mercoledì 3 aprile 2019

Scienza e politica in Kant e Hegel - Stefano Garroni

Da: Stefano GarroniDialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini(Dialettica riproposta - Stefano Garroni - lacittadelsole).Stefano Garroni  è stato un filosofo italiano. 



    Indice:


Nota dell’editore











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È facile comprendere come, quali che siano le tesi, che vengono sostenute a proposito del rapporto scienza – politica, a loro fondamento ci debba essere un certo modo di pensare il rapporto ragione – comportamento pratico. Sappiamo, anche, che la storia filosofica presenta tesi diverse e perfino incompatibili in proposito. Probabilmente è vero anche, però, che, in epoca moderna (dunque, in questo ambito, mi disinteresso del pensiero classico), le due posizioni possibili ed auto-esclusive, circa il rapporto ragione – comportamento pratico, sono state assunte e sviluppate rispettivamente da Kant e da Hegel.

Chiunque, dunque, voglia (o abbia voluto) porsi il primo problema (del rapporto scienza – politica), sul piano logico, deve aver affrontato dapprima l’altra questione, quella del rapporto fra ragione e comportamento pratico: lo scopo di questo scritto è esattamente ricostruire – assai schematicamente in vero – il pensiero in proposito dei due classici citati, che sono ancora una volta Kant ed Hegel.

I – Una curiosa contraddizione in cui viviamo (ma, forse, curiosa non è l’aggettivo esatto, dati i guasti che ne derivano dal punto di vista sia politico, che morale), è quella di scambiare ciò che è nuovo per noi, – nel senso che capita per la prima volta nella nostra esperienza, con ciò che è oggettivamente nuovo, – nel senso che si presenta per la prima volta (nella misura in cui ciò sia di fatto possibile) all’esperienza storica o obiettiva.

La medicina contro tale errore, la terapia contro l’ideologia del novismo, ovviamente è lo studio della storia, attraverso cui possiamo scoprire la piena attualità di certi testi, scritti secoli addietro.

Dico “attualità”, nel senso che quei testi sanno chiarirci i termini di problemi odierni molto meglio di quanto non faccia tanta parte della letteratura contemporanea (che generalmente non è scientifica, ma sì ideologica). Veniamo al punto. 

Certamente fa parte della “retorica” (ideologia) odierna l’affermazione che esiste un autentico iato tra la coscienza che abbiamo della nostra società e la rappresentazione di essa, offerta dalla letteratura sociologica e politica ottocentesca: iato determinato dal ruolo, mai così rilevante, dei risultati della scienza nell’organizzazione della odierna vita sociale e che, dunque, compito fondamentale – oggi ! – del sociologo (nonché del militante politico) sia studiare come la scienza abbia modificato nel profondo i termini stessi della problematica sociale.

Viviamo ormai – questo si dice – nella società della conoscenza, con la conseguenza non solo di una trasformazione della fisionomia tradizionale delle classi sociali, ma anche dell’apparizione di nuovi protagonisti della conflittualità, così come pure di nuove forme e sensi del progresso sociale1.

È chiaro – va tuttavia aggiunto – che se non si dà di questa problematica una versione determinata, se non se ne mettono in luce i lati diversi e le loro articolazioni, necessariamente il discorso, che di tale problematica parla, si fa generico (dunque, anti-scientifico).

Per parte nostra ci soffermeremo su un lato determinato della questione, anche per dar meglio la possibilità di sottoporre a controllo critico quanto andremo affermando, – ma sempre accompagnati dalla consapevolezza, che esistono altri lati del problema, che, qui, dovremo necessariamente trascurare o lasciar nell’ombra.

Ciò che qui ci interessa rimarcare è come da tempi lontanissimi esista un rapporto fra il modo di concepire la scienza e il modo di concepire la politica e, in generale, l’agire storico dell’uomo.

Proprio l’autorità dell’assunto, rende ragionevole ricercare in Kant e in Hegel (e già abbiamo ceduto fin troppo alla “modernità’) i due modi, fondamentali ed opposti, di porre a tema le questioni, di cui stiamo dicendo, quella, cioè, del rapporto tra politica e universo scientifico.

