domenica 29 gennaio 2017

Il ruolo del progresso tecnologico in un sistema di produzione capitalistico*- Francesco Piccioni

* Da:  Automazione e disoccupazione tecnologica  http://contropiano.org/   (Relazione di Francesco Piccioni al Forum “il piano inclinato degli imperialismi”, organizzato dalla Rete dei Comunisti a Bologna il 7 marzo 2015)
I primi tre articoli: http://contropiano.org/documenti/2017/01/15/automazione-disoccupazione-tecnologica-divario- 


I cento anni più veloci della Storia

A 100 anni quasi esatti dall’Imperialismo di Lenin un aggiornamento, anche a livello delle categorie, appare necessario, ma decisamente non facile. Lo chiede la realtà che abbiamo di fronte, che riesce sempre più difficile descrivere nei soliti modi. Bisogna ricordare, infatti, che la dialettica materialistica non è per nulla una particolare griglia di lettura da sovrapporre ai dati empirici, ma è interna alla cosa stessa. Va insomma riconosciuta nel suo tratto fondamentale per cogliere ciò che – nella trasformazione continua – resta stabile e ciò che invece svanisce. Vale il paragone con le leggi che regolano la fisiologia umana: sono in linea generale decisamente stabili, ma cambia molto – soprattutto nella pratica quotidiana – se l’organismo si trova più vicino alla nascita oppure alla morte.

Al tempo de L’imperialismo erano passati appena trenta anni dalla morte di Marx, caratterizzati dalla stagnazione e poi dalla crisi della prima globalizzazione, e già Lenin individuava – sulla scia di altri studi contemporanei – una forma capitalistica decisamente “nuova”, tale da cambiare molti parametri decisivi per la lotta di classe e                                                                                                                           soprattutto per la lotta politica rivoluzionaria.

Difficile pensare che i 100 anni più veloci della storia dell’umanità siano trascorsi senza effetti tali da dover essere riconosciuti anche su piano teorico. Eppure i marxismi del ‘900 sono stati particolarmente immobili su questo fronte – sostanzialmente fermi alle dinamiche descritte dal primo libro de Il Capitale e inchiodati alla necessità di giustificare teoricamente le scelte tattiche dei diversi partiti comunisti – lasciando alla fin fine il compito dell’innovazione ad avventurieri del pensiero, eretici di assai diversa onorabilità, pezzenti a caccia di abiti rubati.

Ma da quale punto di osservazione si deve procedere?

martedì 24 gennaio 2017

Edward Hallett Carr, storia e rivoluzione*- Matthijs Krul

Link all’intervista in inglese Notes & Commentaries

Quella che segue è la trascrizione di un’intervista al celebre storico britannico E. H. Carr come pubblicata dalla New Left Review nel 1978, col titolo “La sinistra oggi”. Carr, uno dei primi seri specialisti della storia russa e sovietica (forse un po’ datato ma ancora utile e leggibile), all’epoca aveva ottantasei anni. Pur non essendo mai stato comunista, egli si identificava chiaramente con la sinistra politica, dedicando gran parte dei suoi sforzi accademici a combattere la storiografia conservatrice e liberale (Whig). Ciò nonostante, per una significativa parte della sua carriera non fu un accademico, lavorando presso il Foreign Office, ed in seguito come vicedirettore del Times, due organi non certo noti per la loro vicinanza alla sinistra. Questo gli consentì di avere una prospettiva ampia e non settaria sugli eventi.

Il discorso di Carr tocca questioni ancor’oggi rilevanti per il comunismo, a dispetto del fatto che l’articolo qui riprodotto abbia ormai più di trent’anni. Per molti versi, esso è rappresentativo della disillusione della sinistra post-stalinista. Disillusione allora talmente profonda in alcuni comunisti, e frutto dello scontro tra la realtà e le loro aspettative, da spingerli a trarre conclusioni opposte e divenire rabbiosi esponenti della destra. Carr, d’altra parte, non seguì tale percorso, conservando una prospettiva più distante e dunque maggiormente obiettiva, nonché meno isterica. Ancor più importante, egli non solo fu in grado di separare il grano dal loglio nell’esperienza comunista, e ciò nonostante l’enorme pressione accademica e politica esercitata contro di lui (persino Orwell lo considerava pericoloso), ma ebbe anche la capacità in età avanzata di analizzare correttamente gli sviluppi politici ricorrendo al metodo di Marx. Meglio di tanti comunisti, in particolare i cosiddetti “eurocomunisti”, esaminò  gli sviluppi nelle relazioni economiche che avevano avuto luogo dopo la morte di Marx e, in particolare, dopo la Seconda guerra mondiale, indicando, inoltre, la sempre più aristocratica e compromessa condizione della classe operaia nelle nazioni più sviluppate, se comparata con quella dei paesi caratterizzati da un’industria, e dunque, un proletariato sottosviluppati. Senza timore di trarre le conclusioni necessarie, diede un forte impulso ad una migliore comprensione storica di tale fenomeno, il quale a posteriori diverrà generalmente accettato come una delle decisive rotture storiche del XX secolo.

