**Sapienza, Università di Roma. mauro.rota@uniroma1.it
Il primo conflitto mondiale ha rappresentato per il modo di
produzione del capitale uno degli eventi più di rilievo dal momento della sua
nascita. La grande crisi originatasi nel Regno Unito a partire dal 1870 – e
proseguita per almeno due decenni – aveva mostrato con chiarezza che, a
differenza di quanto molti studiosi avessero teorizzato, il capitalismo fosse
tutt’altro che un sistema perfetto e proiettato verso una produzione infinita
(Lenin, 1916) ma che, al contrario, potesse incappare in problematiche persino
contraddittorie e potenzialmente irrisolvibili a meno di un intervento poderoso
dello Stato all’interno del libero mercato (Gallagher e Robinson, 1953).
Dunque, il primo conflitto mondiale estrinsecò i suoi drammatici eventi
all’interno di un contesto europeo dominato da una sensibile ostilità tra le
nazioni che storicamente avevano governato il processo di sviluppo del capitale
e quelle di nuova formazione (Germania in
primis) e soprattutto in una condizione assai critica dal punto di vista
dell’accumulazione; tale situazione era particolarmente compromessa per quel
che riguarda il capitale britannico che, proprio da qualche decennio, aveva
rafforzato sensibilmente il proprio processo di espansione, attraverso
esportazione di capitale (investimenti diretti esteri o speculativi) nei
territori controllati attraverso il Commonwealth e nei dominions più in generale, conosciuto anche con il nome di imperialismo
(Hobson, 1903, Brignoli, 2010, Rota e Schettino, 2011).
Il primo conflitto mondiale fu il frutto di una lotta necessaria
al ristabilimento egemonico, in termini di dominio commerciale e politico,
dell’Europa e del mondo, in senso più ampio. Da questo punto di vista, il ruolo
degli Usa fu di fondamentale rilievo. Proprio in questo periodo si inizia a
concretare quell’ideale passaggio di consegne – avvenuto con gradualità, come
sarà spiegato più avanti – dal Regno Unito agli Usa nel ruolo di paese guida e
locomotiva dell’intero sistema economico. Ma, come è logico, a fronte di una
cordata di vittoriosi, corrispondono altrettanti perdenti e tra questi c’era la
Germania che da quel momento in poi si trovava ad affrontare – anche a causa
degli ingenti debiti scaturenti proprio dall’esito del conflitto – una
situazione particolarmente drammatica per quel che concerne sia lo status economico, che per il morale del
popolo tedesco deliberatamente umiliato dalle risoluzioni dei trattati
conclusivi del primo conflitto mondiale.
Il cosiddetto “primo dopoguerra” assume pertanto tutti i
connotati di instabilità causati da un veemente cambiamento degli equilibri del
modo di produzione del capitale che nei secoli passati si erano stabilizzati su
determinate direttrici. La povertà diffusa in molti paesi del vecchio
continente e tutti gli episodi drammatici che sono propri di ogni conflitto
armato, sono elementi che non possono essere tenuti scissi da un altro episodio
di straordinaria importanza storica e politica, che ha segnato l’epoca storica
in oggetto, ossia la rivoluzione bolscevica del 1917. La presa del potere da
parte di Lenin e del suo partito in un paese così straordinariamente esteso,
attraverso uno spettacolare atto rivoluzionario, mutò drasticamente la visione
del mondo per le classi proletarie, come per quelle dominanti giacché, per la
prima volta nella storia, trovava concretezza all’interno dell’Europa e su un
territorio sterminato, esteso anche al continente asiatico, un’idea di
produzione che potesse prescindere dalla proprietà privata dei mezzi di
produzione. Il socialismo diveniva realtà e abbandonava il terreno del
dibattito teorico, su cui si era formato per lunghi decenni, fornendo,
pertanto, per milioni di lavoratori del vecchio continente un’ipotesi
alternativa a quella dello sfruttamento capitalista, seguendo la sistematizzazione
scientifica operata da Marx ed Engels nella seconda metà del xix secolo (Marx e
Engels, 1848; Engels, 1878).
Il mondo del primo dopoguerra era denso di sensazioni d’irrequietezza
come se la “grande guerra” di fatto, invece di risolvere, in senso hegeliano, i problemi endemici del modo
di produzione del capitale (emersi con la crisi britannica) ne avesse creati di
altri e di molto rilevanti, non ultimo l’affermazione del socialismo in uno dei
paesi più importanti della scena mondiale – anche in termini di risorse
minerarie – per quanto non certo all’avanguardia dal punto di vista dello
sviluppo tecnologico\produttivo.
Il punto di partenza concettuale di questo articolo è
proprio il seguente: comprendere le conseguenze della prima guerra mondiale, e
della nascita del primo stato socialista, per capire lo sviluppo politico e
quindi economico del ventennio che è intercorso tra le due guerre, coniugando
tali considerazioni con la crisi del 1929, le sue cause, e con le successive politiche
messe in atto per tentare di fuoriuscire dal pantano in cui il modo di
produzione capitalistico, nuovamente, dopo solo meno di mezzo secolo e
nonostante una guerra mondiale, si era nuovamente trovato. Nella prima parte si
forniranno degli elementi di approfondimento relativi alle vicende politiche e
sociali che hanno seguito il primo conflitto mondiale, sottolineando da una
parte l’importanza delle vicende sovietiche e dall’altra la contemporanea
emersione del nazifascismo in molti paesi del vecchio continente; nel paragrafo
successivo, si presenterà una fisiologia della grande depressione a cui seguirà
una sezione in cui si individueranno i tentativi di fuoriuscita dalla stessa,
con un focus puntato in maniera
particolare sulla spesa pubblica e su quella militare. Le conclusioni delineeranno
un quadro complessivo degli elementi che sono risultati essere
straordinariamente importanti per la definizione del secondo, violentissimo,
conflitto mondiale.
“All’armi siam
fascisti!”[1]
L’episodio del 1917, ossia la presa del potere dei
bolscevichi e la contemporanea nascita del primo stato socialista della storia,
non poteva che generare delle formidabili ripercussioni sull’assetto economico
e politico dell’Europa e del mondo più in generale. Avvenuto, probabilmente non
a caso, nel momento di maggiore conflittualità, fino a quel momento, tra i
capitali da una parte in difficoltà di accumulazione e dall’altro disposti a
guadagnare (o a difendere) un ruolo egemone nello scacchiere produttivo
mondiale, la prospettiva stessa dell’esistenza di un grande stato governato da
un modo di produzione differente (e superiore, in senso hegeliano) da quello
capitalista, necessariamente creò allarme nei paesi locomotiva del modo di
produzione dominante.
La fine della guerra, avvenuta relativamente dopo poco tempo
dalla rivoluzione bolscevica, restituiva un’Europa devastata da tutti i punti
di vista. Il tributo di sangue, spaventosamente elevato (anche se da questo
punto di vista, per nulla comparabile con quanto avvenne poco più di venti anni
dopo), la povertà e la disoccupazione che conseguirono necessariamente alla
riconversione industriale (da militare a civile), nonché una significativa
insofferenza da parte di molti reduci del conflitto, sono elementi che, accumulatisi,
restituirono in molte nazioni una condizione politico\sociale frammentata,
priva di quella coesione di cui il capitale, come sistema produttivo,
normalmente si alimenta. Il processo di proletarizzazione generato da cinque
lunghi anni di guerra si era profondamente radicato, soprattutto in alcune zone
d’Europa: ma alle pressanti domande delle classi più umili, colpite da fame e
dall’esperienza diretta del conflitto – spesso e (mal)volentieri ricordato
quotidianamente dalla perdita di uno o più maschi di famiglia – i sistemi
liberali non sembravano riuscire a fornire le adeguate risposte. D’altra parte,
per quanto riguarda la Germania, le vessatorie condizioni di Versailles
restituirono un quadro ancor più scombinato e denso di rabbia. Fu in questo
tipo di humus (declinato,
chiaramente, in ogni singolo Stato in maniera peculiare) che si alimentò
fortemente il fascino di sistemi politici alternativi a quelli vissuti da
alcuni decenni.