Per rappresentare il punto di vista di Kant ci serviamo dello scritto Idea per una storia universale da un punto di vista cosmopolitico2, del quale tuttavia – per ovvi motivi anche di spazio – daremo una rappresentazione rapida, fissandoci solo su alcuni punti.

In realtà, il tema principale che è affrontato dalla scritto kantiano è quello della contraddizione fra concezione metafisica della libertà ed il fatto che, comunque, le sue oggettivazioni, i comportamenti in cui la libertà si estrinseca  sono, come qualunque fenomeno naturale, sottoposti a leggi di natura.  In altre parole, anche quando legittimamente posso affermare «opero per libera mia volontà», anche – e proprio allora – cado nella contraddizione di mostrarmi, in quanto libero, in tutta la mia dipendenza da leggi naturali, ovvero, dalla necessità naturale, perché traduco il mio volere in comportamenti determinati, che sono avvenimenti fisici, e dunque sottoposti alle leggi di natura.

È interessante sottolineare che, per rimarcare lo scarto fra concezione metafisica della volontà libera e sua estrinsecazione obiettiva, Kant ricorre all’esempio della statistica, la quale se non sa dire quale persona esattamente si suiciderà o quale deciderà di fare un figlio, tuttavia sa dire con relativa precisione quante persone “decideranno liberamente” uno dei due atti3.

Insomma, ciò che conta è che per conoscere cosa effettivamente avverrà, non posso affidarmi alle “scelte della volontà libera” degli individui, ché debbo invece riuscire a comprendere quale piano, quali obiettivi una potenza diversa dalla volontà individuale si pone o si è posta: quest’altro livello, questa dimensione più profonda – la quale è essa a dar senso all’agire individuale – Kant la chiama natura e – lo sappia o non lo sappia l’uomo – è proprio la natura (in questo senso) con le sue regole a guidare, ad orientare il comportamento umano. A questo punto il compito del filosofo diviene, al di là degli assurdi comportamenti umani, riuscire a cogliere lo svolgersi di una storia secondo un piano, ovvero, uno svolgersi, che sia determinato dalla natura.

Il testo di Kant, che stiamo esaminando, è composto di nove proposizioni, particolarmente complesse, perché strettamente collegate ad una problematica, che rimanda a diversi importanti autori – a volte anticipati da Kant – e che si dovrebbero richiamare esplicitamente, per intendere appieno la portata storica del discorso che il filosofo tedesco fa. Ma evidenti questioni di spazio ce lo sconsigliano.

Tuttavia non è possibile non richiamare l’attenzione sulla circostanza che, nella Seconda proposizione, Kant sottolinei due temi, che avranno grande importanza sia nella riflessione di Hegel come anche in quella di Marx.

Intendo, dapprima, la convinzione che la storia sia la scena, in cui le disposizioni umane vanno sviluppandosi e raffinandosi, allo scopo di raggiungere, appunto nella storia, la propria completezza, il proprio finish (come dirà Marx).

Ma anche l’osservazione che questo tendere alla completa realizzazione di sé da parte delle disposizioni umane, implica una grande fatica e che solo attraverso la fatica (Mühe o anche Arbeit) l‘uomo conquista ed arricchisce la propria umanità.

In tali accenni riavvertiamo l’eco di quel pragmatismo lockiano, che faceva sì che si lodasse dio per le capacità messe naturalmente a disposizione dell’uomo: – capacità, bastevoli a risolvere i complessi problemi del vivere, ma inadatte a superare ulteriori confini. In Kant, forse, più insistita che in Locke, c’è la convinzione che impegnandosi a dare una soluzione razionale alle difficoltà che gli si presentano, l’uomo si conquista una più profonda dignità morale.

Anche a questo punto, però, possiamo tracciare una linea che unisce Kant a tanta cultura a lui contemporanea ed a Hegel, in particolare.

