venerdì 23 maggio 2014

Riflessioni senili a ruota libera su crisi del capitalismo e crisi della sinistra - Vittorio Rieser 2012


La categoria del “tradimento dei gruppi dirigenti” della sinistra è certamente una semplificazione insufficiente, ma forse è più reale di quella della “integrazione/subordinazione delle classi lavoratrici”: le lotte, sia pure “sparse”, contro una situazione di progressivo peggioramento lo dimostrano. Tale categoria va però “maneggiata con cautela”, anche se non scartata. Per fare l’esempio italiano: non v'è dubbio che i gruppi dirigenti dell’ex-PCI, che ne hanno promosso il progressivo dissolvimento, avessero in mente il progressivo abbandono di una prospettiva di classe e la relativa conversione al neo-liberismo, come espressione delle “inevitabili leggi del capitale”, giudicato come “stato naturale ed eterno” (quasi che l’analisi critica del capitalismo fosse un “ciarpame stalinista” da buttare). Ma questi gruppi erano cresciuti e si  erano affermati nel vecchio PCI – tant’è vero che l’ultimo Berlinguer vi si trovava minoritario – e ci sarà pure una “ragione oggettiva” da indagare... Non a caso, elementi di una impostazione neo-liberista (o, nel migliore dei casi, “neo-corporativa ritardata”: si veda la strategia della concertazione) hanno contagiato anche organizzazioni come la CGIL, relativamente autonome dal processo innescato nel PCI dalla crisi/crollo del socialismo reale e dall’interpretazione che ne hanno tratto i suoi gruppi dirigenti (NB: come si può vedere, il capitalismo non crolla, ma il socialismo sì...).

Negli ultimi decenni, non son mancati nell’Occidente capitalistico (che, come ho detto, è l’orizzonte, certo limitativo, di queste note) grandi movimenti di lotta contro l’assetto sociale esistente, che hanno coinvolto milioni di persone. E’ persino banale ricordarli sommariamente:
 - i movimenti “no-global” (o, per usare un linguaggio politically correct, “altermondialisti”)

- i recenti movimenti degli indignados;
- movimenti ecologisti, anti-nuclearisti, e – con elementi per certi versi affini – movimenti  come quello no-Tav                                                                                                                                                                                   
Si sente la mancanza di forme di organizzazione politica che colleghino questi movimenti a un orizzonte complessivo e gli diano continuità.

Per ora, l’unica prospettiva che si può approssimativamente ipotizzare è quella di un processo in cui, a partire dalle esperienze dei movimenti di lotta, venga costruita una forza politica organizzata, che provi a tradurre questi movimenti e le loro esperienze di lotta in un progetto complessivo di trasformazione della società. In più, tutto ciò può aver senso solo se avviene a un livello internazionale di ampiezza e rilevanza sufficienti perché un tale progetto possa avere una concreta prospettiva di realizzazione (ad es. a livello europeo).
Buona fortuna, compagni!                                                                                                                                   

http://www.sindacalmente.org/sites/www.sindacalmente.org/files/rieser-riflessioni_senili_sulla_sinistra.pdf

giovedì 22 maggio 2014

Lenin e la Rivoluzione

"La storia [...] ha seguito una via tanto particolare che ha generato nel 1918 due metà di socialismo, separate e vicine come due pulcini sotto la chioccia comune dell'imperialismo internazionale. La Germania e la Russia incarnano con una evidenza particolare la realizzazione materiale delle condizioni del socialismo, delle condizioni economiche, produttive e sociali da una parte, e delle condizioni politiche dall'altra.                                                                             [...] Una rivoluzione proletaria vittoriosa in Germania romperà di colpo, con la più grande facilità, tutti gli involucri dell'imperialismo e assicurerà a colpo sicuro la vittoria del socialismo mondiale senza difficoltà o con difficoltà insignificanti, a condizione di considerare le difficoltà sulla scala della storia mondiale, e non a quella di qualche gruppo di filistei.                                                                                                                                      [...]    Commetteremmo un errore irreparabile dichiarando che, essendo scontata la sproporzione fra le nostre "forze" economiche e la nostra forza politica, se ne "deduce" che non bisognava prendere il potere. È questo un ragionamento da "maniaci viventi nella bambagia", che dimenticano che non ci sarà mai "proporzione", che non è data averla né nello sviluppo della natura, nè in quello della società, che il socialismo compiuto non sarà risultato che dalla collaborazione rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi e in seguito a molti tentativi dei quali ciascuno, considerato isolatamente, sarà unilaterale e soffrirà di una certa sproporzione" [Lenin]                                           http://www.leftcom.org/it/articles/1970-06-01/lenin-e-il-capitalismo-di-stato                         

giovedì 15 maggio 2014

La rivoluzione tedesca - Paul Mattick - Il comunismo anti-bolscevico in Germania, uscito postumo nel 1983 -