La fama di Carr non è legata esclusivamente alla sua eccellente analisi della storia economica sovietica, campo nel quale è stato un pioniere insieme a R. W. Davies, bensì è dovuta in egual misura al suo lavoro storiografico Sei lezioni sulla storia. Un libro generalmente considerato come l’espressione maggiore della scrittura storiografica moderna, una presa di distanza dalla vecchia storia Whig, così come da un certo positivismo sterile e conservatore (à la Namier). In esso viene inaugurata un’epoca in cui il mestiere dello storico, in maniera crescente, è stato visto come un particolare modo di selezionare e disporre gli elementi storici, che si vogliano o meno definire questi ultimi “fatti storici”; e nel fare ciò, ha aperto la strada, sostenendole, a quelle modalità di scrittura storiografica che hanno enfatizzato inediti trattamenti di materiali esistenti e ignorati, allo scopo di condurre alla ribalta segmenti sino ad allora oscuri della storia, quali la storia sociale, quella delle donne, del quotidiano e così via. Il clima generale instaurato dall’ascesa della New Left e dall’influenza del gruppo degli storici vicini al PCGB, particolarmente in Gran Bretagna, ha senz’altro avuto un ruolo. Altro aspetto importante del contributo fornito da Carr alla storiografia, nel libro in questione come in altri, è la sua rivendicazione dell’idea di progresso nella storia, come prerequisito necessario al fine di rendere la disciplina storica un’impresa, in primo luogo, comprensibile ed utile. Il tutto senza invocare il deus ex machina del Geist o concezioni analoghe, cosa di per sé degna di nota, per quanto anche un prodotto della peculiare avversione britannica nei confronti della filosofia della storia. Gran parte di questa intervista e da vedersi sotto questa luce, compresi i riferimenti al lavoro succitato. Poiché è essenziale difendere l’idea di progresso nella storia senza cadere nella trappola del progressismo o idealismo whig, Edward Hallett Carr è stato un grande storico anche solo per quest’unico motivo.

Una teoria del miracolo cinese*- Cheng Enfu, Ding Xiaoqin**

**Cheng Enfu è un membro dell'Accademia Cinese delle Scienze Sociali e presidente della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy). ----- Ding Xiaoqinè vice direttore del Centro di Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi presso la Shanghai University of Finance and Economics, ricercatore post-dottorato presso l'Accademia cinese delle scienze sociali, e segretario generale della Associazione Mondiale per l’Economia Politica (World Association for Political Economy).
Questo articolo è stato tradotto dal cinese all’inglese da Shan Tong (Università di Scienze Politiche e Giurisprudenza della Cina Orientale) e, successivamente, dall’inglese all’italiano ad opera di Francesca Cirillo ed Andrea Genovese.

Otto principi fondamentali della politica economica cinese contemporanea

Il rapido sviluppo economico della Cina negli ultimi anni è stato spesso definito con aggettivi quali “miracoloso” [1]. Parlare di un "Beijing Consensus" o di un "modello cinese" è diventata ormai prassi comune nei dibattiti accademici.

Ma, come abbiamo scritto altrove, “forti problemi teorici sono iniziati ad emergere per quanto riguarda l'esistenza, il contenuto, e le prospettive del modello Cina” [2]. La domanda chiave, quindi, è la seguente: quale tipo di teoria economica e quale strategia sono alla base di questo "miracolo”? Il modello cinese è stato variamente descritto, alternativamente, come una forma di neoliberismo, o come un nuovo tipo di keynesismo. Riteniamo che i grandi progressi recenti registrati nello sviluppo del paese siano i risultati dei progressi teorici nel campo dell’Economia Politica, verificatisi all’interno dello stesso contesto cinese; al contrario, i principali problemi che hanno accompagnato lo sviluppo della Cina riflettono l’influenza dannosa del neoliberismo occidentale.

Il presidente Xi Jinping ha sottolineato la necessità di sostenere e sviluppare una politica economica Marxiana per il XXI secolo, adattata alle esigenze e alle risorse della Cina. Il bollettino di una conferenza sullo stato dell’Economia cinese del Comitato Centrale del Partito Comunista (tenutasi nel Dicembre 2015), ha riaffermato, di conseguenza, l'importanza degli otto grandi principi della "Economia Politica Socialista con Caratteristiche Cinesi".

Questi principi e le loro applicazioni sono discussi nel seguito, insieme ad alcuni commenti sulle possibili interpretazioni, attualmente oggetto di dibattito intellettuali cinesi.
Scopo di questo articolo è quello di chiarire il modello teorico ufficiale che sta alla base del “miracolo” economico cinese, utilizzando, a tal fine, i termini e i concetti prevalenti nella Cina odierna.

1. Sostenibilità guidata da Scienza e Tecnologia

lunedì 23 gennaio 2017

Nella fossa dei leoni. Si può leggere Il capitale di Marx a partire dalle Tesi su Feuerbach?* Wolfgang Fritz Haug**

*Da:    "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”    Trad. it. dallo spagnolo di Fabio Frosini.
**(Institut für kritische Theorie)


Cercheremo qui di abbattere i muri che agli occhi di molti impediscono alla filosofia della prassi di introdursi nel regno del Marx più maturo. Il primo di questi muri è stato eretto tra le Tesi su Feuerbach e la critica dell’economia politica; un secondo tra il giovane Marx e il Marx maturo, con la conseguenza della nascita di una specie di dualismo marxologico; un terzo muro, infine, è stato costruito tra la società e la natura. Se riusciremo a sospendere la quarantena nella quale gli strutturalisti hanno rinchiuso le Tesi su Feuerbach, il sarcasmo di Althusser dovrà cessare e la filosofia della prassi non sarà più «la bella conversazione notturna dei nostri leoni intellettuali da salotto»2 . Non si potrà più dire allora, con il filosofo francese, che «il primato della prassi è la prima parola di ogni idealismo». E vacillerà anche l’ultima separazione, quella tra la società, o la cultura, e la natura.


Nella bocca del lupo economico: l’asse metodologico

Althusser arriva alla conclusione per cui le Tesi non possono essere utilizzate come punto di partenza della filosofia marxista. Questa, dice, «dovrà cercare il suo punto di partenza in un altro luogo, […] per poter partecipare da lontano alla trasformazione del mondo. Se si assume ciò, le Tesi su Feuerbach tornano al loro glorioso passato e finalmente si può parlare di un’altra cosa: di Per la critica dell’economia politica, dei Grundrisse, del Capitale».

