel Socialismo di tipo Sovietico andavano dall’alto verso il basso, mai dal basso,  dalla popolazione verso coloro che avevano il potere di decidere che cosa e come produrre. Esistono modelli teorici alternativi di Socialismo nei quali regna una sovranità del consumatore più ampia rispetto a quella delle economie di tipo capitalistico.

Questo modello autoritario di economia centralizzata non è cattivo quando i compiti assegnati all’economia sono semplici: quando si deve produrre solo pane o carri armati. Un’economia centralistica ha funzionato bene nella trasformazione da una società di tipo contadino ad una economia di produzione di massa limitata nella varietà di beni – quando acciaio, cemento e macchinari sono tutto ciò che deve essere prodotto: questo tipo di economia funziona altrettanto bene per la produzione di materiale bellico. Gli approvvigionamenti militari negli Stati Uniti e nel Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale seguivano un modello di economia centralistica. 

domenica 12 maggio 2019

‘Tutto il potere ai soviet’ - Lars T. Lih

Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com - Link al post originale in inglese John Riddell



                      Il seguente articolo è il primo di una serie di sette. 

  La terza parte: lettera-da-lontano-correzioni-da-vicino-censura-o-rimaneggiamento 

    La quarta parte: Tredici a due: i bolscevichi di Pietrogrado discutono le Tesi di aprile 

     La quinta parte: Una questione fondamentale’: le glosse di Lenin alle Tesi di aprile 

       La sesta parte: Il carattere della Rivoluzione russa: il Trotsky del 1917 contro quello del 1924 

          La settima parte: Esigiamo la pubblicazione dei trattati segreti’: biografia di uno slogan gemello


Un’appendice a questa stessa prima parte, “Mandato per le elezioni al soviet”
pubblicata separatamente nel caso dell’originale inglese, viene qui pubblicata in calce. 



Tutto il potere ai soviet!’, parte prima: biografia di uno slogan


Tutto il potere ai soviet!”, senza alcun dubbio uno dei più celebri slogan nella storia delle rivoluzioni. A giusto titolo a fianco di “Liberté, égalité, fraternité” quale simbolo di un’intera epoca rivoluzionaria. Nel presente saggio, e in altri che seguiranno, prenderò in esame la genesi di questo slogan nel suo contesto originario, quello della Russia del 1917.

Il nostro slogan consiste di tre parole: вся власть советам, vsya vlast’ sovetam. “Vsya” = “tutto”, “vlast’ “potere” e “sovetam” = “ai soviet”. La parola russa sovet significa semplicemente “consiglio” (anche nel senso di suggerimento) e, da questo, “consiglio” (nel senso di assemblea). Oramai siamo ben abituati a questo termine russo, poiché evoca tutta una serie di significati specifici derivanti dall’esperienza rivoluzionaria del 1917.

In questa serie di articoli, ricorrerò spesso all’originale russo di una delle parole presenti nello slogan in questione, vlast’ (che d’ora in poi verrà traslitterata senza segnalare il cosiddetto jer molle [Ь] con l’apostrofo). “Potere” non ne dà una traduzione del tutto adeguata; difatti, nel tentativo di coglierne le sfumature, vlast viene spesso tradotto con la locuzione “il potere” (ad esempio da John Reed in I dieci giorni che sconvolsero il mondo). Il russo vlast riguarda un ambito più specifico rispetto al termine “potere”, ovvero quello dell’autorità sovrana di un particolare paese. Perché un soggetto sia ritenuto in possesso del vlast, deve avere il diritto di assumere decisioni definitive, essere dunque in grado di prenderle e vederle eseguite. Il vlast, per essere effettivo, richiede un fermo controllo delle forze armate, un forte senso della legittimità e missione assunte, nonché una base sociale. L’espressione di Max Weber sul “monopolio della violenza legittima” va dritto al cuore della questione.