Il processo di concentrazione di potere capitalistico e politico impone a ogni movimento di qualche importanza sociale l’obbligo o di distruggere il capitalismo o di porsi coerentemente al suo servizio.
Il vecchio movimento operaio tedesco non poteva optare per la per la seconda alternativa, né voleva né era in grado di realizzare la prima. Esso non agì coerentemente alla sua ideologia originaria né in accordo con i suoi interessi reali e immediati. Per un certo periodo servì da strumento di controllo nelle mani della classe dominante. Perdendo prima la propria indipendenza, doveva ben presto perdere la sua effettiva esistenza.
Essenzialmente la storia di questo movimento è la storia del mercato capitalistico considerata da un punto di vista ‘proletario’. Le cosiddette leggi di mercato dovevano essere utilizzate a vantaggio della merce forza lavoro. Le azioni collettive dovevano portare ai più elevati salari possibili. Il ‘potere economico’ conquistato in tal modo doveva essere difeso mediante riforme sociali. Anche i capitalisti accrebbero il controllo organizzato sul mercato. Da entrambi i lati si favorì la riorganizzazione monopolistica della società capitalista sebbene, senza dubbio, dietro le loro attività coscientemente concepite in ultima analisi non vi erano altro che le esigenze di sviluppo del capitale stesso. Le loro politiche e le loro aspirazioni, per quanto fondate su concrete considerazioni di fatti e di necessità particolari, erano tuttora determinate dal carattere feticistico del loro sistema di produzione.

A parte il feticismo della merce, qualunque sia il significato che le leggi di mercato possano assumere rispetto ad arricchimenti o perdite particolari e per quanto possano essere manovrate da questo o quell’altro gruppo di interesse, in nessuna circostanza possono essere utilizzate a vantaggio della classe operaia considerata nel suo complesso. Non è il mercato che controlla gli individui e determina le relazioni sociali prevalenti ma piuttosto il fatto che nella società un gruppo separato possiede o controlla i mezzi di produzione e gli strumenti di repressione.

Per sconfiggere il capitalismo sono necessarie azioni esterne alle relazioni di mercato tra lavoro e capitale, azioni che aboliscono entrambi, il mercato e le relazioni di classe. Limitando le azioni all’interno del perimetro capitalistico il vecchio movimento operaio doveva autodistruggersi o ad essere distrutto dall’esterno. Era destinato o ad essere scisso internamente dalla propria opposizione rivoluzionaria, che avrebbe dato origine a nuove organizzazioni, o condannato ad essere distrutto dalla trasformazione capitalistica di una economia di mercato in una economia di mercato controllata, e dai concomitanti mutamenti politici.

mercoledì 14 maggio 2014

Note su Stato e libertà nel giovane Marx - Aristide Bellacicco

Aristide Bellacicco (Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni") 

Nella “Critica alla filosofia del diritto pubblico di Hegel. Introduzione.” Marx, per la prima volta, individua nel proletariato l’unica classe capace di sovvertire l’intero ordinamento della società e dello Stato (la Germania, in quel caso).  Nel linguaggio fortemente dialettico delle sue opere giovanili, Marx così mette a fuoco la condizione proletaria e le potenzialità che ne derivano: “Dov’è dunque la possibilità effettiva   della emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti.”

Contro questa classe “viene esercitata non un ‘ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro”, essa è “in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico” e non può “ emancipare se stessa  senza…emancipare  tutte le rimanenti sfere della società”. Il proletariato è “la perdita completa dell’uomo,  e può dunque  guadagnare nuovamente se stessa  attraverso il completo recupero dell’uomo”.