Ebbene, facciamolo! Parliamo pure del Capitale! E facciamolo a partire dalla seguente domanda: come si pongono in relazione le Tesi su Feuerbach con la critica dell’economia politica?

sabato 21 gennaio 2017

L'imperialismo. Fase suprema del capitalismo*- Vladimir Lenin (1916)


[...] Una delle particolarità dell'imperialismo, collegata all'accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell'emigrazione dai paesi imperialisti e l'aumento dell'immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori. Secondo Hobson l'emigrazione inglese è scesa da 242 mila persone nel 1884 a sole 169 mila nel 1900. L'emigrazione della Germania raggiunse il punto culminante nel decennio 1881-1890, con 1.453.000, e nei due decenni successivi scese a 544 e 341 mila. Invece crebbe il numero dei lavoratori accorsi in Germania dall'Austria, dall'Italia, dalla Russia, ecc. Secondo il censimento del 1907 vivevano allora in Germania 1.342.294 stranieri, di cui 440.800 lavoratori industriali e 257.329 lavoratori della terra [*10]. In Francia i lavoratori delle miniere sono "in gran parte" stranieri: polacchi, italiani, spagnuoli [*11]. Negli Stati Uniti gli immigrati dall'Europa orientale e meridionale coprono i posti peggio pagati, mentre i lavoratori americani danno la maggior percentuale di candidati ai posti di sorveglianza e ai posti meglio pagati [*12]. L'imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari.

Occorre rilevare come in Inghilterra la tendenza dell'imperialismo a scindere la classe lavoratrice, a rafforzare in essa l'opportunismo, e quindi a determinare per qualche tempo il ristagno del movimento operaio, si sia manifestata assai prima della fine del XIX e degli inizi del XX secolo. Ivi, infatti, le due importanti caratteristiche dell'imperialismo, cioè un grande possesso coloniale e una posizione di monopolio nel mercato mondiale, apparvero fin dalla metà del secolo XIX. Marx ed Engels seguirono per decenni, sistematicamente, la connessione dell'opportunismo in seno al movimento operaio con le peculiarità imperialiste del capitalismo inglese. Per esempio Engels scriveva a Marx il 7 ottobre 1858:

"... l'effettivo, progressivo imborghesimento del proletariato inglese, di modo che questa nazione, che è la più borghese di tutte, sembra voglia portare le cose al punto da avere un'aristocrazia borghese e un proletariato accanto alla borghesia. In una nazione che sfrutta il mondo intero, ciò è in certo qual modo spiegabile".

Circa un quarto di secolo più tardi, in una lettera dell'11 agosto 1881 egli parla delle "peggiori Trade-unions inglesi che si lasciano guidare da uomini che sono venduti alla borghesia o per lo meno pagati da essa".

In una lettera a Kautsky del 12 settembre 1882, Engels scriveva:

"Ella mi domanda che cosa pensino gli operai della politica coloniale. Ebbene: precisamente lo stesso che della politica in generale. In realtà non esiste qui alcun partito operaio, ma solo radicali, conservatori e radicali-liberali, e gli operai si godono tranquillamente insieme con essi il monopolio commerciale e coloniale dell'Inghilterra sul mondo" [*13].

Lo stesso dice Engels anche nella prefazione alla seconda edizione (1892) della Situazione della classe operaia in Inghilterra.

Qui sono svelati chiaramente cause ed effetti. Cause: 1) sfruttamento del mondo intero per opera di un determinato paese; 2) sua posizione di monopolio sul mercato mondiale; 3) suo monopolio coloniale. Effetti: 1) imborghesimento di una parte del proletariato inglese; 2) una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno ,pagati dalla borghesia. L'imperialismo dell'inizio del XX secolo ha ultimato la spartizione del mondo tra un piccolo pugno di Stati, ciascuno dei quali sfrutta attualmente (nel senso di spremerne soprapprofitti) una parte del " mondo" quasi altrettanto vasta che quella dell'Inghilterra nel 1858; ciascuno di essi ha sul mercato mondiale una posizione di monopolio grazie ai trust, ai cartelli, al capitale finanziario e ai rapporti da creditore a debitore; ciascuno possiede, fino ad un certo punto, un monopolio coloniale (vedemmo che dei 75 milioni di chilometri quadrati di tutte le colonie del mondo, ben 65 milioni, cioè l'86 % sono nelle mani delle sei grandi potenze; 61 milioni, cioè l'81 % appartengono a tre sole potenze).

La situazione odierna è contraddistinta dall'esistenza di condizioni economiche e politiche tali da accentuare necessariamente l'inconciliabilità dell'opportunismo con gli interessi generali ed essenziali del movimento operaio. L'imperialismo, che era virtualmente nel capitalismo, s'è sviluppato in sistema dominante i monopoli capitalistici hanno preso il primo posto nell'economia e nella politica; la spartizione del mondo è ultimata, e d'altro lato in luogo dell'indiviso monopolio dell'Inghilterra osserviamo la lotta di un piccolo numero di potenze imperialistiche per la partecipazione al monopolio, lotta che caratterizza tutto l'inizio del XX secolo. In nessun paese l'opportunismo può più restare completamente vittorioso nel movimento operaio per una lunga serie di decenni, come fu il caso per l'Inghilterra nella seconda metà del secolo XIX; ma invece in una serie di paesi l'opportunismo è diventato maturo, stramaturo e fradicio, perché esso, sotto l'aspetto di socialsciovinismo, si è fuso interamente con la politica borghese [*14]

giovedì 19 gennaio 2017

Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro*- Karl Marx

 *Scritto nell'autunno del 1843 e pubblicato nell'unico numero degli "Annali franco-tedeschi" nel febbraio del 1844.    https://www.marxists.org/ 




AL SUO CARO PATERNO AMICO
IL CONSIGLIERE SEGRETO DI GOVERNO SIGNOR LUDWIG VON WESTFALEN DI TREVIRI
QUESTE RIGHE SEGNO DI FILIALE AFFETTO
L'AUTORE DEDICA

