Come sottolinea anche Engels, ci sono vari modi di protestare contro l'assetto sociale, alcuni dei quali sono del tutto inefficaci e inconcludenti, anche se hanno una straordinaria presa su quei settori intellettuali che guardano in maniera critica alla società contemporanea e alle sue dinamiche. Il successo di tali forme di protesta, incarnate in certe tendenze delle scienze sociali, è assicurato dalla stessa ideologia mass-mediatica dominante, che le diffonde, mostrando così ipocritamente la sua disponibilità ad accettare la critica.
I profeti del mondo alternativo
C'è una pagina di Friedrich Engels, dedicata ai primi
sviluppi del cristianesimo, che mi sembra interessante citare perché descrive
assai bene lo stato di smarrimento, di confusione, di presunzione del tutto
irrealistica, in cui si sono trovano molti intellettuali appartenenti a settori
culturali che contestano in varie forme, ma sempre in modo superficiale,
l'attuale assetto sociale, senza avere neppure l'accortezza di chiamarlo con il
nome che gli si confà: società capitalistica avanzata.
Tale pagina sta nello scritto Per la storia del
cristianesimo, in cui Engels scrive: “E dato che, in tutti i paesi,
elementi di ogni genere si accostano al partito dei lavoratori, elementi che
non hanno niente da aspettarsi dal mondo ufficiale o vi si sono screditati –
avversari della vaccinazione, seguaci del movimento di temperanza, vegetariani,
antivivisezionisti, empirici, predicatori di libere comunità senza più seguaci,
autori di nuove teorie sull'origine del mondo, inventori inutili e falliti,
persone rassegnate a ingiustizie vere o presunte, che sono indicate dalla
burocrazia come “inutili brontoloni”, pazzi onesti e disonesti ciarlatani –
così andò per i primi cristiani” (in Marx ed Engels, Sulla religione,
Roma 1969: 252).
A mio avviso, gli scritti di Engels sull'origine e sulla
diffusione del cristianesimo sono ancora significativi, perché in essi egli
analizza il pensiero delle masse, riferendosi sia ai primi cristiani che alle
prime forme organizzative dei lavoratori, mostrando la sua contraddittorietà,
incoerenza, oscurità, dovuta anche al ruolo che in esso giocano i “profeti”
(Ibidem, pag. 257), che noi possiamo identificare con i vari intellettuali o
opinion makers dotati di più o meno prestigio.
Si tratta di aspetti nei quali si esprime un ragionevole e
sensato malessere, un'opposizione non sempre pienamente consapevole verso lo
stato di cose esistenti, una protesta spesso non chiaramente articolata e
conseguente; atteggiamenti che, tuttavia, non si radicano in una prospettiva
analitica critica, capace di comprendere a fondo quanto si vuole trasformare,
né sono accompagnati dalla ricerca e individuazione del percorso realistico da
intraprendere per conseguire tale obiettivo. Coloro che esprimono tali
atteggiamenti emergono dal processo di dissoluzione del mondo antico, nel caso
dei primi cristiani; emergono, invece, - nel caso dei protestatari
contemporanei - da quello di disgregazione, dovuto alla crisi sistemica della
società capitalistica, a cui cercano di rimediare proponendo correttivi o, nei
casi più radicali, forme sociali alternative a quest'ultima.
In entrambi i casi - ricavo da Engels - essi sono il prodotto
di tali processi e per questa ragione, nella misura in cui esso avanza,
continuano a crescere e a espandersi (Ibidem, pag. 252).
Un altro elemento sottolineato da Engels è rappresentato
dalla credulità che, a suo parere, caratterizzava le prime comunità cristiane e
dalla quale non sarebbero neppure stati immuni i membri del movimento operaio
moderno ai suoi inizi (Ibidem, pag. 252), fenomeni che, non solo nello scritto
citato, sono spesso comparati allo scopo di delineare le caratteristiche e le prospettive
future di quest'ultimo sulla base dei tratti propri del cristianesimo e della
storia del suo consolidamento ed espansione.