Nel momento in cui scrive questo articolo per gli “Annali  franco- tedeschi” Marx non ha  ancora intrapreso gli studi di economia cui si dedicherà anima e corpo negli anni successivi: non ha ancora messo a fuoco sul piano scientifico la struttura antinomica della società capitalistica né la centralità della contraddizione capitale – lavoro. In più, è da notare come egli, consapevole della condizione di arretratezza economica e sociale della Germania dei suoi tempi,  parli di “formazione” di una classe: significa che questa classe ancora non è pienamente sviluppata e che solo il suo sviluppo porrà le condizioni perché essa possa svolgere il ruolo storico che Marx le riconosce.

Voglio dire che il problema centrale, con cui Marx si confronta qui, non è ancora quello del superamento di un determinato sistema socio-economico fondato sulla separazione del lavoro dai mezzi di produzione: il tema dell’assoggettamento umano  appare, dunque,  non come  conseguenza   di particolari rapporti di produzione, bensì nella forma dell’opposizione fra l’uomo e lo Stato, fra “società civile” e Stato, fra l’“essenza umana”  e la sua negazione nello Stato – qualsiasi Stato.

E’ nozione di tutti come su questi temi  ( il “giovane Marx”, i suoi rapporti con l’hegelismo, il suo “umanesimo”, la successiva cosiddetta “rottura epistemologica ecc.) siano state scritte moltissime pagine – è sufficiente ricordare Althusser.

Ma è fuor di dubbio, a mio avviso, che in questo breve e difficile testo si possa scorgere un elemento in grado di illuminare un aspetto del pensiero – o meglio, del modo  di pensare – di Marx, che non solo non verrà meno nell’opera successiva, ma che ne costituirà, sempre, lo sfondo e il presupposto: mi riferisco all’originaria vocazione etico- morale di Marx, la stessa che lo avvicina, ma anche lo differenzia,  ad altri scrittori  socialisti o “comunisti” del suo tempo.

Nel parlare di  “vocazione etico- morale “, però, non intendo indicare qualcosa di assimilabile a un sentimento o a un “astratto furore” – per dirla col Vittorini di “Conversazione in Sicilia”: c’è sicuramente del sentimento in Marx, e senz’altro anche del furore e una genuina indignazione, che spesso si scaricano in ironia e sarcasmo, ma non sono questi i fondamenti della sua posizione etica.

Piuttosto Marx, a partire dai suoi primi scritti,  si presenta come il più coerente prosecutore della linea che dall’Illuminismo porta alla Rivoluzione  Francese. Quella linea, cioè, che riconosce nell’uomo (ma c’era già in Vico) l’unico costruttore della propria storia e, dunque, anche dello Stato e della società in quanto prodotti storici. La novità di Marx (ma rintracciabile anche in altri) sta però nel suo scorgere che lo stesso Stato che nasce dalla Rivoluzione giacobina, lo Stato ispirato dal “Contratto sociale di Rousseau e portato alle estreme conseguenze dal Robespierrismo di sinistra e dal radicalismo piccolo- borghese di Saint- Just, una volta rovesciati i tiranni si rovescia poi a sua volta al punto da diventare egli stesso un nuovo tiranno. Non per un errore degli uomini: ma per sua intrinseca natura, per una “legge” storica.

Marx, ovviamente, non nega il grande progresso costituito dalla Rivoluzione francese, al contrario:   egli contrappone nettamente lo Stato della Convenzione, e in generale gli Sati a costituzione democratico- rappresentativa, allo Stato  prussiano- tedesco“teologico”, autoritario, censore  e semi-feudale.

Ma, per usare un’espressione del linguaggio comune, quel progresso “non gli basta”. Un altro passo va compiuto sulla strada della liberazione umana, e questo passo corrisponde al superamento dello Stato in quanto tale, condizione sine qua non  perché l’uomo si ritrovi finalmente padrone assoluto di se stesso: non solo nei cieli della teoria ma nella concretezza della sua esistenza effettiva.

