Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza,
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Mentre la classe dirigente italiana si diletta in giochetti politici insulsi e pericolosi che ci prospetta il futuro?
I telegiornali della Rai del 20 novembre hanno dato come prima notizia lo sgombero delle ville abusive del cosiddetto clan dei Casamonica, gruppo di origine sinti portato spesso alla ribalta per varie attività criminali e per il famoso funerale di uno dei loro capi; notizia il cui scopo evidente è convincere i telespettatori che il “governo del cambiamento”, autore della “manovra del popolo”, sotto la vigile guida della sindaca Raggi, alzatasi all’alba, colpisce spietatamente i criminali, i corrotti, i non rispettosi dell’ordine. Non contenti di tale protagonismo, poco dopo i 5 Stelle mandano sulla scena dell’evento il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Marra; successivamente si presenta Salvini che addirittura promette di guidare lui la ruspa per abbattere gli edifici, seguito da Giuseppe Conte, che si fa riprendere mentre visita le abitazioni e osserva meravigliato “Quanto sfarzo, quanto lusso”. In verità, dalle immagini che ho potuto vedere, mi sembra si tratti soprattutto di paccottiglia e oggetti kitsch, e credo che il vero lusso si trovi nelle abitazioni di quei miliardari che governano il mondo. I giornali rimarcano che tale spettacolo fa emergere solo il conflitto tra Lega e 5 stelle, desiderosi entrambi di apparire come gli strenui difensori del popolo.
Allo
stesso tempo, quello stesso giorno, i telegiornali non hanno fatto
menzione del vero problema destinato ad avere una serie di gravissime
ripercussioni sulla nostra vita, cui si sono fatti alcuni accenni nei
giorni precedenti, ma che meriterebbe di essere approfondito.
Ovviamente mi sto riferendo a quanto contenuto nel titolo
dell’articolo.
Mi si perdonerà il lungo giro che ho fatto per giungere in medias res, ma mi sembrava importante rilevare che questa mancanza di interesse per eventi cruciali mostra l’inesistenza economica, politica, culturale dell’Italia nello scenario internazionale.
Nei
giorni precedenti (16 novembre) Pandora
TV,
diretta da Giulietto Chiesa, aveva rese note le dichiarazioni fatte
al vertice Apec (Asia-Pacific
Economic Cooperation),
svoltosi in Papua Nuova Guinea, dal vice-presidente degli Stati
Uniti Mike
Pence a
proposito della Cina, dalla quale questi ultimi esigono
un radicale cambiamento di comportamento e pretendono una serie di
concessioni in ambito economico, politico e militare,
facendo pressione con i dazi ai prodotti cinesi [1]. Queste parole
erano state precedute da un’intervista al Washington
Post,
nella quale il vice-presidente aveva dichiarato che, se la Cina non
recepirà le sollecitazioni al cambiamento, gli Stati Uniti e i loro
alleati scateneranno “una
guerra fredda totale”
contro di essa. Nel caso di un’apertura della Cina a queste vere e
proprie pretese,
il presidente Trump sarebbe disponibile a negoziare con Xi Jinping,
quando si incontreranno alla fine del mese al vertice del G20, che si
terrà in Argentina.Mi si perdonerà il lungo giro che ho fatto per giungere in medias res, ma mi sembrava importante rilevare che questa mancanza di interesse per eventi cruciali mostra l’inesistenza economica, politica, culturale dell’Italia nello scenario internazionale.
Il discorso e le minacce di Pence erano una risposta alle critiche fatte dal presidente cinese e segretario del Partito comunista al protezionismo e all’unilateralismo, in quanto in contraddizione con le leggi dell’economia e per questo destinati a fallire; queste parole erano state pronunciate in termini generali, evitando di fare un riferimento diretto all’attuale politica della Casa bianca. Naturalmente la Cina (o più esattamente il Ministero degli esteri cinese) ha immediatamente risposto alle parole del vice di Trump, affermando che, in quanto paese indipendente, proseguirà per la sua strada e non si lascerà intimidire da nessuno.
Nel
corso del suo intervento al vertice Apec, Pence ha anche criticato la
volontà della Cina di controllare militarmente il Mare Cinese
Meridionale - su cui i paesi circostanti e gli Stati Uniti hanno
uguali mire - e di espandersi economicamente in tutta quella regione,
dando avvio alla famosa via della seta, che aprirebbe nuovi spazi
commerciali e comunicativi vantaggiosi per l’ex impero celeste.
