mercoledì 6 gennaio 2016

Dal primo dopoguerra al Secondo conflitto mondiale (passando per la grande crisi del ’29)* - Mauro Rota** e Francesco Schettino***

*Da:     https://rivistacontraddizione.wordpress.com/
**Sapienza, Università di Roma. mauro.rota@uniroma1.it
*** Seconda Università di Napoli. francesco.schettino@unina2.it ; corresponding author


Introduzione - il mondo dopo la prima guerra mondiale

Il primo conflitto mondiale ha rappresentato per il modo di produzione del capitale uno degli eventi più di rilievo dal momento della sua nascita. La grande crisi originatasi nel Regno Unito a partire dal 1870 – e proseguita per almeno due decenni – aveva mostrato con chiarezza che, a differenza di quanto molti studiosi avessero teorizzato, il capitalismo fosse tutt’altro che un sistema perfetto e proiettato verso una produzione infinita (Lenin, 1916) ma che, al contrario, potesse incappare in problematiche persino contraddittorie e potenzialmente irrisolvibili a meno di un intervento poderoso dello Stato all’interno del libero mercato (Gallagher e Robinson, 1953). Dunque, il primo conflitto mondiale estrinsecò i suoi drammatici eventi all’interno di un contesto europeo dominato da una sensibile ostilità tra le nazioni che storicamente avevano governato il processo di sviluppo del capitale e quelle di nuova formazione (Germania in primis) e soprattutto in una condizione assai critica dal punto di vista dell’accumulazione; tale situazione era particolarmente compromessa per quel che riguarda il capitale britannico che, proprio da qualche decennio, aveva rafforzato sensibilmente il proprio processo di espansione, attraverso esportazione di capitale (investimenti diretti esteri o speculativi) nei territori controllati attraverso il Commonwealth e nei dominions più in generale, conosciuto anche con il nome di imperialismo (Hobson, 1903, Brignoli, 2010, Rota e Schettino, 2011).

Il primo conflitto mondiale fu il frutto di una lotta necessaria al ristabilimento egemonico, in termini di dominio commerciale e politico, dell’Europa e del mondo, in senso più ampio. Da questo punto di vista, il ruolo degli Usa fu di fondamentale rilievo. Proprio in questo periodo si inizia a concretare quell’ideale passaggio di consegne – avvenuto con gradualità, come sarà spiegato più avanti – dal Regno Unito agli Usa nel ruolo di paese guida e locomotiva dell’intero sistema economico. Ma, come è logico, a fronte di una cordata di vittoriosi, corrispondono altrettanti perdenti e tra questi c’era la Germania che da quel momento in poi si trovava ad affrontare – anche a causa degli ingenti debiti scaturenti proprio dall’esito del conflitto – una situazione particolarmente drammatica per quel che concerne sia lo status economico, che per il morale del popolo tedesco deliberatamente umiliato dalle risoluzioni dei trattati conclusivi del primo conflitto mondiale. 

Il cosiddetto “primo dopoguerra” assume pertanto tutti i connotati di instabilità causati da un veemente cambiamento degli equilibri del modo di produzione del capitale che nei secoli passati si erano stabilizzati su determinate direttrici. La povertà diffusa in molti paesi del vecchio continente e tutti gli episodi drammatici che sono propri di ogni conflitto armato, sono elementi che non possono essere tenuti scissi da un altro episodio di straordinaria importanza storica e politica, che ha segnato l’epoca storica in oggetto, ossia la rivoluzione bolscevica del 1917. La presa del potere da parte di Lenin e del suo partito in un paese così straordinariamente esteso, attraverso uno spettacolare atto rivoluzionario, mutò drasticamente la visione del mondo per le classi proletarie, come per quelle dominanti giacché, per la prima volta nella storia, trovava concretezza all’interno dell’Europa e su un territorio sterminato, esteso anche al continente asiatico, un’idea di produzione che potesse prescindere dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Il socialismo diveniva realtà e abbandonava il terreno del dibattito teorico, su cui si era formato per lunghi decenni, fornendo, pertanto, per milioni di lavoratori del vecchio continente un’ipotesi alternativa a quella dello sfruttamento capitalista, seguendo la sistematizzazione scientifica operata da Marx ed Engels nella seconda metà del xix secolo (Marx e Engels, 1848; Engels, 1878).

Il mondo del primo dopoguerra era denso di sensazioni d’irrequietezza come se la “grande guerra” di fatto, invece di risolvere, in senso hegeliano, i problemi endemici del modo di produzione del capitale (emersi con la crisi britannica) ne avesse creati di altri e di molto rilevanti, non ultimo l’affermazione del socialismo in uno dei paesi più importanti della scena mondiale – anche in termini di risorse minerarie – per quanto non certo all’avanguardia dal punto di vista dello sviluppo tecnologico\produttivo.

Il punto di partenza concettuale di questo articolo è proprio il seguente: comprendere le conseguenze della prima guerra mondiale, e della nascita del primo stato socialista, per capire lo sviluppo politico e quindi economico del ventennio che è intercorso tra le due guerre, coniugando tali considerazioni con la crisi del 1929, le sue cause, e con le successive politiche messe in atto per tentare di fuoriuscire dal pantano in cui il modo di produzione capitalistico, nuovamente, dopo solo meno di mezzo secolo e nonostante una guerra mondiale, si era nuovamente trovato. Nella prima parte si forniranno degli elementi di approfondimento relativi alle vicende politiche e sociali che hanno seguito il primo conflitto mondiale, sottolineando da una parte l’importanza delle vicende sovietiche e dall’altra la contemporanea emersione del nazifascismo in molti paesi del vecchio continente; nel paragrafo successivo, si presenterà una fisiologia della grande depressione a cui seguirà una sezione in cui si individueranno i tentativi di fuoriuscita dalla stessa, con un focus puntato in maniera particolare sulla spesa pubblica e su quella militare. Le conclusioni delineeranno un quadro complessivo degli elementi che sono risultati essere straordinariamente importanti per la definizione del secondo, violentissimo, conflitto mondiale.

“All’armi siam fascisti!”[1]

L’episodio del 1917, ossia la presa del potere dei bolscevichi e la contemporanea nascita del primo stato socialista della storia, non poteva che generare delle formidabili ripercussioni sull’assetto economico e politico dell’Europa e del mondo più in generale. Avvenuto, probabilmente non a caso, nel momento di maggiore conflittualità, fino a quel momento, tra i capitali da una parte in difficoltà di accumulazione e dall’altro disposti a guadagnare (o a difendere) un ruolo egemone nello scacchiere produttivo mondiale, la prospettiva stessa dell’esistenza di un grande stato governato da un modo di produzione differente (e superiore, in senso hegeliano) da quello capitalista, necessariamente creò allarme nei paesi locomotiva del modo di produzione dominante.

