domenica 31 gennaio 2016

Pur di non parlare di capitalismo: animismo, ecologismo, monismo - Alessandra Ciattini

*Da:      http://www.lacittafutura.it/




 Come sottolinea anche Engels, ci sono vari modi di protestare contro l'assetto sociale, alcuni dei quali sono del tutto inefficaci e inconcludenti, anche se hanno una straordinaria presa su quei settori intellettuali che guardano in maniera critica alla società contemporanea e alle sue dinamiche. Il successo di tali forme di protesta, incarnate in certe tendenze delle scienze sociali, è assicurato dalla stessa ideologia mass-mediatica dominante, che le diffonde, mostrando così ipocritamente la sua disponibilità ad accettare la critica. 




I profeti del mondo alternativo

C'è una pagina di Friedrich Engels, dedicata ai primi sviluppi del cristianesimo, che mi sembra interessante citare perché descrive assai bene lo stato di smarrimento, di confusione, di presunzione del tutto irrealistica, in cui si sono trovano molti intellettuali appartenenti a settori culturali che contestano in varie forme, ma sempre in modo superficiale, l'attuale assetto sociale, senza avere neppure l'accortezza di chiamarlo con il nome che gli si confà: società capitalistica avanzata.

Tale pagina sta nello scritto Per la storia del cristianesimo, in cui Engels scrive: “E dato che, in tutti i paesi, elementi di ogni genere si accostano al partito dei lavoratori, elementi che non hanno niente da aspettarsi dal mondo ufficiale o vi si sono screditati – avversari della vaccinazione, seguaci del movimento di temperanza, vegetariani, antivivisezionisti, empirici, predicatori di libere comunità senza più seguaci, autori di nuove teorie sull'origine del mondo, inventori inutili e falliti, persone rassegnate a ingiustizie vere o presunte, che sono indicate dalla burocrazia come “inutili brontoloni”, pazzi onesti e disonesti ciarlatani – così andò per i primi cristiani” (in Marx ed Engels, Sulla religione, Roma 1969: 252). 

Sistemi di pianificazione a confronto (un'agile dispensa) - Nadia Garbellini*



"Senza un piano generale, senza un sistema direttivo generale e senza calcolo attento e contabilità, 
non ci può essere nessuna organizzazione. 
 Ma nell'ordine sociale comunista, c'è un tale piano."  
(Bukharin e Preobrazhensky) 



 La programmazione economica riveste una rilevanza fondamentale per le economie del blocco socialista. Tuttavia, la maniera in cui questa veniva concepita, disegnata e implementata nei diversi paesi variava in modo anche rilevante. Lo scopo di questo incontro `e quello di fornire una panoramica del modo in cui la pianificazione aveva effettivamente luogo, ponendo l’accento su similitudini e differenze in termini sia teorici che concreti.

 Dal punto di vista teorico, la contrapposizione tra pianificazione ed economie di mercato riflette quella tra paradigma Classico e Neoclassico. Più precisamente, per paradigma Classico intendiamo la teoria economica sviluppata a partire dalla fase fondativa della disciplina, che raggiunge il suo culmine con Marx e che viene poi elaborata successivamente da una serie di economisti della scuola russo-tedesca prima (teorie del flusso circolare) e da Sraffa e Leontief (tra i pi`u importanti) poi. Dal punto di vista pratico, il socialismo si diffonde nel contesto dell’imperialismo occidentale, prendendo piede in paesi allora arretrati e la cui principale preoccupazione era quella di recuperare il ritardo accumulato nel confronto dei paesi imperialisti. In sostanza, parliamo di paesi in cui ancora vigeva un sistema di produzione pre-capitalistico, e dove quindi ancora non si sperimentavano le contraddizioni interne al capitalismo stesso descritte e analizzate da Marx. Le istituzioni economiche dei paesi socialisti, quindi, avevano lo scopo principale di eliminare questo ritardo, puntando ad uno sviluppo economico il pi`u rapido possibile che permettesse loro di resistere alla colonizzazione occidentale. Questa preoccupazione era particolarmente sentita in Unione Sovietica, ed emergeva spesso dai discorsi pubblici dello stesso Stalin. Nell’analizzare le modalità con cui la pianificazione veniva concepita ed implementata nei diversi paesi socialisti, quindi, dobbiamo tenere a mente il fatto che parliamo di economie dove il capitalismo non si era ancora instaurato. Inoltre, tali pratiche mostrano una grande eterogeneità non solo tra paese e paese, ma anche nel corso del tempo all’interno dello stesso paese. 


*Nadia Garbellini è economista, ricercatrice presso l'Università di Bergamo. Tra i suoi interessi di ricerca: Situazione europea attuale e prospettive del commercio internazionale. Teoria delle reti e applicazioni Input-Output. Analisi e contabilità nazionale. Produttività e cambiamento tecnico.

sabato 30 gennaio 2016

SCONFITTA O AUTODISTRUZIONE? - Michele Nobile



"...Oltre trent’anni fa Nicos Poulantzas aveva già individuato la tendenza alla totale integrazione dei partiti nello Stato e alla formazione di una sorta di partito unico; negli anni ‘90 questa tesi è stata confermata dalle ricerche che hanno portato al concetto di cartel party, detto così proprio per la tendenza a escludere, appunto formando un cartello col partito competitore, l’ingresso di nuovi attori nel sistema politico. Nella discussione si è però chiarito che i caratteri più rilevanti di questo nuovo tipo di partito sono la convergenza programmatica tra «destra» e «sinistra», l’assoluto prevalere delle funzioni di governo su quelle di rappresentanza e la piena integrazione nello Stato, con la connessa dipendenza economica dal finanziamento pubblico. Tutti elementi che rientrano nel quadro delle trasformazioni involutive della statualità nei paesi a capitalismo avanzato (qualcosa quindi che comprende ma va oltre le politiche  cosiddette neoliberistiche o, come preferisco dire,neomercantilistiche ) e che permettono di definire il passaggio da un regime liberaldemocratico a uno postdemocratico.