Infine, ha informato il mondo che Stati Uniti e Australia progettano
di costruire una nuova base militare in Nuova Guinea, evidentemente
preoccupati di essere preceduti dalla Cina, come questo paese ha già
fatto a Djibouti.
Il
conflitto tra Stati Uniti e Cina (a cui si aggiunge quello con la
Russia) presenta varie sfaccettature; dopo aver accennato alla
dimensione militare, soffermiamoci su quella commerciale. Nello
scorso settembre Trump ha annunciato di voler aggiungere ulteriori
dazi per 267 miliardi di dollari sulle importazioni dalla Cina, oltre
a quelli già decisi di 200 miliardi di dollari sui prodotti cinesi e
a quelli di 50 miliardi imposti a luglio [2]. Decisione che è già
stata contrastata da contromisure cinesi, come ha annunciato il
portavoce del Ministero degli esteri di Pechino.
Con
queste misure l’amministrazione statunitense vuole ridurre
il superavit commerciale
della Cina, senza preoccuparsi dell’aumento dei prezzi che i dazi
innescheranno negli Usa e senza giungere ad un accordo con il grande
paese asiatico, nonostante lo svolgimento di ripetuti negoziati.
Inoltre, in varie occasioni, per legittimare le sue decisioni, Trump
ha accusato la Cina di essersi appropriata indebitamente di proprietà
intellettuali e tecnologiche statunitensi per implementare il proprio
impetuoso sviluppo.
Anche
Il Bo Live dell’Università di Padova osserva che questi importanti
avvenimenti non sono stati messi in evidenza dai giornali italiani,
mentre la stampa internazionale dedica ad essi da vari giorni le
prime pagine, da cui cercherò di ricavare altre informazioni del
tutto ignorate. Nello stesso sito, l’economista Roberto Antonietti
sottolinea che la via della seta è considerata dall’amministrazione
statunitense una sorta di piano Marshall, in quanto costituisce un
significativo programma di investimenti in importanti paesi in via di
sviluppo, che inevitabilmente si troverebbero ad essere legati a filo
doppio alla Cina con detrimento dell’egemonia statunitense a
livello mondiale. Egli osserva anche che questa guerra commerciale
genererà una contrazione del commercio mondiale che inevitabilmente
porterà con sé la diminuzione del benessere e degli investimenti,
colpendo prima le multinazionali e poi le piccole e medie imprese. E
conclude osservando che tale rivalità tra le due potenze scaturisce
dal fatto che la Cina sta emergendo come “nuovo
centro di potere mondiale”,
cosa ovviamente del tutto sgradita agli Stati Uniti.
Società
cinesi hanno addirittura ottenuto la possibilità di fare
investimenti in porti israeliani (Haifa e Ashdod), sempre con lo
scopo di controllare i percorsi commerciali dall’Oceano Indiano
all’Europa tramite il canale di Suez, benché sia i militari
statunitensi e che quelli israeliani si chiedano se tale presenza
potrà mettere a repentaglio la sicurezza del regime sionista o possa
rendere complicato l’ancoraggio della Sesta Flotta nel porto di
Haifa.
Secondo
Pence l’economia statunitense sarebbe abbastanza solida da
resistere alla guerra commerciale con la Cina, mentre quest’ultima
non si troverebbe nelle stesse condizioni. Tuttavia, nel caso si
dovesse prospettare una guerra
calda,
secondo il Congresso statunitense la situazione si capovolgerebbe,
dato che l’egemonia militare degli Stati Uniti si sta gradualmente
corrodendo e la stessa sicurezza del paese sarebbe a rischio. Come si
ricava sempre da Pandora TV (Ibidem), è necessario pertanto, dal
punto di vista della Commissione di Difesa nazionale, aumentare le
spese per la difesa di almeno 733 miliardi di dollari, per restare in
linea con l’inflazione.
D’altra
parte, anche la Cina non scarta questa terribile ipotesi, dato che in
varie occasioni Xi Jinping ha ordinato all’esercito di prepararsi
alla guerra, adottando le nuove tecnologie, non focalizzandosi
esclusivamente sull’autodifesa e addestrandosi a portare attacchi
di sorpresa al nemico.
Come
si vede, all’orizzonte si delinea qualcosa di ben più terribile
dei Casamonica e degno di una maggiore preoccupazione e riflessione.