La fine della guerra, avvenuta relativamente dopo poco tempo dalla rivoluzione bolscevica, restituiva un’Europa devastata da tutti i punti di vista. Il tributo di sangue, spaventosamente elevato (anche se da questo punto di vista, per nulla comparabile con quanto avvenne poco più di venti anni dopo), la povertà e la disoccupazione che conseguirono necessariamente alla riconversione industriale (da militare a civile), nonché una significativa insofferenza da parte di molti reduci del conflitto, sono elementi che, accumulatisi, restituirono in molte nazioni una condizione politico\sociale frammentata, priva di quella coesione di cui il capitale, come sistema produttivo, normalmente si alimenta. Il processo di proletarizzazione generato da cinque lunghi anni di guerra si era profondamente radicato, soprattutto in alcune zone d’Europa: ma alle pressanti domande delle classi più umili, colpite da fame e dall’esperienza diretta del conflitto – spesso e (mal)volentieri ricordato quotidianamente dalla perdita di uno o più maschi di famiglia – i sistemi liberali non sembravano riuscire a fornire le adeguate risposte. D’altra parte, per quanto riguarda la Germania, le vessatorie condizioni di Versailles restituirono un quadro ancor più scombinato e denso di rabbia. Fu in questo tipo di humus (declinato, chiaramente, in ogni singolo Stato in maniera peculiare) che si alimentò fortemente il fascino di sistemi politici alternativi a quelli vissuti da alcuni decenni.

Le notizie che giungevano dalla costituenda Urss (nonostante le grandi iniziali difficoltà incontrate da Lenin e dal gruppo dirigente rivoluzionario) – che parlavano di un socialismo “scientifico” finalmente instaurato e capace di eliminare le classi, ossia il dominio dei padroni sui lavoratori, in nome di due concetti (pane e pace) che stavano profondamente a cuore di tutto il proletariato dell’intero vecchio continente (e non solo) – sospinsero ad un livello mai raggiunto l’insofferenza popolare contro i vecchi sistemi di potere borghese (siano essi liberali di destra o di sinistra). Come è noto, tale processo estrinsecò i suoi più importanti effetti non nell’immediato ma in tutto nel ventennio che seguì la fine del primo conflitto mondiale. Infatti, se nel 1920 quasi tutte le nazioni europee erano governate secondo principi (più o meno) liberali, un ventennio dopo le cose erano profondamente mutate. La polverizzazione dei sistemi elettivi costituzionali fu spaventosa, soprattutto negli anni trenta: se a principio della decade ‘20, in Europa se ne contavano 40, già nel 1938 il numero si era più che dimezzato (17), giungendo a 12 alla fine della guerra. Per le medesime ragioni, complice anche l’invasione nazista, nel ventennio 1922-1944, le istituzioni politiche borghesi-democratiche funzionavano solo in un pugno di nazioni in tutto il mondo. In Europa, fecero eccezione unicamente Gran Bretagna, Finlandia, Irlanda, Svezia e Svizzera; in America, Canada, Costarica, Usa ed Uruguay (Hobsbawm, 1992).

Accanto all’idea molto diffusa nelle classi dominate della possibile socializzazione dei mezzi di produzione, spesso e volentieri in sua palese opposizione, cominciarono ad alimentarsi pesantemente altre esperienze di estrema destra, con connotati sostanzialmente diversi rispetto a quelli classici del nazionalismo europeo. Come è noto, l’articolazione temporale della presa del potere da parte di Salazar, Mussolini, Hitler e Franco, rispettivamente in Portogallo, Italia, Germania e Spagna (solo per citare i casi più famosi e tralasciando le analoghe esperienze dell’est Europa solo per questioni di spazio), fu molto ampia e abbracciò più di un decennio. Alla stessa maniera, la declinazione politica inflitta dai rispettivi regimi aveva in comune il chiaro rifiuto delle istituzioni democratiche-borghesi (ma solo in apparenza, come sarà esplicitato più dinanzi), il legame con polizia ed eserciti (e talvolta con corpi paramilitari formatisi illegalmente tra i reduci scontenti del primo conflitto mondiale), l’adesione incondizionata al nazionalismo (anche se, come già detto, in maniera diversa rispetto al passato) e soprattutto un chiaro e forte sentimento antibolscevico, collocandosi, dunque, in palese opposizione con l’esperienza sovietica e con tutti quei gruppi\partiti che ispirandosi al socialismo (o al comunismo) consideravano la rivoluzione russa come il punto iniziale di un fenomeno di portata mondiale che avrebbe condotto l’umanità al superamento dialettico del modo di produzione del capitale, ossia all’emancipazione della classe proletaria mondiale dal giogo coercitivo della borghesia.
In particolare in Italia, in Germania e in Spagna, furono numerosi i segnali, per quanto giunti con modalità e tempi differenti, di un profondo radicamento della classe lavoratrice a partiti socialisti e comunisti che dichiaratamente si collocavano in continuità con l’esperienza bolscevica.

Essendo uno Stato di recente formazione (conclusasi con la definitiva liberazione di Roma il xx settembre 1870) e ancora molto eterogeneo dal punto di vista economico, sociale e politico (noto e diffuso era il motto “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, coniato qualche anno prima da Massimo D’Azeglio) l’Italia giunse al primo conflitto mondiale in una situazione profondamente contraddittoria, con larghi strati della popolazione che non nascondevano le proprie perplessità alla partecipazione nella stessa. Il sodalizio tra il grande capitale del nord e i latifondisti del sud, architrave del nuovo stato nazionale (Gramsci, 1926; Salvemini, 1955), per quanto avesse assicurato una sostanziale polverizzazione di gruppi sociali\politici in opposizione con il costituendo nuovo stato (un esempio è la guerra al brigantaggio meridionale che fu particolarmente violenta e, secondo molti studiosi, è alla base della formazione delle organizzazioni criminali moderne, tra cui la mafia; De Jaco, 2005), comunque era ben lungi da garantire una omogeneità nel paese in grado di sostenere un evento drammatico come quello della prima guerra mondiale. Il ritardo nell’entrata nel conflitto, così come l’episodio della cosiddetta “disfatta” di Caporetto, sono solo due episodi – probabilmente i più noti – che di fatto erano figli di tale situazione socio-politica. Una Italia spaccata almeno in due parti non poteva non rappresentare un problema per uno Stato moderno di tipo borghese e, specie per la destra nazionalista, quello bellico sarebbe dovuto essere proprio l’episodio in grado di elevare lo spirito patriottico ad un livello superiore garantendo così la generazione di un collante altrimenti difficile da sviluppare. I risultati, da questo punto di vista, si fecero attendere e furono molti gli episodi in cui si palesarono, con tutta la loro violenza, le distanze incolmabili innanzitutto tra classi (generali, prevalentemente di origine borghese, versus soldati semplici, perlopiù proletari e braccianti) e anche tra le centinaia di culture a cui appartenevano molti membri dell’esercito (non a caso si parla dell’Italia come paese dei campanili).