Le notizie che
giungevano dalla costituenda Urss (nonostante le grandi iniziali difficoltà
incontrate da Lenin e dal gruppo dirigente rivoluzionario) – che parlavano di
un socialismo “scientifico” finalmente instaurato e capace di eliminare le
classi, ossia il dominio dei padroni sui lavoratori, in nome di due concetti
(pane e pace) che stavano profondamente a cuore di tutto il proletariato
dell’intero vecchio continente (e non solo) – sospinsero ad un livello mai
raggiunto l’insofferenza popolare contro i vecchi sistemi di potere borghese
(siano essi liberali di destra o di sinistra). Come è noto, tale processo
estrinsecò i suoi più importanti effetti non nell’immediato ma in tutto nel
ventennio che seguì la fine del primo conflitto mondiale. Infatti, se nel 1920
quasi tutte le nazioni europee erano governate secondo principi (più o meno)
liberali, un ventennio dopo le cose erano profondamente mutate. La
polverizzazione dei sistemi elettivi costituzionali fu spaventosa, soprattutto
negli anni trenta: se a principio della decade ‘20, in Europa se ne contavano
40, già nel 1938 il numero si era più che dimezzato (17), giungendo a 12 alla
fine della guerra. Per le medesime ragioni, complice anche l’invasione nazista,
nel ventennio 1922-1944, le istituzioni politiche borghesi-democratiche
funzionavano solo in un pugno di nazioni in tutto il mondo. In Europa, fecero
eccezione unicamente Gran Bretagna, Finlandia, Irlanda, Svezia e Svizzera; in
America, Canada, Costarica, Usa ed Uruguay (Hobsbawm, 1992).
Accanto all’idea molto diffusa nelle classi dominate della
possibile socializzazione dei mezzi di produzione, spesso e volentieri in sua palese
opposizione, cominciarono ad alimentarsi pesantemente altre esperienze di estrema
destra, con connotati sostanzialmente diversi rispetto a quelli classici del
nazionalismo europeo. Come è noto, l’articolazione temporale della presa del
potere da parte di Salazar, Mussolini, Hitler e Franco, rispettivamente in
Portogallo, Italia, Germania e Spagna (solo per citare i casi più famosi e
tralasciando le analoghe esperienze dell’est Europa solo per questioni di
spazio), fu molto ampia e abbracciò più di un decennio. Alla stessa maniera, la
declinazione politica inflitta dai rispettivi regimi aveva in comune il chiaro
rifiuto delle istituzioni democratiche-borghesi (ma solo in apparenza, come
sarà esplicitato più dinanzi), il legame con polizia ed eserciti (e talvolta
con corpi paramilitari formatisi illegalmente tra i reduci scontenti del primo
conflitto mondiale), l’adesione incondizionata al nazionalismo (anche se, come
già detto, in maniera diversa rispetto al passato) e soprattutto un chiaro e
forte sentimento antibolscevico, collocandosi, dunque, in palese opposizione
con l’esperienza sovietica e con tutti quei gruppi\partiti che ispirandosi al
socialismo (o al comunismo) consideravano la rivoluzione russa come il punto
iniziale di un fenomeno di portata mondiale che avrebbe condotto l’umanità al
superamento dialettico del modo di produzione del capitale, ossia
all’emancipazione della classe proletaria mondiale dal giogo coercitivo della
borghesia.
In particolare in Italia, in Germania e in Spagna, furono numerosi
i segnali, per quanto giunti con modalità e tempi differenti, di un profondo
radicamento della classe lavoratrice a partiti socialisti e comunisti che
dichiaratamente si collocavano in continuità con l’esperienza bolscevica.
Essendo uno Stato di recente formazione (conclusasi con la
definitiva liberazione di Roma il xx settembre 1870) e ancora molto eterogeneo
dal punto di vista economico, sociale e politico (noto e diffuso era il motto
“fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, coniato qualche anno prima da
Massimo D’Azeglio) l’Italia giunse al primo conflitto mondiale in una situazione
profondamente contraddittoria, con larghi strati della popolazione che non
nascondevano le proprie perplessità alla partecipazione nella stessa. Il
sodalizio tra il grande capitale del nord e i latifondisti del sud, architrave
del nuovo stato nazionale (Gramsci, 1926; Salvemini, 1955), per quanto avesse
assicurato una sostanziale polverizzazione di gruppi sociali\politici in
opposizione con il costituendo nuovo stato (un esempio è la guerra al
brigantaggio meridionale che fu particolarmente violenta e, secondo molti
studiosi, è alla base della formazione delle organizzazioni criminali moderne,
tra cui la mafia; De Jaco, 2005), comunque era ben lungi da garantire una
omogeneità nel paese in grado di sostenere un evento drammatico come quello
della prima guerra mondiale. Il ritardo nell’entrata nel conflitto, così come l’episodio
della cosiddetta “disfatta” di Caporetto, sono solo due episodi – probabilmente
i più noti – che di fatto erano figli di tale situazione socio-politica. Una
Italia spaccata almeno in due parti non poteva non rappresentare un problema
per uno Stato moderno di tipo borghese e, specie per la destra nazionalista, quello
bellico sarebbe dovuto essere proprio l’episodio in grado di elevare lo spirito
patriottico ad un livello superiore garantendo così la generazione di un
collante altrimenti difficile da sviluppare. I risultati, da questo punto di
vista, si fecero attendere e furono molti gli episodi in cui si palesarono, con
tutta la loro violenza, le distanze incolmabili innanzitutto tra classi
(generali, prevalentemente di origine borghese, versus soldati semplici, perlopiù proletari e braccianti) e anche
tra le centinaia di culture a cui appartenevano molti membri dell’esercito (non
a caso si parla dell’Italia come paese dei campanili).