Soffermiamoci un momento sul procedimento comparativo
adottato dal generoso collaboratore di Marx, anche perché ciò ci permetterà di
attribuire un giusto valore ai vari scritti da lui dedicati alla religione e,
in particolare, alla relazione tra un certo sistema di pratiche e credenze e il
gruppo sociale che le fa proprie e per esse si batte. Motivo che - come è noto
- ha suscitato un ampio dibattito, ancora non spento, e che si incentra sulla
nozione di “riflesso”, il cui impiego da parte di molta letteratura marxista
non avrebbe debitamente valorizzato il ruolo attivo e formativo delle
ideologie.
Credo che in generale si possa dire che tali scritti -
compresa La guerra dei contadini in Germania (ed. or. 1850) -
sono opere brillanti e illuminanti dal fondamentale scopo politico, centrate in
particolare sul rapporto di continuità tra la richiesta di uguaglianza sociale,
espressa dai primi cristiani o dai contadini tedeschi, e quella, invece,
agitata dai lavoratori moderni.
Rapporto di continuità che certamente c'è e che forse ci può
far anche comprendere come spesso il socialismo sia stato recepito come una
sorta di religione, le cui antiche radici - spesso i nostri vecchi lo dicono -
erano nelle parole del Vangelo astutamente distorte dall'istituzione
ecclesiastica. Ma, d'altra parte, non si può certo comprendere il cristianesimo
nella sua complessità e ricchezza, avvalendosi esclusivamente della
prospettiva, che - come ho detto - Engels sceglie legittimamente per gli
obiettivi politici che si pone, i quali sono:
1) mostrare come certe finalità economico-politiche
siano il risultato di un lento processo di trasformazione storica e che,
quindi, siano in qualche misura anche il frutto di certe necessità;
2) favorire lo sviluppo della consapevolezza di tali
obiettivi tra le organizzazioni operaie e, soprattutto, tra i loro quadri
dirigenti.
A ciò bisogna aggiungere - credo - un terzo obiettivo:
stabilire una netta differenza tra ideologia politica e concezione religiosa,
data la prossimità e la frequentazione delle masse con quest'ultima.
Torniamo alla nostra analisi e soffermiamoci su un ulteriore
elemento messo in risalto da Engels nella sua indagine a largo spettro sulla
religiosità (egli si interessò anche dello spiritismo, che nella seconda metà
dell'Ottocento si diffonde tra i lavoratori), sui caratteri che essa assume e
sul suo uso ideologico.
Egli sottolinea come essa ritorni assai utile per agevolare
il controllo sulle masse, soprattutto dopo che queste hanno ottenuto
significative vittorie come, per esempio, avvenne con la ricezione di alcune
richieste del movimento cartista (Engels, “Lo sviluppo del socialismo dall'utopia
alla scienza”, in Marx ed Engels, Sulla religione, 1969: 243-244),
inserite nel Ballot Act del 1872, che garantiva il voto segreto.
A questo punto è importante chiarire che, quando si parla di
“religione”, non si intende esclusivamente un sistema di pratiche e di credenze
fondato sul culto di una o più divinità, ma di un certo modo di interpretare il
mondo e il nostro ruolo in esso, che presenta specifiche caratteristiche
diverse da altre forme di pensiero. In questo senso, molto spesso i contenuti religiosi
di una certa concezione del mondo non sono palesi, evidenti e sbandierati come
tali dai suoi fautori; essi sono nascosti, occulti, criptici e per tanto
debbono essere colti, ricostruiti e ricondotti ad un atteggiamento più generale
ben definibile con l'espressione “religiosità”.