Ad ogni modo, la fine del primo conflitto mondiale evidenziò in maniera profonda tutte le incapacità politiche dei governi precedenti (Crispi e quelli guidati da Giolitti) di individuare tali problemi e di tentare di affrontarli con ragionevolezza: il fatto stesso che solo qualche anno prima Giolitti avesse dichiarato alla Camera dei deputati che “Carlo Marx è stato mandato in soffitta” (Giolitti, 1911) è significativo dell’incapacità di comprendere le necessità e le volontà della classe subordinata. Di fatto, l’uso della repressione fu l’unico strumento utilizzato per rispondere alle esigenze della classe lavoratrice che, nella prevalenza del territorio italiano, viveva in condizioni di spaventosa povertà ed indigenza (e da questo punto di vista sembra importante ricordare come gli scarsi risultati forniti dalla violenta coercizione furono la causa dello scellerato patto stipulato proprio da Giolitti con fascisti e nazionalisti nel 1921 in chiave anti socialista). Ciò non avveniva, come immaginabile, solamente nel Mezzogiorno, ma anche nel nord, il cui tessuto industriale ed agricolo, già ai primi del secolo xx, iniziava ad assumere connotati di sviluppo simili a quelli della zona centro\settentrionale del continente. La formazione e il forte rafforzamento del partito socialista (e delle leghe, prima del suo riconoscimento a livello legale) dall’inizio del secolo furono fenomeni che bene rappresentarono le terribili condizioni di grandi masse di braccianti e dei lavoratori delle fabbriche. Gli scioperi, che divennero sempre più frequenti e partecipati, venivano repressi nel sangue dall’intervento delle forze armate o dall’esecuzione (del tutto iniqua) delle sentenze della magistratura; ciò, come spesso avviene in questi casi, generò il risultato opposto di coalizzare la classe subordinata attorno all’ideale del socialismo. Inoltre, lo straordinario successo della rivoluzione d’ottobre e l’eco della sostanziale decapitazione della classe proprietaria in Russia, rafforzarono ulteriormente la spinta rivoluzionaria socialista e, conseguentemente, generarono sempre più frequenti momenti di forte conflittualità di classe che il potere borghese individuava come disordini di cui doversi liberare con rapidità. Del resto, con una situazione economica rapidamente deterioratasi e, pertanto, con difficoltà di accumulazione in molte branche produttive, il capitale non poteva permettersi un proletariato poco mansueto. In alcune zone d’Italia, la situazione era pressoché incontrollabile e le vittorie elettorali socialiste del resto stavano a rappresentare una volontà delle classi più umili di avvicinarsi ad un sistema politico\economico come quello appena istaurato Lenin e dal gruppo dirigente. Si parlava in quel periodo esplicitamente dell’auspicabile momento rivoluzionario che potesse dar continuità ad un processo più ampio che coinvolgesse anche la Germania, per aggirare l’inevitabile isolamento in cui si sarebbe trovato un solo paese socialista all’interno del mondo dominato da un modo di produzione come quello capitalistico (Carr, 1964). Oltre agli scioperi e agli altri fenomeni tipici del conflitto di classe in una fase molto avanzata, l’episodio che maggiormente fece tremare il potere fu l’espansione a macchia d’olio (soprattutto nel nord) dell’occupazione operaia delle fabbriche, e della conseguente gestione delle stesse che tra il 1919 ed il 1920 fece pensare ad una situazione prerivoluzionaria.

Il Biennio rosso (come successivamente è stato definito) inevitabilmente spaventò la classe dominante italiana e ad essa fu chiaro che la prima guerra mondiale, così come la rivoluzione bolscevica, fossero episodi che avevano mutato profondamente le aspirazioni e i comportamenti dei lavoratori italiani, sino a renderli pericolosamente ingestibili. I governanti che si erano alternati sin dal 1870 non erano più in grado di amministrare la situazione, garantendo il capitale (sia di piccolo che di grande dimensione) e, per questa ragione, fu lampante la necessità di un avvicendamento significativo che potesse dare una scossa al sistema e, con le buone o le cattive, eliminasse quel senso di disordine presente a tutti i livelli ricollocando, soprattutto, le classi più umili nel posto che è concesso in un sistema del capitale, quello della subordinazione. Il cosiddetto Biennio rosso (per una discussione più ampia si veda tra gli altri anche dalla Casa,1982; Evangelisti, 2013 e 2014)) fu largamente inteso come un periodo che preparava alla rivoluzione socialista. Il livello di conflittualità si era ormai stabilmente trasferito dalle campagne romagnole al sistema industriale del nord del paese: si conta che durante il periodo di occupazione delle fabbriche, fossero coinvolti, sia come operai che come “guardie rosse” quasi mezzo milione di individui, una massa assolutamente sconvolgente per la borghesia italiana (Spriano, 1971). Per di più, le adesioni quasi totali dei lavoratori agli scioperi generali proclamati con frequenza, nonché le vittorie in campo elettorale del partito socialista, erano tutti segnali che preludevano alla presa del potere da parte della classe subalterna. Ma, come è noto, le cose non andarono in questa maniera in parte perché quei problemi scaturenti dalle occupazioni che sarebbero dovuti essere gestiti dal Partito socialista e dai sindacati furono aggirati giacché costoro “capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista” (Gramsci, 1926). Ma c’è da aggiungere anche che, insoddisfatta della presunta debolezza del governo Giolitti, la classe capitalista aveva ben inteso che, per contrastare un’offensiva proletaria di tale livello sarebbe stato necessario un cambiamento di governance netto che avrebbe dovuto stroncare, eventualmente con la necessaria violenza, tale situazione che era evidentemente di natura prerivoluzionaria.

Il fatto che dapprima il grande capitale, a differenza dei proprietari terrieri, avesse diffidato di Mussolini e del movimento\partito nazionale fascista risiede probabilmente nelle sue origini e nel fatto che tale movimento, all’inizio, non avesse una chiara caratterizzazione politica accogliendo al suo interno una eterogeneità estremamente ampia di soggetti. Del resto Mussolini, era un uomo politico che sin da bambino aveva respirato l’aria delle battaglie sanguinose in cui i braccianti romagnoli si erano fieramente contrapposti alla violenza economica e politica dei latifondisti e, più in generale dei proprietari terrieri che dalla fine del secolo xix si erano combattute causando vittime (soprattutto dalla parte della classe subordinata) con cadenza quasi quotidiana. Non è un caso che Mussolini fosse figlio di Alessandro Mussolini, uno dei socialisti più preparati, impegnati e in vista: i suoi tre nomi propri, Benito, Amilcare ed Andrea rappresentavano Benito Juarez (rivoluzionario messicano), Amilcare Cipriani (secondo socialista eletto nel parlamento italiano) e Andrea Costa (primo socialista eletto nel parlamento italiano). Come noto, del resto, Benito Mussolini fu per un periodo sufficientemente lungo un uomo di punta dello stesso Partito socialista italiano, essendo direttore dell’Avanti, nonché additato persino da Lenin come potenziale traghettatore di una rivoluzione socialista in Italia (è nota la famosa frase che il leader bolscevico avrebbe pronunciato ad alcuni compagni socialisti italiani: “c’era un solo socialista capace di guidare il popolo alla rivoluzione: Mussolini. Ebbene, voi lo avete perduto e non siete capaci di ricuperarlo” (Buttignon, 2010).

Ad ogni modo, con gradualità, anche il grande capitale (come si vedrà nella parte conclusiva di questo articolo) comprese che la dittatura fascista potesse rappresentare l’unica alternativa in grado di eliminare definitivamente il rischio bolscevico; secondo la classe dominante era necessario dare una forte ridimensionata, utilizzando persino i più che noti strumenti coercitivi (militari e di propaganda), alla classe lavoratrice che in quegli anni, secondo la classe capitalista, aveva osato troppo. Del resto, se si osservano le principali correnti del fascismo, si può obiettivamente vedere come fossero profondamente distanti politicamente su ogni aspetto a parte su un punto in cui non esisteva alcun dubbio: l’antibolscevismo (su questo punto si veda anche Tarquini, 2011).

