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Il destino tragico di un atteso liberatore storico e politico che tradisce le aspettative che aveva suscitato demandandole a una liberazione tutta interiore.
La religione cristiana storica quale tradimento dell’ideale universalistico del Vangelo
Nel 1796 Hegel abbozza uno scritto, cui sarà dato in seguito il titolo di la Positività della religione cristiana, in cui mostra di aver fatto propria a pieno titolo la lezione del più grande e radicale illuminista tedesco, Gotthold Ephraim Lessing, la cui opera aveva già divorato in gran segreto nel seminario teologico di Tubinga. Sulle orme di Lessing, Hegel distingue nelle tradizioni religiose e, in particolare, in quella giudaico-cristiana, gli elementi progressivi da quelli regressivi, sulla base del contributo che hanno dato alla progressiva auto-educazione del genere umano, nelle differenti epoche storiche, in tempi in cui ancora dominava la visione mitologico-religiosa del mondo, non essendosi ancora affermata a livello di massa la concezione filosofico-scientifica. In tal modo Hegel contrappone gli elementi progressivi e addirittura rivoluzionari presenti nel messaggio evangelico – che mette minuziosamente in rilievo – non solo alla più arcaica e, dunque, meno evoluta religione ebraica, ma anche rispetto alla più moderna religione cristiana, la quale ha finito con il sacrificare, scendendo a patti con lo spirito del tempo, gli aspetti più innovatori e di rottura presenti nella predicazione del Cristo.
Gesù, infatti, ha predicato una religione dell’amore (interiore, fondata sulla fratellanza universale, intersoggettiva) di contro alla esteriore e intellettualistica religione ebraica fondata sulla potenza astratta della legge. Gesù, inoltre, ha sostituito ai dogmi positivi, ossia privi di spirito, dei farisei, l’imperativo categorico che ingiunge di amare l’altro come se stessi. Una concezione quella di Gesù, dunque, tutta volta all’azione pratica, morale, e non a fondare – come faranno subito dopo la sua morte i discepoli tradendone lo spirito rivoluzionario – la struttura istituzionale e dogmatica di una chiesa storica, culturale e positiva, che non può che riprodurre un’attitudine intollerante verso altre credenze o convinzioni. Da qui la critica di Hegel ai discepoli e, di conseguenza, alla chiesa cristiana che ha perso di vista proprio l’aspetto più progressivo e “moderno” della predicazione del Cristo, il piano morale, razionale e, dunque, universalistico del messaggio evangelico, per fondare una nuova religione positiva, che non rompe più in modo radicale con l’impostazione culturale della religione ebraica, ma si limita a una sua riforma.
Alle origini del destino tragico del cristianesimo
Fra il 1798 e il 1799 a Francoforte Hegel compone Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, l’ultimo e il più importante dei suoi scritti politico-teologici giovanili, dove sviluppa una critica storica dei testi sacri partendo dal modello offerto da Spinoza, ma sviluppandolo nel senso del tentativo compiuto da Lessing di reinterpretare per quanto è possibile in senso razionale la Bibbia.
Hegel distingue fra l’antico testamento arcaico e barbarico e il nuovo testamento più moderno e razionale. Tuttavia, per comprendere il secondo, è necessario conoscere il primo, perché lo spirito del cristianesimo predicato dal Cristo affonda necessariamente le sue radici nello spirito dell’ebraismo. In effetti, se ognuno è artefice del proprio destino, è d’altra parte innegabile che il destino del cristianesimo sia segnato dal suo sorgere dal proprio antecedente storico, il destino dell’ebraismo. Anche perché, a parere di Hegel, il cristianesimo non è stato in grado di portare fino in fondo la radicale trasformazione dell’ebraismo intrapresa dal Cristo e, quindi, non è stato in grado di emanciparsi pienamente da esso. Più in generale il destino indica secondo Hegel la struttura tragica propria di ogni azione, in quanto agendo non si possono prevedere le reazioni alla propria azione da parte degli altri, che ne condizioneranno necessariamente e in modo mai del tutto prevedibile gli effetti. Perciò chi agisce non di raro rifiuta vanamente di riconoscersi nel risultato del proprio agire, imputandolo a un destino cinico e baro, considerando come un estraneo il proprio stesso destino.
Il
mito di Noè all’origine dello spirito dell’ebraismo e del suo
destino
L’atto
fondativo dello spirito ebraico è da ricercare, a parere di Hegel,
nel mito del diluvio
universale che,
essendo presente in diverse mitologie, deve necessariamente avere
un fondamento
storico.
