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La Mega2
Roberto Fineschi, giovane filosofo senese, allievo del
compianto Alessandro Mazzone, è uno dei pochissimi italiani che ha seguito da
vicino i lavori della nuova edizione critica delle opere di Marx e di Engels. È
autore di diversi saggi [1] che, partendo dall'illustrazione di questa novità
editoriale, forniscono alcune indicazioni utili per sviluppare la ricerca sulle
orme del lascito marxiano. Ha tradotto in italiano e curato la pubblicazione
del primo libro del Capitale [2] che tiene di conto di tali novità.
Roberto, puoi dirci in cosa consistono i lavori della
MEGA2 e perché sono importanti?
Si tratta della nuova edizione critica delle opere di Marx
ed Engels iniziata nel 1975. Prevede la pubblicazione di oltre un centinaio di
volumi, tant'è vero che è stata definita scherzosamente “megalomane”. Si
articola in 4 sezioni. La prima contiene tutte opere pubblicate e i
manoscritti, escluso Il Capitale; la seconda comprende Il
Capitale e i relativi lavori preparatori a partire dai manoscritti del
1857-58, i cosiddettiGrundrisse; la terza sezione è dedicata al
carteggio e la quarta alle note di lettura e gli estratti dei due autori.
È importante perché Marx in vita non ha pubblicato molto e
quindi la stragrande maggioranza delle sue opere che conosciamo sono
pubblicazioni postume di manoscritti editati e curati da varie persone in
maniera più o meno filologicamente corretta. Quindi la nuova edizione offre per
la prima volta i veri testi di Marx. Si tratta di opere non marginali, ma
capitali, sulla base delle quali si sono sviluppate le varie interpretazioni.
Per esempio, i cosiddetti Manoscritti economici-filosofici del '44,
nella forma in cui li conosciamo, non sono un'opera unitaria. Allo stesso modo
l'Ideologia tedesca non è una “opera”; soprattutto il primo capitolo su
Feuerbach è un insieme di manoscritti o articoli incollati e messi lì in
maniera in parte arbitraria dai curatori (include perfino un testo di Hess!).
A proposito del capolavoro Marxiano, Il Capitale,
cosa c'è di nuovo o si annuncia nei lavori della Mega2?
Le cose si fanno ancora più complesse per l'opera principale
della maturità di Marx. Il primo libro venne direttamente pubblicato da Marx in
varie versioni, due tedesche e una francese, di cui nessuna soddisfò pienamente
l'autore, i cui suggerimenti editoriali furono in parte disattesi da Engels
nella terza e quarta edizione tedesca. Quindi, paradossalmente, l'unico testo
pubblicato da Marx esiste in versioni in cui non coincidono neppure gli indici.
Il secondo e il terzo libro, che Marx non ha mai pubblicato
perché era ben lungi dall'avere delle versioni definitive, sono la novità più
rilevante. Vennero invece pubblicati da Engels, il quale fece certamente un
lavoro decoroso dovendo affrontare l'improba missione di pubblicare come opera
finita un'insieme di manoscritti e appunti ben lontani dalla compiutezza. Però
dovette finirli lui, selezionando le parti da mettere, organizzandole, talvolta
integrandole. Inevitabilmente non poteva non alterare il testo. La Mega2 è
importante perché offre per la prima volta i veri manoscritti marxiani; Marx
nelle parole di Marx, come amano dire gli editori, e non la loro rielaborazione
engelsiana.
Quali criteri hai seguito nella traduzione e nella cura
della pubblicazione italiana del libro I del Capitale?
Le edizioni critiche non si possono fare in traduzione. Però
l'idea era di offrire al lettore italiano una versione aggiornata di tutti i
testi che adesso sono a disposizione e che Marx aveva redatto pensando
esplicitamente alla pubblicazione del Primo libro del Capitale. Sono
manoscritti che vanno dal 1863 alla sua morte. Un criterio è stato dunque la
completezza.
Tuttavia non si poteva fare come nella Mega che ha
pubblicato tutte le versioni in tutte le lingue. Mi è sembrato ragionevole
scegliere un'edizione di riferimento e fornire le varianti delle altre. La
scelta non è stata scontata perché l'ultima versione pubblicata da Marx, quella
francese, che lui stesso considerava migliore della tedesca, in realtà
presentava limiti evidenti.