Ad ogni modo, la fine del primo conflitto mondiale evidenziò
in maniera profonda tutte le incapacità politiche dei governi precedenti
(Crispi e quelli guidati da Giolitti) di individuare tali problemi e di tentare
di affrontarli con ragionevolezza: il fatto stesso che solo qualche anno prima
Giolitti avesse dichiarato alla Camera dei deputati che “Carlo Marx è stato
mandato in soffitta” (Giolitti, 1911) è significativo dell’incapacità di
comprendere le necessità e le volontà della classe subordinata. Di fatto, l’uso
della repressione fu l’unico strumento utilizzato per rispondere alle esigenze
della classe lavoratrice che, nella prevalenza del territorio italiano, viveva
in condizioni di spaventosa povertà ed indigenza (e da questo punto di vista
sembra importante ricordare come gli scarsi risultati forniti dalla violenta
coercizione furono la causa dello scellerato patto stipulato proprio da
Giolitti con fascisti e nazionalisti nel 1921 in chiave anti socialista). Ciò
non avveniva, come immaginabile, solamente nel Mezzogiorno, ma anche nel nord,
il cui tessuto industriale ed agricolo, già ai primi del secolo xx, iniziava ad
assumere connotati di sviluppo simili a quelli della zona centro\settentrionale
del continente. La formazione e il forte rafforzamento del partito socialista
(e delle leghe, prima del suo riconoscimento a livello legale) dall’inizio del
secolo furono fenomeni che bene rappresentarono le terribili condizioni di
grandi masse di braccianti e dei lavoratori delle fabbriche. Gli scioperi, che
divennero sempre più frequenti e partecipati, venivano repressi nel sangue
dall’intervento delle forze armate o dall’esecuzione (del tutto iniqua) delle
sentenze della magistratura; ciò, come spesso avviene in questi casi, generò il
risultato opposto di coalizzare la classe subordinata attorno all’ideale del
socialismo. Inoltre, lo straordinario successo della rivoluzione d’ottobre e
l’eco della sostanziale decapitazione della classe proprietaria in Russia, rafforzarono
ulteriormente la spinta rivoluzionaria socialista e, conseguentemente,
generarono sempre più frequenti momenti di forte conflittualità di classe che
il potere borghese individuava come disordini di cui doversi liberare con
rapidità. Del resto, con una situazione economica rapidamente deterioratasi e,
pertanto, con difficoltà di accumulazione in molte branche produttive, il
capitale non poteva permettersi un proletariato poco mansueto. In alcune zone
d’Italia, la situazione era pressoché incontrollabile e le vittorie elettorali
socialiste del resto stavano a rappresentare una volontà delle classi più umili
di avvicinarsi ad un sistema politico\economico come quello appena istaurato Lenin
e dal gruppo dirigente. Si parlava in quel periodo esplicitamente dell’auspicabile
momento rivoluzionario che potesse dar continuità ad un processo più ampio che
coinvolgesse anche la Germania, per aggirare l’inevitabile isolamento in cui si
sarebbe trovato un solo paese socialista all’interno del mondo dominato da un
modo di produzione come quello capitalistico (Carr, 1964). Oltre agli scioperi
e agli altri fenomeni tipici del conflitto di classe in una fase molto
avanzata, l’episodio che maggiormente fece tremare il potere fu l’espansione a
macchia d’olio (soprattutto nel nord) dell’occupazione operaia delle fabbriche,
e della conseguente gestione delle stesse che tra il 1919 ed il 1920 fece
pensare ad una situazione prerivoluzionaria.
Il Biennio rosso (come successivamente è stato definito)
inevitabilmente spaventò la classe dominante italiana e ad essa fu chiaro che
la prima guerra mondiale, così come la rivoluzione bolscevica, fossero episodi
che avevano mutato profondamente le aspirazioni e i comportamenti dei
lavoratori italiani, sino a renderli pericolosamente ingestibili. I governanti
che si erano alternati sin dal 1870 non erano più in grado di amministrare la
situazione, garantendo il capitale (sia di piccolo che di grande dimensione) e,
per questa ragione, fu lampante la necessità di un avvicendamento significativo
che potesse dare una scossa al sistema e, con le buone o le cattive, eliminasse
quel senso di disordine presente a tutti i livelli ricollocando, soprattutto, le
classi più umili nel posto che è concesso in un sistema del capitale, quello
della subordinazione. Il cosiddetto Biennio rosso (per una discussione più
ampia si veda tra gli altri anche dalla Casa,1982; Evangelisti, 2013 e 2014))
fu largamente inteso come un periodo che preparava alla rivoluzione socialista.
Il livello di conflittualità si era ormai stabilmente trasferito dalle campagne
romagnole al sistema industriale del nord del paese: si conta che durante il
periodo di occupazione delle fabbriche, fossero coinvolti, sia come operai che
come “guardie rosse” quasi mezzo milione di individui, una massa assolutamente
sconvolgente per la borghesia italiana (Spriano, 1971). Per di più, le adesioni
quasi totali dei lavoratori agli scioperi generali proclamati con frequenza,
nonché le vittorie in campo elettorale del partito socialista, erano tutti
segnali che preludevano alla presa del potere da parte della classe subalterna.
Ma, come è noto, le cose non andarono in questa maniera in parte perché quei
problemi scaturenti dalle occupazioni che sarebbero dovuti essere gestiti dal
Partito socialista e dai sindacati furono aggirati giacché costoro
“capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in realtà
i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura
di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista” (Gramsci, 1926).
Ma c’è da aggiungere anche che, insoddisfatta della presunta debolezza del
governo Giolitti, la classe capitalista aveva ben inteso che, per contrastare
un’offensiva proletaria di tale livello sarebbe stato necessario un cambiamento
di governance netto che avrebbe
dovuto stroncare, eventualmente con la necessaria violenza, tale situazione che
era evidentemente di natura prerivoluzionaria.
Il fatto che dapprima il grande capitale, a differenza dei
proprietari terrieri, avesse diffidato di Mussolini e del movimento\partito
nazionale fascista risiede probabilmente nelle sue origini e nel fatto che tale
movimento, all’inizio, non avesse una chiara caratterizzazione politica
accogliendo al suo interno una eterogeneità estremamente ampia di soggetti. Del
resto Mussolini, era un uomo politico che sin da bambino aveva respirato l’aria
delle battaglie sanguinose in cui i braccianti romagnoli si erano fieramente
contrapposti alla violenza economica e politica dei latifondisti e, più in
generale dei proprietari terrieri che dalla fine del secolo xix si erano
combattute causando vittime (soprattutto dalla parte della classe subordinata)
con cadenza quasi quotidiana. Non è un caso che Mussolini fosse figlio di
Alessandro Mussolini, uno dei socialisti più preparati, impegnati e in vista: i
suoi tre nomi propri, Benito, Amilcare ed Andrea rappresentavano Benito Juarez
(rivoluzionario messicano), Amilcare Cipriani (secondo socialista eletto nel
parlamento italiano) e Andrea Costa (primo socialista eletto nel parlamento
italiano). Come noto, del resto, Benito Mussolini fu per un periodo
sufficientemente lungo un uomo di punta dello stesso Partito socialista
italiano, essendo direttore dell’Avanti, nonché additato persino da Lenin come
potenziale traghettatore di una rivoluzione socialista in Italia (è nota la
famosa frase che il leader bolscevico
avrebbe pronunciato ad alcuni compagni socialisti italiani: “c’era un solo
socialista capace di guidare il popolo alla rivoluzione: Mussolini. Ebbene, voi
lo avete perduto e non siete capaci di ricuperarlo” (Buttignon, 2010).
Ad ogni modo, con gradualità, anche il grande capitale (come
si vedrà nella parte conclusiva di questo articolo) comprese che la dittatura
fascista potesse rappresentare l’unica alternativa in grado di eliminare definitivamente
il rischio bolscevico; secondo la classe dominante era necessario dare una
forte ridimensionata, utilizzando persino i più che noti strumenti coercitivi
(militari e di propaganda), alla classe lavoratrice che in quegli anni, secondo
la classe capitalista, aveva osato troppo. Del resto, se si osservano le
principali correnti del fascismo, si può obiettivamente vedere come fossero
profondamente distanti politicamente su ogni aspetto a parte su un punto in cui
non esisteva alcun dubbio: l’antibolscevismo (su questo punto si veda anche
Tarquini, 2011).
