sabato 2 gennaio 2016

Karl Marx (una compiuta critica dell’economia politica)* - Emiliano Brancaccio

*Da:      http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2013/02/Appunti-di-Economia-politica-quinta-versione-Novembre-2014.pdf


Proprio sulla concezione del profitto come “residuo”, e più in generale sugli elementi di conflitto sociale riconosciuti dagli economisti classici, farà leva Karl Marx per criticare la loro concezione positiva del capitalismo. Con la pubblicazione del Capitale nel 1867 Marx si propone esplicitamente il compito di elaborare una compiuta critica dell’economia politica che era stata elaborata dagli economisti classici. In questo senso sferra un attacco poderoso al teorema della mano invisibile (A. Smith). Egli infatti descrive un sistema tutt’altro che armonico ed eterno. Per Marx il capitalismo è in realtà afflitto da perenne instabilità e da crisi ricorrenti. La teoria delle crisi di Marx è molto complessa e tuttora oggetto di varie interpretazioni. 

Qui possiamo affermare che nella visione di Marx si intersecano due spiegazioni della crisi: da un lato la tendenza alla caduta del saggio di profitto, dall’altro la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse lavoratrici. 

Sulla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, in questa sede possiamo limitarci ad affermare che per Marx sussisterebbero forze che tendono nel tempo a ridurre il saggio di profitto medio del sistema economico. La tesi di partenza di Marx è che i capitalisti estraggono il profitto dal lavoro vivo degli operai, cioè dal lavoro di coloro i quali sono direttamente impiegati nella produzione e non dal lavoro già erogato, incorporato nei mezzi di produzione già prodotti. Egli poi nota che le continue innovazioni tecniche spingono i capitalisti ad accrescere l’impiego di mezzi di produzione rispetto ai lavoratori direttamente impiegati nel processo produttivo. Ma se il rapporto tra lavoratori e mezzi di produzione si riduce, e se si accetta l’idea di Marx secondo cui il profitto deriva dal lavoro vivo degli operai direttamente impiegati nella produzione, allora si deve giungere alla conclusione che si ridurrà anche il saggio di profitto, cioè il profitto totale in rapporto al capitale impiegato per l’acquisto dei mezzi di produzione e per il pagamento dei lavoratori. Una progressiva caduta del saggio di profitto determina tuttavia una crisi generale del modo di produzione capitalistico. Per Marx, infatti, il saggio di profitto rappresenta non solo la remunerazione del capitalista ma anche il motore dell’accumulazione. Una sua precipitazione verso lo zero frenerà l’azione del capitalista, quindi renderà a un certo punto impossibile la riproduzione del sistema capitalistico e aprirà la via ad un’epoca di rivoluzione sociale.

Tra le cause che secondo Marx determinano crisi ripetute vi è però anche il fatto che la spietata concorrenza tra le imprese conduce a una continua serie di rivoluzioni tecniche e organizzative che aumentano al massimo la produttività di ogni singolo lavoratore e al tempo stesso riducono il suo salario. Ciò tuttavia implica un divario crescente tra la capacità produttiva dei lavoratori e la capacità di spesa degli stessi lavoratori. Sotto date condizioni questo divario può determinare un problema di sbocchi per le merci prodotte. La conseguenza è che il processo di accumulazione dei capitali si blocca e le imprese sono indotte a licenziare i lavoratori. Ma ciò allarga ulteriormente il divario tra capacità produttiva e capacità di spesa, per cui il sistema rischia di avvitarsi su sé stesso fino al tracollo. 
Al riguardo Marx scrive: «…La causa ultima di tutte le crisi rimane sempre la povertà ed il consumo ristretto delle masse, di fronte alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive…» (Capitale, vol. III). 

Le due tesi descritte si affiancano poi a un’altra tendenza registrata da Marx, quella verso la scomparsa dei capitali più piccoli o la loro acquisizione da parte dei capitali più grandi, la cui proprietà e il cui controllo tenderebbero a concentrarsi in sempre meno mani: nel linguaggio marxiano, si parla di tendenza verso la “centralizzazione” dei capitali a livello internazionale. La letteratura marxista ha derivato da questa tendenza varie implicazioni, tra cui due contraddizioni: una concorrenza capitalistica che spinge sempre più verso la monopolizzazione dei mercati da parte dei pochi, grandi capitali vincenti, e una radicalizzazione del conflitto di classe tra una cerchia ristretta di proprietari e una massa crescente di diseredati. Alla luce delle tendenze descritte Marx contesta dunque l’idea classica di un capitalismo “naturale” e quindi “eterno”, sostenendo invece la tesi della sua instabilità, della sua contraddittorietà e quindi anche della sua storicità, vale a dire della sua finitezza.