C’è in Kant – l’abbiamo visto – la sollecitazione all’uomo che l’ordinamento, che ne guida il comportamento, sia qualcosa di coincidente con i dettami della sua ragione e non con mitologie cristallizzate (l’anti-talmudismo, che troviamo, non per caso, anche nel totus politicus Togliatti).

E c’è anche la consapevolezza che, siccome è nella storia che le qualità umane si svolgono, è solo nella storia, che possono realizzarsi e che, dunque, solo per le generazioni future possono rappresentare un effettivo vantaggio. Ma andiamo avanti: ancora un tema di grande importanza è quello dell’insocievolezza.

Sia considerando la storia precedente che la successiva, è certo che non solo a Kant appartiene la coscienza che troppo semplicemente si parla di socialità dell’uomo. Senza ricorrere a Mandeville4 e neppure a Freud5, possiamo facilmente concedere che nei secoli larga è stata la consapevolezza, almeno dal Seicento, che adeguare l’individuo al mondo significa realizzare quell’«imbrigliamento », quella Bändigung, che fa del fascio pulsionale qualcosa di relativamente coordinato – Bändigung che, tuttavia, pur quando riesca ad organizzare il patrimonio pulsionale, non raggiunge mai risultati né completi, né durevoli.

Come abbiamo visto, dunque, la scena dell’agire umano è, per Kant, segnata dalla contraddizione.

Nel senso che, ad es., se l’imbrigliamento pulsionale è condizione fondamentale perché l’agire possa realizzarsi con equilibrio, è vero però che quell’imbrigliamento è solo parziale e continuamente revocabile; pur se è vero che l’uomo si impegna allo sviluppo ed al potenziamento delle proprie forze e qualità, è altrettanto vero che il destinatario dei suoi sforzi non è se stesso, ma sì le generazioni future.

Ma, ancora più a fondo, se l’uomo ha bisogno, per vivere, degli altri uomini, tuttavia contemporaneamente ogni singolo cerca subito di mettere a proprio frutto i vantaggi della collaborazione altrui – ed esattamente nel senso di ridurre al suo completo profitto e dominio l’intero prodotto comune.

Insomma, il paradosso pratico dell’uomo è questo: da un lato di essere sollecitato dalla natura a vivere da autentico animale politico, dall’altro di concepire i suoi simili – e pur questo è opera della natura – come impedimenti, come ostacoli al suo pieno godimento – quasi strumenti, che volessero paradossalmente godere dei beni, di cui hanno un merito solo materiale.

II – Considerando il testo di Kant non può ovviamente sfuggire che il pensiero, il quale riflette sull’azione e cerca di organizzarla, in realtà non ha – intimamente – nulla in comune con l’azione stessa: per così dire potremmo avere, senza che questo crei problemi o scandali, se non per le conseguenze pratiche, un’autentica scissione tra pensare ed agire e, dunque, la paradossale situazione di una pratica, che mostri post festum di aver seguito linee di orientamento del tutto estranee alla ragione6.

Con Hegel ciò non è possibile: nella sua prospettiva il pensiero si fa il pensiero di quell’azione, e l’azione si fa l’azione di quel pensiero.

È il francese Eric Weil, che ha con estremo rigore messo ordine in questa fondamentale relazione, distinguendo ma anche intrecciando tra loro la nozione di attitudine e quella di categoria7. Vediamo.

L’uomo mostra la sua presenza, in primo luogo, assumendo un’attitudine determinata verso il mondo (sia storico che naturale); protraendosi nel tempo, quest’attitudine si approfondisce sempre più in se stessa, amplia la sua sfera ed acquista coscienza di sé – e del mondo che essa filtra –, con ciò cristallizzandosi, anche.

È in questo modo, che l’attitudine si trasforma in categoria8 (in termini più generici, ma forse utili per farci capire, si potrebbe dire che svolgendosi nel tempo ed investendo il serio dell’esistenza, l’attitudine elabora una coscienza di sé, per cui assai stretto è il rapporto tra il semplice essere e la riflessione sull’essere – ognuno dei due, solo rimandando all’altro da sé, diviene appieno comprensibile. In particolare, sottolinea Weil, un’attitudine passa a categoria, quando incontra il proprio “altro”, ovvero una nuova attitudine.