Perdonerà, mio caro paterno Amico, se premetto il Suo nome a me così caro ad un opuscolo senza importanza. Son troppo impaziente per attendere un'altra occasione di darLe una piccola prova del mio affetto.
Possano quanti dubitano dell'Idea avere come me la ventura di ammirare un vecchio giovanilmente vigoroso, che ogni progresso dei tempi saluta con l'entusiasmo e insieme la saggezza della verità, e che con quell'idealismo profondamente convinto e solarmente luminoso, che solo conosce la parola vera, evocatrice degli spiriti tutti del mondo, non mai si ritrasse tremante davanti alle ombre proiettate dagli spiriti retrogradi, davanti al cielo dei suoi tempi sovente oscurato da fosche nubi, ma con divina energia e con sguardo virilmente sicuro sempre, attraverso tutti i mascheramenti, guardò all’empireo, che arde nel cuore del mondo. Ella, mio paterno Amico, fu sempre per me un vivente argumentum ad oculos che l’idealismo non è un’immaginazione, ma è una verità. Non ho bisogno di far voti per la Sua salute fisica: lo Spirito è il grande magico medico, cui Ella si è affidata.

PREFAZIONE

La forma di questo lavoro sarebbe da un lato più rigorosamente scientifica, dall'altro, in vari punti, meno pedante di quanto non sia se la sua destinazione originaria non fosse stata quella di una dissertazione di laurea. A darlo tuttavia alle stampe in questa forma sono indotto da motivi estrinseci. Inoltre credo di aver risolto in esso un                 problema della storia della filosofia greca rimasto finora insoluto.

Gli esperti sanno che per l'argomento di questa trattazione non v'è alcun lavoro preparatorio in qualche modo utilizzabile. Le chiacchiere che hanno fatte Cicerone e Plutarco sono state ripetute fino ad oggi. Gassendi, che liberò Epicuro dall'interdetto col quale lo avevano colpito i Padri della Chiesa e tutto il Medioevo, l'età dell'irrazionalità in atto, non è che un momento interessante. Egli si studia di trovare un accomodamento della sua coscienza cattolica con la sua cultura pagana e di Epicuro con la Chiesa: fatica, invero, vana. È come se si volesse gettare sul corpo serenamente florido della greca Laide una cristiana tonaca monacale. Dalla filosofia di Epicuro Gassendi impara piuttosto che saperci erudire intorno alla medesima.

Si consideri questa trattazione solo come premessa di uno scritto più ampio, nel quale esporrò specificatamente il ciclo delle filosofie epicurea, stoica e scettica nei loro nessi con tutta la speculazione greca. I difetti del presente lavoro in fatto di forma e cose del genere saranno colà eliminati.

Hegel ha certo fissato, nel complesso, con esattezza le linee generali dei menzionati sistemi; ma da una parte, data la mirabile vastità e arditezza del piano della sua storia della filosofia, dalla quale soltanto la storia della filosofia stessa può datarsi, era impossibile entrare nei particolari, dall’altra al gigantesco pensatore la sua veduta intorno a ciò che egli chiamava speculativo per eccellenza impediva di riconoscere l'alta importanza che questi sistemi hanno per la storia della filosofia greca e per lo spirito greco in generale. Tali sistemi sono la chiave della vera storia della filosofia greca. Sul loro legame con la vita greca si trova un cenno più approfondito nello scritto del mio amico Köppen Federico il Grande e i suoi avversati.

mercoledì 18 gennaio 2017

La scomparsa del marxismo nella didattica e nella ricerca scientifica in economia politica in Italia*- Guglielmo Forges Davanzati**

**(Università del Salento) 


La lotta di classe “dall’alto” si è tradotta in una rilevante compressione della quota dei salari sul Pil , un formidabile attacco ai diritti dei lavoratori, e, per quanto qui rileva, una riorganizzazione dei sistemi formativi pienamente funzionale alle nuove forme di regolazione capitalistica. E ha dato luogo anche a una ridefinizione della divisione internazionale del lavoro, che ovviamente ha riguardato anche l’Italia.

In questo saggio si è proposta una chiave di lettura delle cause del processo di demolizione in atto dell’università pubblica di massa in Italia, a partire da considerazioni di carattere più generale relative ai processi di ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi. In particolare, si è rilevato che il tessuto produttivo dell’economia italiana è sempre più composto da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e collocate in settori produttivi maturi. Si è argomentato che le politiche di sottofinanziamento del sistema universitario di fatto assecondano questo modello di sviluppo, nel quale le nostre imprese non domandano forza-lavoro altamente qualificata né ricerca di base e applicata. Queste scelte appaiono pienamente legittimate dalla visione dominante nella teoria economica oggi che rafforza la sua egemonia e rende sostanzialmente impossibile la produzione di pensiero critico. In questo scenario, non sorprende la drammatica marginalizzazione del marxismo, e più in generale del “pensiero critico”, nella didattica e nella ricerca in Università.



domenica 15 gennaio 2017

Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento*- Riccardo Bellofiore

*Da:   http://www.dialetticaefilosofia.it/   (pubblicato in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)  
Leggi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/lacqua-pesante-e-il-bambino-leggero.html
                            https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/09/riproposte-dialettiche-le-astrazioni-in.html


   Il metodo del Capitale

Il dibattito sul metodo del Capitale è stato sempre molto sostenuto. Quale concezione della verità ha Marx nella sua opera più matura? Quale rapporto esiste tra questa teoria della verità e la costruzione dei tre volumi? Si può certo dire che è un problema legato – come afferma, del resto, lo stesso Marx nel “Poscritto” alla seconda edizione del I libro – alla questione di che cosa sia una realtà dialettica, di come una realtà dialettica possa essere espressa e raccontata in un libro, come appunto quello del Capitale. Ma in questo modo, forse, il problema si sposta soltanto, dal terreno epistemologico a quello, se possibile ancora più spinoso, del ruolo e della portata della dialettica in Marx.  