Come si diceva, fenomeni simili, ma con una fenomenologia differente nella forma, per quanto riconducibili alla stessa sostanza, sono avvenuti con tempistiche molto diverse anche in altri paesi come la Germania, la Spagna e persino negli Usa. Senza voler entrare nel dettaglio di ogni singola esperienza, per ragioni di spazio, è importante sottolineare come, per quanto scaglionate nel tempo, l’ascesa del nazismo, il colpo di stato franchista e la “normalizzazione” del movimento sindacale e politico comunista statunitense (Coggiola, 2001), sono stati rappresentanti di una lotta di classe portata avanti con veemenza da alcune componenti delle borghesie nazionali (su cui, progressivamente hanno finito per convergere tutti gli appartenenti alla classe dominante) e vinta dal capitale sul lavoro, in attesa della futura contrapposizione a livello intra-classista, ossia di conflitto tra fratelli nemici che nella seconda guerra mondiale è esploso in tutta la nota violenza. Gli episodi delle brutali uccisioni di principali esponenti del Kpd (Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht) avvenne non per caso proprio nel momento in cui una rivoluzione proletaria sembrava materialmente possibile, ossia qualche giorno dopo la sollevazione spartachista (gennaio 1919) repressa nel sangue proprio da un governo socialdemocratico. E che ciò accadde per mano dei Freikorps che rapirono, torturarono ed infine eliminarono i due esponenti comunisti, non è una cosa che stupisce. Da questo punto di vista non è un dettaglio che proprio nei Freikorps militarono molti di coloro che, solo qualche anno dopo, divennero le colonne portanti del sistema politico nazista (in particolare si annoverano, tra i tanti, Ernst Röhm, vertice delle Sturmabteilungeno, SA e Rudolf Höß, comandante del campo di concentramento di Auschwitz).

Qualcosa di ancora diverso, ma sostanzialmente assimilabile, avvenne nella penisola iberica: a seguito della nascita della seconda repubblica spagnola, coincisa con le “dimissioni” del re (Alfonso xiii), nel 1931, le elezioni politiche del 1936 sancirono la vittoria dei partiti di sinistra che seppero unirsi in quello che è conosciuto come Fronte Popular, composto da Izquierda Republicana, PSOE, PCE, POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista) e Esquerra Republicana de Catalunya. Nel frattempo, la borghesia europea continuava a vedere con ovvia diffidenza l’affermarsi del potere sovietico in Russia e, nonostante la recente affermazione di Hitler in Germania e del fascismo in Italia avesse di fatto soppresso nel sangue gran parte delle possibilità di una rivoluzione bolscevica su scala continentale come auspicato anche da Lenin, l’esito delle elezioni democratiche spagnole fu seguito con attenzione anche dal capitale e dai suoi rappresentanti politici di Francia, Uk e Usa. Sul ruolo cruciale degli eserciti nazisti e fascisti a favore del colpo di stato franchista e della successiva guerra, si è già dibattuto molto e in tanti hanno interpretato, per questo, il conflitto ispanico alla stregua di una prova generale della seconda guerra mondiale. Ciò che invece è stato posto molto meno in risalto è la mansione svolta dalla Gran Bretagna e dalla Francia nel periodo che va dalla formazione del Fronte popolare alla presa definitiva del potere da parte dei franchisti. Del resto, i rappresentanti della classe borghese, interessati profondamente agli investimenti già esistenti in Spagna (soprattutto per quel che riguarda le materie prima, vedi ad es. la Rio Tinto Company) e al conseguente commercio con la penisola iberica, furono negativamente colpiti dalla vittoria elettorale del Fronte Popolare, condividendo il pensiero emerso e spesso ribadito anche a livello diplomatico secondo cui “dopo Kerensky c’è Lenin, non lo Zar” (Little, 1985). In altri termini, preso atto che il Fronte Popolare di per sé rientrasse nell’ambito di un sistema economico\politico socialdemocratico, ciò che spaventava era quel che sarebbe potuto accadere dopo (“Lenin”), ovvero una prospettiva bolscevica più che tangibile in uno Stato chiave del vecchio continente. 

Per quanto tale espressione sia attribuibile ad un ambasciatore britannico a Madrid, e sicuramente rispecchiasse il pensiero di un nutrito gruppo di colleghi o di politici di cui era espressione, dire che Franco sia stato voluto dal capitale britannico (o da quello Usa) sarebbe una deduzione troppo frettolosa, specie se non avvalorata dalla giusta base analitica. Quel che è certo è che la scelta politica, successivamente adottata dai paesi dell’area sterlina-dollaro, di mostrarsi neutrali (Malevolent neutrality, Little ibid.) all’interno di un conflitto che di fatto vedeva un governo democraticamente eletto opporsi, attraverso resistenza pressoché popolare, ad un colpo di stato militare di chiara e dichiarata origine fascista è una questione che ancora cerca delle risposte di natura storica ed economica (nonché politica). Non va dimenticato che, infatti, se al momento della nascita della seconda repubblica spagnola, la situazione tedesca fosse ancora in movimento, nell’anno dell’alzamiento franchista Hitler era già saldamente al potere. Quindi, il diniego di aiuto (politico, militare e, soprattutto, economico) da parte di governi dichiaratamente ostili all’asse fascista italiano-tedesco alla richiesta degli omologhi ispanici rimane senza dubbio di natura ambigua. Del resto, un ruolo fondamentale negli esiti della guerra di Spagna fu assunto dai finanziamenti e dalle armi (ed uomini) inviati da Roma e Berlino per permettere la realizzazione di un vero e proprio colpo di stato, ossia il sovvertimento dell’ordine democraticamente sentenziato con le elezioni libere. 

Dinanzi, ad un’avanzata di questo tipo, finanziata illegalmente (de facto) da fascisti e nazisti, la politica di neutralità di Francia-Usa-Uk  fu anche essa illegale, poiché il diniego di costoro di vendere armi ad un esercito regolare violava la normativa internazionale. E la spiegazione di una così pesante decisione può essere intesa solo se si tengono in considerazione gli affari che – violando, in questo caso, la neutralità – alcuni capitalisti, soprattutto quelli legati ai settori energetici riuscirono a fare con i franchisti (c’è da ricordare il ruolo preminente delle materie prime spagnole tutte in territorio fascista; per esempio sembra che la Spagna avesse quasi il monopolio del mercurio ecc.). Come dimostrato (Hubbard, 1953 e Whealey, 1977), infatti, se si considera complessivamente il flusso di finanziamento giunto da paesi legati alla sterlina-dollaro ai fascisti spagnoli, esso rappresentò quasi il 15% del totale (senza voler considerare quelli che indirettamente furono negati al governo democraticamente eletto). Ciò non è poco, dal punto di vista quantitativo, soprattutto se si tiene in considerazione che l’oro di Madrid era gestito dai repubblicani e che, qualitativamente parlando, il petrolio che di contrabbando veniva ceduto da società come Total ecc. si è rivelato cruciale per permettere a Franco di far camminare carri armati e aerei, vincendo così la guerra civile. Recentemente alcuni studi (Martin-Acena et al., 2014) hanno appurato che di fatto le risorse giunte a repubblicani (tramite l’Urss) e fascisti siano state le stesse, sostenendo che i franchisti abbiano vinto la guerra solo perché sono stati più efficienti nella gestione della pecunia: tuttavia questa interpretazione, che molto poco aggiunge ad una narrazione che ha all’interno molti aspetti politici che vanno oltre un calcolo così limitato, dimentica di affermare come da una parte l’elemento qualitativo (tipologia di merci fornite) fosse cruciale; dall’altra che i paesi della sterlina-dollaro avessero assunto (nonostante l’apparenza) un ruolo ben delineato con la propria malevolent neutrality. Molti storici hanno letto nella guerra civile spagnola le prove generali della Seconda guerra mondiale: tuttavia, anche in questo caso, c’è il sentore che essa, al pari degli altri fascismi, sia stata generata da un comune sentimento anti-bolscevico, condiviso trasversalmente dalla classe dominante di tutto il continente, tesi del resto indirettamente avvalorata anche dalle dichiarazioni dell’ultimo ministro degli esteri della Spagna repubblicana che poco prima di capitolare affermò: “no one should be able to deny that the collapse of the Spanish Republic was due to Non-Intervention” (Little, ibid.).