Per Marx, l’elemento di maggior contraddizione del capitalismo è che la feroce competizione tra capitali da un lato sviluppa nuove tecniche e nuove forze produttive, ma dall’altro scatena le crisi e quindi genera tensioni nei rapporti di produzione tra le classi sociali. In particolare, la classe lavoratrice si ritrova ad essere l’artefice in ultima istanza dello sviluppo delle forze produttive, poiché quello sviluppo avviene soprattutto in base allo sfruttamento imposto dal comando del capitale sul lavoro. Al tempo stesso, la classe lavoratrice risulta anche la prima vittima della disoccupazione e degli immiserimenti causati dalle ricorrenti crisi del capitalismo. Le contraddizioni del capitalismo ricadono dunque principalmente sui lavoratori salariati, artefici e vittime del sistema. A causa di queste contraddizioni, Marx giudicava il capitalismo un sistema potente ma irrazionale, caotico, “anarchico”, destinato prima o poi ad entrare in una crisi irreversibile e ad esser quindi sostituito da un diverso sistema di organizzazione dei rapporti economici e sociali. 

L’analisi marxiana potrebbe in questo senso essere considerata una indagine sulle condizioni di riproducibilità del modo di produzione capitalistico, e sulle circostanze che possono pregiudicare quelle stesse condizioni. Quando si dice che in Marx è fondamentale il concetto di storicità, si intende appunto che egli sottolinea il fatto che i sistemi economici non sono affatto eterni ma risultano storicamente determinati, nel senso che cambiano nel tempo. Ad esempio, è noto che la Rivoluzione francese ha effettivamente sancito il passaggio dall’Antico regime feudale (basato sul potere dei proprietari terrieri) al regime di produzione capitalista (in cui il potere è nelle mani dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione, cioè delle imprese). Allo stesso modo, è possibile che il capitalismo a un certo punto imploda nelle sue contraddizioni e ceda il passo a una nuova e diversa modalità di organizzazione dei rapporti sociali. 

Marx si attendeva in tal senso una svolta rivoluzionaria guidata dalla classe lavoratrice, a seguito della quale potesse sorgere un sistema di tipo socialista: vale a dire un sistema non più basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul lavoratore salariato posto sotto il comando del capitalista, né basato sulla competizione tra capitali e tra lavoratori, ma fondato invece sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione sociale del lavoro. 

In una prima fase il sistema socialista si sarebbe per forza di cose basato sul controllo statale sui mezzi di produzione, sulla divisione del lavoro e sulle retribuzioni. Ma più in prospettiva, a seguito dello sviluppo delle forze produttive e della ricchezza sociale, Marx preconizzava un futuro comunista, nel quale il potere coercitivo dello Stato, la divisione del lavoro e lo stesso concetto di “salario” sarebbero diventati superflui. Nella Critica al programma di Gotha del 1875, egli definì il comunismo in questi termini: 
«In una fase più avanzata della società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico […] dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze collettive scorrono in abbondanza; soltanto allora la società può scrivere sulle sue bandiere: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni». 

Marx riteneva tanto più probabile una svolta rivoluzionaria quanto più le contraddizioni del capitalismo fossero state portate alle estreme conseguenze. Per questo, nel 1848, in un celebre Discorso sul libero scambio, egli dichiarò di ritenere preferibile il liberoscambismo internazionale al protezionismo. L’apertura dei vari paesi agli scambi internazionali, a suo avviso, avrebbe elevato su scala mondiale i processi di centralizzazione dei capitali, i divari tra sviluppo delle forze produttive e consumi ristretti delle masse e la caduta tendenziale del saggio di profitto. Una volta globalizzato, il capitalismo avrebbe dunque portato l’instabilità e le contraddizioni a tal punto da rendere inesorabile una svolta rivoluzionaria. Anche il giovane Marx dunque era liberoscambista, ma per motivi decisamente diversi rispetto a Ricardo. 