Senza demonizzare la religiosità, nel senso di ansia della
totalità e della corrispondenza, dalla quale in un certo senso nessuno di noi
può dissociarsi, è quello che cercherò di fare illustrando assai rapidamente
certe tendenze dell'antropologia culturale contemporanea; disciplina spesso
chiamata in causa perché il suo studio dovrebbe indurci a stabilire relazioni
dialogiche e paritetiche con l'altro (secondo un'espressione ormai
largamente usata anche nell'ideologia mass-mediatica).
Animismo,
ecologismo, monismo
Per il fatto di avere un vincolo privilegiato con le forme
sociali subalterne (siano esse presenti nell'Occidente che fuori di esso), gli
antropologi hanno sempre pensato di costituire un'avanguardia in grado di
comprendere più a fondo e meglio degli altri i difetti e le carenze della
società dominante; proprio in virtù di tale condizione, essi ritengono di poter
indicare soluzioni alternative e più confacenti all'umanità.
Questa osservazione mi sembra particolarmente calzante se
riferita all'opera di un gruppo di antropologi, come per esempio Eduardo
Viveiros de Castro, Philipe Descola [1], Gil Pálsson, i quali tornano a
riflettere sulle forme di religiosità proprie delle società fondate sulla
sussistenza, riprendendo il concetto di “animismo” proposto nel 1871
dall'antropologo vittoriano Edward Burnett Tylor. Naturalmente non è questo il
contesto per una dettagliata analisi antropologico-religiosa, ma credo che la
riflessione degli antropologi su menzionati ci offra una serie di spunti per
mostrare come essi facciano parte della schiera dei protestatari contemporanei,
i quali agitano un radicalismo tanto retorico quanto inefficace.
Con la parola animismo generalmente si
indicano quelle concezioni religiose, per le quali - secondo l'espressione di
José María Arguedas - “nada es inerte”, ossia tutto vive ed agisce secondo
l'intenzionalità che gli è propria; concezione recepita dalla Costituzione
dello Stato plurinazionale della Bolivia, che attribuisce diritti alla Madre
Terra. Tale concezione, di cui non si spiega il sorgere, sarebbe stata
sostituita nell'epoca moderna dal tanto vituperato dualismo, che oppone
scorrettamente natura e mondo umano, anima e corpo, materia e mente; ovviamente
il principale responsabile di tale avvicendamento è René Descartes, che con
tale mossa avrebbe dato all'avvio all'affermarsi della modernità, la quale
poggia su una relazione di subordinazione e di sfruttamento della natura, da
cui sono scaturite quelle grandi crisi di cui tanto si parla: il cambiamento
climatico, l'inquinamento, la crisi ecologica (le guerre degli ultimi decenni
non sono menzionate).
Inoltre, la concezione dualistica, che oppone il mondo umano
alla natura, avendo trasformata quest'ultima in un cosa da
conoscere e controllare (Pálsson G., “Human environmental relations”, in Nature
and society. Anthropological Perspectives, a cura di Descola e Pálsson,
1996: 66), colloca l'uomo al centro dell'universo e ne fa il suo dominatore in
un'ottica antropocentrica, appunto; le concezioni animistiche considerano,
invece, l'uomo una delle tante entità che popolano l'universo, e si muovono
pertanto in una prospettiva cosmocentrica.
Nel saggio di Pállson su citato si descrivono tre diverse
forme di relazione uomo/natura che si sarebbero succedute nella storia:
l'orientalismo [2], basato sul dominio della natura e sul suo sfruttamento
indiscriminato, il paternalismo che implica sempre il dominio sulla natura ma
sarebbe caratterizzato da una relazione di protezione nei confronti di
quest'ultima; il comunalismo, infine, rifiuta l'opposizione tra natura e
società e pratica un rapporto di reciprocità, da cui scaturisce un legame
intimo e profondo con le entità naturali.
Naturalmente, nello scenario delle grandi crisi attuali, è a
questo terzo modello che dobbiamo riferirci per metterlo in pratica,
abbandonando il progetto modernista e trovando così risposta ai dilemmi
ambientali, che ci angustiano (Pálsson 1996: 78).