Il Sistema internazionale dei pagamenti: le “gabbie d’oro”

A livello europeo il principale problema economico da fronteggiare al termine della Grande Guerra fu, come già detto, la riconversione dall’economia di guerra alla produzione in tempi di pace. La mobilizzazione delle risorse finalizzate al conflitto aveva prodotto naturalmente uno squilibrio nella produzione con eccessi di offerta nei settori legati allo sforzo bellico. La ricostituzione della produzione di pace incontrava due ostacoli. Il primo era la resistenza dei produttori che avevano ricavato extraprofitti dalle commesse pubbliche e che erano restii a nuovi investimenti per riconvertire la produzione. Il secondo era di natura tecnica e legato ai costi di riallocazione degli input produttivi rispetto alla nuova composizione della domanda aggregata.

Il Gold Standard, sistema internazionale dei pagamenti concepito nella seconda metà del XIX secolo, fu sospeso allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il funzionamento del sistema, basato sulla parità dei cambi attraverso l’aggancio all’oro, richiedeva una stabilità politica ed economica che il conflitto non poteva, per definizione, assicurare. Terminata la guerra, i governi delle potenze vincitrici si affrettarono a suggerire la reintroduzione del Gold Standard. Tuttavia, l’instabilità finanziaria, determinata dalla questione del pagamento dei danni di guerra addebitati alla Germania e dalla contestuale problematica definizione della restituzione dei prestiti interalleati avevano prodotto uno stallo della circolazione dei movimenti di capitale e, attraverso questo, l’impossibilità di ripristinare il sistema a cambi fissi.  I governi, d’altro canto, ritenevano ineludibile il ritorno al Gold Standard per ripristinare la stabilità dell’economia internazionale. L’ortodossia nel Gold Standard poggiava sull’evidenza di quanto era accaduto nei quattro decenni antecedenti la Prima Guerra Mondiale. La stabilità nei meccanismi di pagamento a livello internazionale era il frutto della flessibilità di prezzi e salari che si modificavano in funzione degli eccessi o deficit di domanda, della leadership politica ed economica esercitata dalla Gran Bretagna, e dalla cooperazione tra i paesi aderenti al sistema a cambi fissi nel rispettare le regole di funzionamento del Gold Standard.

La leadership inglese si manifestava attraverso il complesso sistema di connessione tra scambi internazionali sul mercato delle merci (Saul, 1960) e movimento dei capitali (Rota e Schettino, ibidem). Il commercio internazionale favoriva il movimento dei capitali che erano per la maggior parte inglesi che, innalzando il reddito dei paesi ricettori, generava domanda aggiuntiva per le stesse merci britanniche. Contestualmente, grazie al movimento di merci e capitali i paesi erano agevolati nel raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti e l’onere del riaggiustamento era equamente ripartito tra paesi in deficit e paesi in avanzo. L’evidenza storica ci suggerisce che furono tali condizioni a garantire la stabilità dell’economia internazionale più che il sistema del Gold Standard.

Dopo il 1918, nessuno dei predetti elementi era all’opera. La leadership economica e politica inglese si era indebolita e gli Stati Uniti non avevano rimpiazzato gli inglesi nel ruolo di guida dell’economia mondiale. Le forniture di liquidità al sistema internazionale si erano istantaneamente arrestate con la fine del conflitto nel momento in cui gli Stati Uniti cessarono le linee di credito bilaterali con i paesi alleati. La scarsa disponibilità di capitali rendeva arduo il finanziamento dei deficit pubblici che la guerra aveva lasciato in eredità. Comparativamente al periodo 1870-1913, la spesa pubblica in rapporto al PIL era cresciuta e i governi si trovarono nella condizione di doverla finanziare. Il ricorso all’emissione di debito era limitato dall’offerta asfittica di capitali internazionali e si dovette con frequenza ricorrere a un mix di stampa di moneta e incremento della pressione fiscale. Il primo dei canali di finanziamento del debito è incompatibile con l’ortodossia monetaria insita nel Gold Standard, aggiungendosi alle precedenti condizioni per cui il ritorno al sistema dei cambi fissi non era un’opzione di politica economica per i governi dopo il 1918.

Nuovo elemento d’instabilità era costituito dai debiti di riparazione dei danni di guerra addebitati alla Germania con il Trattato di Versailles del 1919. La Francia pretendeva di collegare la restituzione dei prestiti agli Stati Uniti all’incasso dei risarcimenti dei danni di guerra addebitati ai tedeschi, ingessando ulteriormente il flusso di capitali internazionali. D’altro canto le dure condizioni accessorie imposte dal Trattato di Versailles, e aspramente criticate da Keynes, rendevano, di fatto, oltremodo oneroso il rispetto dei pagamenti da parte della Germania. Questa deprivata di buona parte della sua capacità produttiva a causa dei danni bellici e della confisca di ampie aree industriali non era nella condizione di onorare il pagamento dei debiti. Il massiccio ricorso alla stampa di cartamoneta, l’eccesso di debito e deficit tedesco si aggiunse alle già presenti tendenze inflazionistiche in tutti i paesi europei, precipitando la Germania nell’iperinflazione dal 1922 al 1924. 

Esaurita la fase della riconversione delle economie belliche il sistema del Gold Standard fu reintrodotto dal 1924. Il passo fondamentale fu la stabilizzazione del Marco tedesco con l’istituzione del Reichsmark e il suo ancoraggio al dollaro a un cambio fisso e la ripresa dei pagamenti da parte della Germania verso i creditori. La stabilizzazione, garantita da titoli della società tedesca ferroviaria, pose le basi per il ritorno al Gold Standard. Progressivamente, tale sistema fu ripristinato in Francia, Gran Bretagna, Italia, tra le nazioni maggiormente avanzate. Solo il Giappone, terminato il conflitto, non ancorò la moneta all’oro. La condizione necessaria per il ritorno al Gold Standard fu la ripresa dei movimenti di capitale in Europa e tra questa e gli Stati Uniti. Come già visto, i movimenti di capitale erano essenziali per riequilibrare le bilance dei pagamenti e mantenere i tassi di cambio stabili. Gli Stati Uniti dopo il 1924 tornarono a esportare capitale in Europa e in Germania in particolare, alleviando le bilance dei pagamenti e stimolando la ripresa della produzione industriale. Tuttavia, l’intrinseca volatilità del capitale finanziario esponeva le economie dell’epoca a fluttuazioni ampie della produzione industriale, in particolare per la debolezza strutturale dei sistemi economici negli anni venti. Quanto debole fosse la ripresa si evince dalla crescita episodica dal 1913 al 1929. La produzione industriale crebbe dell’1,9% all’anno in Francia, dell’1,7% in Italia, del 1,2% in UK e dello 0,7 in Germania. Essa fu inferiore alle decadi antecedenti la Prima Guerra Mondiale e al periodo 1950-1971. In generale tutti i paesi che parteciparono al primo conflitto crebbero meno dei paesi neutrali senza riguardo se fossero usciti vincitori o sconfitti dalla Grande Guerra. Fanno eccezione gli USA il cui tasso d’innovazione tecnica e la limitata partecipazione al conflitto garantirono una crescita sostenuta e il Giappone. Proprio il caso nipponico ci introduce al ruolo giocato dall’adesione al Gold Standard. Il Giappone non ripristinò il sistema di ancoraggio all’oro dopo la fine del conflitto e crebbe a tassi più sostenuti rispetto all’Europa. L’assenza di “gabbie d’oro” consentì al Giappone di aggiustare la politica monetaria e fiscale senza incorrere negli effetti pro-ciclici prodotti dalle scelte di politica economica imposte dall’adesione al Gold Standard.

Le gabbie d’oro stavano preparando il terreno alla Grande Depressione durante gli anni venti minando la crescita potenziale dei paesi aderenti. Ne è esempio l’Italia che, con la svolta di Pesaro del 1926, aderì al Gold Standard al tasso di novanta Lire per Sterlina, imponendo al paese una dura deflazione ottenuta con politiche restrittive e un taglio del salario del 10% per decreto, possibile solo sotto regimi autocratici e repressivi.
Le vicende dei singoli paesi, brevemente riassunte prima, contengono gli ingredienti essenziali per comprendere come le economie mondiali siano scivolate nella Grande Depressione del 1929-1933. Le conseguenze politiche ed economiche della Grande Guerra, l’adesione al Gold Standard e l’instabilità del mercato dei capitali sono le tre con-cause che determinarono la Grande Depressione e che furono tenute insieme da scelte di politica economica inadeguate e guidate dall’ortodossia monetaria e fiscale di quegli anni.

L’interrogativo sulle cause della Grande Depressione che ha assillato gli studiosi del periodo tra le due guerre ha generalmente trovato risposta nella dimensione finanziaria della crisi stessa. La drammatica riduzione dei corsi azionari di fine ottobre del 1929 ha rappresentato un’immagine a lungo esaustiva della crisi e altrettanto taumaturgica è stata l’ipotesi di generiche cause di debolezza strutturale dell’economia capitalistica. Entrambe le letture appaiono incomplete. Il capitalismo è intrinsecamente instabile nelle componenti reale e finanziaria, ma la Grande Depressione è qualcosa in più. Senza il Gold Standard probabilmente la Grande Depressione sarebbe stata più simile ad uno dei ricorrenti e ciclici squilibri tra domanda ed offerta aggregata (Eichengreen 1992, Eichengreen and Sachs 1995), ma soprattutto, non avremmo avuto la propagazione rapida della crisi.

Gli eventi che hanno portato alla crisi del 1929 traggono la loro genesi dalla contrazione ciclica dell’economia americana del 1927 (Wheelock 1992). La Federal Reserve ridusse il tasso d’interesse e compié robuste iniezioni di liquidità attraverso operazioni di mercato aperto. L’eccesso di liquidità si trasferì sui mercati azionari e obbligazionari gonfiando il corso dei titoli. Per contenere eventuali bolle da eccesso di liquidità la politica monetaria della Fed ritornò su posizioni restrittive nel Gennaio del 1928. L’incremento dei tassi stimolò il rientro dei capitali statunitensi che, attratti dagli alti tassi d’interesse europei e tedeschi in particolare, si erano in precedenza spostati in Europa. L’Europa si ritrovò a corto di capitali proprio nella fase d’inversione del ciclo. Allo stesso tempo i capitali affluiti negli Stati Uniti stavano gonfiando la bolla sui mercati azionari che inevitabilmente sarebbe scoppiata. Ciò accadde nell’autunno del 1929 quando ci si rese conto che le sospensioni di profitto delle imprese americane non erano in linea con i corsi azionari.

Nel precedente quadro macroeconomico il Gold Standard agì dunque da amplificatore della crisi e da propagatore al tempo stesso. L’uscita di capitali dall’Europa indusse i Governi a restringere la politica monetaria e fiscale per impedire il deprezzamento delle valute nazionali e ripristinare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Le misure restrittive però aggravarono la fase ciclica discendente, esacerbandola. Negli Stati Uniti la politica monetaria già restrittiva ampliò le aspettative deflattive generate dal contesto macroeconomico internazionale. In breve, l’economia internazionale, imprigionata nelle gabbie d’oro, secondo l’efficace metafora di Eichengreen, entrò in una fase permanentemente deflattiva.

Il decorso della crisi è noto e non ci fermeremo a rimarcare l’ampiezza della caduta della produzione industriale e l’incremento della disoccupazione con i suoi risvolti sociali. Basti ricordare che il Prodotto interno lordo delle economie occidentali si contrasse del 15%, con alcune differenze. Ad esempio il reddito diminuì in Gran Breatagna del 5% nel periodo 1929-1933, e del 26% negli Stati Uniti nel medesimo arco temporale (Crafts and Fearon 2010). La crisi del 1929 si accompagnò a una riduzione dei flussi commerciali a livello mondiale. La contrazione del commercio non derivò solo da una diminuita domanda globale, data la fase di ampia recessione, ma può essere ascrivibile all’ortodossia del Gold Standard (tavole 1 e 2).

Tabella 1 – Andamento di Produzione e prezzi

1929
1930
1931
1932
Prod. Ind.




Mondo
100
87
75
64
Europa
100
92
81
72
USA
100
81
68
54
Prod alim




Mondo
100
102
100
100
Europa
100
99
102
104
USA
100
102
103
100
Prod mat. Pr.




Mondo
100
94
85
75
Europa
100
90
82
73
USA
100
90
80
64
Prezzi




Alimentari
100
84
66
52
Mat. Prime
100
82
59
44
Industria
100
94
78
64
Fonte: Feinstein et al. (1997)

Tabella 2 – Commercio internazionale (1929-1932)

1929
1930
1931
1932
Valore a prezzi costanti
100
81
58
39
Volume
100
93
85
75
prezzi
100
87
68
52
Fonte: Feinstein et al. (1997)

Il deterioramento delle bilance dei pagamenti, di cui abbiamo parlato precedentemente, indusse i governi a inasprire i livelli dei dazi rendendo ulteriormente asfittico il commercio internazionale e aggravando ancor più la bilancia dei pagamenti stessa. Le esportazioni a livello mondiale si ridussero del 50%, toccando il minimo nel 1932 e con esse si ridussero anche i prezzi dei beni commerciati. A tal proposito, si rileva che i prezzi delle materie prime si ridussero più rapidamente e in misura maggiore dei prezzi agricoli e ancor più rispetto ai prezzi dei beni industriali. Ancora una volta, l’evidenza mostra che il Gold Standard agì da amplificatore della crisi e da propagatore della stessa. I paesi produttori di materie prime e di beni agricoli, data la diversa dinamica dei prezzi delle varie tipologie di beni, s’impoverirono rispetto ai paesi industriali. In termini di diseguaglianza, la crisi del 1929 allargò il divario tra i paesi agricoli e quelli industriali oltre ad accrescere la distanza nei redditi all’interno di ciascun gruppo di paesi.

La Gran Bretagna fu tra i paesi che soffrirono meno della crisi se guardiamo al Prodotto Interno Lordo. Tuttavia, la disoccupazione più che raddoppiò, passando dall’8% del 1929 al 17% del 1932. La politica economica inglese mutò segno nel 1931 proprio per arginare la crescita della disoccupazione, abbandonando il Gold Standard. In quell’anno quarantasette paesi avevano le valute ancorate all’oro, mentre nell’anno successivo molti abbandonarono la difesa della parità con le eccezioni della Francia, degli USA e del Belgio e di pochi altri paesi minori. Per tutti i paesi che nel 1931 abbandonarono il Gold Standard, la crescita nel periodo 1931-1935 fu maggiore rispetto a quella dei paesi che continuarono a difendere la parità o che uscirono più tardi dai vincoli delle “gabbie d’oro”.

Il primo ed immediato effetto dell’uscita dal Gold Standard fu la fine delle aspettative deflattive e un moderato aumento dei prezzi. L’inflazione svalutò i tassi di cambio e le esportazioni ricominciarono a crescere. Il commercio internazionale rinvigorì sebbene nel 1937 l’indice delle esportazioni era il 90% rispetto allo stesso indice del 1929. A frenare la ripresa degli scambi, fu la preferenza dei paesi per il bilateralismo negli scambi e per la preferenza a commerciare con le colonie, tipicamente nel caso inglese, più che per il multilateralismo negli accordi commerciali (Crafts e Fearon 2010). La fitta rete di scambi del periodo antecedente la prima guerra mondiale non era un’opzione nell’agenda dei policy makers degli anni trenta. Furono in particolare i regimi autoritari, Fascismo, Nazismo e il nazionalismo Giapponese a perseguire politiche autarchiche privilegiando gli scambi bilaterali anziché una rete globale del commercio internazionale.

Liberi dai vincoli del Gold Standard, i governi avviarono politiche espansive sia dal lato fiscale che da quello monetario. La loro relativa efficacia per la ripresa economica è tuttavia dibattuta. Gli aspetti monetari sembrano prevalere rispetto a quelli fiscali. La crescita dell’offerta di moneta diede spazio alle banche di incrementare il credito e ripristinare gli equilibri finanziari delle imprese. Lo stesso sistema bancario che sperimentò fallimenti e crisi di liquidità durante il periodo 1929-1931 beneficiò dell’aumentata offerta di moneta. Al contrario, gli stimoli di natura fiscale non appaiono della stessa efficacia nella ripresa degli anni 1932-1938. Il New Deal promosso da Roosvelt e spesso citato come esempio di strategia di politica economica efficace non fu un’azione di stampo Keynesiano. La spesa pubblica non fu finanziata in deficit ma da maggiori tasse, e a conti fatti lo stimolo del New Deal alla ripresa non deve essere enfatizzato da questo punto di vista (Fishback 2010). In particolare il New Deal, operò in due fasi. Nel primo periodo, fino al 1935, prevalse l’idea di restringere la competizione e di tenere i salari elevati per decreto nella convinzione che entrambe le misure avrebbero mantenuto i prezzi elevati eliminando la deflazione. Gli effetti non furono apprezzabili e nel 1935 fu attivata la seconda fase del New Deal finalizzata a introdurre maggiore competizione nei mercati, tuttavia bilanciandone gli effetti attraverso la sviluppi della nascita e consolidamento dei sindacati (Wagner Act del 1935).

Il dibattito sugli effetti complessivi del New Deal verte sulla grandezza degli stimoli complessivi indotti che, in ultima analisi, furono modesti. Il principale motore della ripresa fu, in ultima istanza, il cambio nel regime delle aspettative che dal 1931 percepirono l’inflazione come un evento più probabile della deflazione. Come argomentato da Eichengreen e Sachs (1995) questo meccanismo fu comune a molti paesi e a quelli Europei in particolare. Al confronto con gli USA, Lo stimolo fiscale e quello monetario furono marginali in Europa.

Una possibile chiave di lettura è offerta dall’ascesa dei nazionalismi in Europa che adottarono politiche autarchiche limitando il multilateralismo degli scambi e mantenendo una certa apprensione per i pericoli connessi all’inflazione limitando pertanto l’azione delle politiche economiche espansive. Tuttavia, ogni preoccupazione per il controllo dei prezzi fu abbandonata alla metà degli anni trenta. La spesa pubblica aumenta e quella militare fu rafforzata. Le autocrazie attraverso la moderna repressione (Harrison 2014) acquisirono maggiore capacità fiscale e incrementarono le spese militari già dal 1930. I paesi maggiormente democratici e dotati di ampia capacità fiscale continuarono a sostenere la spesa militare ma i meccanismi di partecipazione democratica e il sistema dei controlli sulle scelte dei policy makers limitarono le spese in questo settore a vantaggio della spesa sociale.

Paragonando il differente grado di ripresa dei paesi europei ritroviamo tre regolarità che definiscono il comportamento dei regimi autocratici e di quelli maggiormente democratici, e che spiegano perché la ripresa dalla crisi del 1929 sia stata più lenta per i regimi autoritari. In primo luogo, il gap di capacità fiscale e quindi la capacità di fornire beni pubblici viene colmata dai regimi autocratici attraverso la moderna repressione. In secondo luogo, le maggiori entrate stimolarono in entrambe le tipologie di regimi politici le spese militari ma non quelle sociali. Infine, queste ultime furono invece determinate dal grado di democrazia, misurato dalla effettività della partecipazione politica e dei controlli agli esecutivi in carica. Sebbene non sia possibile fornire in questa sede una quantificazione degli effetti precedentemente indicati sulla crescita, il fatto che i regimi democratici siano stati in grado di fornire un maggior numero di beni pubblici e di migliore qualità ha certamente accelerato la ripresa delle democrazie (o meglio dei regimi meno autoritari) dell’epoca.

Conclusioni: New Deal, corporativismo fascista e conflitto mondiale

Era passato poco più di un decennio dalla fine della prima guerra mondiale e lo stato di salute del modo di produzione del capitale era fortemente compromesso, da qualsiasi punto di vista lo si prendesse in esame. Alla progressiva rarefazione dei sistemi politici democratico-borghesi, corrispondeva una violenta depressione che, originatasi negli Usa, rapidamente si era propagata, per le ragioni affrontate nel paragrafo precedente, in tutto il cosiddetto mondo “sviluppato”.
Il periodo che precedette dunque il secondo conflitto mondiale, fu uno dei più turbolenti che la storia recente del modo di produzione del capitale ricordi. Del resto, come già osservato, i germi della crisi economica, emersi alla fine del secolo xix, erano stati semplicemente allontanati, solo apparentemente debellati, e il primo conflitto mondiale da questo punto di vista non era stato sufficiente a garantire, tramite una significativa distruzione del capitale esistente, una florida nuova accumulazione. Le problematiche, dunque, affrontate dai governi europei e statunitensi consistevano nel tentare di ribaltare la spaventosa contrazione post 1929 da una parte (vedi tabelle 1 e 2) e dall’altra reprimere ogni velleità della classe subordinata di proporre un modello di società prossimo a quello sovietico che, nel frattempo, tra evidenti e gigantesche difficoltà, procedeva lungo la sua strada.