In diversi paesi il passaggio alla postdemocrazia è stato accompagnato dall’emergere di competitori che sfidavano i partiti tradizionalmente dominanti, collocandosi di fatto alla loro destra, però spesso dichiarandosi «né di destra né di sinistra»: la Lega lombarda (poi Lega nord), il Front national in Francia, il Partito della libertà (Fpö) di Jörg Haider in Austria, la Lista di Pim Fortuyn in Olanda, per fare alcuni esempi importanti in Europa occidentale. Il «né di destra né di sinistra» che, attenzione!, è motto che fu già dei Verdi (che con la «sinistra» di governo hanno frequentemente e diffusamente collaborato), è indicativo della convergenza delle politiche dei partiti tradizionali, appunto sia di «destra» che di «sinistra», della loro statalizzazione. L’appello al popolo e il particolare registro linguistico frequente nella retorica di questi competitori, basso o anche volgare, si comprende con l’intenzione di far leva sulla diffusa e crescente alienazione dei cittadini dalla politica istituzionale, dalle sue pratiche come dal suo stile. Questi partiti sono sovente indicati come populisti o neopopulisti: da qui la volgare identificazione tra populismo e destra ricorrente nella polemica politica (ma non nella letteratura scientifica).

Se si riesce a escludere il risentimento di parte e i pregiudizi liberali e partitistici, e se si adotta un metodo diverso da quello della costruzione di un tipo ideale, detto «populismo», assemblando elementi disparati e poi dividendolo in sottocategorie nel tentativo di mantenere l’unità di fenomeni qualitativamente diversi, la posizione del M5S risulterà molto diversa da quella dei partiti citati sopra.

Mondializzazione, finanziarizzazione, nuova composizione di classe. Che uso fare del lascito marxiano per rilanciare una prospettiva comunista? Intervista a Roberto Fineschi* - Ascanio Bernardeschi

*Da:     http://www.lacittafutura.it/dibattito/la-cassetta-degli-attrezzi-di-marx-intervista-a-roberto-fineschi-parte-ii.html
Vedi anche;   http://marxdialecticalstudies.jimdo.com/videos-1/roberto-fineschi/





Abbiamo spiegato cos'è la  MEGA2 e perché è importante (http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/01/la-marx-engels-gesamtausgabe-mega2.html). 
Vogliamo ora ragionare con Fineschi sull'attualità di Marx e sull'approfondimento teorico necessario per rilanciare una prospettiva comunista. 





Marx inizia il Capitale con l'analisi della merce come “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico e, pian piano, da questo elevato livello di astrazione, introducendo ulteriori variabili, svolge la sua teoria in maniera sempre meno astratta. In diversi tuoi lavori parli diffusamente di 4 livelli di astrazione. Che poi si riferiscono solo al contenuto dei tre libri del Capitale noti, mentre il piano originario dell'opera, che Marx non ha avuto il tempo di sviluppare, era più vasto (comprendeva per esempio lo Stato e il Mercato mondiale). Immagino che per giungere a illustrare tali aspetti, e quindi per avvicinarsi ulteriormente alla complessità della realtà, fosse necessario scendere a livelli ancora meno astratti, e avvicinarsi così anche a una teoria meglio spendibile nella lotta politica. Condividi questa opinione e in che misura, secondo te, il marxismo è stato all'altezza di questo compito?

La domanda è molto complessa. Si può partire dai problemi storici della ricezione del Capitale. Soprattutto nella prospettiva politica, un punto chiave era la teoria dello sfruttamento. Dimostrando che nella teoria del capitale ci sono problemi strutturali insuperabili si distruggeva anche la teoria dello sfruttamento.

venerdì 29 gennaio 2016

Che cosa si può apprendere da un lupo solitario in catene?*- Amira Hass

*Da:   Haaretz, 26 gennaio 2016 (https://groups.google.com/forum/#!forum/deportatimaipiu



 Le interviste dei militari israeliani ai palestinesi che hanno compiuto attacchi sono state condotte all’interno di un rapporto di forza ineguale, che è contro l’etica e di dubbio valore. 



 Le guardie carcerarie hanno ricevuto ordine di condurre una ricerca applicata, scientificamente mirata, sui loro prigionieri. Questo è stato uno degli interessanti reportage di stampa della scorsa settimana. L’abbiamo letto per la prima volta nell’articolo di Amos Harel su Haaretz il 15 gennaio: “Alti ufficiali dell’esercito hanno incontrato terroristi palestinesi in carcere per capire le loro motivazioni.”, dopodiché altri giornalisti ne hanno scritto.


Comandanti dell’esercito israeliano ed ufficiali dell' intelligence ed anche dirigenti dell’ufficio del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori occupati, hanno incontrato in carcere dei palestinesi che avevano condotto attacchi solitari ed erano sopravvissuti ( secondo il portavoce dell’esercito in Cisgiordania, 88 di questi individui sono stati uccisi e 40 arrestati nel corso dell’attuale ondata di violenza. L’ufficio del portavoce della polizia ha detto di non disporre di dati analoghi riguardo all’esito degli attacchi condotti in Israele e Gerusalemme est).

Le relazioni mostrano una sorprendente disponibilità da parte degli intervistatori  a rinunciare alle precedenti supposizioni. (Per esempio, hanno rilevato che né la religione né la propaganda sui social network hanno motivato i ragazzi, benché le trasmissioni di Hamas e della Jihad islamica abbiano certamente avuto un’influenza su di loro.)