Per concludere questa breve panoramica del pensiero di
questi autori, i quali propugnano l'antropologia ecologica, aggiungo che –
ritenendo dimostrata l'inconsistenza teorica e metodologica della frattura tra
uomo e mondo, affermatasi solo per una scelta ideologica fatta dall'Occidente –
essi sostengono la costituzione di una scienza monistica votata allo studio
dell'interfaccia tra natura e cultura; domini interpretati secondo diverse
prospettive “epistemologiche” dalle varie culture, le quali presuppongono
concezioni ontologiche di segno diverso: il già menzionato dualismo occidentale
e il monismo animistico, secondo cui anche gli animali e le piante fanno parte
a pieno titolo della comunità universale che include gli esseri umani. In
questa ottica i due domini distinti costituiscono un tutt'uno governato dagli
stessi criteri e funzionante in un continuo interscambio.
Ovviamente si potrebbero fare tante osservazioni sulle
posizioni teoriche adottate dagli antropologi su menzionati, ma per esigenze di
spazio e per non tediare i non specialisti mi limito a qualche breve
considerazione.
Prima di tutto, credo sia opportuno rimarcare ancora una
volta la tendenza, del tutto criticabile, ad omogenizzare il “pensiero
occidentale”, nel quale - a differenza della descrizione sbrigativa che spesso
di esso si dà - sono presenti ontologie differenti e spiegazioni assai diverse
di come funziona il pensiero scientifico e del perché è efficace. Ricordo, per
esempio, che in tutta la riflessione europea è stata sempre presente una
significativa tendenza panteistica e che, a partire dai primi decenni del
Novecento, è sorta nell'ambito delle scienze della vita e nelle neuroscienze
un'impostazione di tipo olistico, ostile a qualsiasi forma di riduzionismo. Si
potrebbe poi aggiungere la prospettiva dialettica, ma per la sua complessità e
per il vivace dibattito su di essa mi limito a menzionarla.
Osservo, inoltre, che le concezioni del mondo hanno una
qualche relazione - la cui articolazione non può che essere determinata
empiricamente - con il contesto socio-economico in cui sorgono. In questo
senso, l'origine dell'animismo, di cui Descola riscontra la presenza in
ambienti assai diversi (dall'Amazzonia al Subartico canadese), non pone grossi
problemi, se si tiene conto che in tali contesti vigeva la proprietà comune
delle risorse naturali e, pertanto, la natura non si presentava all'uomo come
qualcosa di scisso e di separato.
A causa di tale compenetrazione, essa era pienamente intesa
in senso antropomorfico, benché ciò non significhi che le culture extra-occidentali
abbiano stabilito un rapporto paritario tra uomo e natura, dalla quale hanno
sempre estratto con certe cautele rituali, ma anche con una certa spietatezza,
il necessario al loro sostentamento. A prova di ciò posso citare un mito andino
dell'apocalisse, nel quale si denuncia con terrore il rovesciamento delle
“normali” condizioni di esistenza; infatti, in seguito a tale ribaltamento, il
sole improvvisamente si oscura, i lama allevano gli uomini e i mortai si cibano
di questi ultimi.
Non volendo stabilire una relazione tra concezioni del mondo
e struttura socio-economica, perché tale nesso comporterebbe inevitabilmente il
riduzionismo, Descola e gli altri si interrogano sulle origini delle prime,
senza saper rispondere e cercando una risorsa esplicativa nel condizionamento
ambientale. Privi di tale strumento interpretativo, essi e tutti coloro che
hanno ripudiato tale nesso, assomigliano un po' ai bambini che non sanno
spiegare da dove vengano fuori i neonati, come osserva ironicamente Eagleton a
proposito di tale impostazione.