Nel dibattito sia storiografico che economico sulle modalità di fuoriuscita dalla crisi da parte dei diversi paesi si sono normalmente individuati due approcci spesso presentati come alternativi: si tratta, come è noto, da una parte del New Deal e dall’altro del Corporativismo fascista[2]. Se del primo si è già parlato nel paragrafo precedente, è opportuno, prima di procedere ad un efficace confronto, analizzare in maniera molto rapida le caratteristiche costitutive provando ad evidenziare le linee guida di quello che da alcuni veniva presentato come “terza via” ossia come approccio alternativo sia alla pianificazione sovietica che al capitalismo.

Come del resto l’etimologia stessa richiama, il “corporativismo” si basa su una collaborazione tra le classi (corpus, trad. lat.), ossia dall’ipotesi di qualsiasi annullamento di conflitto tra capitale e lavoro dando per assodato che gli interessi dei due gruppi possano essere del tutto compatibili e dunque, come un corpo,  con testa (capitale) e braccia (lavoro), abbiano la possibilità di collaborare armoniosamente[3]. Per questa ragione l’introduzione di una nuova Carta del lavoro fascista fu fondamentale poiché capace di istituire una nuova regolazione del rapporto capitale\lavoro; come riportato coerentemente in un articolo redazionale pubblicato su Fortune nel 1934 (si veda anche Dorelli, 1995), essa è da considerare alla stregua di una Magna Charta economica. Si tratta di “un vasto statuto di diritti e specialmente di doveri del lavoro e del capitale, che tutti devono leggere e che lo stato può interpretare per i suoi propri e scoperti scopi. Secondo la Carta, i salari e le condizioni di tutto il lavoro sono fissate da contratti - estremamente dettagliati - negoziati dai lavoratori e dagli imprenditori e fatti valere dallo Stato”; il lavoro diviene un dovere sociale, mentre l’iniziativa privata è esaltata a tal punto che viene individuata come il più valido ed efficace strumento per lo sviluppo della nazione. Dal punto organizzativo diviene fondamentale la suddivisione in corporazioni (22), mentre il sindacalismo viene visto come una pericolosa spina nel fianco della produzione di merce: anche per questo ogni tipologia di diritto di sciopero è del tutto eliminata. Di fatto, lo stato corporativista lavorava “come una camera di commercio degli Usa o come il ministero per il commercio di Hoover. Ma con molta maggiore autorità. Sebbene il presidente Hoover (non il ministro) e Mussolini abbiano idee simili sul ruolo dell’iniziativa privata, la grande differenza circa il rapporto tra stato e industria è che Mussolini la considera come un onorevole matrimonio, mentre Hoover la considera - o è costretto politicamente a considerarla - come un’unione illecita”. Insomma, per concludere: “Il fascismo favorisce il capitale? È evidente come queste caratteristiche dello stato corporativo, unitamente al suo pieno controllo sul lavoro, si risolvano in una rilevante pianificazione economica”. Del resto anche lo stesso Mussolini (si veda Dorelli, ibidem), osservava questa vicinanza ideologica in un articolo preparato per lo United States Universal Service, poi pubblicato nel 1933 sul Popolo d’Italia (organo di stampa fascista): “mentre il Fascismo ha innovato profondamente, Roosevelt non affronta, nel suo libro, nessuno di questi problemi e cioè il riconoscimento giuridico dei sindacati operai e padronali, il divieto di sciopero e di serrata, la magistratura del lavoro, le corporazioni, infine, nazionali e di categoria che devono portare le categorie, sotto l’egida dello stato, al proprio self-governement. Il Roosevelt è ancora al sistema dell’intervento indiretto dello stato attraverso l’azione di commissioni più o meno permanenti, di carattere politico od amministrativo. L’atmosfera nella quale tutto il sistema dottrinario e pratico si muove è certamente affine a quella del fascismo”. Le due opinioni in merito sembrano sufficientemente emblematiche e sono avvalorate dai risultati conseguiti che, ovviamente andarono in direzioni analoghe. In Italia e in Germania, il grande capitale trasse molto giovamento dalle riforme fasciste (si veda anche Grifone, 1981 e Guerin, 1957); il divieto di sciopero considerato alla stregua di un delitto contro la collettività, l’abolizione dei sindacati, la sostituzione dei salari nazionali con quelli contrattati a livello aziendale; l’aumento indiscriminato dei ritmi di lavoro; l’istituzione della giornata di lavoro più lunga (9a ora) inevitabilmente furono elementi che garantirono un’accumulazione più importante, senza pensare al lavoro gratuito che in Germania milioni di individui erogavano all’interno di campi di concentramento. Il risultato fu evidente in Italia: salari nominali -50% tra il 1927 ed il 1932: -70% tra il 1927 ed il 1935; ma altrettanto avvenne tra i tedeschi, dove i salari nominali crollarono del 35% nei primi due anni di governo Hitler          consentendo a molte categorie di lavoratori di ottenere un salario più basso rispetto a quella che era l’indennità di disoccupazione durante il periodo della repubblica di Weimar e istituendo per legge che l’assistenza ai disoccupati venisse pagata dai lavoratori occupati e non dai proprietari delle condizioni oggettive di produzione.

Tuttavia, nonostante tutti questi artifizi, né il capitale Usa né quello Europeo riuscivano ad uscire dalla crisi. Come ammise anni dopo Douglas North, premio Nobel per l’economia: “Non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra mondiale”. Tra il 1935 ed il 1940 il numero di disoccupati non era significativamente cambiato (circa 10 mln di individui); dopo il 1937 la produzione industriale crollava del 27%; con l’inizio della guerra le cose cambiarono e in soli sei anni (1939-1945) la disoccupazione si ridusse dal 10% all’1%. Del resto il Grafico 1 è abbastanza emblematico da questo punto di vista e mostra ancora una volta come se ce ne fosse bisogno che la Seconda guerra mondiale fu uno scontro tra capitali, in cui gli Stati uniti si affermarono definitivamente, divenendo a tutti gli effetti la locomotiva del modo di produzione del capitale.

Figura 1 – Pib per paese (1919-1945) 

Fonte: Nostra elaborazione su dati Maddison (2003)


[1] Titolo di una celebre canzone fascista che, non a caso, incitava principalmente alla distruzione dei comunisti e dei bolscevichi. Il testo completo è rinvenibile al sito: https://it.wikisource.org/wiki/All%27armi_siam_fascisti
[2] In questo caso si prenderà in esame il caso italiano, sebbene poi lo schema sia stato sostanzialmente condiviso anche dalla Germania nazista.
[3] Per quanto non sia stato mai affermato direttamente, comunque il riferimento al corpus, si colloca in continuità con il discorso di Menenio Agrippa sul Montesacro durante la rivolta dei plebei nel v secolo a.C.

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