Era migliore perché la parte sull'accumulazione era più
avanzata rispetto a quella tedesca (per esempio, nella distinzione tra
concentrazione e centralizzazione del capitale e nella più ampia definizione di
composizione organica del capitale). D'altro lato non è un'innocua traduzione:
mancano dei passi che era difficile tradurre in francese, ma anche la
traduzione in sé perde completamente la complessità del linguaggio filosofico
delle edizioni tedesche al punto che mi sono accorto che, incredibilmente,
nell'edizione francese non c'è il concetto di valorizzazione: questa parola
manca del tutto.
Siccome i francesi fino al 1983 non hanno avuto a
disposizione altre traduzioni, chi non era in grado di leggere il tedesco non
sapeva che nel Capitale c'è la parola valorizzazione! Idem per
l'edizione inglese: la parola viene introdotta solo nelle edizioni successive.
La nostra scelta è stata quindi di tradurre la quarta
edizione tedesca di Engels e, in un volume di apparato, le varianti presenti
nelle altre edizioni, più una nuova traduzione del cosiddetto Sesto
capitolo inedito e la prima traduzione al mondo, per quanto ne so, di
un manoscritto redazionale che Marx aveva redatto in preparazione della seconda
edizione tedesca, assai diversa dalla prima per quanto riguarda la merce e la
forma di valore; esso è assai interessante per capire l'edizione a stampa.
Si tratta della famosa appendice sulla forma di valore
“per i non dialettici”?
Non esattamente. Si tratta dei materiali preparatori per la
nuova edizione del I capitolo della seconda edizione tedesca (1872-3) che andò
a sostituire il primo capitolo e l'appendice per i non dialettici presenti
nella prima edizione tedesca (1867). Si ha anche la gestazione del paragrafo
sul feticismo della merce.
Il problema è che Engels, nel curare la terza edizione
tedesca, non ha seguito tutte le indicazioni di Marx - che aveva lasciato un
paio di appositi manoscritti. Per esempio, non ha cambiato la struttura dei
capitoli che doveva essere quella dell'edizione francese. Da qui è nata tutta
una confusione sugli indici delle varie edizioni e traduzioni internazionali,
che non coincidono.
Per la traduzione abbiamo cercato di superare alcuni limiti
delle precedenti occidentali nella mancata distinzione di alcune categorie che
venivano tradotte tutte con lo stesso termine. Per esempio, il termine italiano
“rappresentazione” traduceva tre termini tedeschi diversi. “Cosa” traduce due
diverse parole tedesche. Altro punto importante,le parole “lavoratore” e
“operaio” traducono lo stesso termine tedesco, introducendo una distinzione
pesante dal punto di vista dell'interpretazione.
Si tratta di una questione spinosa. I vari traduttori hanno
scelto, di volta in volta, quale delle due parole mettere. Noi ci siamo presi
la responsabilità di tradurre sempre e coerentemente col termine “lavoratore”,
che è più generale, lasciando all'interpretazione del lettore la valutazione
se, nei singoli casi, fosse più opportuno l'uno o l'altro termine.
Tutte queste scelte di traduzione sono state esplicitate in
un glossario, di modo che il lettore, anche quello dissenziente, abbia la
possibilità di capire quale fosse la parola originaria.
Marx inizia il Capitale con l'analisi
della merce come “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico e,
pian piano, da questo elevato livello di astrazione, introducendo ulteriori
variabili, svolge la sua teoria in maniera sempre meno astratta. In diversi
tuoi lavori parli diffusamente di 4 livelli di astrazione. Che poi si
riferiscono solo al contenuto dei tre libri del Capitale noti, mentre il piano
originario dell'opera, che Marx non ha avuto il tempo di sviluppare, era più
vasto (comprendeva per esempio lo Stato e il Mercato mondiale). Immagino che
per giungere a illustrare tali aspetti, e quindi per avvicinarsi ulteriormente
alla complessità della realtà, fosse necessario scendere a livelli ancora meno
astratti, e avvicinarsi così anche a una teoria meglio spendibile nella lotta
politica. Condividi questa opinione e in che misura, secondo te, il marxismo è
stato all'altezza di questo compito?