In definitiva, proprio per una loro scelta teorica, i
fautori dell'antropologia ecologica non tengono conto del fatto che la
relazione uomo/natura è sempre mediata da una certa struttura socio-economica,
che nei contesti precapitalistici non separa e non scinde l'individuo dalle sue
condizioni di esistenza, come avviene, invece, in maniera sempre più netta e
spietata nella società capitalistica.
Se le cose stanno effettivamente così, la prospettiva
dualistica non è semplicemente un'opzione culturale di cui incolpare Descartes,
ma un'interpretazione della relazione uomo/natura che scaturisce da un sistema
economico-sociale che si è imposto gradualmente nei secoli attraverso una serie
di radicali trasformazioni, in virtù delle quali quanto era dominio comune è
diventato proprietà di pochi (come già R.Caputo e R.Renda hanno mostrato in un
precedente articolo apparso su la Città Futura). Come, d'altra
parte, dimostrano gli attuali conflitti che insanguinano diverse regioni del
mondo, questi ultimi non hanno alcuna intenzione di restituire il maltolto e
sono disposti a commettere qualsiasi atrocità ed efferatezza, pur di
conservarlo e di ampliare il proprio dominio.
Proseguendo questa linea di discorso, possiamo dire, dunque,
che per ristabilire una diversa relazione uomo/natura, fondata su un'armoniosa
integrazione e non sul suo sfruttamento indiscriminato, dobbiamo partire
dall'analisi del sistema sociale capitalistico (che deve
essere chiamato con il nome che lo identifica in maniera precisa), per
individuare il percorso da intraprendere e le forze sociali necessarie per
trasformarlo.
Solo questa è una prospettiva sensata e realistica, laddove
la battaglia per affermare un certa forma di antropologia (ecologista o monista
o addirittura animistica) resta una mera e assai limitata disputa accademica,
che consente a chi la propugna di vantare la propria eccentricità, e di
ottenere riconoscimenti e prestigio per essere fautore di una proposta, il cui
esito pratico-politico è pressoché nullo.
Bisogna aggiungere, però, che essa produce vantaggi
ideologici importanti, perché formula il problema che si propone di risolvere
in maniera sbagliata e distorta, dirottando così l'attenzione verso aspetti non
significativi, che però esercitano una grande attrazione tra quel genere di
protestatari inconcludenti, di cui parla in maniera efficace Engels nella
pagina su citata.
Per concludere, infine, un'ultima osservazione.
L'aspirazione alla ricomposizione della scissione, al superamento della
frattura tra uomo e natura, espressa dagli antropologi ecologisti, non è forse
espressione di quell'ansia di totalità e di corrispondenza, di cui si diceva
prima, e che costituisce il senso profondo dell'atteggiamento religioso?
Infatti, essa svela i suoi contenuti mistici nella pretesa di cancellare
spaccatura e divisione, senza preoccuparsi di individuare le radici di tale
condizione ed immaginando che natura e mondo umano possano tranquillamente
corrispondere, mentre la loro compenetrazione e interazione si realizzano in un
contrasto doloroso e continuo che non si dispiega solo nel tentativo di
soggiogare le forze naturali, tra le quali emerge l'enigma della morte (come
sottolineava Freud); esso si svolge - o dovrebbe svolgersi - anche nell'opera
di addomesticamento della nostra naturalità interiore per conquistare forme più
piene e mature di socialità; obiettivo dimenticato e abbandonato dalla società
borghese e che costituisce il senso autentico della prospettiva modernista.
Note
[1] Di questo
antropologo francese è recentemente uscito in italiano un grosso e ambizioso
volume Oltre natura e cultura, SEID Editori, Firenze 2014.
[2] Dato che questo
tipo di relazione ha caratterizzato e caratterizza la civiltà capitalistica,
originatasi in Occidente, non si capisce perché Pálsson parli di orientalismo,
e il suo richiamo all'opera di Edward Said, Orientalismo. L'immagine europea
dell'Oriente (Feltrinelli, Milano 2010) non aiuta a capire il perché della
sua scelta.
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