Tuttavia è indicativo del diverso spirito dei differenti popoli la
reazione che ha avuto dinanzi al diluvio il protagonista delle
varianti del medesimo mito. Del resto, analizzando il fenomeno
mitologico-religioso, secondo Hegel diviene possibile ricomprendere
l’ideologia storica di un popolo, il suo modo di autocomprendersi,
la sua autocoscienza e,
a partire di lì, il suo successivo destino. Così, dinanzi alla
paura della morte di cui è preda, di fronte alla potenza di fenomeni
naturali che non è in grado di controllare, l’uomo cerca rifugio
rappresentandosi un dio onnipotente, da poter pregare per superare la
paura dinanzi alle potenze della natura che non è ancora in grado di
prevedere e tenere a bada razionalmente.
Noè, che incarna lo spirito ebraico, stringe così un patto con il
suo dio, Javhé, che è considerato dagli ebrei come infinitamente
superiore alla natura e di conseguenza all’uomo.
Il dio è, dunque, posto dal popolo ebraico come estraneo sia
all’uomo che alla natura, al contrario delle divinità greche, che
sono antropomorfe
e naturali,
e del dio cristiano che diverrà al contempo vero
uomo e vero dio.
La divinità ebraica, da cui prenderà le mosse assumendola come dio
padre lo spirito del cristianesimo, si pone, dunque, agli antipodi di
quel modello di religione
naturale e,
perciò, universale e razionale cui si ispirava Hegel appassionato
lettore, sin dai tempi di Tubinga – sempre in modo clandestino –
della confessione
del vicario savoiardo in
cui Rousseau nel
suo Emilioesponeva
la propria concezione religiosa, antitetica a quelle positive che lo
avevano portato ad assumere una posizione scettica.
Tornando
al destino dello spirito ebraico, quest’ultimo innalzando il
proprio dio al di sopra di tutto Jahvé è tutto e la natura e ancora
più l’uomo al suo confronto sono
ridotti a nulla.
Perciò la stessa razionalità dell’uomo deve essere completamente
sottomessa al proprio dio, come nel caso del sacrificio chiesto da
dio ad Abramo per
riconfermare il patto stabilito con Noè. Inoltre questo patto pone
il popolo di Israele al di sopra di qualsiasi altro popolo, con il
quale non deve aver nessun rapporto
naturale,
in quanto tanto più li domina tanto più si avvicina al proprio dio,
confermando la propria elezione.
Lo stesso vale per i comandamenti
della Legge sacra
agli ebrei che sono antitetici ai piaceri
naturali.
Tanto che il prototipo dell’uomo di fede ebraico, oltre ad Abramo
pronto a sacrificare il suo unico figlio, è Giobbe che
dimostra la propria elezione mediante la paziente accettazione della
rinuncia a ogni tipo di piacere naturale.
Il
destino infelice del popolo ebraico di contro al destino felice del
popolo greco
Qui
interviene il destino
tragico ebraico,
perché andando contro la natura e contro gli altri popoli, il popolo
eletto va contro la vita di
cui è anch’esso inevitabilmente parte. Perciò gli ebrei vanno
anche contro se stessi, sono sempre infelici in
questa lotta perenne contro gli altri popoli e contro la natura, la
loro stessa natura, schiacciata dalla legge, da una legge disumana
che pretende di poter reprimere
gli istinti naturali.
Al
contrario la reazione dello spirito greco dinanzi alle potenze della
natura, alla base della loro religione – che resta a parere di
Hegel la rappresentazione più elevata di sé che ha potuto elaborare
un popolo antico – è ben rappresentata dal mito di Deucalione
e Pirra che,
in seguito al diluvio, stringono un nuovo
patto di
fiducia non con il proprio dio contro la natura e la vita, come aveva
fatto Noè in rappresentanza del popolo ebraico, ma con degli dèi
che sono al contempo natura e vita.
In tal modo il destino dei greci è felice, perché non li porta a
combattere contro la vita, ovvero contro loro stessi. Perciò la
loro religione non contrappone vanamente la morale ai desideri, ma
cerca di conciliarli.
Gesù
si erge contro lo spirito ebraico
Gesù
predica l’amore e in tal modo cerca di ricostruire l’unità del
suo popolo con la vita, superando anche la lacerazione dello spirito
del suo popolo con il proprio corpo, tipica del moralismo
farisaico.