Quello che è certo è che la teoria della verità operante nel Capitale non ha molto a che vedere con la teoria della conoscenza propria del cosiddetto materialismo storico, come Marx stesso l’ha sintetizzata ad esempio nell’“Introduzione” del ’59 a Per la critica dell’economia politica. Il rapporto di prassi e teoria concepito come primato della struttura sulla sovrastruttura rimanda agli aspetti più meccanicistici del pensiero di Marx. D’altra parte, in questo approccio la teoria della conoscenza viene situata nella sovrastruttura, ed è perciò intesa come conseguente a una data struttura economica. Questo punto di vista finisce allora con il rivelarsi intrinsecamente contraddittorio, perché limita la validità della legge posta: dovendo affermare, implicitamente ma chiaramente, la legge stessa non valida per la propria teorizzazione.

Il tipo di epistemologia presente nei tre libri del Capitale fa invece riferimento a una diversa teoria del conoscere, che definiremo del “presupposto-posto”. Marx l’ha esposta, anche se in modo non completo e implicito, nell’“Introduzione” del ’57 ai Grundrisse. In questa concezione, il rapporto teoria-prassi è analizzato all’interno di una teoria della scienza che: (i) si vuole valida per le sole scienze sociali, e non è perciò estendibile alle scienze naturali, contro l’interpretazione di Marx data dal materialismo dialettico; (ii) nell’ambito delle stesse scienze sociali è definibile, e acquista pregnanza, solo a partire da una determinata soglia dello sviluppo storico. Le radici di questa visione metodologica sono da rinvenire in Hegel, nell’Hegel della Scienza della logica di Norimberga.

mercoledì 11 gennaio 2017

Ripensare l’oppressione femminile*- Johanna Brenner, Maria Ramas


Abbiamo difeso l’idea secondo la quale i rapporti di classe nella produzione capitalistica, coniugati ai fattori biologici della riproduzione, hanno innescato un potente processo che ha condotto al sistema familiare-domestico, assicurando così la subordinazione costante delle donne e la loro vulnerabilità eccessiva allo sfruttamento capitalista. Evidenziando come l’oppressione femminile in regime capitalistico derivi dal confronto tra imperativi dell’accumulazione capitalista, da una parte, e le strutture della riproduzione umana, dall’altra, la nostra analisi si è concentrata sull’organizzazione di un movimento per le donne della classe operaia. Perché se lo sviluppo del capitalismo nel XIX secolo ha posto le basi per un rovesciamento del sistema familiare-domestico aprendo la via verso altri sistemi, l’implementazione di questi ultimi richiede una lotta politica. I rapporti di classe capitalisti, motivati dalla ricerca del profitto, continueranno ad esercitare pressioni per privatizzare la riproduzione ed imporre alle famiglie della classe operaia il peso delle persone a carico. Questa tendenza, e l’incapacità, fino ad oggi, della classe operaia a porvi freno, sono sufficienti a spiegare la persistenza della divisione sessuale del lavoro e l’ineguaglianza dei sessi.

Le divisioni sessuali non sono dunque del tutto integrate alla divisione del lavoro capitalistica o ai rapporti di produzione, come prodotti dall’equilibrio delle forze in un dato momento storico. La situazione storica è essenzialmente definita dallo sviluppo delle forze produttive, dall’organizzazione della classe operaia, l’organizzazione delle donne fra di loro e lo stato dell’economia. Qualsiasi trasformazione nella condizione delle donne della classe operaia, richiede una più ampia responsabilità collettiva verso le persone dipendenti – sopratutto i bambini. Poiché il sistema attuale va a beneficio degli uomini, quantomeno nel breve termine, il cambiamento dipende dalla capacità da parte del movimento femminista di orientare la lotta di classe operaia in tal senso. Ci sembra dunque che Marx ed Engels abbiano correttamente identificato la tendenza del capitalismo all’equiparazione dei sessi. Beninteso, l’uguaglianza dei sessi nel contesto del capitalismo non equivale alla liberazione delle donne, la quale necessiterebbe di un superamento del capitalismo. Piuttosto, lo intendiamo come un sistema dinamico, che trasforma la vita quotidiana e crea le condizioni per nuove forme di lotta e di coscienza. L’esito della vicenda storica del capitalismo, e della nostra, sarà determinato da una lotta politica che dovrà comprendere queste tendenze contraddittorie.

L’oppressione femminile potrebbe non essere il risultato del «patriarcato», e nemmeno degli interessi fondamentali del capitalismo. È questa il presupposto da cui partono la Brenner e la Ramas, al pari dell’obiettivo della loro potente critica, Michèle Barrett. Secondo quest’ultima, l’oppressione femminile è il prodotto di un’ideologia borghese, la quale plasma la soggettività delle classi popolari e favorisce la divisione salariale tra uomini e donne. Per le autrici del testo che segue, una simile spiegazione non regge. Ma è necessario compiere una deviazione al fine di spiegare l’oppressione femminile: comprendere come la riproduzione biologica ed il lavoro industriale hanno degradato i rapporti di forza tra uomini e donne a beneficio dei primi. La sfida teorica rappresentata dal tema dell’oppressione femminile richiede una risposta dialettica, una risposta che sia agli antipodi rispetto al funzionalismo. Un tale approccio consente di identificare lo Stato-provvidenza e la lotta per la socializzazione della cura delle persone a carico come il nodo del problema e, pertanto, della battaglia femminista.


lunedì 9 gennaio 2017

Cuba protagonista del processo di decolonizzazione in Africa*- Alessandra Ciattini

*Da:    https://www.lacittafutura.it/

Il dissolvimento dell’Unione Sovietica e dei paesi socialisti dell’est europeo ha prodotto nel movimento comunista la dispersione dei suoi appartenenti in gruppuscoli di scarsa rilevanza politica; al contempo, ha generato un profondo senso di sconfitta e di impotenza, probabilmente non esaminato fino in fondo, e che purtroppo non ha suscitato un’intensa riflessione sui caratteri del “socialismo realizzato”, che era stata avviata con l’affermarsi dello stalinismo.