Naturalmente Marx non fu il primo comunista della Storia. Molti prima di lui avevano sostenuto l’ideale superiorità di un sistema fondato sulla cooperazione sociale anziché sulla competizione individuale, e sulla proprietà collettiva anziché privata dei mezzi di produzione. E in passato non erano nemmeno mancate esperienze di comunismo concreto, come ad esempio quello delle comunità cristiane primitive. Marx tuttavia differiva dai suoi predecessori per un motivo: egli intendeva poggiare la sua visione politica non su basi etico-morali e utopiche, ma su una analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo e della sua fragilità intrinseca. 

In verità, si potrebbe obiettare che in fondo anche le premonizioni di Marx sull’avvento del socialismo e poi del comunismo fossero implicitamente guidate da un’istanza utopica. Il dibattito, su questo fronte, è aperto. Resta tuttavia il fatto che l’indagine marxiana ha effettivamente contribuito a porre in evidenza le contraddizioni e l’instabilità del capitalismo, e ha quindi fornito una base analitica alla tesi della sua storicità, ossia del suo non essere necessariamente “eterno”. In ciò risiede la rilevanza scientifica di Marx, che lo distingue nettamente dai comunisti del passato. 

Ovviamente, una tesi può dirsi in quanto tale “scientifica” solo se può essere verificata o smentita sulla base delle analisi teoriche ed empiriche. A tale riguardo, i marxisti e i loro critici tuttora dibattono. Se si volesse comunque provare a trarre dai dati qualche indizio sulla erroneità o meno delle previsioni marxiane, alcune considerazioni in effetti si potrebbero trarre, sia pure molto parziali. 

L’andamento di lungo periodo del saggio di profitto negli Stati Uniti. 
La dinamica in effetti è controversa: dal 1944 si registra una tendenza alla caduta del saggio di profitto, come preconizzato da Marx, ma se si prende un arco di tempo più lungo l’andamento è più difficile da interpretare; inoltre, guardando la crisi recente, esplosa nel 2008, essa sembra esser stata preceduta per circa un ventennio da un’ascesa anziché da una caduta del saggio di profitto. 
La tendenza alla caduta del tasso di profitto non sembra dunque trovare dei chiari riscontri. 

Invece, la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i consumi ristretti delle masse lavoratrici sembrerebbe trovare una conferma, almeno per quanto riguarda l’ultimo trentennio della quota di reddito nazionale spettante al salari. 
La tendenza al declino è piuttosto evidente. 

Anche la tendenza alla centralizzazione dei capitali appare confermata. I dati rivelano in effetti un processo di centralizzazione dei capitali estremamente accentuato, specialmente nell’ultimo trentennio. 

Ad ogni modo, se è vero che ancora oggi ci si interroga sul piano scientifico sulla capacità o meno di Marx di cogliere alcune tendenze di fondo dello sviluppo capitalistico, è altrettanto vero che un fenomeno di ben più ampia portata si verificò verso la fine dell’Ottocento, quando le tesi marxiane divennero il punto di riferimento del movimento operaio, cioè delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori che in quel periodo andavano sviluppandosi e consolidandosi in molti paesi. Probabilmente, il motivo principale per cui l’analisi di Marx aveva all’epoca un tale successo risiedeva nel fatto che quegli elementi di contraddizione, di instabilità e quindi di storicità che egli ravvisava nel capitalismo venivano precipitosamente tradotti in un preciso messaggio politico: comunicare ai lavoratori che con le loro lotte di emancipazione stavano contribuendo a smuovere la Storia, accelerando la crisi del sistema capitalistico e creando le condizioni per una nuova e superiore organizzazione della società. 

Chiaramente, per molti altri queste tesi risultavano scomode, pericolose. Rimarcando l’instabilità e la storicità del modo di produzione capitalistico, l’analisi di Marx rappresentava uno sprone per i movimenti rivoluzionari, ma anche una oggettiva minaccia per i proprietari del capitale, principali detentori del potere economico e politico. Che Marx avesse ragione o meno, che avesse o meno saputo afferrare la meccanica profonda e i destini del capitalismo, le sue tesi erano diventate una potenziale leva per il sovvertimento dell’ordine costituito. 

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