Credo che sia una precondizione essenziale perché le cose
cambino in meglio è che ci sia una lotta dura e senza ambiguità contro
qualsiasi politica di ‘austerità’, una lotta dura per reggere sul salario, una
lotta dura per ottenere reddito. Queste sono però lotte difensive, anche se
essenziali. La questione che però abbiamo di fronte è ben più seria, e ci si
arriva partendo da Marx, come anche partendo da Hyman Minsky. Il nostro
problema è quello di mettere in questione sia la composizione della produzione
che la natura della produttività. A noi fanno una testa così sul rapporto
debito pubblico/prodotto interno lordo e sul costo del lavoro per unità del
prodotto. Quello che sta al denominatore, in entrambi i rapporti, ha a che
vedere con cosa, come e quanto si produce. Non esiste sinistra, almeno nel mio
senso della parola, se non si ha la pretesa, se non si ha l’ambizione, di
intervenire sul denominatore, sulla produttività e sulla produzione. E non
esiste uscita da sinistra, da questa crisi, che non sia legata alle lotte su
questo terreno.
Sono, lo confesso, abbastanza colpito dal fatto che trovo
molto più radicali i ragionamenti che leggo negli ultimi due capitoli finali
del libro di Hyman Minsky Keynes e l’instabilità del capitalismo, del 1975
(edito da noi da Boringhieri), di qualsiasi cosa mi capiti di leggere,
dovunque, di qualsiasi sinistra. In questo libro Minsky – nominando, tra
l’altro ed esplicitamente il ‘socialismo’ – propone di una socializzazione
dell’investimento molto più radicale di quella di Keynes, a cui affianca una
socializzazione dell’occupazione, una socializzazione della banca e della
finanza. Minsky non ha remore a criticare il keynesismo realizzato, un sistema
che, sostiene, ha finito con il distruggere la natura, come l’equilibrio
sociale, producendo una nuova crisi da cui se ne esce soltanto ponendo la
questione di cosa e come si produce: usa praticamente la stessa terminologia
che ho impiegato io. Alla sua espressione per cui lo Stato dovrebbe essere
occupatore di ultima istanza, preferisco l’idea che è tipica di un certo
sindacato italiano (ma anche di pensatori liberalsocialisti come Ernesto Rossi
e Paolo Sylos Labini) di un Piano del Lavoro. Se lo Stato deve intervenire
definendo, oltre il livello, anche la composizione della produzione, deve anche
suscitare direttamente occupazione in quei settori (se questo stimolo pubblico
si traduca necessariamente in nazionalizzazione è un’altra questione).
Come mai questo Minsky tira fuori queste idee? Perché è nato
politicamente nel bel mezzo del New Deal, il New Deal di Roosevelt. Perché il
New Deal era keynesiano, perché sosteneva i disavanzi dello Stato? No, questa è
un’altra leggenda della sinistra italiana. Roosevelt era contro i disavanzi
dello Stato. Roosevelt ha bloccato il New Deal nel 1937, perché s’è spaventato
del debito pubblico che cresceva. Però, tra il 1933 e il 1937 è intervenuto con
investimenti infrastrutturali – alcuni con l’ottica del dopo ci piaceranno,
altri no – provvedendo direttamente occupazione. E perché ha potuto e ha dovuto
farlo? Perché era incalzato da lotte dal basso: da un lato rispondeva alla
crisi, ma dall’altro lato era tallonato da lotte della classe lavoratrice, e da
un’intellettualità – non solo economica, anche giuridica, quella che sta dietro
il Wagner Act; e da una intellettualità più in generale – che era in grado di
pensare in avanti, che era dotata da quello che Musil chiamava il ‘senso della
possibilità’. Non è il senso di un sognatore, che nega che esistano i vincoli,
ma sa che si possono e si debbono ridefinire i vincoli.
Chiudo su questo con due, anzi tre osservazioni. La prima è
che c’è un punto su cui non sono d’accordo con Minsky. I keynesiani, anche
quelli più avanzati e progressisti come lui, pensano che in questo modo si crei
un nuovo ‘equilibrio’, un capitalismo ‘buono’ (tra i 47 possibili di cui
scherzava Minsky). No, tutto ciò, semmai avesse una traduzione nella realtà
effettuale, creerebbe una situazione di ‘squilibrio’ che certo il capitalismo
può subire, e che non tollererebbe per molto (così come Kalecki nel 1943 ammonì
che un capitalismo di piena occupazione sarebbe stato possibile, ma non su base
permanente). Questo mi porta alla seconda osservazione, che qualcuno riterrà un
po’ contraddittoria. Si ottengono, delle riforme decenti soltanto se non si
accettano i vincoli così come sono e quindi solo se si ha un atteggiamento
‘rivoluzionario’. Questo in genere non piace né ai riformisti, né ai
rivoluzionari. Su questo, sul tema del cosa, come e quanto produrre, credo che
si possa e debba trasversalmente discutere, in Italia e altrove, nella sinistra
in generale: la separazione tra chi ha a tema le problematiche strutturali e
chi si limita alle questioni distributive attraversa tutte le formazioni
politiche e sindacali, e non è leggibile lungo l’asse moderati/radicali. La
terza osservazione è che ci troviamo ormai di fronte il dispiegarsi di un
capitalismo autoritario. Uno dei pochi maestri che ho avuto, Claudio Napoleoni,
alla fine della sua vita, in una fase di cui non condivido tante cose, ha detto
però una cosa giustissima. Il capitale è tendenzialmente autoritario, perché
include dentro di sé la forza lavoro, facendone la rotella di un meccanismo,
pretendendo che i lavoratori e le lavoratrici non abbiano voce, non siano
soggetti ma solo ‘cose’. Al capitale, sosteneva, la democrazia viene
‘dall’esterno’.
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