Una trasmissione della radio dell’esercito ha riportato, tra le altre, queste conclusioni: i ragazzi avvertono un profondo senso di alienazione rispetto alle figure che rappresentano l'autorità. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas non veniva citato nelle conversazioni. Non sono affiliati ad alcuna organizzazione,  ma condividono un sentimento di unità nazionale. Sono distanti dai loro genitori, ed hanno storie di violenza all’interno della famiglia. Provengono da famiglie regolari e non sono giovani emarginati. La loro ideologia è minimale, fatta di slogan e superficiale. La maggioranza di loro non sa nemmeno che cosa sia Israele. Il loro unico contatto con gli israeliani è con i soldati ai checkpoint. 

domenica 24 gennaio 2016

GRAMSCI E LA “RIVOLUZIONE IN OCCIDENTE”* - Renato Caputo

*Da:     http://www.lacittafutura.it/dibattito/gramsci-e-la-rivoluzione-in-occidente.html




Nato 125 anni fa, Gramsci è il pensatore italiano più letto e studiato al mondo dopo Machiavelli. Il suo pensiero è infatti ancora attuale per chi non intende limitarsi a comprendere la realtà, ma mira a trasformare radicalmente un mondo nel quale l’1% della popolazione si accaparra più ricchezze del 99%, in cui le 62 persone più ricche si appropriano di maggiori risorse del 50% più povero, ossia di 3,6 miliardi di persone.





L’opera di Gramsci può essere interpretata come un trait d’union fra il marxismo della Terza Internazionale e i successivi sviluppi che ha avuto la riflessione marxista nel mondo occidentale.  Gramsci, infatti, si pone il compito di tradurre il pensiero di Lenin, adattandolo alle peculiari condizioni delle società a capitalismo avanzato.

Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891.  Terminate le scuole elementari, è costretto a lavorare, ma continua a studiare e, nonostante la difficile situazione economica della famiglia, riesce a iscriversi all’Università di Torino.  Sono anni molto duri per la condizione di povertà, l’isolamento e un grave esaurimento nervoso.

Rimessosi, si iscrive al Partito Socialista e decide di lasciare l’università per dedicarsi all’attività pubblicistica sui giornali del partito.  Il crescente impegno politico non lo porta ad abbandonare gli interessi culturali: diventato direttore di un piccolo settimanale di propaganda di partito, “Il grido del popolo”, lo trasforma in una rivista di cultura.  In seguito fonda «Ordine Nuovo», di cui è direttore.  La rivista ha un ruolo di direzione nel movimento dei consigli, durante l’occupazione delle fabbriche del 1920.  La sconfitta del movimento, scarsamente appoggiato dal Partito Socialista, porta Gramsci a seguire Amedeo Bordiga nella costruzione del Partito Comunista d’Italia (1921). 

Nel 1922 è a Mosca, quando la situazione politica italiana precipita e si afferma il fascismo.  In Urss Gramsci si convince della giustezza delle critiche della Terza Internazionale alle posizioni ultra-sinistre di Bordiga, allora segretario del PCd’I.  Nel 1923 è inviato dall’Internazionale a Vienna, con lo scopo di riorganizzare il partito.  A tale fine fonda il quotidiano “l’Unità”.  La lotta all’interno del partito si risolve nel congresso di Lione (1926), in cui la grande maggioranza dei delegati sostiene la linea di Gramsci contro quella di Bordiga.

martedì 19 gennaio 2016

ROSA L. - Margarethe Von Trotta (1986)




"L’immagine che di lei hanno avuto ed hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice abbastanza da poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa la sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano tra chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di questo secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente semplificate da risultare ancora meno accettabili. Si prenda, per esempio, un articolo di Margarethe von Trotta, regista di un film su Rosa Luxemburg.

La regista tedesca sintetizzava l’eredità della rivoluzionaria polacca nell’amore, nell’incapacità di odiare, nel rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film, peraltro, la Luxemburg vi appare come una pacifista, amante della natura, che patisce la divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il femminismo nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni femminili. Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti di questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria.

Ma se si assolutizzano questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel lavoro teorico marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire politico, la sua lucida coscienza della amara spietatezza delle leggi della storia e della lotta contro di esse, si finisce – magari contro le intenzioni – con il riproporre una divisione delle ragioni dalle passioni. Quello che nel film Rosa L. era utile e provocatorio, insomma, diviene nella formula troppo ellittica “l’amore era la sua guida” un appello generico ai sentimenti, ed infine una non innocente distorsione di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra pensiero (un pensiero rivoluzionario, con quanto di “sporco” e irrisolto l’aggettivo comporta) e sentire (di un sentire caratterizzato da affezioni radicali e intransigenti, come era nella natura della Luxemburg) che si voleva combattere.

Della persona che ha scritto in uno dei suoi ultimi articoli su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto asciugata, è un atto d’accusa” non si può, non si deve, perdere la tensione tra momento della lotta e momento della com-passione: non lo si può, non lo si deve perdere, perché è appunto nel legame tra “forza” della trasformazione sociale e “debolezza” che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che risiede quanto di più inquietante ed innovativo questa rivoluzionaria può dire a noi ancora oggi." (R. Bellofiore) 

http://www.unive.it/media/allegato/dep/n28-2015/7_Bellofiore.pdf

"Rosa sta dalla parte delle masse perché sono oppresse, e la funzione educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta, alla rivoluzione - non al potere delle stesse élites per conto delle masse, vicario del potere borghese e a esso speculare. E' una visione fino a oggi priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione non sia destinata a divorare se stessa" (Edoarda Masi,"La persona Rosa, perché", p. 95).