La domanda è molto complessa. Si può partire dai problemi
storici della ricezione del Capitale. Soprattutto nella prospettiva politica,
un punto chiave era la teoria dello sfruttamento. Dimostrando che nella teoria
del capitale ci sono problemi strutturali insuperabili si distruggeva anche la
teoria dello sfruttamento.
Nel dibattito tradizionale, a questo proposito, i due punti
più caldi sono stati la trasformazione dei valori in prezzi di produzione,
soprattutto, e la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto.
L'idea era che la teoria del valore, per come era formulata nel primo libro,
presentasse una contraddizione insanabile con la teoria dei prezzi di
produzione del terzo libro. Con ciò tutta la teoria non funzionerebbe e
andrebbe buttata a mare, compresa la teoria dello sfruttamento.
Anche il dibattito successivo e il contributo di coloro che
offrivano una soluzione sulla base della teoria sraffiana [3], i quali
pensavano di dimostrare che esiste lo sfruttamento a prescindere dalla marxiana
teoria del valore, centrando il grosso della discussione sul presupposto della
presunta contraddizione, ha fatto perdere molti aspetti della teoria del
capitale.
Credo che, per le modalità con cui la disputa fu impostata ab
origine, il dibattito successivo sia stato in fondo coerente e corretto.
Secondo me la Mega2 permette non tanto di rispondere diversamente, ma di
comprendere che la questione era posta male. Il problema di Marx non è quello
supposto in questo dibattito. Quindi è mal formulato il punto di partenza. Non
sto qui a scendere nei dettagli ma lo snodo consiste nel comprendere che quella
di Marx non è una teoria del cosiddetto “valore-lavoro”, espressione mai usata
da Marx, ma di merce e denaro; il problema di “sostanza”, “grandezza” e “forma”
di valore si pone all'interno di questo orizzonte teorico.
Nel terzo libro – in realtà un manoscritto in larga parte
incompiuto, un work in progress – si affrontano questioni dove
Marx stesso mostra la complessità della trattazione dei problemi strutturali
della sua teoria nell'articolazione dei vari livelli di astrazione. A mio modo
di vedere, nella distinzione di questi livelli, esiste una impostazione e una
soluzione alternativa alla trasformazione che non presenta contraddizione tra
valori e prezzi, basata fondamentalmente sulla nuova categoria dei “prezzi di
mercato”.Fra l'altro questa soluzione permette di considerare questo problema
come un capitolo di una teoria più complessa che poi va avanti.
Nell'ultima sezione del terzo libro, “Credito e capitale
fittizio”, Marx si pone il difficile compito di pensare la superficie del
movimento nel suo complesso (forme del credito, del capitale fittizio, del
capitale azionario, dell'interesse e della dinamica del tasso di interesse) che
sono terreno fertile per scendere a livelli di analisi più concreti.
Nell'edizione di Engels – questo è un altro grande limite
del suo lavoro – la parte finale non è una sezione. “Credito e capitale
fittizio” viene presentato come un capitolo, mentre in realtà è il titolo di
un'intera sezione, nel manoscritto molto complessa, in cui Marx sembra
delineare la dinamica del rapporto tra accumulazione reale e accumulazione fittizia
e come le due determinino problemi complessi – quali la variazione del tasso di
interesse e la crisi – che oggi considereremmo “macroeconomici”. In più,
rispetto alle teorie ortodosse, offre una teoria del ciclo produttivo, in cui
il movimento fenomenico non viene analizzato semplicemente in base all'analisi
empirico-fenomenica di che cosa cambia a uno stato dato se si modifica una
delle variabili.
L'analisi del cambiamento si inquadra in una processualità
reale che ha una tendenza determinata dal processo obiettivo di produzione e
riproduzione del capitale. Per esprimerla in termini più semplici, se
riusciamo, grazie a questa ricostruzione attraverso i manoscritti, ad avere una
teoria del capitale articolata in livelli di astrazione, possiamo trovare una
chiave per spiegare fenomeni attuali che hanno la loro causa in tendenze di
fondo che però alla superficie non appaiono come tali.
Questo è il punto: nella teoria di Marx il valore non appare
mai alla superficie, ma scava sotto e si manifesta in moltissime forme diverse
che sono in larga parte inaccessibili all'economia ortodossa in quanto
quest'ultima rifiuta completamente questa dimensione. Essa, avrebbe detto Marx,
si aggira nel fenomeno senza cogliere i nessi essenziali e scambia la
descrizione del movimento apparente per la sua essenza.
A mio modo di vedere, attraverso la ripresa della teoria
marxiana e lo studio dei suoi diversi livelli di astrazione, si può fare molto.
Ma ancora prima di scendere al livello dello Stato e del Mercato mondiale, è la
stessa teoria del capitale che necessita di essere ripensata. Non abbandonata o
trasformata, perché secondo me la ricostruzione che si può fare attraverso i
manoscritti mostra che la sostanza c'è; ma è una teoria è incompiuta e va
quindi sviluppata, completata, integrata anche alla luce dei nuovi fenomeni che
sono emersi nel secolo successivo alla vita di Marx che egli non aveva potuto
osservare. Però questo è un altro segno dell'estrema forza di questa teoria
perché essa è stata scritta quando il modo di produzione capitalistico era
tutt'altro che ben sviluppato: esisteva solo in alcune parti del mondo, la
parte finanziaria non aveva ancora assunto la dimensione gigantesca odierna. Ma
ciò nonostante Marx prevede e spiega la sostanza di questi fenomeni.
Sei venuto proprio all'altra domanda che volevo farti,
alla quale in parte hai già risposto. Il capitalismo odierno si è trasformato
profondamente rispetto a quello osservato da Marx. Siamo di fronte a una fase
transnazionale dell'imperialismo, al dominio dei poteri finanziari, alla
frammentazione del mondo del lavoro, non concentrato, nella stessa misura di
diversi decenni fa, in grosse strutture produttive. Perché serve ancora Marx
per capirne la struttura e le dinamiche? In che misura ci può essere di aiuto
per poter costruire una prospettiva comunista teoricamente ben fondata?
Anche a questo proposito, se si distinguono i diversi
livelli di astrazione possiamo avere, non certo le risposte concrete a queste
domande, ma una buona partenza per poterci lavorare.
Un'interpretazione non adeguata nella tradizione marxista,
che si ripercuote anche nei vari “post” che abbiamo adesso, è l'idea che
l'unico soggetto antagonista sia l'operaio della fabbrica. Questo è giusto in
parte, ma non esaurisce la potenzialità della teoria delle classi di
Marx. In particolare mi riferisco alla lettura dei capitoli su cooperazione,
manifattura e grande industria che erano evidentemente una descrizione dei
rapporti in essere all'epoca, una sorta di fenomenologia del processo lavorativo
dell'Inghilterra del XIX secolo.
Sembravano descrizioni molto promettenti perché pareva che
le tendenze di fondo si muovessero in quella direzione. Il limite è confondere
queste “figure” storiche dell'organizzazione del lavoro con le “forme” che il
processo lavorativo assume, non nel capitalismo, ma nel modo di produzione
capitalistico. Perché se dico capitalismo, intendo una forma storico concreta
specifica di questo, e se dico manifattura e grande industria, ci metto
un'etichetta ancora più specifica. Il punto che sollevo è che Marx non sta solo
parlando di queste figure storiche ma in realtà sta sviluppando una teoria
delle forme del processo lavorativo all'interno del modo di produzione
capitalistico, delle modalità attraverso le quali si realizza il processo
lavorativo.
Tali modalità non sono necessariamente la manifattura o la
grande industria, ma sono determinazioni che sono esemplificate da queste
forme, ma non solo da queste. Mi riferisco in particolare alla dimensione
cooperativa del lavoro, alla dimensione parziale del soggetto che lavora e
realizza solo una parte dell'opera, alla dimensione subordinata del lavoratore
e addirittura alla sua estromissione, all'automatizzazione completa, fino al
ruolo di semplice supervisore del lavoratore.
Se guardiamo a cooperazione, manifattura e grande industria
come a “figure” storiche in cui quelle “forme” specifiche del produrre in modo
capitalistico sono apparse, abbiamo che la perdita di importanza di alcune
figure non fa scomparire le forme come tali.