Come si diceva, fenomeni simili, ma con una fenomenologia
differente nella forma, per quanto riconducibili alla stessa sostanza, sono
avvenuti con tempistiche molto diverse anche in altri paesi come la Germania,
la Spagna e persino negli Usa. Senza voler entrare nel dettaglio di ogni
singola esperienza, per ragioni di spazio, è importante sottolineare come, per
quanto scaglionate nel tempo, l’ascesa del nazismo, il colpo di stato
franchista e la “normalizzazione” del movimento sindacale e politico comunista
statunitense (Coggiola, 2001), sono stati rappresentanti di una lotta di classe
portata avanti con veemenza da alcune componenti delle borghesie nazionali (su
cui, progressivamente hanno finito per convergere tutti gli appartenenti alla
classe dominante) e vinta dal capitale sul lavoro, in attesa della futura
contrapposizione a livello intra-classista, ossia di conflitto tra fratelli nemici che nella seconda guerra
mondiale è esploso in tutta la nota violenza. Gli episodi delle brutali
uccisioni di principali esponenti del Kpd (Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht)
avvenne non per caso proprio nel momento in cui una rivoluzione proletaria
sembrava materialmente possibile, ossia qualche giorno dopo la sollevazione
spartachista (gennaio 1919) repressa nel sangue proprio da un governo
socialdemocratico. E che ciò accadde per mano dei Freikorps che rapirono, torturarono ed infine eliminarono i due
esponenti comunisti, non è una cosa che stupisce. Da questo punto di vista non
è un dettaglio che proprio nei Freikorps
militarono molti di coloro che, solo qualche anno dopo, divennero le colonne
portanti del sistema politico nazista (in particolare si annoverano, tra i
tanti, Ernst Röhm, vertice delle Sturmabteilungeno,
SA e Rudolf Höß, comandante del campo di concentramento di Auschwitz).
Qualcosa di ancora diverso, ma sostanzialmente assimilabile,
avvenne nella penisola iberica: a seguito della nascita della seconda
repubblica spagnola, coincisa con le “dimissioni” del re (Alfonso xiii), nel
1931, le elezioni politiche del 1936 sancirono la vittoria dei partiti di
sinistra che seppero unirsi in quello che è conosciuto come Fronte Popular,
composto da Izquierda Republicana, PSOE, PCE, POUM (Partido Obrero de
Unificación Marxista) e Esquerra Republicana de Catalunya. Nel frattempo, la
borghesia europea continuava a vedere con ovvia diffidenza l’affermarsi del
potere sovietico in Russia e, nonostante la recente affermazione di Hitler in
Germania e del fascismo in Italia avesse di fatto soppresso nel sangue gran
parte delle possibilità di una rivoluzione bolscevica su scala continentale
come auspicato anche da Lenin, l’esito delle elezioni democratiche spagnole fu
seguito con attenzione anche dal capitale e dai suoi rappresentanti politici di
Francia, Uk e Usa. Sul ruolo cruciale degli eserciti nazisti e fascisti a
favore del colpo di stato franchista e della successiva guerra, si è già
dibattuto molto e in tanti hanno interpretato, per questo, il conflitto
ispanico alla stregua di una prova generale della seconda guerra mondiale. Ciò
che invece è stato posto molto meno in risalto è la mansione svolta dalla Gran
Bretagna e dalla Francia nel periodo che va dalla formazione del Fronte
popolare alla presa definitiva del potere da parte dei franchisti. Del resto, i
rappresentanti della classe borghese, interessati profondamente agli
investimenti già esistenti in Spagna (soprattutto per quel che riguarda le
materie prima, vedi ad es. la Rio Tinto Company) e al conseguente commercio con
la penisola iberica, furono negativamente colpiti dalla vittoria elettorale del
Fronte Popolare, condividendo il pensiero emerso e spesso ribadito anche a
livello diplomatico secondo cui “dopo Kerensky c’è Lenin, non lo Zar” (Little,
1985). In altri termini, preso atto che il Fronte Popolare di per sé rientrasse
nell’ambito di un sistema economico\politico socialdemocratico, ciò che
spaventava era quel che sarebbe potuto accadere dopo (“Lenin”), ovvero una
prospettiva bolscevica più che tangibile in uno Stato chiave del vecchio
continente.
Per quanto tale espressione sia attribuibile ad un ambasciatore
britannico a Madrid, e sicuramente rispecchiasse il pensiero di un nutrito
gruppo di colleghi o di politici di cui era espressione, dire che Franco sia
stato voluto dal capitale britannico (o da quello Usa) sarebbe una deduzione
troppo frettolosa, specie se non avvalorata dalla giusta base analitica. Quel
che è certo è che la scelta politica, successivamente adottata dai paesi
dell’area sterlina-dollaro, di mostrarsi neutrali (Malevolent neutrality, Little ibid.)
all’interno di un conflitto che di fatto vedeva un governo democraticamente
eletto opporsi, attraverso resistenza pressoché popolare, ad un colpo di stato
militare di chiara e dichiarata origine fascista è una questione che ancora
cerca delle risposte di natura storica ed economica (nonché politica). Non va
dimenticato che, infatti, se al momento della nascita della seconda repubblica
spagnola, la situazione tedesca fosse ancora in movimento, nell’anno dell’alzamiento franchista Hitler era
già saldamente al potere. Quindi, il diniego di aiuto (politico, militare e,
soprattutto, economico) da parte di governi dichiaratamente ostili all’asse
fascista italiano-tedesco alla richiesta degli omologhi ispanici rimane senza
dubbio di natura ambigua. Del resto, un ruolo fondamentale negli esiti della
guerra di Spagna fu assunto dai finanziamenti e dalle armi (ed uomini) inviati
da Roma e Berlino per permettere la realizzazione di un vero e proprio colpo di
stato, ossia il sovvertimento dell’ordine democraticamente sentenziato con le
elezioni libere.
Dinanzi, ad un’avanzata di questo tipo, finanziata
illegalmente (de facto) da fascisti e
nazisti, la politica di neutralità di Francia-Usa-Uk fu anche essa illegale, poiché il diniego di
costoro di vendere armi ad un esercito regolare violava la normativa
internazionale. E la spiegazione di una così pesante decisione può essere
intesa solo se si tengono in considerazione gli affari che – violando, in
questo caso, la neutralità – alcuni capitalisti, soprattutto quelli legati ai
settori energetici riuscirono a fare con i franchisti (c’è da ricordare il
ruolo preminente delle materie prime spagnole tutte in territorio fascista; per
esempio sembra che la Spagna avesse quasi il monopolio del mercurio ecc.). Come
dimostrato (Hubbard, 1953 e Whealey, 1977), infatti, se si considera
complessivamente il flusso di finanziamento giunto da paesi legati alla
sterlina-dollaro ai fascisti spagnoli, esso rappresentò quasi il 15% del totale
(senza voler considerare quelli che indirettamente furono negati al governo
democraticamente eletto). Ciò non è poco, dal punto di vista quantitativo,
soprattutto se si tiene in considerazione che l’oro di Madrid era gestito dai
repubblicani e che, qualitativamente parlando, il petrolio che di contrabbando
veniva ceduto da società come Total ecc. si è rivelato cruciale per permettere
a Franco di far camminare carri armati e aerei, vincendo così la guerra civile.