Questi sentimenti comprensibili, accompagnati da un senso di smarrimento, e dalla martellante propaganda ideologica mirante a farci credere che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che la “democrazia realizzata” – come la definisce Luciano Canfora [1] – costituisce il regime politico più rispettoso dei diritti umani, ci ha fatto dimenticare una serie di vittorie straordinarie. Ho in mente il fondamentale contributo di Cuba alla decolonizzazione dell’Africa; processo che negli ultimi decenni – con il mutare del sistema delle relazioni internazionali – non solo ha subito una battuta d’arresto, ma addirittura un’involuzione, giacché siamo ormai nel pieno di una fase neocoloniale e di ritorno alla colonizzazione diretta.

Come scrive lo storico Piero Gleijeses, in una lettera indirizzata a Barack Obama con l’obiettivo di difendere i cinque cubani fino a qualche tempo fa ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti, la vittoria cubana in Angola e Namibia ebbe ampie ripercussioni e – citando Nelson Mandela - aggiunge che smontò il mito dell’invincibilità dell’oppressore bianco. A suo parere tale vittoria produsse l’umiliazione degli Stati Uniti, evento che questi ultimi non possono perdonare a Fidel Castro, e per questo si sono rivalsi sui cinque cubani agenti dell’antiterrorismo, che di fatto sono stati solo dei <<prigionieri politici>>. Naturalmente si potrebbe aggiungere a queste parole che la stessa esistenza di Cuba, dopo cinquant’anni di bloqueo, costituisce un’umiliazione perenne per la superpotenza, difficile da mandare giù.

sabato 7 gennaio 2017

L’ACQUA PESANTE E IL BAMBINO LEGGERO*- Gianfranco Pala

*Convegno RdC, Roma 2006 [in Il bambino e l’acqua sporca]     http://www.webalice.it/gianfrancopala40/pubblicazioni.htm 


l’ignoranza teorica di marxismo e la non meditata azione politica
 

È né più né meno che un inganno sobillare il popolo
senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione.
Risvegliare speranze fantastiche (non di altro si era parlato),
lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono,
porterebbe inevitabilmente alla loro rovina:
rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee
rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete
significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda,
creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica,
dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta:
apostoli assurdi e assurdi discepoli.
In un paese civilizzato non si può realizzare nulla
senza teorie ben solide e concrete;
e finora, infatti, nulla è stato realizzato
se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose,
se non iniziative che condurranno alla completa rovina
la causa per la quale ci battiamo.
L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!
[Karl Marx, Colloqui (cur. H.M. Enzensberger – Annenkov su Weitling)]


1. Un paradosso che si erge di fronte a tutti noi può servire bene come metafora iniziale. Oggi, date le drammatiche condizioni del pianeta, forse è meglio provare a salvare l’“acqua”, pulendola, e non il “bambino”, perché solo in questa maniera, forse, anche lui potrà sopravvivere, altrimenti nulla potrà procedere. L’acqua potabile, che per noi è “pesante” come l’essere, è l’analisi del modo di produzione capitalistico che Marx ha sviluppato, oggettivamente e “cinicamente”, direbbe Lenin; il bambino – il sedicente marxismo, fuor di metafora – è stato reso così “leggero” che ha continuato a sguazzare sempre più nell’acqua non solo sporca ma anche molto inquinata. È cresciuto, sì, ma è cresciuto in un ambiente sempre più lontano e distaccato da quella pulizia, da quella “potabilità”, che pesa come un macigno, ora ignorata e sempre più rigettata.

La metafora nella sua interezza non ha, ovviamente, un senso preciso e corretto per la fisica nucleare; ma vale la pena svilupparla (menzionando per competenza alcune definizioni di esperti, così da concluderla rapidamente). Occorre l’acqua pesante per far sì che essa impedisca che la reazione a catena diventi incontrollabile. Costringendo gli elementi in spazi sempre più ristretti, ognuno di essi tende a muoversi in maniera unica e coerente, diventando un unico grande “organo”; si crea così una direzione, non più caotica e con versi opposti che si annullano dialetticamente. Seguendo per grandi linee ciò che dicono gli esperti, è indispensabile destabilizzare la materia inquinante presente nell’acqua grezza, separando dall’acqua i solidi pesanti che tenderanno a depositarsi, rendendo così necessario un drenaggio periodico dell’acqua reflua per mantenere pulita la “base”. Il marxismo, che ha la parte di unico “grande organo” in questo tropo, ha bisogno per la sua base, per mantenere pulita la sua acqua, che siano periodicamente fatti precipitare i corpi inquinanti.  

venerdì 6 gennaio 2017

Marc Bloch oltre la nouvelle histoire: prospettive teoriche da riscoprire*- Adriana Garroni



Con questo articolo si ripercorrere una tappa fondamentale della storia della storiografia moderna: la reazione contro il positivismo del tardo XIX sec. fino all’elaborazione di nuovi metodi e nuovi oggetti della ricerca storica novecentesca. Si propone un’analisi del dibattito storiografico francese novecentesco, dalla storia totale di Marc Bloch e Lucien Febvre alle riflessioni di Le Goff e altri storici sulla antropologia storica e sulla, tanto celebrata quanto criticata, dilatazione dell’ambito della ricerca storica. Si sostiene la necessità di riscoprire quegli strumenti intellettuali di analisi e di sintesi, ravvisabili certamente nell’opera di Bloch, coi quali elaborare non solo nuove sintesi della conoscenza storica, ma anche una interpretazione complessiva delle nostre società, che è condizione necessaria per il loro miglioramento



Gli ultimi decenni del XIX sec. furono caratterizzati da una vera e propria “rivolta contro il positivismo”;1 come ha scritto lo studioso italiano Angelo D’Orsi, dall’«avvento di una nuova epistéme, ossia l’insieme delle concezioni e dei modi di considerare e organizzare i processi della conoscenza»,2 ponendo così le basi per il salto qualitativo della storiografia novecentesca.