Nell'organizzazione contemporanea del processo lavorativo
non abbiamo solo queste figure – che tuttavia, a dispetto delle varie
“scomparse” esistono ancora – ma abbiamo altre organizzazioni del lavoro per
cui quelle forme, la dimensione della parzializzazione, della subordinazione e
del carattere cooperativo, che avviene magari attraverso il computer fra
individui che lavorano in tutte le parti del mondo, sono la struttura del modo
si produrre. Inoltre esse sono salariate allo stesso modo di prima, cioè
subordinate a un processo di valorizzazione del capitale.
Il risultato complessivo della loro attività non è da loro
posta. Essi sono sussunti da questa. La realizzano per il capitale,
ricevono un salario che può essere in varie forme, quale per esempio il
corrispettivo della partita Iva.
Identificare il lavoro salariato guardando solamente alla
forma contrattuale, giuridica che assume, non è il punto. Posso avere la
partita Iva e lavorare come finto salariato. In questo senso i potenziali
soggetti antagonisti vanno moltiplicandosi perché tutti gli individui che si
trovano a lavorare in varie forme in processi eterodiretti dal capitale per il
quale lavorano in forma diretta o indiretta di salario, si trovano
completamente sussunti a queste modalità. Il loro modo di lavorare è
sostanzialmente cooperativo, parziale, subordinato, di supervisione etc.
Questo permette di superare vari “post” come il
post-operaismo, perché se limito il soggetto antagonista all'operaio della
fabbrica, è una cosa, se invece ho la fabbrica come una figura storica legittima,
mantengo tutte e due le parti: una spiegazione e una legittimazione del periodo
in cui l'operaio era effettivamente il soggetto storico privilegiato; ma allo
stesso tempo ho una teoria che funziona anche in assenza di questa
figura.
Uno degli obiettivi della lotta politica è trovare il modo
di unire queste forze che adesso non sono più fisicamente nello stesso posto,
non si vedono, non si parlano, sono sparse in tutto il mondo, magari parlano
lingue diverse, apparentemente appartengono a gruppi sociali diversi. Metterli
in dialogo è molto più complesso ma è uno degli obiettivi. Occorre sviluppare
forme di lotta internazionali in quanto la sfida del capitale è a livello
internazionale.
Parlavi anche della globalizzazione. Anche questo è un punto
interessante. Perché Marx è il primo teorico della globalizzazione, la prevede
come esito di lungo termine del modo di produzione capitalistico già nella
seconda metà dell' '800, quando appena si adombrava. La situazione attuale non
è contro il Capitale di Marx ma ne è chiaramente la verifica,
l'evidenza che egli aveva ragione. Ma vale anche per la finanziarizzazione. Non
a caso l'ultima parte del Capitale si intitola “Credito e
capitale fittizio”, perché Marx, grazie alla sua teoria, aveva ben presente
dove si andava a parare.
Per concludere, mi sento di poter dire che la teoria di
Marx, se adeguatamente intesa, continua ad essere l'analisi più corretta ed
efficacie delle dinamiche di fondo, epocali, del modo di produzione
capitalistico. Questa teoria è, però, da un lato incompleta, dall'altro molto
astratta, ovvero identifica le tendenze e le dinamiche di lungo periodo.
Riuscire a riprendere il filo interrotto alla luce degli sviluppi teorici e
storici a lui successivi e scendere ad un livello di astrazione in cui tale
teoria diventi “applicabile”: queste sono le sfide teoriche e politiche che ci
stanno di fronte.
Note
[1] Tra i molti saggi di Roberto Fineschi è di enorme
importanza Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica
nella teoria del “capitale”, La Città del Sole, Napoli 2001.
[2] K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia
politica, Libro I, a cura e con introduzione di Roberto Fineschi, la Città
del Sole, Napoli 2001. Sono di notevole interesse l'introduzione e il glossario
che permettono di leggere in maniera trasparente le scelte del traduttore.
[3] Il testo a cui si rifanno tutti questi
numerosi contributi è P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci.
Premessa a una critica della teoria economica, Giulio Einaudi Editore,
Torino, 1960 [nota dell'intervistatore].
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