Recentemente alcuni studi (Martin-Acena et al., 2014) hanno appurato che di
fatto le risorse giunte a repubblicani (tramite l’Urss) e fascisti siano state
le stesse, sostenendo che i franchisti abbiano vinto la guerra solo perché sono
stati più efficienti nella gestione della pecunia: tuttavia questa
interpretazione, che molto poco aggiunge ad una narrazione che ha all’interno
molti aspetti politici che vanno oltre un calcolo così limitato, dimentica di
affermare come da una parte l’elemento qualitativo (tipologia di merci fornite)
fosse cruciale; dall’altra che i paesi della sterlina-dollaro avessero assunto
(nonostante l’apparenza) un ruolo ben delineato con la propria malevolent neutrality. Molti storici
hanno letto nella guerra civile spagnola le prove generali della Seconda guerra
mondiale: tuttavia, anche in questo caso, c’è il sentore che essa, al pari
degli altri fascismi, sia stata generata da un comune sentimento
anti-bolscevico, condiviso trasversalmente dalla classe dominante di tutto il
continente, tesi del resto indirettamente avvalorata anche dalle dichiarazioni
dell’ultimo ministro degli esteri della Spagna repubblicana che poco prima di
capitolare affermò: “no one should be
able to deny that the collapse of the Spanish Republic was due to
Non-Intervention” (Little, ibid.).
Il Sistema
internazionale dei pagamenti: le “gabbie d’oro”
A livello europeo il principale problema economico da
fronteggiare al termine della Grande Guerra fu, come già detto, la
riconversione dall’economia di guerra alla produzione in tempi di pace. La
mobilizzazione delle risorse finalizzate al conflitto aveva prodotto
naturalmente uno squilibrio nella produzione con eccessi di offerta nei settori
legati allo sforzo bellico. La ricostituzione della produzione di pace
incontrava due ostacoli. Il primo era la resistenza dei produttori che avevano
ricavato extraprofitti dalle commesse pubbliche e che erano restii a nuovi
investimenti per riconvertire la produzione. Il secondo era di natura tecnica e
legato ai costi di riallocazione degli input produttivi rispetto alla nuova
composizione della domanda aggregata.
Il Gold Standard,
sistema internazionale dei pagamenti concepito nella seconda metà del XIX
secolo, fu sospeso allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il funzionamento
del sistema, basato sulla parità dei cambi attraverso l’aggancio all’oro,
richiedeva una stabilità politica ed economica che il conflitto non poteva, per
definizione, assicurare. Terminata la guerra, i governi delle potenze
vincitrici si affrettarono a suggerire la reintroduzione del Gold Standard. Tuttavia, l’instabilità
finanziaria, determinata dalla questione del pagamento dei danni di guerra
addebitati alla Germania e dalla contestuale problematica definizione della
restituzione dei prestiti interalleati avevano prodotto uno stallo della
circolazione dei movimenti di capitale e, attraverso questo, l’impossibilità di
ripristinare il sistema a cambi fissi. I
governi, d’altro canto, ritenevano ineludibile il ritorno al Gold Standard per ripristinare la
stabilità dell’economia internazionale. L’ortodossia nel Gold Standard poggiava sull’evidenza di quanto era accaduto nei
quattro decenni antecedenti la Prima Guerra Mondiale. La stabilità nei
meccanismi di pagamento a livello internazionale era il frutto della
flessibilità di prezzi e salari che si modificavano in funzione degli eccessi o
deficit di domanda, della leadership politica ed economica esercitata dalla
Gran Bretagna, e dalla cooperazione tra i paesi aderenti al sistema a cambi
fissi nel rispettare le regole di funzionamento del Gold Standard.
La leadership inglese si manifestava attraverso il complesso
sistema di connessione tra scambi internazionali sul mercato delle merci (Saul,
1960) e movimento dei capitali (Rota e Schettino, ibidem). Il commercio internazionale favoriva il movimento dei
capitali che erano per la maggior parte inglesi che, innalzando il reddito dei
paesi ricettori, generava domanda aggiuntiva per le stesse merci britanniche.
Contestualmente, grazie al movimento di merci e capitali i paesi erano
agevolati nel raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti e
l’onere del riaggiustamento era equamente ripartito tra paesi in deficit e
paesi in avanzo. L’evidenza storica ci suggerisce che furono tali condizioni a
garantire la stabilità dell’economia internazionale più che il sistema del Gold Standard.
Dopo il 1918, nessuno dei predetti elementi era all’opera.
La leadership economica e politica inglese si era indebolita e gli Stati Uniti
non avevano rimpiazzato gli inglesi nel ruolo di guida dell’economia mondiale.
Le forniture di liquidità al sistema internazionale si erano istantaneamente
arrestate con la fine del conflitto nel momento in cui gli Stati Uniti
cessarono le linee di credito bilaterali con i paesi alleati. La scarsa
disponibilità di capitali rendeva arduo il finanziamento dei deficit pubblici
che la guerra aveva lasciato in eredità. Comparativamente al periodo 1870-1913,
la spesa pubblica in rapporto al PIL era cresciuta e i governi si trovarono
nella condizione di doverla finanziare. Il ricorso all’emissione di debito era
limitato dall’offerta asfittica di capitali internazionali e si dovette con
frequenza ricorrere a un mix di stampa di moneta e incremento della pressione
fiscale. Il primo dei canali di finanziamento del debito è incompatibile con
l’ortodossia monetaria insita nel Gold Standard, aggiungendosi alle precedenti
condizioni per cui il ritorno al sistema dei cambi fissi non era un’opzione di
politica economica per i governi dopo il 1918.
Nuovo elemento d’instabilità era costituito dai debiti di
riparazione dei danni di guerra addebitati alla Germania con il Trattato di
Versailles del 1919. La Francia pretendeva di collegare la restituzione dei
prestiti agli Stati Uniti all’incasso dei risarcimenti dei danni di guerra
addebitati ai tedeschi, ingessando ulteriormente il flusso di capitali
internazionali. D’altro canto le dure condizioni accessorie imposte dal
Trattato di Versailles, e aspramente criticate da Keynes, rendevano, di fatto,
oltremodo oneroso il rispetto dei pagamenti da parte della Germania. Questa
deprivata di buona parte della sua capacità produttiva a causa dei danni
bellici e della confisca di ampie aree industriali non era nella condizione di
onorare il pagamento dei debiti. Il massiccio ricorso alla stampa di
cartamoneta, l’eccesso di debito e deficit tedesco si aggiunse alle già presenti
tendenze inflazionistiche in tutti i paesi europei, precipitando la Germania
nell’iperinflazione dal 1922 al 1924.
Esaurita la fase della riconversione delle economie belliche
il sistema del Gold Standard fu
reintrodotto dal 1924. Il passo fondamentale fu la stabilizzazione del Marco
tedesco con l’istituzione del Reichsmark e il suo ancoraggio al dollaro a un
cambio fisso e la ripresa dei pagamenti da parte della Germania verso i
creditori. La stabilizzazione, garantita da titoli della società tedesca ferroviaria,
pose le basi per il ritorno al Gold
Standard. Progressivamente, tale sistema fu ripristinato in Francia, Gran
Bretagna, Italia, tra le nazioni maggiormente avanzate. Solo il Giappone,
terminato il conflitto, non ancorò la moneta all’oro. La condizione necessaria
per il ritorno al Gold Standard fu la ripresa dei movimenti di capitale in
Europa e tra questa e gli Stati Uniti. Come già visto, i movimenti di capitale
erano essenziali per riequilibrare le bilance dei pagamenti e mantenere i tassi
di cambio stabili. Gli Stati Uniti dopo il 1924 tornarono a esportare capitale
in Europa e in Germania in particolare, alleviando le bilance dei pagamenti e
stimolando la ripresa della produzione industriale. Tuttavia, l’intrinseca
volatilità del capitale finanziario esponeva le economie dell’epoca a
fluttuazioni ampie della produzione industriale, in particolare per la
debolezza strutturale dei sistemi economici negli anni venti. Quanto debole
fosse la ripresa si evince dalla crescita episodica dal 1913 al 1929. La
produzione industriale crebbe dell’1,9% all’anno in Francia, dell’1,7% in
Italia, del 1,2% in UK e dello 0,7 in Germania. Essa fu inferiore alle decadi
antecedenti la Prima Guerra Mondiale e al periodo 1950-1971. In generale tutti
i paesi che parteciparono al primo conflitto crebbero meno dei paesi neutrali
senza riguardo se fossero usciti vincitori o sconfitti dalla Grande Guerra.