"Se la talpa della storia è la verità che, celata al presente, si rivelerà nelle mutate condizioni del futuro, è in questo nostro tempo che si rovescia in rivincita tutto quanto era parso il risvolto negativo delle idee di Rosa e della sua sorte: puntare sulle masse - quando la rivoluzione d'ottobre, la sola vittoriosa, aveva seguito altra via; optare per la pace - quando la socialdemocrazia aveva scelto la guerra, e la guerra era venuta, seguita poi ancora da un'altra ancora più tremenda e universale; trovarsi dalla parte degli sconfitti - il peggiore dei torti secondo la ragion politica. Le vittorie di allora, se pure autentiche, non ci riguardano ormai, quando tutto è mutato e trascinato via dal tempo [...] Attuali e invincibili restano le idee degli sconfitti, perché rispondono ad un'esigenza insopprimibile degli esseri umani di questo secolo e ne rappresentano la nobiltà. Indipendentemente da se e fino a quando siano attuabili" (idem, pp. 98 e 95).

lunedì 18 gennaio 2016

La Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), Intervista a Roberto Fineschi* - Ascanio Bernardeschi

*Da:     http://www.lacittafutura.it/
Vedi anche:    https://controinformazion.wordpress.com/2011/11/27/1493/

La Mega2

Roberto Fineschi, giovane filosofo senese, allievo del compianto Alessandro Mazzone, è uno dei pochissimi italiani che ha seguito da vicino i lavori della nuova edizione critica delle opere di Marx e di Engels. È autore di diversi saggi [1] che, partendo dall'illustrazione di questa novità editoriale, forniscono alcune indicazioni utili per sviluppare la ricerca sulle orme del lascito marxiano. Ha tradotto in italiano e curato la pubblicazione del primo libro del Capitale [2] che tiene di conto di tali novità. 

Roberto, puoi dirci in cosa consistono i lavori della MEGA2 e perché sono importanti?

Si tratta della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels iniziata nel 1975. Prevede la pubblicazione di oltre un centinaio di volumi, tant'è vero che è stata definita scherzosamente “megalomane”. Si articola in 4 sezioni. La prima contiene tutte opere pubblicate e i manoscritti, escluso Il Capitale; la seconda comprende Il Capitale e i relativi lavori preparatori a partire dai manoscritti del 1857-58, i cosiddettiGrundrisse; la terza sezione è dedicata al carteggio e la quarta alle note di lettura e gli estratti dei due autori.
È importante perché Marx in vita non ha pubblicato molto e quindi la stragrande maggioranza delle sue opere che conosciamo sono pubblicazioni postume di manoscritti editati e curati da varie persone in maniera più o meno filologicamente corretta. Quindi la nuova edizione offre per la prima volta i veri testi di Marx. Si tratta di opere non marginali, ma capitali, sulla base delle quali si sono sviluppate le varie interpretazioni. Per esempio, i cosiddetti Manoscritti economici-filosofici del '44, nella forma in cui li conosciamo, non sono un'opera unitaria. Allo stesso modo l'Ideologia tedesca non è una “opera”; soprattutto il primo capitolo su Feuerbach è un insieme di manoscritti o articoli incollati e messi lì in maniera in parte arbitraria dai curatori (include perfino un testo di Hess!).

A proposito del capolavoro Marxiano, Il Capitale, cosa c'è di nuovo o si annuncia nei lavori della Mega2?

domenica 17 gennaio 2016

Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere* - Riccardo Bellofiore (2012)


Credo che sia una precondizione essenziale perché le cose cambino in meglio è che ci sia una lotta dura e senza ambiguità contro qualsiasi politica di ‘austerità’, una lotta dura per reggere sul salario, una lotta dura per ottenere reddito. Queste sono però lotte difensive, anche se essenziali. La questione che però abbiamo di fronte è ben più seria, e ci si arriva partendo da Marx, come anche partendo da Hyman Minsky. Il nostro problema è quello di mettere in questione sia la composizione della produzione che la natura della produttività. A noi fanno una testa così sul rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo e sul costo del lavoro per unità del prodotto. Quello che sta al denominatore, in entrambi i rapporti, ha a che vedere con cosa, come e quanto si produce. Non esiste sinistra, almeno nel mio senso della parola, se non si ha la pretesa, se non si ha l’ambizione, di intervenire sul denominatore, sulla produttività e sulla produzione. E non esiste uscita da sinistra, da questa crisi, che non sia legata alle lotte su questo terreno.

Sono, lo confesso, abbastanza colpito dal fatto che trovo molto più radicali i ragionamenti che leggo negli ultimi due capitoli finali del libro di Hyman Minsky Keynes e l’instabilità del capitalismo, del 1975 (edito da noi da Boringhieri), di qualsiasi cosa mi capiti di leggere, dovunque, di qualsiasi sinistra. In questo libro Minsky – nominando, tra l’altro ed esplicitamente il ‘socialismo’ – propone di una socializzazione dell’investimento molto più radicale di quella di Keynes, a cui affianca una socializzazione dell’occupazione, una socializzazione della banca e della finanza. Minsky non ha remore a criticare il keynesismo realizzato, un sistema che, sostiene, ha finito con il distruggere la natura, come l’equilibrio sociale, producendo una nuova crisi da cui se ne esce soltanto ponendo la questione di cosa e come si produce: usa praticamente la stessa terminologia che ho impiegato io. Alla sua espressione per cui lo Stato dovrebbe essere occupatore di ultima istanza, preferisco l’idea che è tipica di un certo sindacato italiano (ma anche di pensatori liberalsocialisti come Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini) di un Piano del Lavoro. Se lo Stato deve intervenire definendo, oltre il livello, anche la composizione della produzione, deve anche suscitare direttamente occupazione in quei settori (se questo stimolo pubblico si traduca necessariamente in nazionalizzazione è un’altra questione).

Come mai questo Minsky tira fuori queste idee? Perché è nato politicamente nel bel mezzo del New Deal, il New Deal di Roosevelt. Perché il New Deal era keynesiano, perché sosteneva i disavanzi dello Stato? No, questa è un’altra leggenda della sinistra italiana. Roosevelt era contro i disavanzi dello Stato. Roosevelt ha bloccato il New Deal nel 1937, perché s’è spaventato del debito pubblico che cresceva. Però, tra il 1933 e il 1937 è intervenuto con investimenti infrastrutturali – alcuni con l’ottica del dopo ci piaceranno, altri no – provvedendo direttamente occupazione. E perché ha potuto e ha dovuto farlo? Perché era incalzato da lotte dal basso: da un lato rispondeva alla crisi, ma dall’altro lato era tallonato da lotte della classe lavoratrice, e da un’intellettualità – non solo economica, anche giuridica, quella che sta dietro il Wagner Act; e da una intellettualità più in generale – che era in grado di pensare in avanti, che era dotata da quello che Musil chiamava il ‘senso della possibilità’. Non è il senso di un sognatore, che nega che esistano i vincoli, ma sa che si possono e si debbono ridefinire i vincoli.