La
politica di Trump contro la Cina è in contraddizione con la sua
stessa attività commerciale, giacché lui e la sua famiglia,
incorporata nello staff presidenziale, fanno
affari con società cinesi,
tanto che alcuni analisti ritengono che il loro comportamento violi
un articolo della Costituzione. In esso si contempla, infatti, che
senza l’approvazione del Congresso nessun individuo, che abbia una
carica istituzionale, può ricevere regali, emolumenti, titoli da
nessun capo di governo o da un paese stranieri. Lo stesso Trump, che
deve la sua fortuna più all’eredità di suo padre che alla sua
vantata abilità negli affari, e sua figlia Ivanka fabbricano
prodotti in Cina, le cui autorità proprio durante la recente visita
del presidente statunitense hanno approvato la produzione di altre
tre marche della giovane e spregiudicata imprenditrice; recentemente
è stato reso noto che in una fabbrica di scarpe di quest’ultima,
che sembrerebbe mirare alla successione dello stesso Trump,
probabilmente si sono verificati abusi nei confronti dei lavoratori e
che tre sindacalisti sono stati arrestati. Inoltre, il Washington
Post ha
fatto notare che i
vestiti della marca di Ivanka sono stati “stranamente” esclusi
dai nuovi dazi statunitensi,
cosa che denuncia la spregiudicatezza e il livello di corruzione
dell’attuale amministrazione statunitense.
È
noto che la politica commerciale di Trump contro la Cina sorge dalla
volontà di combattere le delocalizzazioni,
che hanno spinto importanti corporazioni statunitensi a produrre in
Cina, dove il prezzo del lavoro è più basso, non manca certo la
manodopera e la coscienza dei diritti dei lavoratori è alquanto
bassa. Dunque, per sollecitare il suo elettorato di bianchi
disoccupati ed impoveriti, il presidente ha invitato per esempio
Apple a riportare le sue fabbriche negli Stati Uniti [3], mentre come
si è visto egli continua paradossalmente a fare affari con i cinesi
non prendendo per buona l’ipotesi che i suoi dazi peggioreranno le
stesse condizioni di vita dei suoi elettori, che la crescita del
paese sarà colpita e si verificherà una perdita di competitività.
Come
ho già avuto modo di sottolineare, non aggiungendo per mancanza di
spazio altre informazioni sconcertanti, questi avvenimenti, in
cui gli
Stati Uniti sfidano la pazienza millenaria della Cina, non
prefigurano niente di buono per l’intera umanità,
soprattutto se si tiene conto della storia dell’aggressività
statunitense a partire dal 1945 in poi.
Marx
XXI pubblica al
proposito un articolo di Manlio Dinucci, in cui si dà conto del
recente studio di James A. Lucas, ripreso da Michel Chossudovsky
(direttore del Centre
for Reasearch on Globalization),
nel quale si smentisce sonoramente che, alla fine della seconda
guerra mondiale, costata circa 50 milioni di morti, gli Stati Uniti e
i loro alleati abbiano dato vita ad un mondo libero, rispettoso delle
libertà individuali e della sovranità dei popoli. Favola in genere
accompagnata dalle accuse contro la Cina e la Russia che vorrebbero
ribaltare oggi tale ordine armonioso a loro vantaggio. In verità,
con aggressioni militari, colpi di Stato, operazioni coperte gli
Stati Uniti avrebbero provocato ad oggi tra i 20 e i 30 milioni di
morti in 37 nazioni, oltre agli innumerevoli feriti talvolta rimasti
anche invalidi. Senza tenere conto poi dei milioni di morti dovuti
alle carestie, epidemie, danni ambientali, migrazioni forzate etc.
provocate dagli interventi militari [4]. Sempre Pandora Tv Ibidem) ci
informa che negli ultimi 17 anni i gringos
hanno speso per queste attività circa 6.000 miliardi di dollari. A
questo punto sembra del tutto lecito chiederci: cosa
hanno in mente di fare per sfidare la forza inarrestabile della Cina,
in un panorama mondiale e loro non più favorevole?
Note:
[2]
In questo modo Trump spera di recuperare i 500
miliardi di dollari all’anno di
cui i cinesi deprederebbero gli Stati Uniti. I dazi variano dal 10%
al 25% e riguardano da un lato l’alluminio, l’acciaio,
l’innovazione tecnologica cinese, dall’altro soia, sorgo, maiale
statunitensi.
[3]
Transnazionale che disegna i suoi prodotti in California e li
produce per lo più in Cina anche
per l’organizzazione delle città industriali con
fabbriche-dormitorio, dove vivono migliaia di lavoratori e di
ingegneri.
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