venerdì 4 gennaio 2019

La falsa alternativa: la religione, secondo Hegel (e Marx) - Stefano Garroni

Da: Stefano Garroni, Dialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, la città del sole. - Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. 



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Nota dell’editore 











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Questo mio scritto vuol avere la funzione di presentare un bel libro recente, ovvero “Il tragico nel primo Hegel. Tragedia cristiana e destino della modernità”, che Renato Caputo ha pubblicato quest’anno presso l’editrice leccese Pensa Multimedia. Il fatto è, però, che il libro di Caputo appartiene certamente alla letteratura scientifica su Hegel e che, dunque, offre insormontabili difficoltà, quando si pretenda di trattalo, come si meriterebbe, da opera scientifica, ma di far ciò di fronte ad un pubblico non di specialisti del pensiero hegeliano o, almeno, di questioni filosofiche.

La scelta che faccio, di conseguenza, è tentare di mettere in luce il senso culturale e politico, che un libro come questo può avere per persone, comunque impegnate nel tentativo di comprendere il mondo in cui viviamo.

Da questa scelta derivano sia la mancanza di citazioni, sia il fatto che svolgo il discorso come se fosse semplicemente il mio discorso, mentre invece si tratta di ciò a cui conduce la ricerca di Caputo – posta, ovviamente, l’interpretazione, che ne do. 


Se indichiamo col termine «secolo moderno» l’epoca che inizia dall’Illuminismo e che continua almeno fino al termine del Novecento (ma, in realtà, fino ai nostri giorni), possiamo dire che in quest’arco di tempo la “politica” ha avuto più di un’occasione per provocare devastanti disillusioni, non solo nel senso di non riuscire ad offrire quanto prometteva, ma addirittura di dare il contrario di quanto lasciava immaginare e sperare. 

Basti considerare la vicenda della Rivoluzione francese – e non tanto per quella sua fase, che vien detta del Terrore, quanto perché il suo risultato positivo, storicamente controllabile e durevole, fu l’imporsi di un generale sistema di sfruttamento, tanto nuovo, quanto capace di espandersi in tutto il mondo, di piegare senza residuo quest’ultimo alle sue esigenze.  

Con la Rivoluzione francese, infatti, è il capitalismo che si afferma mondialmente, con l’accompagnamento, volta a volta, dello schiavismo, del colonialismo, dell’imperialismo e comunque sempre dello sfruttamento vieppiù intenso del lavoro umano, la disoccupazione, le guerre di sterminio e tutti i mostruosi fenomeni, che caratterizzano gli stessi anni che noi viviamo.

È ben chiaro come non sia diretta la connessione tra Rivoluzione francese e l’attuale barbarie israelo – americana (per fare un esempio di ciò che è oggi l’imperialismo): altre disillusioni o fallimenti della “politica” dobbiamo considerare (né dobbiamo dimenticare – ma lo vedremo in seguito – quale grande significato di liberazione gli ideali illuministici abbiano e continuino, comunque, a rappresentare per l’umanità tutta intera).

Un altro scacco della politica è, ad esempio, quel “pacifico” (a parte lo sterminio dei popoli di colore) orientamento politico, che caratterizzò tanto Ottocento, fiducioso che lo sviluppo della scienza in quanto tale e la sua applicazione sempre crescente alla produzione economica avrebbe assicurato progresso e benessere all’umanità in generale (ovviamente, bianca e cristiana); ebbene proprio questo Ottocento fu costretto a scoprire l’alienazione umana, che si legava ad un certo sviluppo, organizzazione e utilizzazione della scienza (si può ricordare in proposito il libro, che E. Zola intitolò significativamente La bestia umana, nel quale l’autentico protagonista è il treno preso a modello dello sviluppo scientifico e tecnologico appunto).

Ma questa contraddizione, tra sviluppo tecnicoscientifico e suo utilizzo per finalità contrarie all’umanità (e, se si vuole, a quegli “Immortali Principi”, che la Rivoluzione francese aveva inalberato), si svolge durante tutto l’Ottocento (si pensi a quella magnifica descrizione, che della vita borghese offre Madame Bovary) – questa contraddizione, dicevo, raggiunge il suo vertice, per la prima volta universale, con la Grande Guerra – come ancora viene chiamata la prima guerra mondiale.

È proprio quella l’occasione, in cui con la massima visibilità la politica seppe ridurre quel potentissimo strumento di liberazione, che è la scienza, in raffinato e implacabile mezzo di avvilimento umano, d’immiserimento dell’uomo quasi a verme, costretto a vivere nascosto, nelle trincee, nelle viscere della terra (come Trockij e Lenin notarono, all’epoca, nelle loro corrispondenze
giornalistiche).

E si pensi poi a fascismo e nazismo che, sia pure impropriamente, vennero salutati da milioni di uomini come riscatto in ogni senso, non solo militare e politico, ma civile in generale. È inutile soffermarsi sul fallimento, che coronò le loro imprese e sulla sofferenza immane, che l’umanità dovette pagare per questo. Ma forse la sconfitta più grave, il “tradimento” maggiore di cui si è macchiata la politica è stata la dissoluzione del campo socialista europeo.