Fanno eccezione gli USA il cui tasso d’innovazione tecnica e la limitata
partecipazione al conflitto garantirono una crescita sostenuta e il Giappone.
Proprio il caso nipponico ci introduce al ruolo giocato dall’adesione al Gold
Standard. Il Giappone non ripristinò il sistema di ancoraggio all’oro dopo la
fine del conflitto e crebbe a tassi più sostenuti rispetto all’Europa.
L’assenza di “gabbie d’oro” consentì al Giappone di aggiustare la politica
monetaria e fiscale senza incorrere negli effetti pro-ciclici prodotti dalle
scelte di politica economica imposte dall’adesione al Gold Standard.
Le gabbie d’oro stavano preparando il terreno alla Grande
Depressione durante gli anni venti minando la crescita potenziale dei paesi
aderenti. Ne è esempio l’Italia che, con la svolta di Pesaro del 1926, aderì al
Gold Standard al tasso di novanta Lire per Sterlina, imponendo al paese una
dura deflazione ottenuta con politiche restrittive e un taglio del salario del
10% per decreto, possibile solo sotto regimi autocratici e repressivi.
Le vicende dei singoli paesi, brevemente riassunte prima,
contengono gli ingredienti essenziali per comprendere come le economie mondiali
siano scivolate nella Grande Depressione del 1929-1933. Le conseguenze
politiche ed economiche della Grande Guerra, l’adesione al Gold Standard e l’instabilità
del mercato dei capitali sono le tre con-cause che determinarono la Grande
Depressione e che furono tenute insieme da scelte di politica economica
inadeguate e guidate dall’ortodossia monetaria e fiscale di quegli anni.
L’interrogativo sulle cause della Grande Depressione che ha
assillato gli studiosi del periodo tra le due guerre ha generalmente trovato
risposta nella dimensione finanziaria della crisi stessa. La drammatica
riduzione dei corsi azionari di fine ottobre del 1929 ha rappresentato un’immagine
a lungo esaustiva della crisi e altrettanto taumaturgica è stata l’ipotesi di
generiche cause di debolezza strutturale dell’economia capitalistica. Entrambe
le letture appaiono incomplete. Il capitalismo è intrinsecamente instabile
nelle componenti reale e finanziaria, ma la Grande Depressione è qualcosa in
più. Senza il Gold Standard probabilmente la Grande Depressione sarebbe stata
più simile ad uno dei ricorrenti e ciclici squilibri tra domanda ed offerta
aggregata (Eichengreen 1992, Eichengreen and Sachs 1995), ma soprattutto, non
avremmo avuto la propagazione rapida della crisi.
Gli eventi che hanno portato alla crisi del 1929 traggono la
loro genesi dalla contrazione ciclica dell’economia americana del 1927
(Wheelock 1992). La Federal Reserve ridusse il tasso d’interesse e compié
robuste iniezioni di liquidità attraverso operazioni di mercato aperto.
L’eccesso di liquidità si trasferì sui mercati azionari e obbligazionari
gonfiando il corso dei titoli. Per contenere eventuali bolle da eccesso di
liquidità la politica monetaria della Fed ritornò su posizioni restrittive nel
Gennaio del 1928. L’incremento dei tassi stimolò il rientro dei capitali
statunitensi che, attratti dagli alti tassi d’interesse europei e tedeschi in
particolare, si erano in precedenza spostati in Europa. L’Europa si ritrovò a
corto di capitali proprio nella fase d’inversione del ciclo. Allo stesso tempo
i capitali affluiti negli Stati Uniti stavano gonfiando la bolla sui mercati
azionari che inevitabilmente sarebbe scoppiata. Ciò accadde nell’autunno del
1929 quando ci si rese conto che le sospensioni di profitto delle imprese
americane non erano in linea con i corsi azionari.
Nel precedente quadro macroeconomico il Gold Standard agì dunque
da amplificatore della crisi e da propagatore al tempo stesso. L’uscita di
capitali dall’Europa indusse i Governi a restringere la politica monetaria e
fiscale per impedire il deprezzamento delle valute nazionali e ripristinare
l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Le misure restrittive però
aggravarono la fase ciclica discendente, esacerbandola. Negli Stati Uniti la
politica monetaria già restrittiva ampliò le aspettative deflattive generate
dal contesto macroeconomico internazionale. In breve, l’economia
internazionale, imprigionata nelle gabbie d’oro, secondo l’efficace metafora di
Eichengreen, entrò in una fase permanentemente deflattiva.
Il decorso della crisi è noto e non ci fermeremo a rimarcare
l’ampiezza della caduta della produzione industriale e l’incremento della
disoccupazione con i suoi risvolti sociali. Basti ricordare che il Prodotto
interno lordo delle economie occidentali si contrasse del 15%, con alcune
differenze. Ad esempio il reddito diminuì in Gran Breatagna del 5% nel periodo
1929-1933, e del 26% negli Stati Uniti nel medesimo arco temporale (Crafts and
Fearon 2010). La crisi del 1929 si accompagnò a una riduzione dei flussi
commerciali a livello mondiale. La contrazione del commercio non derivò solo da
una diminuita domanda globale, data la fase di ampia recessione, ma può essere
ascrivibile all’ortodossia del Gold Standard (tavole 1 e 2).
Tabella 1 – Andamento di Produzione e prezzi
|
1929
|
1930
|
1931
|
1932
|
Prod. Ind.
|
|
|
|
|
Mondo
|
100
|
87
|
75
|
64
|
Europa
|
100
|
92
|
81
|
72
|
USA
|
100
|
81
|
68
|
54
|
Prod alim
|
|
|
|
|
Mondo
|
100
|
102
|
100
|
100
|
Europa
|
100
|
99
|
102
|
104
|
USA
|
100
|
102
|
103
|
100
|
Prod mat. Pr.
|
|
|
|
|
Mondo
|
100
|
94
|
85
|
75
|
Europa
|
100
|
90
|
82
|
73
|
USA
|
100
|
90
|
80
|
64
|
Prezzi
|
|
|
|
|
Alimentari
|
100
|
84
|
66
|
52
|
Mat. Prime
|
100
|
82
|
59
|
44
|
Industria
|
100
|
94
|
78
|
64
|
Fonte: Feinstein et al. (1997)
Tabella 2 – Commercio internazionale (1929-1932)
|
1929
|
1930
|
1931
|
1932
|
Valore a prezzi costanti
|
100
|
81
|
58
|
39
|
Volume
|
100
|
93
|
85
|
75
|
prezzi
|
100
|
87
|
68
|
52
|
Fonte: Feinstein et al. (1997)
Il deterioramento delle bilance dei pagamenti, di cui
abbiamo parlato precedentemente, indusse i governi a inasprire i livelli dei
dazi rendendo ulteriormente asfittico il commercio internazionale e aggravando
ancor più la bilancia dei pagamenti stessa. Le esportazioni a livello mondiale
si ridussero del 50%, toccando il minimo nel 1932 e con esse si ridussero anche
i prezzi dei beni commerciati. A tal proposito, si rileva che i prezzi delle
materie prime si ridussero più rapidamente e in misura maggiore dei prezzi
agricoli e ancor più rispetto ai prezzi dei beni industriali. Ancora una volta,
l’evidenza mostra che il Gold Standard agì da amplificatore della crisi e da
propagatore della stessa. I paesi produttori di materie prime e di beni
agricoli, data la diversa dinamica dei prezzi delle varie tipologie di beni,
s’impoverirono rispetto ai paesi industriali. In termini di diseguaglianza, la
crisi del 1929 allargò il divario tra i paesi agricoli e quelli industriali
oltre ad accrescere la distanza nei redditi all’interno di ciascun gruppo di
paesi.
La Gran Bretagna fu tra i paesi che soffrirono meno della
crisi se guardiamo al Prodotto Interno Lordo. Tuttavia, la disoccupazione più
che raddoppiò, passando dall’8% del 1929 al 17% del 1932. La politica economica
inglese mutò segno nel 1931 proprio per arginare la crescita della disoccupazione,
abbandonando il Gold Standard. In quell’anno quarantasette paesi avevano le
valute ancorate all’oro, mentre nell’anno successivo molti abbandonarono la
difesa della parità con le eccezioni della Francia, degli USA e del Belgio e di
pochi altri paesi minori. Per tutti i paesi che nel 1931 abbandonarono il Gold
Standard, la crescita nel periodo 1931-1935 fu maggiore rispetto a quella dei
paesi che continuarono a difendere la parità o che uscirono più tardi dai
vincoli delle “gabbie d’oro”.
Il primo ed immediato effetto dell’uscita dal Gold Standard
fu la fine delle aspettative deflattive e un moderato aumento dei prezzi.
L’inflazione svalutò i tassi di cambio e le esportazioni ricominciarono a
crescere. Il commercio internazionale rinvigorì sebbene nel 1937 l’indice delle
esportazioni era il 90% rispetto allo stesso indice del 1929. A frenare la
ripresa degli scambi, fu la preferenza dei paesi per il bilateralismo negli
scambi e per la preferenza a commerciare con le colonie, tipicamente nel caso
inglese, più che per il multilateralismo negli accordi commerciali (Crafts e
Fearon 2010). La fitta rete di scambi del periodo antecedente la prima guerra
mondiale non era un’opzione nell’agenda dei policy
makers degli anni trenta. Furono in particolare i regimi autoritari,
Fascismo, Nazismo e il nazionalismo Giapponese a perseguire politiche
autarchiche privilegiando gli scambi bilaterali anziché una rete globale del
commercio internazionale.
Liberi dai vincoli del Gold Standard, i governi avviarono
politiche espansive sia dal lato fiscale che da quello monetario. La loro
relativa efficacia per la ripresa economica è tuttavia dibattuta. Gli aspetti
monetari sembrano prevalere rispetto a quelli fiscali. La crescita dell’offerta
di moneta diede spazio alle banche di incrementare il credito e ripristinare
gli equilibri finanziari delle imprese. Lo stesso sistema bancario che
sperimentò fallimenti e crisi di liquidità durante il periodo 1929-1931
beneficiò dell’aumentata offerta di moneta. Al contrario, gli stimoli di natura
fiscale non appaiono della stessa efficacia nella ripresa degli anni 1932-1938.
Il New Deal promosso da Roosvelt e spesso citato come esempio di strategia di
politica economica efficace non fu un’azione di stampo Keynesiano. La spesa
pubblica non fu finanziata in deficit ma da maggiori tasse, e a conti fatti lo
stimolo del New Deal alla ripresa non deve essere enfatizzato da questo punto
di vista (Fishback 2010). In particolare il New Deal, operò in due fasi. Nel
primo periodo, fino al 1935, prevalse l’idea di restringere la competizione e
di tenere i salari elevati per decreto nella convinzione che entrambe le misure
avrebbero mantenuto i prezzi elevati eliminando la deflazione. Gli effetti non
furono apprezzabili e nel 1935 fu attivata la seconda fase del New Deal
finalizzata a introdurre maggiore competizione nei mercati, tuttavia
bilanciandone gli effetti attraverso la sviluppi della nascita e consolidamento
dei sindacati (Wagner Act del 1935).
Il dibattito sugli effetti complessivi del New Deal verte
sulla grandezza degli stimoli complessivi indotti che, in ultima analisi,
furono modesti. Il principale motore della ripresa fu, in ultima istanza, il
cambio nel regime delle aspettative che dal 1931 percepirono l’inflazione come
un evento più probabile della deflazione. Come argomentato da Eichengreen e
Sachs (1995) questo meccanismo fu comune a molti paesi e a quelli Europei in
particolare. Al confronto con gli USA, Lo stimolo fiscale e quello monetario
furono marginali in Europa.
Una possibile chiave di lettura è offerta dall’ascesa dei
nazionalismi in Europa che adottarono politiche autarchiche limitando il
multilateralismo degli scambi e mantenendo una certa apprensione per i pericoli
connessi all’inflazione limitando pertanto l’azione delle politiche economiche
espansive. Tuttavia, ogni preoccupazione per il controllo dei prezzi fu
abbandonata alla metà degli anni trenta. La spesa pubblica aumenta e quella
militare fu rafforzata. Le autocrazie attraverso la moderna repressione
(Harrison 2014) acquisirono maggiore capacità fiscale e incrementarono le spese
militari già dal 1930. I paesi maggiormente democratici e dotati di ampia
capacità fiscale continuarono a sostenere la spesa militare ma i meccanismi di
partecipazione democratica e il sistema dei controlli sulle scelte dei policy
makers limitarono le spese in questo settore a vantaggio della spesa sociale.
Paragonando il differente grado di ripresa dei paesi europei
ritroviamo tre regolarità che definiscono il comportamento dei regimi autocratici
e di quelli maggiormente democratici, e che spiegano perché la ripresa dalla
crisi del 1929 sia stata più lenta per i regimi autoritari. In primo luogo, il
gap di capacità fiscale e quindi la capacità di fornire beni pubblici viene
colmata dai regimi autocratici attraverso la moderna repressione. In secondo
luogo, le maggiori entrate stimolarono in entrambe le tipologie di regimi
politici le spese militari ma non quelle sociali. Infine, queste ultime furono
invece determinate dal grado di democrazia, misurato dalla effettività della
partecipazione politica e dei controlli agli esecutivi in carica. Sebbene non
sia possibile fornire in questa sede una quantificazione degli effetti
precedentemente indicati sulla crescita, il fatto che i regimi democratici
siano stati in grado di fornire un maggior numero di beni pubblici e di
migliore qualità ha certamente accelerato la ripresa delle democrazie (o meglio
dei regimi meno autoritari) dell’epoca.
Conclusioni: New
Deal, corporativismo fascista e conflitto mondiale
Era passato poco più di un decennio dalla fine della prima
guerra mondiale e lo stato di salute del modo di produzione del capitale era
fortemente compromesso, da qualsiasi punto di vista lo si prendesse in esame.
Alla progressiva rarefazione dei sistemi politici democratico-borghesi,
corrispondeva una violenta depressione che, originatasi negli Usa, rapidamente
si era propagata, per le ragioni affrontate nel paragrafo precedente, in tutto
il cosiddetto mondo “sviluppato”.