Chiudo su questo con due, anzi tre osservazioni. La prima è che c’è un punto su cui non sono d’accordo con Minsky. I keynesiani, anche quelli più avanzati e progressisti come lui, pensano che in questo modo si crei un nuovo ‘equilibrio’, un capitalismo ‘buono’ (tra i 47 possibili di cui scherzava Minsky). No, tutto ciò, semmai avesse una traduzione nella realtà effettuale, creerebbe una situazione di ‘squilibrio’ che certo il capitalismo può subire, e che non tollererebbe per molto (così come Kalecki nel 1943 ammonì che un capitalismo di piena occupazione sarebbe stato possibile, ma non su base permanente). Questo mi porta alla seconda osservazione, che qualcuno riterrà un po’ contraddittoria. Si ottengono, delle riforme decenti soltanto se non si accettano i vincoli così come sono e quindi solo se si ha un atteggiamento ‘rivoluzionario’. Questo in genere non piace né ai riformisti, né ai rivoluzionari. Su questo, sul tema del cosa, come e quanto produrre, credo che si possa e debba trasversalmente discutere, in Italia e altrove, nella sinistra in generale: la separazione tra chi ha a tema le problematiche strutturali e chi si limita alle questioni distributive attraversa tutte le formazioni politiche e sindacali, e non è leggibile lungo l’asse moderati/radicali. La terza osservazione è che ci troviamo ormai di fronte il dispiegarsi di un capitalismo autoritario. Uno dei pochi maestri che ho avuto, Claudio Napoleoni, alla fine della sua vita, in una fase di cui non condivido tante cose, ha detto però una cosa giustissima. Il capitale è tendenzialmente autoritario, perché include dentro di sé la forza lavoro, facendone la rotella di un meccanismo, pretendendo che i lavoratori e le lavoratrici non abbiano voce, non siano soggetti ma solo ‘cose’. Al capitale, sosteneva, la democrazia viene ‘dall’esterno’.

Quali sono le prospettive della crisi? La crisi sarà lunga, la crisi sarà devastante. Se ne uscirà, se se ne uscirà, con il conflitto dal basso e con un intervento dall’alto, che richiederà un diverso intervento attivo da parte dello Stato. Ma questo può avvenire da destra. Il conflitto sociale già oggi si sta generalizzando come insorgenza reazionaria, che attraversa le classi popolari. Potrà fare da contraltare un intervento dello Stato, da destra, ripeto, di carattere autoritario, reazionario. Non sarà il vecchio fascismo.

sabato 16 gennaio 2016

Immigrati, diseguaglianza, istruzione* - Maurizio Donato

*Da:  https://mrzodonato.wordpress.com/

Come è noto agli economisti e agli statistici, ci sono diversi modi di intendere la diseguaglianza economica, e di conseguenza differenti indici per misurarla. Se prendiamo in considerazione le due definizioni più importanti, quella di diseguaglianza interna ai singoli paesi e quella tra i paesi, è la seconda quella che ci mostra gli indicatori più significativi. Nascere e crescere in un paese piuttosto che in un altro fa la differenza maggiore, più che nascere e crescere relativamente povero o ricco rispetto agli altri abitanti dello stesso paese. Fondamentalmente è per questa ragione che molte persone emigrano, a parte le guerre e le dittature che naturalmente contano, eccome.

Molte è un aggettivo poco qualificativo: diciamo che all’incirca il 97% degli abitanti del pianeta Terra rimane a vivere nel paese in cui è nato. In un suo recente lavoro di ricerca, Branko Milanovic1 propone di ordinare i redditi degli abitanti di un paese confrontandoli con quello degli abitanti del Congo, il paese statisticamente riconosciuto come il più povero del mondo; nascere, vivere e restare in Congo costituisce uno “svantaggio economico” rispetto al quale una persona che vive negli Stati Uniti di America gode di una sorta di “premio di cittadinanza” che vale in media il 355%, il 329% se vivi in Svezia, la metà – ma è ancora il 164% - se si tratta del Brasile, del 32% se stai nel relativamente povero Yemen.

Concentrarsi su questa misura è dunque molto utile nei confronti internazionali, anche se non andrebbe dimenticata l’altra dimensione della diseguaglianza economica, quella interna a ogni singolo paese. Se prendiamo in esame i redditi dell’ultimo decile della popolazione (i più poveri di ogni singolo paese) vediamo che il “premio” a cui si riferisce Milanovic conta di più in alcuni casi – come la Svezia in cui sale al 367% - e meno per altri: nei confronti del Brasile il premio si “riduce” al 133%. I valori si ribaltano se prendiamo in esame il novantesimo decile (i più ricchi): il vantaggio di essere ricchi in Svezia è “solo” del 286%, mentre essere ricco in Brasile vale il 188%.

giovedì 14 gennaio 2016

IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA* - Osvaldo Coggiola**

*Da:   https://mrzodonato.wordpress.com/—per/corsi di economia politica
**Osvaldo Coggiola, docente di Storia economica all'Università di San Paolo del Brasile 

Video dell'incontro (UniGramsci):  https://www.youtube.com/watch?v=-JB1I3hvqXM



IL RITORNO SULLA SCENA DELL’AMERICA LATINA
La crisi economica mondiale, nelle sue diverse diramazioni (crisi europea, recupero limitato ed ampiamente fittizio degli USA, cronica stagnazione del Giappone, frenata della Cina), è definitivamente penetrata nei “mercati emergenti”, colpendo anche l’America Latina e i suoi pilastri (Brasile, Messico, Argentina). Il fattore essenziale dell’arretramento dei suoi mercati d’esportazione viene attribuito soprattutto alla Cina (il che dimostra che queste economie continuano ad essere basicamente piattaforme d’esportazione di materie prime o di prodotti semi-manifatturati). Ci si dimentica così della fuga di capitali, attratti da tassi d´interesse imbattibili a livello mondiale, i quali hanno fatto del continente il principale spazio di valorizzazione fittizia del capitale finanziario internazionale; del basso o inesistente livello di investimenti e del fatto che i palliativi “programmi sociali” hanno favorito soprattutto il lavoro nero o informale (che in Argentina, per esempio rappresenta il 30% della forza-lavoro) senza creare un mercato interno solido e capace di espandersi; ci si dimentica della straordinaria crescita del debito pubblico e privato, che compromette gli investimenti pubblici e gli stessi programmi sociali (consumando per esempio il 47% del bilancio federale brasiliano); si dimenticano la crisi e l´arretramento di diversi progetti di integrazione continentale. Il PIL regionale è cresciuto dello 0,9% nel 2014 (contro il 6% del 2010) e si prevede una performance ridicola nel 2015, a crescita zero o negativa per il Brasile secondo le previsioni della Banca Centrale. Già si parla di un nuovo “decennio perso” per l´America Latina, come lo furono gli anni Ottanta.


Su questo sfondo si proiettano significative crisi politiche che colpiscono, in misura maggiore o minore, tanto i regimi “neoliberisti” (di destra) quanto i regimi nazionalisti o “progressisti”, nella cui agenda politica si ripropone di nuovo la prospettiva di golpe civili o civico-militari. Paraguay (Lugo) e Honduras (Zelaya) sono in questo senso le prime manifestazioni di una tendenza più vasta. Lo sfondo complessivo è quello della crisi capitalista mondiale, la crisi storica del modo di produzione del capitale. Sono i paesi più “sviluppati” dell´America Latina i più colpiti dalla crisi. La “periferia emergente” del capitalismo “globale” deve far fronte ad enormi pagamenti esteri, un debito contratto soprattutto dalle multinazionali, il quale supera in alcuni casi le riserve nazionali. Si dissolve così il miraggio di quanti avevano supposto che con il ciclo economico 2002-2008 le nazioni dipendenti si sarebbero trasformate in creditrici del sistema mondiale: con l´aumento del debito privato estero, tali Stati sono rimasti sempre debitori netti; l´avanzo commerciale ha costituito la garanzia finanziaria dell´indebitamento privato. Il capitale finanziario internazionale si è appropriato dell´eccedente commerciale generato dall´aumento dei prezzi e dal volume delle esportazioni. La crisi mondiale ha colpito l´America Latina per la sua fragilità finanziaria e commerciale e per la sua debole struttura industriale. I governi dell´America Latina avevano affermato in un primo momento che sarebbero rimasti incolumi alla crisi grazie alla solidità delle riserve delle Banche Centrali. Ma il calo delle borse regionali, la fuga di capitali e la svalutazione delle monete hanno mostrato come questi argomenti fossero privi di fondamento. Il Brasile, orgogliosamente proclamato “sesta economia del mondo”, è appena al ventiduesimo posto nel ranking degli esportatori (con il 3,3% del PIL mondiale, detiene solo l´1,3% delle esportazioni internazionali). La produttività totale dei fattori economici, che è cresciuta dell´1,6% nel primo decennio del secolo, è in fase di stagnazione dal 2010.

Proprietà* - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 

Brecht sintetizzò il dibattito tra comunisti con l’invito, secco e perentorio: “Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!”, perché questo è centrale per la comprensione di ogni modo di produzione, e in particolare di quello capita­listico, data la sua peculiare forma e capacità occultatrice. Nei recentissimi tempi di “ol­tremarxismo”, se non di espresso pentimento anche teorico, quel peculiare occultamento mistificatorio è particolarmente attivo, facendo dissolvere la proprietà nel possesso, nel controllo o nella gestione di dirigenza, o facendo­ne addirittura travisare i connotati privati e di classe. Viceversa, quella centralità è tale perché la proprietà appunto, e la relaziona­lità sociale che si innerva intorno a essa, caratterizza la società sia per la sua presenza che per la sua mancanza, sia positivamente che negativamente. In generale, Marx aveva avvertito l’esigenza di chiarire – soprattutto per i suoi stessi criteri d’analisi (nei materiali di studio da lui accantonati, che avrebbero dovuto costituire l’Introduzione del 1857 “per la critica dell’econo­mia politica”) – la sinonimia di “proprietà” e “produzione”. “Ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’indivi­duo, entro e mediante una determinata forma di società. In questo senso è una tautologia dire che la proprietà è una condizione della produzione. Ma è ridicolo saltare da questo fatto a una determinata forma della proprietà, per es. alla proprietà privata”.

Senonché, l’epoca storica del capitale porta agli estremi esiti la separazione tra proprietari non produttori e produttori non proprietari, da un lato tutta la proprietà storicamente significativa, dall’altro, al polo opposto, la sua assolu­ta mancanza, in due classi socialmente e funzionalmente distinte. Una tale sepa­razione avviene non solo tra le condizioni oggettive della produzione e del la­voro e il lavoro quale condizione soggettiva, ma perfino tra il lavoratore e il suo stesso lavoro, che gli è espropriato attraverso l’uso di forza-lavoro aliena­ta al proprietario delle condizioni oggettive di produzione. Sotto il dominio della forma di merce della produzione sociale, sia nella sua esistenza reale pratica sia nella riflessione scientifica e teorica, la proprietà capitalistica è investita necessariamente da una sua specificità con­cettuale. La proprietà capitalistica – ossia, quella “che conta” storicamente, che va con­siderata come tale – è la proprietà, economica (prima che sia riconosciuta giu­ridicamente, in forme assai diverse e spesso mascherate), delle condizioni del­la produzione sociale: importante è comprendere nell’oggettività di tali “con­dizioni” non solo, come troppo spesso si suol dire, i mezzi di produzione (strumenti, macchine, impianti), e, si sa, l’oggetto generale stesso della produzione (la terra e le sue materie prime); ma anche – ciò che sovente non vie­ne considerato – l’intero apparato di conoscenze scientifiche e organizzative, senza le quali la produzione stessa non sarebbe affatto possibile o ne risulte­rebbe gravemente sminuita.

domenica 10 gennaio 2016

Keynes* (ma chi era costui?) - Marco Veronese Passarella



*DA:  http://www.marcopassarella.it/it/
Seconda parte, dibattito:    https://www.youtube.com/watch?v=oo-C8yG_2xQ

Leggi anche:    http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9698

Spinoza - Remo Bodei



"Temo l'odio dei teologi, perché sostengo in quest'opera che Dio coincide con la natura, e attribuisco a Dio cose che nella tradizione filosofica sono state sempre considerate effetti o creature, mentre io, ritengo che queste cose appartengano alla stessa natura di Dio."  (Spinoza, Opere. Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene)

Vedi anche: Carlo Sini

sabato 9 gennaio 2016

PROBLEMI DIALETTICI - Stefano Garroni




Cosa si intende con matematizzazione dell'esperienza?
Linguaggio e livelli di esperienza. Correlazioni tra livelli linguistici: linguaggio formalizzato e linguaggio degli eventi empirici.
Il duplice significato del termine epistemologia.
Sulla storia della scienza.
Classificazione aristotelica e di Leibniz.
La scoperta dell'autonomia del linguaggio: cosa ha comportato? L'uomo e il rapporto con le macchine.
Ideologia e volgarizzazione.
Stati Uniti come modello di sviluppo.
Medici cubani e URSS.

venerdì 8 gennaio 2016

Neoliberismo (critica dell’imperialismo)* - Gianfranco Pala

  *Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole


“Moralmente e filoso­ficamente condivido praticamente tutto del libro del prof. Hayek, La via della schiavitù; e non si tratta di un semplice consenso ma di una condivisione pro­fondamente motivata”  (John Maynard Keynes)


Risulta di immediata evidenza che “neoliberismo” è una metafora per impe­rialismo. Se solo di questo si trattasse, basterebbe intendere l’un termine per l’altro, compiacendosi che anche sulle “pagine web” di Internet appaiano scritti relativi a incontri “per l’umanità e contro il neoliberismo”. Ma così non è. 

La questione è un po’ più complicata. Dall’ideologia riversata nel cattivo senso comune, infatti, si espunge il signi­ficato del­l’imperialismo e dello stesso modo di produzione capitalistico, sì che è al neoliberismo che sono imputati eventi quali: crescita senza occupa­zione, devastazione sociale e ambientale dovuta al macchinismo, squilibrio “nord-sud” nelle cosiddette globalizzazione e finanziarizzazione, fino all’“unicità” del mercato e del pensiero, e via omologando nella grigia piat­tezza di un dispotismo barbarico. Come se – e qui sta il tranello – si possa pre­sumere che sia data l’evenienza di un’altra organizzazione sociale (di cui ac­curatamente si taccia la forma capitalistica, ormai ritenuta obsoleta e ineffabi­le) non neoliberista, meno barbarica e dunque accettabile per l’umanità me­desima: a es., una società basata su una “regolazione” dei rapporti di produ­zione e di distribuzione di tipo genericamente keynesian-proudhoniano.

giovedì 7 gennaio 2016

Il processo di modernizzazione e il suo rapporto con la guerra - Aldo Giannuli




Affrontando lo studio del cd processo di “modernizzazione” possiamo distinguere alcune fasi intensive cui sono succeduti periodi di stabilizzazione, durante i quali i paesi limitrofi a quelli “moderni” si sono avviati per la stessa strada, mentre le fasi intensive investono, normalmente, i paesi di maggior rilievo. Possiamo, quindi, identificare tre fasi intensive principali:

 a- quella della “Modernizzazione classica o liberal-capitalistica” (dal XVI agli inizi del XIX secolo) che ha riguardato essenzialmente Olanda, Inghilterra, America del Nord e Francia;

 b- quella della “Modernizzazione autoritaria” che va dal 1860 circa, al 1939, che investe Italia, Giappone, Germania e Russia;

 c -quella attuale, della “Modernizzazione neoliberista” che va dagli anni ottanta del secolo scorso ad oggi e che colpisce gran parte dei paesi asiatici (Cina, India, Indonesia) e dell’America Latina (Brasile, Messico, Argentina).

mercoledì 6 gennaio 2016

Dal primo dopoguerra al Secondo conflitto mondiale (passando per la grande crisi del ’29)* - Mauro Rota** e Francesco Schettino***

*Da:     https://rivistacontraddizione.wordpress.com/
**Sapienza, Università di Roma. mauro.rota@uniroma1.it
*** Seconda Università di Napoli. francesco.schettino@unina2.it ; corresponding author


Introduzione - il mondo dopo la prima guerra mondiale

Il primo conflitto mondiale ha rappresentato per il modo di produzione del capitale uno degli eventi più di rilievo dal momento della sua nascita. La grande crisi originatasi nel Regno Unito a partire dal 1870 – e proseguita per almeno due decenni – aveva mostrato con chiarezza che, a differenza di quanto molti studiosi avessero teorizzato, il capitalismo fosse tutt’altro che un sistema perfetto e proiettato verso una produzione infinita (Lenin, 1916) ma che, al contrario, potesse incappare in problematiche persino contraddittorie e potenzialmente irrisolvibili a meno di un intervento poderoso dello Stato all’interno del libero mercato (Gallagher e Robinson, 1953). Dunque, il primo conflitto mondiale estrinsecò i suoi drammatici eventi all’interno di un contesto europeo dominato da una sensibile ostilità tra le nazioni che storicamente avevano governato il processo di sviluppo del capitale e quelle di nuova formazione (Germania in primis) e soprattutto in una condizione assai critica dal punto di vista dell’accumulazione; tale situazione era particolarmente compromessa per quel che riguarda il capitale britannico che, proprio da qualche decennio, aveva rafforzato sensibilmente il proprio processo di espansione, attraverso esportazione di capitale (investimenti diretti esteri o speculativi) nei territori controllati attraverso il Commonwealth e nei dominions più in generale, conosciuto anche con il nome di imperialismo (Hobson, 1903, Brignoli, 2010, Rota e Schettino, 2011).