Mai come in questa circostanza scienza, morale, consapevolezza storica e sociale avevano militato, tutte, a sostegno di un grandioso progetto di liberazione ed emancipazione umana che, ad es. negli anni 30, coinvolse tutte le forze culturalmente più vive dell’epoca (da Freud a Wittgenstein) – personalità, che anche per noi oggi sono, per così dire, maîtres à penser.

Mai come in occasione della Rivoluzione socialista d’Ottobre e del faticoso suo cammino verso il socialismo, milioni e milioni di uomini si riconobbero in un’impresa comune e seppero dare tutto per essa. Eppure il suo destino, come dice assai efficacemente la lingua spagnola, fu il fracaso.

Ed a ben considerare, il risultato più grave di quel fallimento – o fracasso – fu il fatto di lasciare il movimento dei lavoratori, il movimento anticapitalistico per il socialismo senza più “discorso”, senza saper più che cosa esattamente significhi combattere il capitalismo e costruire il socialismo (peggio ancora: cosa sia socialismo).

È importante notare che in tutte queste occasioni, ovvero che ogni qual volta la politica non si dimostrò all’altezza degli impegni presi e tradì profonde aspirazioni umane, una reazione particolare ne scaturì – certo in forme, volta a volta diverse, ma uguale nella sostanza.

Intendo la ricerca di un’alternativa alla crisi devastante che si viveva, affermando la possibilità e, perfino, la realtà di un “altro” mondo.

E questo altro mondo non poteva che essere a dir così un mondo … non mondano, ma sì divino, nel senso di rinviare ad un potere ultraterreno (anche se capace di agire sul mondo); ad un potere talmente sovrastante ed incomprensibile, assurdo per noi, da impedirci di non riconoscerlo, di non piegarci in ginocchio di fronte ad esso ed ai suoi voleri. La religione, insomma, come alternativa1.

Si badi, però, a non semplificare, vale a dire ad intendere per religione necessariamente una qualche chiesa positiva, organizzata, con una sua gerarchia, una dottrina definita ed obblighi chiari.

Questa forma di religione – che chiameremo, riprendendo Hegel, positiva – si fonda su una contraddizione fondamentale: mentre vuol indicare all’uomo la sua vera, autentica realtà e la strada della sua salvezza, contemporaneamente, chiede a questo stesso uomo la rinuncia di sé, la rinuncia ad interpretare a suo modo il divino, la rinuncia alla propria capacità di intendere e volere, per piegarsi invece alla estranea volontà del divino (o, meglio, di chi pretende di rappresentarlo).

Naturalmente esistono le chiese positive – nel senso appena chiarito – e di fatto possono rappresentare quell’alternativa alla crisi, che l’uomo – in certe condizioni storiche – va cercando.

Ciò non toglie, tuttavia, la contraddizione che, sulla scorta di Hegel, notavamo e, dunque, che questa alternativa non solo è una falsa alternativa, ma che addirittura peggiora il male dal quale l’uomo vuole uscire.

Se il suo problema, infatti, è quello di sentirsi estraneo nel suo stesso mondo, di non sentirsi in esso «presso di sé», la religione positiva peggiora le cose, in quanto obbliga l’uomo a chinarsi senza residui ad una volontà superiore e indiscutibile, dunque, non fa che estremizzare la scissione dell’uomo con se stesso e col mondo a cui aderisce. Una religione di tal genere accresce l’asservimento dell’uomo (perché lo induce ad accettare credenze, riti e obbligazioni sull’unico fondamento, che, tutte, esprimono la volontà del divino). Una tale religione, inoltre, accentua la scissione dell’uomo dal suo mondo, in quanto ne fa, in primo ed essenziale senso, un figlio di dio e non un cittadino.

Se questo modo di ricorrere alla religione, per sfuggire alla crisi del proprio mondo, riesce comunque a costruire una comunità (dei fedeli, dei figli di dio) – quest’ultima è, in ogni caso, “altra” rispetto alla comunità politica e, dunque, in realtà offre un’alternativa, che non risolve il problema, perché non ne toglie le radici.

Ma la religione può offrire anche altre alternative, più intimiste, perché fondate non tanto sull’accettazione acritica di una tradizione di credenze e di istituzioni, quanto piuttosto sulla pretesa di un incontro diretto, di una sorta di immedesimazione tra l’uomo e la “verità religiosa”.

Lo spettro delle possibilità è qui ampio: dalla pretesa dell’individuo d’essere l’unico, che può interpretare il testo sacro secondo quelli che sono i suoi, particolari bisogni umani profondi; alla costituzione di piccole comunità religiose, in opposizione alla chiesa ufficiale; dall’invasato che ritiene di possedere l’esclusivo privilegio di conoscere il vero, perché dio stesso glielo ha immediatamente trasmesso, al piccolo gruppo che rimarca la propria differenza dalla comune vita sociale e mondana, dedicandosi a pratiche da essa respinte e a attività prive di un’oggettiva prospettiva.

Quello che resta, comunque, è che – quando l’alternativa alla crisi del mondo vien cercata in un “altro” mondo o nell’intimità della coscienza –, il risultato a cui si giunge è sempre lo stesso: la realtà autentica dell’uomo non è identificata con il suo essere storico e sociale, ma sì con l’appartenere ad una dimensione che, per natura, né è mondana, né è storica, né è sociale – dunque, in ogni caso, non è umana; – l’’alternativa” religiosa si dimostra intimamente insocievole. Qui dobbiamo subito evitare un fraintendimento.

Da quanto fin qui detto sembrerebbe che per Hegel qualunque imperativo, nel quale la coscienza non si riconosca immediatamente e che non consideri immediatamente espressione di se stessa, vada respinto in quanto esempio di positività e, dunque, in quanto implicante un atteggiamento passivo o servile, di sospensione della propria capacità critica.

Se così stessero le cose, quello Hegel – che per lunghi anni si fece sostenitore entusiasta dello spirito di riscatto e di liberazione dell’umana razionalità, che vedeva espressi negli Immortali Principi del 1789 – , proprio lui avrebbe mancato di riconoscere il nesso profondo, che lega razionalità e socialità umane, in quanto entrambe facce dell’universalità (si ricordi che in tedesco das Allgemeine, ovvero l’universale, vale contemporaneamente per comunità; d’altronde, il francese le monde vale sì “mondo”, ma anche società, collettività umana, appunto).

Dunque, se Hegel – in ogni caso – escludesse la “positività” dalla vita dell’uomo, ne ridurrebbe la realtà alla mera singolarità ed al vuoto arbitrio. Perché, cosa implica quel nesso di razionalità e socialità? Un duplice processo di esplicazione di sé nell’esteriorità: se per esistere l’esser-ci ha bisogno di essere immerso in una rete di relazioni con altri esser-ci; altrettanto è vero, che il mondo, l’universale, in tanto è reale, in quanto a dir così s’incarna nell’esser-ci, nel Dasein (ecco, per Hegel, cosa significa effettivamente il mito dell’incarnazione del divino: che il mondo, gli eventi, i fatti non sono mai semplici presenze, ma sì espressioni di un senso, di un percorso, che la storia va costruendosi).

Detta in altre parole, l’individuo esiste realmente se c’è un mondo, con cui si relaziona, con cui interagisce; ed analogamente, l’esistenza del mondo implica il suo dispiegarsi in ambiti, livelli e presenze, certo collegate, ma diverse. In questo senso è vero che l’universale, nella sua somma grandezza, deve piegarsi, immiserirsi, farsi mondo (è questa la sua tragedia), per poter esistere
effettivamente, cioè per poter essere una forza attiva, dinamica, vivente.

Ed è altrettanto vero che il semplice stato di fatto, il semplice finito non son mai mere, casuali presenze, ma sì momenti dello snodarsi dell’assoluto, momenti dell’«incarnazione» della ragione nel mondo.

Che senso ha tutto questo rispetto al problema, che ci ponevamo all’inizio?

Se il mondo mi tradisce, e la politica non mi dà quanto mi promette, esiste per me, per l’uomo, la possibilità di imboccare un’altra strada, che mi metta finalmente in relazione con un mondo altro rispetto a quello della politica?

Un modo chiarissimo di fornire la risposta di Hegel a questo interrogativo, lo troviamo in un’opera giovanile di Karl Marx (Die Judenfrage); è ben vero che in quel testo Marx fa riferimento a Feuerbach, ma noi sappiamo ormai quanto la riflessione religiosa di Feuerbach fosse intimamente legata a quella del giovane Hegel e, dunque, possiamo, senza forzatura alcuna, leggere quelle poche righe di Marx come se fossero un commento ad Hegel.

Da quando abbiamo capito, scrive Marx, che dio non è altro che l’essenza umana, estraniata dall’uomo e collocata fuori ed al di sopra di esso, da quel momento abbiamo capito che non esistono e, dunque, non ci interessano più i problemi teologici, ma che, attraverso di essi, sono i problemi mondani, che dobbiamo cogliere.

E se il mondo dell’uomo è tale, da suggerirgli la creazione di un mondo altro, allora ciò significa che è proprio questo mondo umano, che dobbiamo cambiare e dobbiamo farlo radicalmente con gli strumenti – sempre ambigui e imperfetti – esattamente della politica. 

NOTE 

1 In violazione dell’impegno preso, ci si consenta di fare una citazione da Hegel: “Colui che riconosce questa onnipotenza di un essere non solo sugli impulsi della sua vita – che una potenza del genere deve essere ammessa da ognuno, la si chiami natura, fato o provvidenza – ma anche sul suo spirito, sull’intero ambito del suo essere, questi non può sottrarsi ad una fede positiva. Ma la possibilità di questo riconoscimento presuppone necessariamente la perdita della libertà e dell’autonomia della ragione, che niente è in grado di opporre ad una forza estranea” (Caputo, op.cit.: 112).


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