Così difende gli umiliati e offesi, bollati come peccatori dai
farisei, in quanto sono anch’essi espressione della vita, di
contro all’ipocritacondanna
dei farisei che con la loro legge pretendono di negare la vita della
povera adultera, astraendo ipocritamente dai loro limiti, ovvero dai
loro stessi “peccati”. Perciò Gesù si erge con la sua
predicazione dell’amore di contro a una legge,
come quella ebraica, che opprime e nega i piaceri della vita; proprio
per questo non si fa scrupolo di operare a fin di bene, soccorrendo
il proprio prossimo anche di sabato, contravvenendo in modo esemplare
al precetto della astratta legge ebraica che vieta di compiere
qualsiasi attività nel giorno in cui dio stesso si sarebbe riposato.
Infine, Gesù supera l’inimicizia e il non riconoscimento che hanno
gli ebrei, quale popolo eletto, nei confronti degli altri, ad esempio
nel suo incontro con la samaritana cui si rivolge riconoscendola come
essere umano, pur essendo una donna, di un altro popolo e fedele a
un’altra religione. Proprio perciò Gesù sarà fatto uccidere dai
farisei, i religiosi ortodossi del tempo, i più fedeli membri della
chiesa.
Il
destino di Gesù e la sua colpa tragica
Ma
il vero destino tragico di Gesù consiste piuttosto nell’essere
stato tradito
dai stessi suoi discepoli che,
dopo la sua morte, abbandoneranno l’amore
universalistico del
Cristo, per uno spirito
settario,
che li porterà a ricostruire una chiesa, ovvero a positivizzare
in una religione cultuale il messaggio universalistico evangelico.
In tal modo, nei discepoli ritorna lo spirito
di separazione dell’ebraismo,
che porterà i cristiani a opporsi ad altri popoli che seguono altre
religioni, in modo esemplare con le
crociate,
fino a opporsi a se stessi nelle guerre
di religione in
seno alla cristianità a partire dalla spaventosa Guerra dei
trent’anni.
Tuttavia
ognuno, anche Gesù, è artefice
del proprio destino.
Dunque lo stesso Cristo è responsabile, almeno in parte, del
successivo positivizzarsi
del cristianesimo,
anche se da vivo non lo avrebbe in nessun modo permesso. Più nello
specifico la colpa
tragica del
Cristo, che lo rende involontariamente responsabile della fondazione
nel suo nome di una religione cultuale – che lo spirito della sua
predicazione aveva apertamente contrastato – risiede nella netta
scissione da lui inaugurata con il suo: “date a Cesare ciò che è
di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” fra la Città
dell’uomo e la Città di dio,
ovvero fra un mondo
religioso interiore, apolitico antistorico e trascendente e un mondo
umano che è così abbandonato al dominio del male.
In tal modo il Cristo contrappone il proprio messaggio universale,
ma astrattoa
quello ben più urgente e concreto,
storico e politico del suo popolo, che soffriva sotto il giogo
del dominio
stranieroe
imperiale romano. Gesù ha così rinunciato a divenire il messia
storico e
politico, il liberatore che gli ebrei attendevano. Proprio perciò
questi ultimi non riconoscendolo come tale, chiederanno al suo posto
la liberazione di Barabba che, pur avendo agito in modo banditesco,
si era comunque contrapposto al dominio romano.
In
tale tragedia del Cristo, Hegel poteva ritrovare la sua
stessa tragedia storica,
propria più in generale di quei giovani intellettuali tedeschi che
avevano parteggiato attivamente prima per la Rivoluzione
francese e
poi per le truppe di questo paese che l’avevano difesa contro i
mercenari dei prìncipi assolutisti tedeschi. Sull’onda
dell’entusiasmo questi giovani intellettuali avevano parteggiato
per le truppe francesi anche quanto avevano inseguito i nemici in
territorio tedesco, nella vana
aspettativa di un messia, di un liberatore, che li avrebbe emancipati
dall’ancien régime e
dall’assolutismo;
dovendo poi fare la tragica scoperta che l’atteso liberatore, aveva
finito per tradire le loro aspettative, annettendo alla Francia i
territori tedeschi a ovest del Reno. Perciò, quegli stessi
intellettuali che si erano illusi di poter raggiungere la loro
emancipazione a opera di un messia, di un liberatore, dinanzi al suo
diniego avevano finito per condannarlo o, comunque, come nel caso di
Hegel, non avevano più potuto palesemente parteggiare per
la Rivoluzione
francese.
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