La nuova storia si proponeva di accogliere i migliori risultati della storiografia positivista e le innovazioni metodologiche e interpretative apportate dalle altre scienze sociali. Influenzati dal marxismo, gli storici statunitensi furono i primi a parlare di new history3 e a dare nuova enfasi ai fattori socio-economici nella spiegazione storica. Cominciarono a occuparsi di intellectual history e respinsero le divisioni disciplinari per concentrarsi sui legami che le diverse attività umane intrattengono con la storia delle società. E così, nel corso del Novecento si affermò in Europa e negli Stati Uniti l’attenzione verso la storia della cultura in senso generale, delle idee e delle abitudini mentali degli uomini in una data epoca e in un dato ambiente. Si trattò di una trasformazione complessiva della scienza storica, dei suoi oggetti e del suo metodo, che avrà esiti diversi nei diversi ambienti intellettuali. A questo proposito D'Orsi ha osservato che:

Una dilatazione dell’ambito disciplinare appare insomma l’asse su cui si indirizza prevalentemente la storiografia della prima metà del Novecento, a partire da suggestioni ottocentesche. Il cinquantennio seguente non farà che sviluppare questa tendenza, portandola talora all’estremo, sino, in qualche caso, a far perdere a taluna disciplina storiografica il proprio baricentro.4

giovedì 5 gennaio 2017

A che serve la storia?*- Luciano Canfora (27 febbraio 1998)

 *Da:   http://www.emsf.rai.it/grillo/ -  Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. 

Canfora:
Mi chiamo Luciano Canfora, insegno Filologia greca e latina e mi occupo di storia. Come mai questo mestiere? Credo che le cause siano sempre molto soggettive, comunque ne immagino una. Quando facevo il liceo, eravamo alla metà degli anni Cinquanta, cioè in un'epoca di grandi contrapposizioni ideologiche, politiche, e questo spingeva a studiare la storia per capire il presente in un modo abbastanza cogente e anche, direi, drammatico. Ma, nel prosieguo di tempo, mi sono reso conto che questo studio, senza una buona attrezzatura, non si può condurre e allora il lavoro che faccio è un lavoro che si potrebbe definire un lavoro preparatorio allo studio della storia appunto, allo studio dei testi. Si discute molto se questo sia un mestiere produttivo, quello di studiare la storia. Molti dubitano che sia utile. Io credo che per cominciare una discussione sulla storia, possiamo vedere la scheda che racconta in breve di che la storia per lo più tratta.

Sosteneva Cicerone che chiunque non fosse a conoscenza del proprio passato non avesse alcun futuro davanti a sé. L'affermazione, almeno in teoria, - nella pratica le cose stanno un po' diversamente e la storia la si insegna e la si studia poco - raccoglie il consenso dei più, ma non di tutti. Un filosofo, sicuramente un po' estremo, ma non per questo meno importante, come Friedrich Nietzsche, sosteneva infatti che la storia fosse una disciplina deprecabile e fuorviante, l'espressione massima di quel pensiero razionale, che impedisce di seguire gli istinti più profondi e vitali della natura umana. Maestra di vita per alcuni, come Tucidide, Erodoto e Marx, o esercizio inutile e addirittura dannoso per altri, vedi Seneca o Voltaire, comunque sia la storia occupa un ruolo decisivo nell'agire umano, dalla cultura alla politica. Quest'ultima, in particolare, è costantemente soggetta alle interferenze dell'interpretazione storica, fino a ingenerare l'annosa polemica sull'uso politico della storia. Qui il rischio della mistificazione è sempre in agguato. Sicuramente però lo studio della storia può aiutare a interpretare correttamente il presente. Non a caso alla storia, e al rigore analitico che essa richiede, i regimi totalitari di questo secolo, hanno contrapposto il mito, cercando, in presunte età dell'oro - la mitologia germanica per il nazismo, l'Impero Romano per il fascismo nostrano -, le proprie radici. Chissà se nei primi vent'anni del secolo ci si fosse applicati un po' di più allo studio della fine di imperi centrali e un po' meno a mitizzare i Nibelunghi, forse la barbarie nazista avrebbe trovato terreno meno fertile.

mercoledì 4 gennaio 2017

Perché no al reddito di cittadinanza*- Aldo Giannuli

*Da:    http://www.aldogiannuli.it/
                                   http://www.bin-italia.org/wp-content/uploads/2016/04/QR3_impaginato_Layout-1-3.pdf 

I giovani non devono chiedere reddito ma lavoro. 

A quanto pare, dopo il M5s, Sel, il Pci (già Partito dei comunisti italiani) ora anche Berlusconi si pronuncia a favore del reddito di cittadinanza. Tanta convergenza appare un po’ sospetta, vi pare?  Magari varrebbe la pena di chiedersi se tutti intendano la stessa cosa. Tutti fanno riferimento “all’Europa” ma in Europa esistono sistemi abbastanza diversi e l’indicazione chiarisce poco. Qui non vogliamo passare in rassegna le diverse soluzioni adottate, ci limiteremo solo ad alcune osservazioni generali.

Partiamo da una premessa: se si sta pensando ad un modello una tantum per venire incontro alle situazioni di sofferenza sociale esistenti, ad esempio un assegno di 5-600 euro per 18 mesi, anche allo scopo di riattivare il mercato interno e permettere a molte aziende di ripartire ed assumere, non avremmo nulla da eccepire, salvo fare i conti per capire dove prendiamo i soldi (ovviamente distraendoli da altre destinazioni attuali). Sin qui tutto bene, ma questo non è il reddito di cittadinanza, reddito garantito o comunque lo si voglia chiamare. Con questa espressione si intende un sussidio stabilmente concesso a chi non raggiunga un certo livello ritenuto necessario alla sopravvivenza. In alcuni casi il contributo è concesso per un certo periodo di tempo (in genere uno o due anni), in altri non prevede particolari limiti di tempo, ma il beneficiario deve accettare le offerte di lavoro che gli vengono fatte (magari con la facoltà di rifiutare le prime due offerte). In alcune situazione il reddito non è compatibile con altre forme di reddito, lavoro incluso, in altre l’assegno statale è una integrazione del salario da un lavoro precario o comunque sottopagato. Come si vede le forme sono diverse, e quindi ma qui facciamo un discorso in generale su uno schema base che prevede un reddito costante per un tempo prolungato.

