lunedì 4 aprile 2011

LA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA 1917–1923. Il comunismo di guerra - Edward H. Carr

       Il lavoro e i sindacati    
      
      Fu verso la fine del 1920, dopo la sconfitta di Vrangel’ e la cessazione della guerra civile, che il fronte del lavoro, al pari degli altri settori dell’economia, cominciò a mostrare i segni dello sforzo cui era stato sottoposto. La “militarizzazione del lavoro” aveva perso quel carattere di emergenza che poteva aver avuto quando era in corso la lotta per la vita o la morte. I sindacati, ancora una volta, divennero la sede e l’occasione di aspri dissensi: dissensi all’interno del Consiglio Generale, dissenzi tra il Consiglio Generale e i sindacati stessi, e dissensi tra i sindacati e gli organi sovietici. I problemi in discussione, più che di principio, si presentavano spesso come problemi relativi alle particolari competenze dei vari organi; si discuteva se la principale funzione dei sindacati fosse quella di stimolare la produzione oppure di difendere gli interessi immediati e particolari dei loro iscritti; se era loro compito mobilitare e organizzare la mano d’opera con metodi coercitivi o esclusivamente con metodi volontari; e se dovevano prendere ordini dallo stato in sede politica o conservare un certo grado di indipendenza. Nessuno stretto legame esisteva tra la questione della 2militarizzazione del lavoro” e quella dei rapporti fra i sindacati e lo stato. Era, d’altra parte, naturale che chi considerava la coscrizione della mano d’opera un elemento permanente dell’economia socialista cercasse anche di assorbire i sindacati nella macchina statale, mentre coloro che sostenevano l’indipendenza dei sindacati muovessero dall’idea che il valore dei sindacati risiedeva nel carattere volontario della disciplina da essi imposta. La forte personalità di Trockij – incondizionatamente favorevole alla mobilitazione obbligatoria della mano d’opera e alla completa subordinazione dei sindacati allo stato – valse a inasprire il dibattito e a rendere più duri i contrasti; Tomskij, da parte sua, si presentò come il difensore della concezione “sindacalista” tradizionale.

     Il I Congresso Panrusso dei Sindacati aveva stabilito nel 1918 che i sindacati sarebbero dovuti diventare “organi del potere statale”; l’VIII Congresso del partito, tenutosi l’anno seguente, aveva dichiarato, nella relativa sezione del programma del partito, che i sindacati avrebbero dovuto “concentrare di fatto nelle loro mani l’intera amministrazione di tutta l’economia nazionale, come una sola unità economica”. Nel fervore della guerra civile, questi due punti di vista erano riusciti, in certa misura, a convivere; cessata la guerra, era inevitabile che si riproponesse il vecchio problema, se cioè le decisioni più importanti d’ordine politico spettassero ai sindacati o agli organi dello stato. L’occasione che fece risolvere definitivamente la controversia fu più o meno fortuita. Nell’inverno 1919-1920 le condizioni delle ferrovie erano divenute catastrofiche e la completa disorganizzazione dei trasporti minacciava di provocare il crollo dell’economia; Lenin telegrafò a Trockij, che si trovava negli Urali, pregandolo di prendersi cura della cosa. Dapprima si pensò di ricorrere ai soliti metodi di costrizione. Un decreto dello STO del 30 gennaio 1920 annunciò la mobilitazione per il servizio del lavoro di tutti i ferrovieri; una settimana più tardi un ulteriore decreto conferì ampi poteri disciplinari all’amministrazione delle ferrovie; in nessuno dei due decreti si faceva menzione dei sindacati. Ai primi di marzo del 1920 Trockij ottenne, in appoggio alla sua azione, la creazione di un nuovo organo del Commissariato del Popolo per le Comunicazioni (Narkomput), denominato “amministrazione politica centrale delle ferrovie” (Glavpolitput), il cui compito era di stimolare e rafforzare la coscienza politica dei ferrovieri. Uno degli scopi, o comunque uno dei risultati, della costituzione del nuovo organo era quello di eliminare il sindacato dei ferrovieri, che, fin dalle agitazioni delle prime settimane della rivoluzione, aveva difeso ostinatamente la propria indipendenza. Una speciale risoluzione del IX Congresso del partito, nel marzo 1920, richiamò l’attenzione sull’importanza fondamentale dei trasporti e additò “la ragione principale del ritardo nel miglioramento dei trasporti” nella “debolezza del sindacato dei ferrovieri”. La risoluzione diede il suo pieno appoggio al Glavpolitput, il cui duplice compito doveva consistere “nel migliorare urgentemente i trasporti, mediante l’azione organizzata dei comunisti più attivi … e, al tempo stesso, nel rafforzare l’organizzazione del sindacato dei ferrovieri, attraverso l’assorbimento dei migliori lavoratori, e nell’aiutare il sindacato stesso a creare una disciplina di ferro nella sua organizzazione, facendo così di esso uno strumento insostituibile per l’ulteriore miglioramento dei trasporti”.   Ben presto sorsero delle rivalità e si giunse ad un vero e proprio conflitto fra il Glavpolitput e il sindacato dei ferrovieri. Esso giunse al suo culmine quando il comitato centrale del partito decise di rimuovere il comitato del sindacato dei ferrovieri e di sostituirlo con un nuovo comitato, conosciuto, nella successiva controversi, col nome di Cektran.

[Al X Congresso del partito Trockij affermò in due occasioni, senza essere contraddetto, che la decisione i creare il Cektran (suggerita presumibilmente dallo stesso Trockij) era stata presa dal comitato centrale del partito il 28 agosto 1920, con l’appoggio di Lenin, di Zinov’ev e di Stalin, nonostante le proteste di Tonskij]

     La guerra polacca tuttora in corso e il nuovo intervento di Vrangel’ nel Sud sembravano giustificare ancora qualsiasi misura d’emergenza che servisse a far funzionare il servizio dei trasporti. Alla fine del settembre, tuttavia, i sindacati erano riusciti a riguadagnare parte del loro prestigio presso il comitato centrale del partito, il quale approvò una risoluzione in cui si deploravano “tutti i minuti controlli e le piccole ingerenze” negli affari dei sindacati stessi, prendendo atto che la situazione dei trasporti era “decisamente migliorata” e dichiarando che era giunto il momento di trasformare il Glavpolitput (e un corrispondente organo per i trasporti fluviali, denominato Glavpolitvod) in organi sindacali.

     Quando, perciò, all’inizio del novembre 1920 venne convocata a Mosca una conferenza panrussa dei sindacati (non si trattava di un vero e proprio congresso), gli animi erano già tesi. L’armistizio con la Polonia era stato firmato e la guerra civile era pressoché finita, mentre la crisi dei trasporti poteva dirsi virtualmente superata. Come d’abitudine, i delegati bolscevichi si riunirono in anticipo per decidere la loro linea di condotta alla conferenza. Approfittando d’una discussione relativa alla produzione, Trockij diresse un attacco a fondo contro i sindacati, i quali, egli disse, necessitavano d’una “scrollata”. Tomskij (presidente del Consiglio dei sindacati e membro del Comitato centrale del partito) replicò all’attacco con asprezza. La polemica si svolse ai margini della conferenza, ed essa si accontentò di alcune tesi piuttosto generiche di Rudzutak sul ruolo dei sindacati nello sviluppo della produzione. [Tali tesi furono lodate da Lenin a da lui citate in extenso]

     Ma la situazione all’interno del partito si era a tal punto inasprita da richiedere l’intervento del comitato centrale. Nel corso di una riunione svoltasi l’8 novembre 1920, Lenin e Trockij presentarono due schemi di proposte, e il giorno seguente, al termine di faticose discussioni, il comitato approvò con 10 voti contro 4 (l’opposizione era costituita da Trockij, Krestinkij, Andreev e Rykov) una risoluzione basata sullo schema di Lenin. La risoluzione distingueva accortamente tra “centralismo” e “forme militarizzate del lavoro”, che avevano tendenza a degenerare in burocrazia, tra “la gretta tutela dei sindacati” e “le forme sane della militarizzazione del lavoro”. In merito al punto essenziale, essa prescrisse che il Cektran (Comitato centrale dei trasporti) partecipasse al Consiglio centrale dei Sindacati, su base di parità con i comitati centrali dei principali sindacati, e decise di nominare un comitato con l’incarico di redigere nuove istruzioni generali sui sindacati. Ciò provocò una scissione all’interno del Cektran, e il 7 dicembre 1920 il comitato centrale tornò ad occuparsi della questione in un’atmosfera sempre più tesa. In tale occasione Lenin lasciò che Zinov’ev si misurasse con Trockij. Il comitato centrale si dimostrò, tuttavia, contrario ad entrambi, e Bucharin creò il cosiddetto “gruppo cuscinetto” (comprendente Preobrazenskij, Serebrjakov e Larin) e fece approvare con 8 voti contro 7 una risoluzione di compromesso che lasciava impregiudicate tutte le questioni fino al congresso del partito della primavera seguente. Il Glavpolitput, e la consimile organizzazione del Glavpolitvod, vennero ufficialmente disciolti, e il loro personale e i loro beni passarono ai sindacati. Il Cektran fu lasciato in vita a condizione che esso procedesse a nuove elezioni in occasione dell’imminente congresso dei lavoratori dai trasporti, nel febbraio 1921.[La risoluzione “cuscinetto” fu pubblicata nella Pravda del 14 dicembre 1920]

     Da quel momento non fu più possibile rispettare la decisione presa in novembre di evitare la pubblica discussione delle divergenze sorte nel partito. [Il ritiro del divieto da parte di Zinov’ev, su ordine di Lenin, fu registrato da Trockij]

     Nei tre mesi intercorrenti tra la riunione di dicembre del comitato centrale e l’apertura del X Congresso del partito, l’8 marzo 1921, un aspro dibattito sul ruolo dei sindacati imperversò nelle riunioni e nella stampa del partito.

[Per dare un’idea dell’eccezionale ampiezza del dibattito, possiamo ricordare alcuni momenti chiave: il 24 dicembre 1920 Trockij parlò ad una riunione di massa di sindacati e delegati all’VIII Congresso Panrusso dei Soviet: il suo discorso fu pubblicato il giorno dopo sotto forma di opuscolo; anche Tomskij ed altri parlarono alla stessa riunione. Il 30 dicembre 1920, a un’analoga riunione intervennero Lenin, Zinov’ev, Bucharin, Slipnikov e altri; i loro discorsi furono pubblicati in un opuscolo. Una settimana dopo Zinov’ev parlò ad un’assemblea a Pietrogrado. Per tutto il gennaio 1921, la Pravda pubblicò quasi giornalmente articoli di rappresentanti delle varie “piattaforme”. Il contributo di Stalin, una polemica contro Trockij, apparve il 19 gennaio, l’articolo di Lenin, La crisi del partito, il 21 gennaio. Alla fine di gennaio, Lenin riassunse il dibattito in un opuscolo intitolato Ancora sui sindacati, con il sottotitolo Sugli errori dei compagni Trockij e Bucharin. Prima dell’apertura del congresso, i principali documenti furono pubblicati per ordine del comitato centrale in un volume a cura di Zinov’ev. Che la parte sostenuta da Stalin dietro le quinte fosse molto più importante di quanto lasciasse supporre il suo unico articolo pubblicato, è evidente dalla battuta di un delegato al congresso del partito; tale delegato osservò che, mentre Zinov’ev lavorava a Pietrogrado, “quello stratega di guerra e arcidemocratico, il compagno Stalin” si dava da fare a Mosca, redigendo “rapporti in cui si sosteneva che questa o quest’altra vittoria era stata ottenuta su questo o quest’altro fronte, che tanti avevano votato a favore della tesi di Lenin, e soltanto sei per la tesi di Trockij … ecc. ecc.”]

     Secondo Trockij e il Cektran,il sindacato dei ferrovieri intendeva comportarsi come un sindacato capitalista, relegando in sott’ordine il problema dell’organizzazione della produzione; a Tomskij si attribuiva la parte del “Gompers dello stato operaio”. Gli oppositori sostenevano invece che “l’apparato del Narkomprod stava inghiottendo quello dei sindacati, lasciando a quest’ultimi solo le corna e i piedi”. Una mezza dozzina di programmi, o “piattaforme”, vennero messi in circolazione. Quando il congresso si riunì, la situazione si era ormai, in una certa misura, chiarita da sé. Il “gruppo cuscinetto” di Bucharin, fallito il tentativo di promuovere un accordo generale, era venuto a patti con Trockij, e un progetto comune fu presentato al congresso a nome di otto membri del comitato centrale: Trockij, Bucharin, Abdreev, Dzerzinhij, Krestinskij, Preobrazenskij, Rakovskij e Serebrjakov. All’ala opposta si era venuto organizzando nell’inverno 1920-21 un gruppo di sinistra, detto dell’“opposizione operaia”. Il suo programma, vago ma lungimirante, comprendeva il controllo della produzione industriale da parte dei sindacati; e proposte in tale senso furono sottoposte dal gruppo al X Congresso del partito: i suoi esponenti erano Sljapnikov e la Kollontaj. Questo nuovo elemento favorì il gioco del gruppo Lenin-Zinov’ev, che poté così presentarsi come una forza di centro, moderatrice; il suo punto di vista venne presentato al congresso sotto forma di uno schema di risoluzione, detto “dei dieci”: Lenin, Zinov’ev, Tomskij, Rudzutak, Kalinin, Kamenev, Lozovskij, Petrovskij, Artem e Stalin. I gruppi minori si ritirarono nell’ombra prima del congresso o immediatamente dopo la sua apertura, cedendo il campo ai tre maggiori contendenti.

     Al X Congresso del partito il vero e proprio dibattito si esaurì rapidamente; esso si limitò a una sola seduta e fu in gran parte intessuto di semplici recriminazioni. Quando i delegati furono chiamati ad esprimersi, le conclusioni erano già scontate. L’influenza personale di Lenin e il peso dell’apparato del partito bastarono a determinare l’esito del congresso. Tuttavia, le adesioni raccolte tra i delegati dagli altri programmi erano assai maggiori di quanto non trasparisse dai voti. Dalle tre principali “piattaforme” risultava chiaramente quali erano le questioni di principio in giuoco. L’“opposizione operaia”, come già in passato i sostenitori del “controllo operaio”, esprimeva una concezione essenzialmente sindacalista dello “stato operaio”, richiamandosi alla componente sindacalista della teoria del partito: al congresso Sljapnikov citò la previsione di Engels secondo la quale la società futura avrebbe “organizzato l’industria sulla base d’una associazione libera ed uguale di tutti i produttori”. (Lenin replicò che Engels stava parlando in quel caso di una “società comunista”.) In quanto i sindacati costituivano l’unica organizzazione che rappresentasse direttamente ed esclusivamente i lavoratori, era inconcepibile che essi venissero subordinati a qualsivoglia autorità politica. La direzione dell’economia nazionale avrebbe dovuto essere affidata, al vertice, ad un congresso panrusso dei produttori, e, al livello inferiore, ai sindacati. Ne derivava che le funzioni politiche avrebbero dovuto essere lasciate ai Soviet, i quali, come depositai del potere politico, erano destinati presumibilmente a scomparire. Per ciò che riguardava le questioni pratiche e immediate, l’“opposizione operaia” richiedeva la parificazione salariale, la distribuzione gratuita ai lavoratori dei generi alimentari a di prima necessità, e la progressiva sostituzione dei pagamenti monetari con pagamenti in natura. L’“opposizione operaia” aveva una concezione rigida della classe operaia ed era contraria, almeno in teoria, a qualsiasi concessione ai contadini. Essa, mentre da un lato respingeva tutto ciò che poteva riferirsi alla militarizzazione del lavoro, avallava d’altro canto le misure economiche e finanziarie più estreme del comunismo di guerra, mantenendo così la sua posizione all’ala sinistra del partito. L’opposizione operaia non aveva da offrire alcun rimedio alla crisi che stava di fronte al X Congresso, e raccolse solo 18 voti.

     Il programma Trockij-Bucharin, che rappresentava di fatto il punto di vista di Trockij, sfumato in alcune delle sue più aspre formulazioni, si definì una piattaforma di “produzione” in opposizione a quella “sindacalista”. Essa chiedeva “la trasformazione dei sindacati in unità di produzione, non soltanto di nome, ma anche nella sostanza e nei metodi di lavoro”. Il programma del partito del 1919 aveva provveduto alla concentrazione nelle mani dei sindacali dell’“intera amministrazione di tutta l’economia nazionale, concepita come singola unità economica”. Ciò presupponeva, però, “la trasformazione pianificata dei sindacati in apparati dello stato operaio”. Per completare tale processo, era indispensabile una più stretta integrazione fra il Vesencha (Consiglio Supremo dell’Economia Nazionale) e il Consiglio Centrale dei Sindacati, mentre il Commissario del Popolo per il Lavoro avrebbe dovuto essere abolito del tutto. Il processo di “statizzazione” dei sindacati era ormai giunto, in pratica, a una fase assai avanzata, e non c’era apparentemente alcun motivo per non portarlo a definitivo compimento. Il programma Trockij-Bucharin possedeva una notevole coerenza logica. Tuttavia, il presupposto da cui muoveva, cioè che l’operaio industriale non poteva avere interessi diversi da quelli dello stato sovietico, tali da giustificare la protezione di sindacati indipendenti, se apparentemente poteva trovare una spiegazione in base al termine di “dittatura del proletariato”, nella realtà delle cose esso aveva scarso fondamento: se non altro perché lo stato in quel momento si fondava su un continuo compromesso tra l’operaio dell’industria e il contadino; inoltre, il programma Trockij-Bucharin prestava il fianco alla stessa critica che veniva rivolta all’“opposizione operaia”, seppure da un diverso punto di vista, cioè di ignorare la componente contadina nel potere sovietico. L’insuccesso del programma fu dovuto anche a una ragione più pratica, vale a dire il suo ben noto legame con la politica della mobilitazione forzata della mano d’opera, che costituiva in effetti una logica deduzione dalle sue premesse. Nonostante il nome influente dei suoi promotori, il programma Trockij-Bucharin ottenne al congresso solo 50 voti.

     Il campo era aperto alla risoluzione dei “dieci”, che fu approvata con 336 voti contro i 50 e i 18 voti ottenuti rispettivamente dalle due correnti rivali. La principale critica che le venne mossa fu di non indicare una via d’uscita dalla crisi e, in sostanza, di lasciare le cose al punto in cui si trovavano. La risoluzione respingeva nettamente la proposta dell’“opposizione operaia” di un congresso panrusso dei produttori, la cui maggioranza, fece notare con franchezza Zinov’ev, “in questo grave momento sarebbe costituita da persone non appartenenti al partito, fra cui numerosi socialisti rivoluzionari e menscevichi”. Ma essa dichiarò anche, in opposizione a Trockij, che i sindacati svolgevano già alcune funzioni statali e che la loro “rapida ‘statizzazione’ … avrebbe costituito un grave errore”. L’essenziale era di “guadagnare sempre più allo stato sovietico l’appoggio di queste organizzazioni di massa, al di fuori del partito”. Il carattere distintivo dei sindacati era costituito dall’uso dei metodi persuasivi (sebbene la “costrizione proletaria” non fosse sempre esclusa); incorporarli nello stato avrebbe significato privarli di tale elemento a loro favore.

[Lenin insisté in modo particolare su questo punto nel suo breve discorso al congresso intorno alla questione sindacale: “Dobbiamo a ogni costo prima persuadere, e poi costringere”.]

la “piattaforma” dei “dieci” si basava su considerazioni di carattere pratico, piuttosto che su un contenuto teorico. Ma questa, appunto, era la sua forza. Sulle questioni particolari, i “dieci”, se da un lato accettarono come meta ultima l’uguagliamento dei salari, dall’altro si dimostrarono contrari a farne un obiettivo politico immediato, come voleva l’“opposizione operaia”; i sindacati avrebbero dovuto “usare il pagamento dei salari in denaro o in natura come mezzo per disciplinare la mano d’opera e incrementare la sua produttività (sistema di premi, ecc.)”. Inoltre, i sindacati avrebbero dovuto far rispettare la disciplina e combattere le diserzioni dal lavoro per mezzo di “tribunali operai di disciplina”.

     Le proposte dei “dieci” adottate dal X Congresso del partito per risolvere la controversia sui sindacati non contenevano nessun elemento originale, ma avevano soprattutto un carattere pratico. Ciò nonostante, esse contribuirono ben poco a risolvere il problema fondamentale, quello, cioè, di conferire ai sindacati una funzione autonoma senza trasformarli in organi dello stato. 

     Al Congresso Trockij predisse che la risoluzione vincitrice non sarebbe “sopravvissuta fino all’XI Congresso”. La previsione si avverò in pieno. Una nuova crisi sopravvenne dopo solo due mesi; la linea del partito verso i sindacati sarebbe stata nuovamente e radicalmente modificata in base alla risoluzione del comitato centrale del gennaio 1922. Se i nuovi cambiamenti poterono essere realizzati in un clima meno polemico di quello che aveva caratterizzato l’inverno 1920-21, ciò fu dovuto a due fattori. In primo luogo, il giro di vite dato dal X Confesso alla disciplina del partito evitò il ripetersi delle aperte e astiose polemiche che avevano preceduto il congresso. In secondo luogo, la controversia sui sindacati nell’inverno 1920-21 si era svolta nel regime del comunismo di guerra e sulla base dei presupposti economici di quel sistema.

     L’abbandono del comunismo di guerra e l’avvento della Nuova Politica economia ebbero ripercussioni sulla politica del lavoro: mentre la “piattaforma” di Trockij e quella dell’“opposizione operaia” risultarono sorpassate, il programma adottato dal X Congresso parve adeguarsi meglio alla nuova situazione e rappresentare in certo senso una continuazione dell’indirizzo espresso dal congresso stesso. La politica di Trockij della mobilitazione del lavoro da parte dello stato rispecchiava l’estrema tensione degli anni del comunismo di guerra e non poteva che essere seguita da un periodo di rilassamento. Ciò nonostante, essa dimostrò di possedere una validità più duratura di altri aspetti del comunismo di guerra: la politica del lavoro che venne adottata alcuni anni dopo, con i piani quinquennali, era assai più debitrice ai concetti esposti da Trockij in quell’epoca che alla risoluzione adottata dal X Congresso del partito.


domenica 3 aprile 2011

Note sulla Introduzione hegeliana alla Fenomenologia.[1] - Stefano Garroni -

Lo scopo, che mi propongo, è mostrare come, nella prospettiva dialettica di Hegel (e di Marx, il quale, sia pure con certe modifiche, la riprende e continua), la dimensione oggettiva del movimento storico non solo non si oppone al momento della soggettività, ma addirittura fa di quest’ultimo una sua componente essenziale.
E’ suggestivo, anche se qui non possiamo ancora sviluppare adeguatamente il tema  – come invece faremo in seguito-, porre a raffronto il pensiero di Hegel (e di Marx) con quello di Frege su un punto particolare ma centrale, come ce lo restituisce una recente sua ricostruzione.

venerdì 1 aprile 2011

STORIA DEL MARXISMO - La costruzione del socialismo in Russia - Andras Hegedus -

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          1.     Il nuovo Stato.

Una situazione rivoluzionaria nella storia raramente ha trovato una immagine del futuro già pronta, come quella che prese forma all’interno della corrente bolscevica russa del marxismo. E qui dobbiamo pensare anzitutto ai lavori di Lenin e specialmente allo scritto, terminato nel settembre del 1917, dal titolo Stato e rivoluzione. Secondo il contenuto di quest’opera, la prima tappa della via che conduce al comunismo è l’instaurazione della dittatura del proletariato, che significa da un lato democrazia per la stragrande maggioranza del popolo, dall’altro violenta esclusione dalla democrazia per gli antichi oppressori del popolo. 

Per quest’ultima tuttavia non ci sarà bisogno, o “quasi” non ci sarà bisogno, di un apparato speciale, perché sarà sufficiente l’organizzazione delle masse armate. Dapprima verrà eliminata solo quell’ingiustizia sociale derivante dal fatto che i mezzi di produzione sono di proprietà di singoli individui, mentre la distribuzione dei beni di consumo non avverrà ancora secondo i bisogni, bensì secondo il lavoro, nel senso che, non esistendo un altro diritto, sussiste ancora il “diritto borghese”; anche la tecnica inoltre esige la più severa attenzione, altrimenti la fabbrica si ferma e nascono disturbi nel funzionamento del macchinario. Lo Stato, proprio per la necessità di organizzare questi rapporti, continua a sopravvivere, sebbene abbia perso ormai la sua funzione oppressiva, perché deve difendere il suddetto ruolo di divisione dei prodotti e del lavoro. Ogni cittadino sarà il funzionario retribuito di questo potere, che allora veniva immaginato ancora come omogeneo, senza articolazione e funzionante come un “cartello” esteso a tutto il popolo. “L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”. (Lenin, Stato e rivoluzione, Roma 1966, p.178)

Solo in tale periodo di transizione possono lentamente maturare le condizioni per la totale estinzione dello Stato e con ciò le condizioni del raggiungimento del grado superiore del comunismo, ma solo nel caso che vengano applicate immediatamente tutte le misure atte a contrastare la burocratizzazione; e quindi non solo l’eleggibilità delle cariche, ma anche la mobilità; retribuzioni non superiori a quelle degli operai, transizione immediata alla fase in cui ognuno è “burocrate” per un certo tempo, così che nessuno possa diventare burocrate.

Questa immagine del futuro si distingue dalle “profezie” di Marx non soltanto per il fatto che - almeno per certi aspetti – in essa si delineano con maggior precisione i contorni della nuova società, ma anche per l’accentuazione che viene data al ruolo dominante dello Stato nella vita economica, sebbene si tratti di un nuovo tipo di Stato. Possiamo arrischiare la supposizione che in questo “statocentrismo” avesse un ruolo molto importante la peculiarità dello sviluppo russo e il livello di tale sviluppo: quella certa “asiaticità” (Asientum), tanto spesso citata, e da cui, secondo la teoria di Lenin, il popolo può essere fatto uscire solo dall’avanguardia della classe operaia organizzata in Stato nella forma dei soviet. In quella situazione non si poteva neppure parlare di “libere associazioni dei produttori”. In quell’immagine del futuro rimaneva ancora incerta la funzione di due importanti sistemi istituzionali: il ruolo del partito e quello dei sindacati nello Stato proletario, che si immaginava privo di partiti indipendenti. La teoria sottolinea la funzione del partito, come avanguardia della classe operaia, soprattutto in riferimento al periodo della rivoluzione. I sindacati invece svolgono la funzione di terreno di confronto nella lotta tra le forze rivoluzionarie e le varie forze revisioniste e riformiste.

          2.   Cinque problemi essenziali.

Il partito comunista acquistò all’interno dei soviet un’influenza decisiva e, giunto al potere con la rivoluzione d’Ottobre, si mise immediatamente all’opera per realizzare nella prassi la sua immagine  del futuro. Tuttavia già i primi passi mossi verso l’edificazione del nuovo ordinamento sociale mostrarono come, anche se si prendevano le mosse dalla stessa base teorica, inevitabilmente si delineavano alcune alternative divergenti e non conciliabili. Nei primi anni comunque, a causa della guerra civile, non si accesero polemiche riguardo al nuovo ordinamento socio-economico. Le possibilità della polemica si dettero solo a partire dalla fine del 1920 e possiamo quindi considerare i pochi anni successivi come il periodo della scelta alternativa. Le polemiche e le lotte di partito, che ormai non erano più soltanto ideologiche, ma rispecchiavano contrasti i interessi creatisi nella nuova struttura sociale, si concentrarono soprattutto intorno ai seguenti problemi:

a)      La valutazione del sistema di gestione economica e di istituzioni del periodo detto del “comunismo di guerra”. Era nato, questo, in seguito a una situazione di forza maggiore ingenerata dalla guerra o da una concezione teorica costruita sulla possibilità di una rapida transizione?

b)      La polemica sul sindacato, che prese forma intorno al dilemma apparentemente pratico della “sindacalizzazione dello Stato” o della “statizzazione dei sindacati”, ma nascondeva dietro di sé uno dei problemi più importanti della nuova formazione socio-economica: come, in quali forme istituzionali, può essere garantita la partecipazione delle masse operaie alla direzione dell’economia?

c)      La questione agraria, che praticamente si presentava come il problema di sostituire al prelievo delle eccedenze l’imposta in natura, ma nascondeva dietro di sé la questione fondamentale della sopravvivenza del nuovo potere; il rapporto con le masse contadine, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, in un paese in cui nell’agricoltura erano presenti rapporti caratteristici dell’età feudale, di varie formazioni precapitalistiche e del capitalismo in lento sviluppo.

d)      La definizione e la valutazione del carattere della Nep, dietro a ciò la questione della funzione dei rapporti di denaro e di mercato, in un paese in cui in precedenza né il denaro, né i rapporti di mercato avevano permeato completamente la vita economica e sociale.

e)      Il carattere dello Stato che aveva appena preso forma, in un paese dove nel passato funzionava una delle burocrazie di tipo amministrativo e statale meglio organizzate d’Europa e che aveva importanza anche nella vita economica; essa era stata distrutta dalla rivoluzione e dalla guerra civile, ma funzionava ancora mediatamente come modello istituzionale. questa polemica concerneva propriamente la ragione d’essere e il futuro della  burocrazia in una società che sopprime la proprietà privata dei mezzi di produzione. A ciò era connesso il concetto della vigilanza operaio-contadina, che offriva come alternativa possibile la creazione di un potere social superiore alla direzione specialistica che si stava sviluppando e funzionava essenzialmente come una burocrazia.

          3.    Il comunismo di guerra.

Le prime disposizioni prese dal potere sovietico dopo la rivoluzione d’Ottobre rivelano come si pensasse che la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione dovesse avvenire a gradi; è vero nei primi decreti si annunciavano estesissime nazionalizzazioni, ma si mirava anche al tempo stesso a sottoporre il capitale privato al controllo operaio, lasciando sussistere, almeno in linea di principio, il diritto dei capitalisti all’amministrazione e persino all’appropriazione. Nella pratica tuttavia il processo di espropriazione del capitale privato subì un’accelerazione: durante la guerra civile si rivelò illusoria l’ipotesi che sotto il potere sovietico i capitalisti rimanessero alla testa delle loro imprese e continuassero a dirigere la loro attività produttiva e commerciale. Nella grande maggioranza dei casi infatti essi fuggirono dalle regioni dominate dai bolscevichi e agli organi operai di controllo toccò anche il compito della gestione delle imprese.

Questa situazione accelerò al tempo stesso anche la statizzazione decretata centralisticamente, che si estese allora persino alle unità economiche che non si potevano far funzionare razionalmente al livello di medie o grandi imprese. Ciò è attestato dal fatto che, in base alle statistiche del 1920 relative all’industria, più dei due terzi delle imprese statizzate impiegava meno di quindici operai. Ancora più rapidamente avvenne la nazionalizzazione nel commercio, dove in capo a brevissimo tempo per il settore privato non rimase in sostanza che la possibilità del piccolo commercio di viveri, del “mercato nero”. Così per quel che riguarda l’industria e il commercio, si raggiunse l’obiettivo contenuto nel programma di Stato e rivoluzione: i mezzi di produzione furono sottratti alla proprietà privata dei singoli individui. Invece la soluzione del problema che fa seguito a ciò, vale a dire la trasformazione dei mezzi di produzione in proprietà di tutta la società, attraverso l’impiego di provvedimenti antiburocratici, si rivelò una delle questioni più difficili della nuova formazione socio-economica.

Sulla base della statizzazione dei mezzi di produzione si costituì un sistema di direzione dell’economia che andava prendendo una forma istituzionale sempre più definita. “Dopo la Comune di Parigi – ha scritto Kritsman – che creò per la prima volta nella storia dell’umanità un governo proletario, la rivoluzione russa con la costituzione di un apparato proletario di direzione dell’economia ha fatto un nuovo passo avanti in linea di principio”. Questo nuovo sistema di direzione dell’economia si trovava a dover risolvere un compito quasi incredibilmente grande. Tra i paesi che avevano partecipato alla prima guerra mondiale, la Russia fu colpita in modo particolarmente grave, specialmente nell’industria e nelle comunicazioni, e la situazione era stata ulteriormente aggravata dalla guerra civile. La centralizzazione – non tanto nell’organizzazione della produzione, quanto piuttosto nella distribuzione dei beni che erano a disposizione – era un’esigenza a un tempo dell’ideologia e della pratica.

Gli organi di direzione centrale della produzione immediatamente dopo la rivoluzione erano ancora di tipo corporativo, si componevano di rappresentanti dei sindacati, di delegati delle organizzazioni proletarie e delle associazioni di fabbrica. La loro funzione consisteva all’inizio piuttosto nell’esercizio del controllo, in quanto essi non svolgevano una vera e propria attività direzionale; più tardi tuttavia, per influsso della statizzazione e del passaggio all’economia di guerra, il loro compito principale divenne quello di dirigere il movimento della produzione e della distribuzione e così, di conseguenza della nazionalizzazione accelerata, diventava superata la presenza del capitalista. Si formarono delle direzioni generali articolate verticalmente sotto la conduzione di una sola persona, in cui il carattere collettivo sopravviveva solo formalmente. Questi glavki, nell’abbreviazione russa, erano le forme istituzionali più significative del sistema di gestione del comunismo di guerra. Il loro potere sull’ambito che stava sotto la direzione era quasi illimitato ed essi godevano di un’indipendenza relativamente grande anche nei confronti degli organi centrali del governo. Le direzioni generali, il cui numero nel giro di breve tempo salì a parecchie dozzine, erano le prime istituzioni di questa società in cui poté prendere forma il rapporto burocratico analizzato da Marx, come rapporto sostanziale. I glavki crearono una loro mitologia della centralizzazione e presentarono il sistema di gestione del comunismo di guerra come l’unica forma di direzione dell’economia possibile per la transizione al socialismo.

In questo sistema di gestione in parte per l’influsso dell’ideologia, in parte da un punto di vista pratico non si dava spazio ai rapporti di denaro e di scambio. La valutazione, la verifica, l’organizzazione centralizzata (sotto la direzione generale), la distribuzione, tutto avveniva in modo naturale. Una parte maggiore dei prodotti dell’industria veniva distribuita secondo i piani di utilizzazione elaborati dal centro e così anche i rapporti di scambio tra le varie unità economiche (per cui non era incondizionatamente necessaria la funzione mediatrice del denaro) si ridussero a uno spazio sempre più ristretto. I rapporti di mercato e di scambio diminuirono in misura molto considerevole anche in conseguenza del fatto che i lavoratori ricevevano i salari – del resto su base altamente egualitaria – per la maggior parte non in denaro ma nella forma di assegnazioni in natura. È degno di nota il fatto che la partecipazione al lavoro non era legata all’incentivo materiale costituito dalle assegnazioni in denaro o in natura, ma a tale proposito veniva attribuita un’importantissima funzione all’obbligo generale del lavoro, che veniva fatto rispettare con severi provvedimenti amministrativi. Tutto ciò corrispondeva pienamente all’immagine del futuro contenuta in Stato e rivoluzione, che prevedeva la realizzazione pratica della concezione marxiana della gestione centrale della forza-lavoro:
    
Ogni membro della società – scrive Lenin – eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino 
da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente 
quantità di prodotti.

Il potere sovietico inoltre adottò una serie di provvedimenti che possiamo considerare, analogamente ai precedenti, come legati all’idea di un’accelerazione della transizione al comunismo. Essi sono i seguenti: il servizio postale gratuito, la distribuzione di pasti gratuiti per le fabbriche delle città, l’assegnazione di abiti gratuiti per i bambini delle scuole, ecc. naturalmente contribuì a che si prendessero provvedimenti del genere anche un certo stato di necessità creato dalla guerra, ma non è difficile dimostrare che essi sono parte integrante di una concezione mirante alla rapida transizione a un’economia naturale.

Nella stessa direzione procedeva anche la conformazione dei rapporti agrari. Il potere sovietico all’inizio tentò di rafforzare i rapporti di scambio fra città e campagna, fra agricoltura e industria, ma quasi esclusivamente senza servirsi del denaro. Tuttavia il potere sovietico non disponeva di un volume di merci sufficiente all’ampliamento dei rapporti di scambio e fu così costretto a confiscare ai contadini l’eccedenza della produzione, e ciò venne attuato con sempre maggiore rigore a causa della crescente mancanza di viveri. In conseguenza di ciò aumentò sì il raccolto del grano, ma ancora nel 1920 esso non raggiungeva il livello dell’anno precedente la rivoluzione, livello che il sistema di consegna introdotto dallo zarismo nel corso dell’economia di guerra, era riuscito ad assicurare alla distribuzione centrale. Contemporaneamente all’introduzione del prelievo senza compenso delle eccedenze, si stigmatizzò la circolazione dei prodotti agricoli sul mercato libero e la si limitò con severi provvedimenti amministrativi. “Il contadino – dice Lenin all’assemblea dei militanti dell’organizzazione moscovita del partito comunista russo – essendo un piccolo padrone, è per sua natura incline al libero commercio, che noi consideriamo un reato”.

Il sistema di gestione economica denominato comunismo di guerra può essere dunque considerato come un grandioso tentativo sociale di creare nel breve periodo un ordinamento sociale i cui lineamenti si sviluppano all’interno dell’immagine del futuro del marxismo, o almeno della sua corrente bolscevica russa, e come, il risultato della situazione pratica di forza maggiore creatasi in seguito alla pressione dell’economia di guerra.

          4.    Sindacati e Stato proletario.

Alla fine del 1920 giungono a termine contemporaneamente due processi che negli anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre avevano fortemente determinato il carattere delle risposte date al problema dell’organizzazione sociale: la guerra civile termina con la vittoria dell’Armata rossa che controlla tutto il territorio del paese; Denikin si rifugia all’estero in marzo, Vrangel in novembre; le rivoluzioni europee quasi senza eccezione “si spengono” e i partiti comunisti devono riconoscere che almeno per il momento – non c’è da aspettarsi lo scoppio della rivoluzione mondiale. La deliberazione del III Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi tra il 22 giugno e il 12 luglio 1921, constata ormai che

la potente ondata che ha fatto seguito alla guerra non ha spazzato via il capitalismo mondiale e neppure quello europeo … La guerra non è terminata immediatamente con la rivoluzione proletaria. E la borghesia può con un certo diritto registrare questo fatto come una sua vittoria.

Tutto ciò rese possibile lo sviluppo delle polemiche intorno alla scelta alternativa. E non è casuale che esso prendesse l’avvio dal protrarsi della polemica sui sindacati, giacché proprio questo sistema istituzionale era separato nel modo più palese dallo stato proletario.

Subito dopo la rivoluzione i sindacati avevano svolto ancora una funzione molto rilevante nella creazione della “dittatura economica del proletariato”. Allora le forme istituzionalizzate della direzione dei sindacati e la vita economica non si erano ancora separate né organizzativamente, né funzionalmente. Lenin in occasione del II Congresso dei sindacati, tenuto nel 1919, affermava ancora:

La statizzazione dei sindacati è inevitabile, la loro fusione con gli organi dello Stato è inevitabile, il trasferimento dell’intera edificazione della grande produzione nelle loro mani è inevitabile. (Rapporto al II Congresso dei sindacati di tutta la Russia)

In quel periodo – come dimostra questa citazione – la teoria non aveva ancora preso atto della contraddizione tra la “statizzazione dei sindacati” e la “sindacalizzazione dello Stato”, e questo perché non si erano ancora formate quelle istituzioni, i cui dirigenti e membri sarebbero stati legati all’una o all’altra soluzione dal loro modo di vedere improntato ai propri interessi e funzioni particolari.

Tuttavia alla fine del 1919 e soprattutto all’inizio dell’anno successivo riscontriamo segni sempre più evidenti della separazione tra l’organizzazione direzionale statale e i sindacati e non solo riguardo alle forme istituzionali, ma anche nella vita ideologica.  Da un lato prese forma la concezione direzionale burocratica, detta poi glavkismo, che esigeva per la direzione statale un potere illimitato e indiviso, dall’altro, invece, nei sindacati acquistavano terreno modi di vedere che rivelavano un influsso della teoria anarco-sindacalista (in quei tempi lo stesso anarchismo prese fora nella vita politica e intellettuale sovietica).

Nella nuova situazione così formatasi il rapporto tra lo Stato e i sindacali si impostò in modo nuovo; ciò che fino ad allora era sembrato conciliabile ora molto rapidamente prendeva forma in due tesi contrapposte:

a)      L’indipendenza dei sindacati nello Stato proletario non può essere ammessa; bisogna quindi partire dal presupposto che lo Stato è l’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia e che, separati da esso, possono esistere soltanto interessi e movimenti controrivoluzionari o almeno conservatori.

b)      Anche nello Stato sovietico, come in ogni Stato, si formano apparati direttivi specializzati e separati dai produttori immediati; se non si esercita sulla loro attività un’efficace vigilanza operaia, essi possono diventare delle “escrescenze burocratiche”, dei “pericolosi bubboni” sul corpo della società sovietica; bisogna quindi porre lo Stato sotto la direzione immediata dei sindacati.

Il rappresentante più autentico della prima concezione è Trockij; il capo dell’opposizione operaia, Sljapnikov, è il rappresentante più autentico della seconda. Trockij partiva dal presupposto che i sindacati, dopo la rivoluzione, si erano trovati in una situazione di crisi, che non era dovuta a una difficoltà di crescita, come molti sostenevano, ma a un’“agonia”, dovuta al fatto che avevano perso le loro antiche funzioni. Su questo stesso presupposto si basavano proposte come quella secondo cui i sindacati sarebbero dovuti scomparire e i loro compiti essere trasferiti alle istituzioni statali, che operavano con un’efficacia superiore alla loro. Nonostante la sua acuta e risoluta analisi della situazione, Trockij non si spingeva tanto oltre, ma partiva dal presupposto che i sindacati nello Stato proletario non potevano svolgere altra funzione se non quella stessa dello Stato; il sindacato degli operai metallurgici ad esempio doveva risolvere gli stessi problemi della Direzione generale dell’industria metallurgica e doveva servirsi degli stessi specialisti. Pur insistendo nel non considerare essenziale la “statizzazione” formale dei sindacati, esigeva che i sindacati, cambiando quella che era stata fino allora la loro funzione, diventassero effettivamente organi statali, tali da abbracciare tutta l’industria e da essere responsabili sia della produzione, sia dei produttori. Più tardi il programma redatto in comune da Trockij e da Bucharin sottolineerà lo stesso concetto, e cioè non tanto la statizzazione dei sindacati, quanto la fusione dei due sistemi organizzativi.

Sulla formazione di questa concezione di Trockij influivano anzitutto le esperienze da lui fatte in qualità di comandante dell’Armata rossa. Su questa base già al IX Congresso del partito aveva sollevato la questione della necessità della militarizzazione dell’organizzazione produttiva, attaccando duramente Smirnov che – richiamandosi non da ultimo al ruolo dei sindacati – ne metteva il dubbio l’opportunità. In Trockij dunque la negazione di un ruolo dei sindacati indipendente dalla direzione statale è parte di una concezione chiusa e ciò è attestato dal fatto che già a quel tempo egli sottolineava l’importanza del piano economico unitario, rimproverando al Consiglio supremo dell’economia nazionale di non dedicare ad esso l’attenzione dovuta. Parlando poi della responsabilità individuale, proponeva che alle mansioni esecutive fossero assegnati con maggiore risolutezza tecnici specializzati. Il suo punto di vista di conseguenza è improntato al centrodirigismo statale, nel quale, per definizione, non possono trovare posto i sindacati, ovvero lo possono solo nel caso che siano completamente amalgamati con le diverse istanze della direzione statale dell’economia.

In antitesi a queste posizioni, la piattaforma dell’opposizione operaia si appoggiava nella sua formulazione al programma del partito; questo proclamava infatti che la direzione dell’industria doveva passare a ogni livello nelle mani dei sindacati. La frase, tanto spesso citata nel corso della polemica, suonava così: “I sindacati debbono giungere a concentrare effettivamente nelle loro mani la gestione di tutta l’economia nazionale, considerata come un unico complesso economico”. (Il Congresso dei minatori di tutta la Russia)

Quando ebbe inizio la polemica sui sindacati questo programma era ancora in vigore e così quanti contrastavano l’opposizione operaia non potevano mettere in dubbio la giustezza di questo obiettivo. Lozovskij, ad esempio, rimproverava ad essa soltanto il fatto di avere considerato questo punto del programma come un compito tattico da mettere subito in pratica e non come un fine strategico, cioè di non avere preso in considerazione le circostanze concrete del 1920.

L’opposizione operaia tuttavia, in base alle proprie esperienze, giudicava la situazione tale che molti avevano ormai abbandonato quel punto del programma anche come obiettivo strategico; in effetti, di giorno in giorno, essa poteva sperimentare come crescessero e si moltiplicassero sopra di essa le istanze della direzione economica, le quali a poco a poco non solo si sottraevano al suo controllo, ma accettavano solo a malincuore i suoi consigli e le sue proposte di aiuto. La critica dell’opposizione operaia divenne sempre più acuta nei confronti degli organi statali preposti alla direzione dell’economia, considerati come organismi essenzialmente burocratici.

La vittoria sulla distribuzione sarà possibile e realizzabile – scriveva Sljapnikov – e le forze produttive potranno essere restaurate e fatte crescere solo se si realizzerà un mutamento radicale, che raggiunga l’essenza delle cose, nel sistema, nelle organizzazioni attuali e nella direzione dell’economia nazionale della Repubblica, che si appoggiano su un potente meccanismo burocratico da cui vengono represse l’autonomia dei produttori organizzati e l’iniziativa creatrice.

I rappresentanti dell’opposizione operaia richiedevano incessantemente che il partito confidasse di più nelle masse operaie, facendo assegnamento in maggior misura sulle loro proposte e sulle loro iniziative. A questa argomentazione si replicava che la classe operaia non era ormai più quella di un tempo, perché dei suoi migliori componenti che avevano partecipato alla guerra civile, molti erano morti, e i superstiti costituivano la spina dorsale delle istituzione del partito e dello Stato. Nello stesso tempo, in conseguenza dell’obbligo generale del lavoro, erano affluiti nelle fabbriche i più diversi elementi non operai, spesso per sottrarsi all’obbligo del servizio militare. Questi fatti erano difficilmente confutabili, ma non giustificavano il fatto che nell’ideologia il concetto di classe operaia, come generalizzazione concreta, si trasformasse in una generalizzazione sempre più astratta.

L’opposizione operaia non sviluppò un’immagine del futuro più precisa; la sua piattaforma politica si limitava in gran parte a fini tattici. Da quel poco che nei suoi scritti rimanda a concezioni connesse a un futuro più lontano, scaturisce una prospettiva che si rifà alla tendenza inarco-sindacalista. In base ad essa la società ideale si costruisce sulle unità autodirette dei lavoratori liberamente associati. Il suo sistema, organizzato “nel modo più semplice”, si fonda sulla valutazione statistica di tipo naturale – e quindi non espressa in denaro – dei bisogni e delle capacità produttive; le funzioni della distribuzione invece che allo Stato spetterebbero a un sistema istituzionale basato sui sindacati organizzati per categorie (il che corrispondeva sostanzialmente ai cartelli di categoria dell’anarco-sindacalismo) e sulle associazioni dei sindacati organizzati per rami di produzione (che avrebbero avuto sostanzialmente la stessa funzione delle federazioni di cartelli per rami della produzione.

Contro l’opposizione operaia si sente spesso ripetere l’accusa che essa avrebbe voluto affidare la guida dei vari rami dell’industria – le direzioni generali dell’industria e i centri dell’industria – alla massa degli operai esterni al partito, sparsi nei vari rami della produzione. Ciò forse è vero per quel che riguarda le sue concezioni relative al futuro più lontano – cosa che del resto non costituì mai l’oggetto della polemica – ma riguardo al futuro immediato essa non rivendicava il diritto di controllo economico per le masse, bensì per il sistema istituzionale – più o meno altrettanto burocratizzato – dei sindacati, giacché interveniva soprattutto come loro rappresentante.

Accanto ai due gruppi rigidamente contrapposti prese forma anche una terza importante piattaforma – che in ultima analisi risultò vincente – e che recava anzitutto l’impronta del nome di Lenin. Questi, che – come abbiamo visto – immediatamente dopo la rivoluzione di Ottobre si era pronunciato per la rapida fusione dei due sistemi istituzionali sindacale e statale, all’inizio del 1920, a differenza di Trockij, invitava ormai alla prudenza su tale questione. Secondo Lozovskij, Lenin già allora aveva scorto l’inevitabilità del periodo della Nep e si rendeva conto del fatto che se i sindacati si fossero assunti il peso e la responsabilità della direzione dell’economia, avrebbero cessato di essere sindacati, mentre i lavoratori, prima o poi, avrebbero dovuto darsi nuove organizzazioni di categoria. In quel periodo ormai evidente per lui che “c’è tutto un complesso sistema di ingranaggi, … non può esserci un sistema semplice” (I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotsky), e proprio per questo, a suo parere, non si dovevano fondere le istituzioni statali con quelle sindacali, ma – conservando la loro indipendenza – era necessario sviluppare una giusta divisione del lavoro tra di esse.

Questo è quanto è enunciato nella piattaforma dei “dieci”, tra i cui autori troviamo, accanto a Lenin, Zinov’ev, Kamenev, Kalinin e Stalin; tale piattaforma partiva anzitutto dal problema di come fosse possibile garantire nel modo più efficace l’influenza dei comunisti, il che voleva ormai dire il ruolo direttivo di un partito che disponeva di propri apparati e che si era già trasformato in un sistema istituzionale. In polemica con Trockij, si affermava che i sindacati non erano in crisi, anzi si poteva dimostrare un loro deciso incremento sulla base della crescita del numero degli iscritti; al tempo stesso, però, non si metteva in dubbio che i sindacati, rispetto alle esigenze, fossero ancora deboli. Contro la posizione di Trockij, si osservava che “i sindacati devono restare la scuola del comunismo, gli organizzatori delle masse e assolutamente non devono diventare degli organi statali in senso stretto”. Nei sindacati “devono poter entrare operai che professano opinioni diverse e pensano in modo diverso, iscritti al partito e non iscritti al partito, che sanno scrivere e che non sanno scrivere, credenti e non credenti, ecc.”. La piattaforma riconosceva anche che i sindacati dovevano assumere sempre più funzioni statali, ma non dovevano tuttavia, a causa di queste, rinunciare alla loro indipendenza e alla loro forma di organizzazione di massa. Il loro compito principale continuava a essere quello dell’educazione delle masse al fine di sostenere la dittatura proletaria.

Quando queste tre piattaforme – e accanto ad esse un’altra mezza dozzina di meno importanti – vennero formulate, la direzione del partito prese posizione per il più ampio democratismo interno. Il 21 febbraio 1921 uscì la deliberazione del Comitato centrale che sottolineava l’importanza della “piena libertà di polemica”, in quanto “qualsiasi organizzazione di partito, qualunque sia la sua posizione nelle questioni dibattute, può difendere ed esprimere le sue posizioni davanti al partito, sui giornali, inviando dei relatori, scambiando dei relatori, ecc.”.

L’epoca delle libere polemiche non durò a lungo, ma l’alto livello e la maturità raggiunti nella formulazione delle varie alternative testimonia del fatto che la rivoluzione sovietica disponeva di una straordinaria forza intellettuale. La rivolta di Kronstadt e l’insoddisfazione dei contadini, che in diversi luoghi sfociò in insurrezioni armate, aprirono al riguardo una nuova epoca, in cui l’unità senza opposizioni del partito divenne un’esigenza sempre più unanime e primaria. Ma ciò si realizzò solo a gradi. Il X Congresso – che si tenne nel periodo della rivolta di Kronstadt – nella sua deliberazione attacca risolutamente le frazioni e le proibisce, ma al tempo stesso constata che “è assolutamente necessaria la critica alle carenze del partito, come pure ogni sorta di analisi della linea generale del partito e che al fine di favorire ciò vengano pubblicati degli “scritti di polemica”.

In quella data situazione storica, tuttavia, la concezione dell’opposizione operaia era in ogni modo condannata al fallimento. Per uscire da una situazione economica e politica estremamente grave fu necessario rafforzare l’apparato statale, e quasi a qualunque prezzo. Questa era la via più veloce e più a portata di mano che si offriva. Allora, tuttavia, tale necessità scaturiva ancora dalla povertà e dalla carestia e non da una determinata forma dell’accumulazione primaria del capitale, che verrà in primo piano solo alcuni anni più tardi, e che allora favorirà di nuovo solo il rafforzamento dello Stato. Inoltre il passaggio della gestione dell’economia ai sindacati avrebbe minacciato il rafforzamento del ruolo direttivo esercitato dal partito sopra un meccanismo statale che assumeva funzioni sempre più numerose e un potere sempre maggiore, il che in pratica avrebbe significato che il partito comunista avrebbe potuto dirigere gli apparati statali o quelli economici solo con la mediazione di un altro sistema istituzionale.

La deliberazione del X Congresso constata all’unanimità che “bisogna trasformare gradatamente i sindacati in organi ausiliari dello Stato proletario e non si deve procedere in senso inverso”. La deliberazione del Comitato centrale del partito del gennaio 1922 conclude la polemica sui sindacati, separando nettamente il sistema istituzionale dello Stato da quello dei sindacati. Da un lato afferma che “qualsiasi genere di intervento diretto da parte dei sindacati nella direzione delle imprese … va considerato dannoso e inammissibile”: se la deliberazione elenca poi minuziosamente le principali forme di partecipazione indiretta dei sindacati, gran parte di esse consiste solo nell’appoggio alle attività economiche direzionali di cui ormai erano responsabili singole persone. Dall’altro lato invece, per influsso della Nep ormai in formazione, essa afferma che

i sindacati devono assumersi l’obbligo di difendere l’interesse dei lavoratori e, per quanto è possibile, aiutarli ad accrescere il loro benessere materiale, correggendo gli errori e gli eccessi egli organi economici, che possono derivare dalla deformazione burocratica dell’apparato statale.

Gli stessi autori della deliberazione riconoscono la contraddittorietà della posizione dei sindacati e ne ritengono possibile il superamento solo “con il passare di molti decenni”. Sono convinti che da un lato il loro compito principale consiste nella difesa dell’interesse delle masse lavoratrici, nel senso più ristretto e immediato del termine; dall’altro essi non possono negare la loro partecipazione all’oppressione, in quanto condividono il potere dello stato e sono i costruttori dell’intera economia nazionale.