Il rapporto fra le attitudini (e le conseguenti categorie) non è mai quello della confutazione, ma sì del superamento – dacché ogni attitudine è un possibile modo d’essere9, dunque, rimanda al piano dell’esistenziale, capace certo di fornirsi degli strumenti logici per dar forza e dignità a se stesso, nel senso che la fondazione logica è un’arma a suo favore, ma non certo un mezzo per cancellarlo – e la riprova sta nel fatto che l’uomo può “ricadere” in un’attitudine, già vissuta, dunque, in questo senso, già “superata” teoricamente.

Abbiamo già visto come l’attitudine sia una possibilità umana, un vissuto, non necessariamente cosciente: se e quando il filosofo ne parla – puntualizza Sichirollo10 – attitudini e categorie sono contemporaneamente presenti nella storia, ma nelle singole situazioni ne emerge e se ne manifesta una sola fondamentale, e soltanto una. Ogni categoria comprende quelle che la precedono: ma quando, dove e come di volta in volta il nuovo si manifesta, la sua ricostruzione e il suo racconto è ciò che chiamiamo la storia, storia compresa, dialettica della storia, biografia, autobiografia del genere umano11. 

Note

1 È interessante qui ricordare quanto scrive Lucien Goldmann, il
quale rimarca non solo l’influenza dell’economico sullo scientifico, ma anche
come a volte, in circostanze determinate, ciò significa, anche, un progresso
per la stessa scienza. Egli sottolinea, infatti, che l’affermazione piena
del valore di scambio, con tutte le conseguenze socialmente negative che ne
son derivate, tuttavia, togliendo valore alle differenze qualitative in nome
di quelle quantitative, finisce col contribuire a render possibile la fisica
meccanicistica (cf. L. Goldmann, Recherches dialectiques, Paris 1980: 77).

2 “Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht”.
Questo saggio, che risale al 1784, appare sia come annesso alla
Kritik der Urteilskraft, sia come una componente degli Schriften zur
Geschichtsphilosophie.

3 Questa considerazione di Kant anticipa quanto sostenuto da E.
Durkheim nel suo saggio Le suicide del 1897.

4 B. Mandeville, The Fable of The Bees, England – Australia 1970.

5 S. Garroni, Quaderno freudiano, 1988.

6 Purché non lo si intenda in modo semplicistico e schematico,
vale notare che l’interesse psicologico, che dette progressivamente nascita
alla psicologia del profondo, nacque da larghi ed attenti studi sul
fenomeno della personalità multipla.

7 Nel suo, già cit., Recherches dialectiques: 108, Goldmann chiama
il nesso attitudine/categoria «visione del mondo», che è un modo assai
adeguato, probabilmente, di tradurre il tedesco Weltanschauumg (ma
forse non altrettanto il termine Weltbild).

8 È interessante che da quanto detto possiamo anche comprendere
meglio un tema, spesso frainteso – intendo l’analogia hegeliana di filosofia
e nottola di Minerva. Come bene argomenta Sichirollo, allievo di E.
Weil: la filosofia è in ritardo rispetto al proprio oggetto, in quanto di
esso è la coscienza; infatti, possiamo dire con E. Weil che le categorie,
nelle quali si articola il pensiero, sostanziano la consapevolezza di sé
che storicamente un’attitudine va costruendosi.

9 Si noti anche in Hegel – oltre che in Leibniz e, forse, in prospettive
anche diverse – la centralità della problematica del possibile.

10 v. S. Sichirollo, Dialettica, Editori Riuniti 203: 21s.

11 È in questa prospettiva che L. Goldmann a p. 18 del suo lavoro
già cit. afferma che il materialismo storico è un’attitudine pratica verso la
vita: l’ideologia di una classe, che vuole trasformare il mondo per realizzare
quel massimo di comodità e di libertà umane, che caratterizzeranno

un giorno la società socialista. 


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