Il primo conflitto mondiale fu il frutto di una lotta necessaria al ristabilimento egemonico, in termini di dominio commerciale e politico, dell’Europa e del mondo, in senso più ampio. Da questo punto di vista, il ruolo degli Usa fu di fondamentale rilievo. Proprio in questo periodo si inizia a concretare quell’ideale passaggio di consegne – avvenuto con gradualità, come sarà spiegato più avanti – dal Regno Unito agli Usa nel ruolo di paese guida e locomotiva dell’intero sistema economico. Ma, come è logico, a fronte di una cordata di vittoriosi, corrispondono altrettanti perdenti e tra questi c’era la Germania che da quel momento in poi si trovava ad affrontare – anche a causa degli ingenti debiti scaturenti proprio dall’esito del conflitto – una situazione particolarmente drammatica per quel che concerne sia lo status economico, che per il morale del popolo tedesco deliberatamente umiliato dalle risoluzioni dei trattati conclusivi del primo conflitto mondiale. 

martedì 5 gennaio 2016

Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario* - Marco Veronese Passarella

*Da:    http://www.marcopassarella.it/it/omaggio-ad-augusto-graziani/


 “valorizzazione del capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da scambi che i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe, e quindi nell’unico scambio esterno possibile, che consiste nell'acquisto di forza-lavoro. Soltanto nella misura in cui i capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una parte del prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e convertirlo in profitto” (A. Graziani)

Circuito monetario, mercati finanziari e valore: una messa in ordine logica**

Il principale punto di contatto dell’opera di Marx con la TCM (Teoria Circuito Monetario) è la concezione del sistema economico quale economia monetaria di produzione, ossia quale sequenza temporale di rapporti monetari concatenati di scambio e di produzione intercorrenti tra classi sociali portatrici di interessi contrapposti. In estrema sintesi, tale successione viene aperta dalla decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti industriali), per le quali tale flusso di liquidità (il capitale monetario) costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la forza-lavoro (nonché, ad un minor livello di astrazione teorica, gli altri fattori produttivi) da impiegare nel processo produttivo e un elemento non riproducibile internamente.

Tale sequenza (o circuito) si chiude soltanto allorché le imprese, una volta realizzato in forma monetaria il valore sociale della produzione, estinguono il debito verso le banche, suddividendo il sovrappiù sociale (corrispondente al plusvalore) tra profitti d’impresa e interessi bancari.(7) È questa, si badi, non la rappresentazione di una particolare configurazione storica o geografica del capitalismo. Non si tratta, cioè, della manifattura inglese di inizio Ottocento, ovvero del sistema di fabbrica italiano del secondo dopoguerra. Si tratta, invece, dell’esplicitazione dei nessi monetari necessari intercorrenti tra gruppi sociali contrapposti all’interno dello spazio capitalistico.

sabato 2 gennaio 2016

Karl Marx (una compiuta critica dell’economia politica)* - Emiliano Brancaccio

*Da:      http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2013/02/Appunti-di-Economia-politica-quinta-versione-Novembre-2014.pdf


Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone esplicitamente il compito di elaborare una compiuta critica dell’economia politica che era stata elaborata dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema della mano invisibile (A. Smith). Egli infatti descrive un sistema tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. 

Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici. 

Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si riduce, e se si accetta l’idea di Marx secondo cui il profitto deriva dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè il profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l’acquisto dei mezzi di produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico. Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero frenerà l’azione del capitalista, quindi renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà la via ad un’epoca di rivoluzione sociale.

Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso fino al tracollo. 
Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…» (Capitale, vol. III). 

Le due tesi descritte si affiancano poi a un’altra tendenza registrata da Marx, quella verso la scomparsa dei capitali più piccoli o la loro acquisizione da parte dei capitali più grandi, la cui proprietà e il cui controllo tenderebbero a concentrarsi in sempre meno mani: nel linguaggio marxiano, si parla di tendenza verso la “centralizzazione” dei capitali a livello internazionale. La letteratura marxista ha derivato da questa tendenza varie implicazioni, tra cui due contraddizioni: una concorrenza capitalistica che spinge sempre più verso la monopolizzazione dei mercati da parte dei pochi, grandi capitali vincenti, e una radicalizzazione del conflitto di classe tra una cerchia ristretta di proprietari e una massa crescente di diseredati. Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l’idea classica di un capitalismo “naturale” e quindi “eterno”, sostenendo invece la tesi della sua instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a dire della sua finitezza.

venerdì 1 gennaio 2016

SUL FETICISMO (e non solo) - Stefano Garroni



Il feticismo nel paragrafo IV del primo capitolo del
capitale libro primo prima sezione e il XXIV capitolo del capitale, terzo
libro, V sezione.
Cosa diventa il linguaggio nel pensiero contemporaneo?
Corrispondenza tra parola e realtà che viene persa.
La fine dell800 e il nostro periodo: crisi politica, morale,
caduta dello slancio rivoluzionario e conseguente emergenza dello spiritismo,
astrologia , ecc.
Carattere mistico della merce: da dove viene? Valore di
scambio delle merci.
Il valore della merce è dato dal lavoro contenuto in senso
eterno?
Dialettica e suo legame con il non isolamento dei livelli.
Profitti e guerre. Perché Lenin insiste sul fatto che il
socialismo si fa coinvolgendo nella gestione tutti i lavoratori?
Perché è inseparabile dalla natura del capitalismo il fatto
che il lavoro globale e la socialità dell'uomo si realizzi attraverso una
mediazione? Cosa comporta che in una società capitalistica non si può avere una
gestione sociale dell'economia?
Socialismo e processo storico. LUrss era capitalista o no?
Hegel e lo spirito del tempo. Stati Uniti e sussidio di
disoccupazione. La rivoluzione internazionale come epoca storica. 1989 e ordine
del mondo.