Il primo problema che si pone è se l’assegno sia compatibile o no con un altro reddito da lavoro ovviamente basso. Naturalmente l’assegno statale si immagina sia piuttosto contenuto, diciamo 5 o 600 euro al mese con i quali nessuno può vivere, per cui, proibire che contemporaneamente si possa svolgere altro lavoro significa solo incrementare il lavoro nero e spingere il lavoratore ad accettare lavori senza versamenti di sorta. Immaginiamo invece che si conceda di affiancare un lavoro all’assegno statale. Il risultato sarebbe solo quello di spingere i datori di lavoro a tenere bassi i salari e l’assegno avrebbe solo una funzione adattativa del lavoratore alle condizioni di sotto salario. Peggio ancora se il reddito statale fosse a tempo: nessun datore di lavoro accetterebbe di assumere il lavoratore integrandone  il salario essendo molto più facile licenziarlo e trovare un altro dipendente che goda di un periodo di reddito garantito.

martedì 3 gennaio 2017

Che cos’è l’economia*- Vladimiro Giacché**

...alcune caratteristiche di fondo dell’economia neoclassica. Essa per un verso si trova in continuità con l’economia classica di Adam Smith e David Ricardo, sotto un duplice profilo: nel pensare che l’egoismo degli attori economici, unito alla concorrenza, dia luogo a un risultato positivo per la società, e nel ritenere che i mercati si riequilibrino da soli. 

D’altra parte però, rispetto agli economisti precedenti (e in particolare Smith, Ricardo e Marx), l’economia neoclassica si differenzia sotto almeno tre aspetti importanti: in primo luogo, sposta l’attenzione dalla produzione al consumo e allo scambio; in secondo luogo, sposta l’attenzione dall’offerta alla domanda (e più precisamente la domanda di un soggetto che è l’individuo egoista e razionale); in terzo luogo, accoglie come un dato di fatto la struttura sociale in essere.

Cosa manca all’economia neoclassica? Volendo sintetizzare, potremmo rispondere: la consapevolezza della storicità dei fenomeni economici, della complessità dell’interazione tra soggetto e società e del ruolo dell’ideologia nella costruzione stessa della teoria economica.

la prova della storicità dell’oggetto dell’economia si ricava dal mutamento stesso di significato del concetto di “economia” nel corso del tempo: quella che per noi è oggi l’economia per antonomasia (la produzione e lo scambio finalizzati al profitto), era definita «crematistica» (letteralmente: arte di arricchirsi) da Aristotele, che la giudicava contro natura; Aristotele chiamava invece «economia» (letteralmente: amministrazione della casa) e giudicava «secondo natura» esclusivamente quell’attività economica in cui produzione e scambio sono finalizzati al consumo.

Nella società che l’economista studia il comportamento umano interviene nel processo e ne altera i risultati.

domenica 1 gennaio 2017

Perchè è fallito il comunismo?*- Domenico Losurdo (9/11/1999)


LOSURDO: 
  Sono Domenico Losurdo e insegno Storia della filosofia all'Università di Urbino. Oggi discutiamo della fine del comunismo e possiamo iniziare con una scheda introduttiva che potrà stimolare il dibattito.

Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm attribuisce all'esaurimento dell'esperienza del comunismo sovietico una paradossale conferma delle tesi di Karl Marx. "Le forme produttive - diceva infatti Marx - si trasformano in catene della produzione stessa". Secondo questa teoria, quando un sistema produttivo invecchia, intrappola l'economia e determina così la crisi del mondo sociale, che era espressione di quel modello economico. La crisi dell'economia sovietica ha prodotto la fine del mondo comunista. "Il tentativo comunista produsse - scrive Hobsbawm - risultati notevoli, ma a costi umani elevatissimi e intollerabili e al prezzo di edificare ciò che alla fine si è rivelato una economia senza sbocchi e un sistema politico sul quale non si può esprimere alcun giudizio positivo. La tragedia della Rivoluzione d'Ottobre sta nel fatto che essa poteva solo produrre quel tipo di socialismo: spietato, brutale, autoritario. "Nel fallimento del comunismo non si può dimenticare però - dice ancora Hobsbawm - che la Rivoluzione d'Ottobre produsse il più formidabile movimento rivoluzionario organizzato della storia moderna". La sua espansione mondiale non ha paragoni e, per trovare nel passato un elemento simile, bisogna risalire alle conquiste realizzate dall'Islam nel primo secolo della sua storia. Appena trenta o quarant'anni dopo l'arrivo di Lenin alla stazione Finlandia di Pietrogrado, un terzo dell'umanità si trovò a vivere sotto regimi partiti direttamente dai dieci giorni che sconvolsero il mondo. Che cosa è stato allora il comunismo per il Novecento? L'eredità di un movimento che ha coinvolto milioni di persone ad ogni latitudine del pianeta può consistere soltanto nel passato di un'illusione?

STUDENTESSA:
  Come simbolo della trasmissione noi abbiamo scelto la falce e il martello perché maggiormente rappresentano e descrivono il comunismo e quello che era il suo ideale di una società senza classi, senza proprietà privata, nelle mani del proletariato. Questi sono tutti principi teorici perché quando il comunismo ha preso il potere ha conosciuto strumenti come la dittatura, le armi, la strage. Secondo Lei, non si è contraddetto nel tempo? Oppure non è stata proprio questa forma di degenerazione a portarne la caduta?

LOSURDO: