domenica 17 gennaio 2016

Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere* - Riccardo Bellofiore (2012)


Credo che sia una precondizione essenziale perché le cose cambino in meglio è che ci sia una lotta dura e senza ambiguità contro qualsiasi politica di ‘austerità’, una lotta dura per reggere sul salario, una lotta dura per ottenere reddito. Queste sono però lotte difensive, anche se essenziali. La questione che però abbiamo di fronte è ben più seria, e ci si arriva partendo da Marx, come anche partendo da Hyman Minsky. Il nostro problema è quello di mettere in questione sia la composizione della produzione che la natura della produttività. A noi fanno una testa così sul rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo e sul costo del lavoro per unità del prodotto. Quello che sta al denominatore, in entrambi i rapporti, ha a che vedere con cosa, come e quanto si produce. Non esiste sinistra, almeno nel mio senso della parola, se non si ha la pretesa, se non si ha l’ambizione, di intervenire sul denominatore, sulla produttività e sulla produzione. E non esiste uscita da sinistra, da questa crisi, che non sia legata alle lotte su questo terreno.

Sono, lo confesso, abbastanza colpito dal fatto che trovo molto più radicali i ragionamenti che leggo negli ultimi due capitoli finali del libro di Hyman Minsky Keynes e l’instabilità del capitalismo, del 1975 (edito da noi da Boringhieri), di qualsiasi cosa mi capiti di leggere, dovunque, di qualsiasi sinistra. In questo libro Minsky – nominando, tra l’altro ed esplicitamente il ‘socialismo’ – propone di una socializzazione dell’investimento molto più radicale di quella di Keynes, a cui affianca una socializzazione dell’occupazione, una socializzazione della banca e della finanza. Minsky non ha remore a criticare il keynesismo realizzato, un sistema che, sostiene, ha finito con il distruggere la natura, come l’equilibrio sociale, producendo una nuova crisi da cui se ne esce soltanto ponendo la questione di cosa e come si produce: usa praticamente la stessa terminologia che ho impiegato io. Alla sua espressione per cui lo Stato dovrebbe essere occupatore di ultima istanza, preferisco l’idea che è tipica di un certo sindacato italiano (ma anche di pensatori liberalsocialisti come Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini) di un Piano del Lavoro. Se lo Stato deve intervenire definendo, oltre il livello, anche la composizione della produzione, deve anche suscitare direttamente occupazione in quei settori (se questo stimolo pubblico si traduca necessariamente in nazionalizzazione è un’altra questione).

Come mai questo Minsky tira fuori queste idee? Perché è nato politicamente nel bel mezzo del New Deal, il New Deal di Roosevelt. Perché il New Deal era keynesiano, perché sosteneva i disavanzi dello Stato? No, questa è un’altra leggenda della sinistra italiana. Roosevelt era contro i disavanzi dello Stato. Roosevelt ha bloccato il New Deal nel 1937, perché s’è spaventato del debito pubblico che cresceva. Però, tra il 1933 e il 1937 è intervenuto con investimenti infrastrutturali – alcuni con l’ottica del dopo ci piaceranno, altri no – provvedendo direttamente occupazione. E perché ha potuto e ha dovuto farlo? Perché era incalzato da lotte dal basso: da un lato rispondeva alla crisi, ma dall’altro lato era tallonato da lotte della classe lavoratrice, e da un’intellettualità – non solo economica, anche giuridica, quella che sta dietro il Wagner Act; e da una intellettualità più in generale – che era in grado di pensare in avanti, che era dotata da quello che Musil chiamava il ‘senso della possibilità’. Non è il senso di un sognatore, che nega che esistano i vincoli, ma sa che si possono e si debbono ridefinire i vincoli.

Chiudo su questo con due, anzi tre osservazioni. La prima è che c’è un punto su cui non sono d’accordo con Minsky. I keynesiani, anche quelli più avanzati e progressisti come lui, pensano che in questo modo si crei un nuovo ‘equilibrio’, un capitalismo ‘buono’ (tra i 47 possibili di cui scherzava Minsky). No, tutto ciò, semmai avesse una traduzione nella realtà effettuale, creerebbe una situazione di ‘squilibrio’ che certo il capitalismo può subire, e che non tollererebbe per molto (così come Kalecki nel 1943 ammonì che un capitalismo di piena occupazione sarebbe stato possibile, ma non su base permanente). Questo mi porta alla seconda osservazione, che qualcuno riterrà un po’ contraddittoria. Si ottengono, delle riforme decenti soltanto se non si accettano i vincoli così come sono e quindi solo se si ha un atteggiamento ‘rivoluzionario’. Questo in genere non piace né ai riformisti, né ai rivoluzionari. Su questo, sul tema del cosa, come e quanto produrre, credo che si possa e debba trasversalmente discutere, in Italia e altrove, nella sinistra in generale: la separazione tra chi ha a tema le problematiche strutturali e chi si limita alle questioni distributive attraversa tutte le formazioni politiche e sindacali, e non è leggibile lungo l’asse moderati/radicali. La terza osservazione è che ci troviamo ormai di fronte il dispiegarsi di un capitalismo autoritario. Uno dei pochi maestri che ho avuto, Claudio Napoleoni, alla fine della sua vita, in una fase di cui non condivido tante cose, ha detto però una cosa giustissima. Il capitale è tendenzialmente autoritario, perché include dentro di sé la forza lavoro, facendone la rotella di un meccanismo, pretendendo che i lavoratori e le lavoratrici non abbiano voce, non siano soggetti ma solo ‘cose’. Al capitale, sosteneva, la democrazia viene ‘dall’esterno’.

Quali sono le prospettive della crisi? La crisi sarà lunga, la crisi sarà devastante. Se ne uscirà, se se ne uscirà, con il conflitto dal basso e con un intervento dall’alto, che richiederà un diverso intervento attivo da parte dello Stato. Ma questo può avvenire da destra. Il conflitto sociale già oggi si sta generalizzando come insorgenza reazionaria, che attraversa le classi popolari. Potrà fare da contraltare un intervento dello Stato, da destra, ripeto, di carattere autoritario, reazionario. Non sarà il vecchio fascismo.

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