Il periodo che precedette dunque il secondo conflitto
mondiale, fu uno dei più turbolenti che la storia recente del modo di
produzione del capitale ricordi. Del resto, come già osservato, i germi della
crisi economica, emersi alla fine del secolo xix, erano stati semplicemente
allontanati, solo apparentemente debellati, e il primo conflitto mondiale da
questo punto di vista non era stato sufficiente a garantire, tramite una
significativa distruzione del capitale esistente, una florida nuova
accumulazione. Le problematiche, dunque, affrontate dai governi europei e
statunitensi consistevano nel tentare di ribaltare la spaventosa contrazione
post 1929 da una parte (vedi tabelle 1 e 2) e dall’altra reprimere ogni
velleità della classe subordinata di proporre un modello di società prossimo a
quello sovietico che, nel frattempo, tra evidenti e gigantesche difficoltà,
procedeva lungo la sua strada.
Nel dibattito sia storiografico che economico sulle modalità
di fuoriuscita dalla crisi da parte dei diversi paesi si sono normalmente
individuati due approcci spesso presentati come alternativi: si tratta, come è
noto, da una parte del New Deal e dall’altro del Corporativismo fascista[2]. Se del
primo si è già parlato nel paragrafo precedente, è opportuno, prima di
procedere ad un efficace confronto, analizzare in maniera molto rapida le
caratteristiche costitutive provando ad evidenziare le linee guida di quello
che da alcuni veniva presentato come “terza via” ossia come approccio
alternativo sia alla pianificazione sovietica che al capitalismo.
Come del resto l’etimologia stessa richiama, il
“corporativismo” si basa su una collaborazione tra le classi (corpus, trad. lat.), ossia dall’ipotesi
di qualsiasi annullamento di conflitto tra capitale e lavoro dando per assodato
che gli interessi dei due gruppi possano essere del tutto compatibili e dunque,
come un corpo, con testa (capitale) e
braccia (lavoro), abbiano la possibilità di collaborare armoniosamente[3]. Per
questa ragione l’introduzione di una nuova Carta del lavoro fascista fu fondamentale
poiché capace di istituire una nuova regolazione del rapporto capitale\lavoro;
come riportato coerentemente in un articolo redazionale pubblicato su Fortune
nel 1934 (si veda anche Dorelli, 1995), essa è da considerare alla stregua di
una Magna Charta economica. Si tratta
di “un vasto statuto di diritti e specialmente di doveri del lavoro e del capitale, che tutti devono leggere e che
lo stato può interpretare per i suoi propri e scoperti scopi. Secondo la Carta,
i salari e le condizioni di tutto il lavoro sono fissate da contratti -
estremamente dettagliati - negoziati dai lavoratori e dagli imprenditori e
fatti valere dallo Stato”; il lavoro diviene un dovere sociale, mentre l’iniziativa privata è esaltata a tal punto
che viene individuata come il più valido ed efficace strumento per lo sviluppo
della nazione. Dal punto organizzativo diviene fondamentale la suddivisione in
corporazioni (22), mentre il sindacalismo viene visto come una pericolosa spina
nel fianco della produzione di merce: anche per questo ogni tipologia di diritto di sciopero è del tutto
eliminata. Di fatto, lo stato corporativista lavorava “come una camera di
commercio degli Usa o come il ministero per il commercio di Hoover. Ma con
molta maggiore autorità. Sebbene il presidente Hoover (non il ministro) e
Mussolini abbiano idee simili sul
ruolo dell’iniziativa privata, la grande differenza circa il rapporto tra stato
e industria è che Mussolini la considera come un onorevole matrimonio, mentre
Hoover la considera - o è costretto politicamente a considerarla - come
un’unione illecita”. Insomma, per concludere: “Il fascismo favorisce il
capitale? È evidente come queste caratteristiche dello stato corporativo,
unitamente al suo pieno controllo sul lavoro, si risolvano in una rilevante pianificazione
economica”. Del resto anche lo stesso Mussolini (si veda Dorelli, ibidem), osservava questa vicinanza
ideologica in un articolo preparato per lo United
States Universal Service, poi pubblicato nel 1933 sul Popolo d’Italia
(organo di stampa fascista): “mentre il Fascismo ha innovato profondamente,
Roosevelt non affronta, nel suo libro, nessuno di questi problemi e cioè il
riconoscimento giuridico dei sindacati operai e padronali, il divieto di
sciopero e di serrata, la magistratura del lavoro, le corporazioni, infine,
nazionali e di categoria che devono portare le categorie, sotto l’egida dello
stato, al proprio self-governement.
Il Roosevelt è ancora al sistema dell’intervento indiretto dello stato
attraverso l’azione di commissioni più o meno permanenti, di carattere politico
od amministrativo. L’atmosfera nella quale tutto il sistema dottrinario e
pratico si muove è certamente affine a
quella del fascismo”. Le due opinioni in merito sembrano sufficientemente
emblematiche e sono avvalorate dai risultati conseguiti che, ovviamente
andarono in direzioni analoghe. In Italia e in Germania, il grande capitale
trasse molto giovamento dalle riforme fasciste (si veda anche Grifone, 1981 e
Guerin, 1957); il divieto di sciopero considerato alla stregua di un delitto
contro la collettività, l’abolizione dei sindacati, la sostituzione dei salari
nazionali con quelli contrattati a livello aziendale; l’aumento indiscriminato
dei ritmi di lavoro; l’istituzione della giornata di lavoro più lunga (9a
ora) inevitabilmente furono elementi che garantirono un’accumulazione più
importante, senza pensare al lavoro gratuito che in Germania milioni di
individui erogavano all’interno di campi di concentramento. Il risultato fu
evidente in Italia: salari nominali -50% tra il 1927 ed il 1932: -70% tra il
1927 ed il 1935; ma altrettanto avvenne tra i tedeschi, dove i salari nominali
crollarono del 35% nei primi due anni di governo Hitler consentendo a molte categorie di lavoratori di ottenere un
salario più basso rispetto a quella che era l’indennità di disoccupazione
durante il periodo della repubblica di Weimar e istituendo per legge che
l’assistenza ai disoccupati venisse pagata dai lavoratori occupati e non dai
proprietari delle condizioni oggettive di produzione.
Tuttavia, nonostante tutti questi artifizi, né il capitale
Usa né quello Europeo riuscivano ad uscire dalla crisi. Come ammise anni dopo Douglas
North, premio Nobel per l’economia: “Non siamo usciti dalla depressione grazie
alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra mondiale”.
Tra il 1935 ed il 1940 il numero di disoccupati non era significativamente
cambiato (circa 10 mln di individui); dopo il 1937 la produzione industriale
crollava del 27%; con l’inizio della guerra le cose cambiarono e in soli sei
anni (1939-1945) la disoccupazione si ridusse dal 10% all’1%. Del resto il Grafico
1 è abbastanza emblematico da questo punto di vista e mostra ancora una volta
come se ce ne fosse bisogno che la Seconda guerra mondiale fu uno scontro tra
capitali, in cui gli Stati uniti si affermarono definitivamente, divenendo a
tutti gli effetti la locomotiva del modo di produzione del capitale.
Figura 1 – Pib per
paese (1919-1945)
Fonte: Nostra elaborazione su dati Maddison (2003)
[1] Titolo di una celebre canzone fascista
che, non a caso, incitava principalmente alla distruzione dei comunisti e dei
bolscevichi. Il testo completo è rinvenibile al sito: https://it.wikisource.org/wiki/All%27armi_siam_fascisti
[2] In questo caso si prenderà in esame il
caso italiano, sebbene poi lo schema sia stato sostanzialmente condiviso anche
dalla Germania nazista.
[3] Per quanto non sia stato mai affermato
direttamente, comunque il riferimento al corpus,
si colloca in continuità con il discorso di Menenio Agrippa sul Montesacro
durante la rivolta dei plebei nel v
secolo a.C.
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