Si può parlare di Marx, almeno in questa  fase del suo pensiero, come di un  “anarchico razionale”? Forse a questa domanda si può rispondere affermativamente a patto di porre l’enfasi sul termine “razionale”, vale a dire sulla consapevolezza,  che in Marx è senz’altro presente, che non si tratta di distruggere fisicamente  un apparato più o meno oppressivo la cui semplice scomparsa restituirebbe magicamente agli uomini la completa libertà. Tutt’altro: la libertà umana è un  presupposto, non una conseguenza, del superamento dello Stato. Infatti, solo attraverso l’esercizio della libertà questo processo potrà compiersi: ma non della libertà formale, nemmeno di quella vigente nelle democrazie rappresentative, bensì di quella libertà  che Marx vede come propria dell’essenza umana e che fa degli uomini, in ogni circostanza, dei creatori di se stessi.

Marx, si può dire in anticipo su se stesso, individua  nel proletariato l’iniziatore e il catalizzatore di questo processo. Lo fa ancora prima di diventare propriamente “comunista”, il che comunque avverrà da lì a poco. Lo fa perché crede che l’uomo sia qualcosa per cui valga la pena spendersi: in questo  è un grande erede dell’Illuminismo e ancora in questo sta la sua originaria ispirazione etica.

Risposta a Lenin - Hermann Gorter (1920)


Premessa

Vorrei attirare la vostra attenzione, compagno Lenin, la vostra e quella del compagno lettore, sul fatto che questo opuscolo è stato scritto durante la marcia vittoriosa dei russi su Varsavia.
Vorrei anche scusarmi con voi e con il lettore per le numerose ripetizioni. Poiché la tattica dei "sinistri" è sconosciuta agli operai di quasi tutti i paesi, non ho potuto evitare le ripetizioni.
H. G.
                                                                                                                                         
Masse e capi
Caro compagno Lenin ho letto il vostro opuscolo sull'estremismo nel movimento comunista. Ne ho tratto molti insegnamenti, come da tutte le vostre opere. Ve ne sono riconoscente, insieme, certamente, a molti altri compagni. Molte tracce e molti germi di questa malattia infantile che, senza dubbio, si trovavano anche in me, sono stati scacciati e certamente lo saranno ancor più nel futuro. La stessa cosa può essere affermata per quello che voi dite sulla confusione che la rivoluzione ha causato in molte teste: si tratta d'un giudizio giustissimo. Lo so: la rivoluzione è arrivata così improvvisa e così imprevista! La vostra opera sarà per me un nuovo stimolo a far dipendere sempre e innanzitutto il mio giudizio su tutte le questioni tattiche, ivi compresa quelle della rivoluzione, soltanto dalla situazione reale, dai rapporti di forza reali tra le classi, quali si manifesteranno politicamente ed
economicamente.
Dopo avere letto il vostro opuscolo, ho pensato: tutto questo è giusto. Ma quando, a testa riposata, mi sono domandato a lungo se ora avrei dovuto smettere di sostenere questa sinistra e di scrivere articoli per il KAPD e per il partito dell'opposizione in Inghilterra, sono stato costretto a rispondere negativamente.
Ciò sembra contradditorio. Ma la contraddizione deriva, compagno, dal fatto che il vostro punto di partenza nell'opuscolo non è giusto. Avete torto, secondo me, per quanto riguarda il parallelismo tra la rivoluzione nell'Europa dell'ovest e la rivoluzione russa, per quanto riguarda le condizioni della rivoluzione nell'Europa dell'ovest, in altri termini per quanto riguarda il rapporto di forza tra le classi; a causa di ciò, voi non conoscete il terreno di sviluppo della sinistra, dell'opposizione. E quindi l'opuscolo appare corretto se si adotta il vostro punto di partenza; se lo si respinge (ed è quello che si deve fare), allora l'intero opuscolo è falso. Poiché tutti i giudizi che voi date, gli uni erronei, gli altri radicalmente falsi, confluiscono nella condanna del movimento di sinistra, particolarmente in Germania e in Inghilterra, e poiché io, pur senza essere d'accordo su tutti i punti con questo movimento, come sanno i suoi capi, resto pienamente deciso a difenderlo, credo di agire nel modo migliore rispondendo al vostro opuscolo con una difesa della sinistra. Ciò mi darà l'occasione non soltanto di rivelare il suo terreno di sviluppo, di provare il suo diritto all'esistenza e le sue attuali caratteristiche, qui nell'Europa dell'Ovest, nella fase attuale, ma anche - e questo è forse anche importante - di combattere le rappresentazioni capovolte che prevalgono in merito alla rivoluzione europeo-occidentale, soprattutto in Russia. L'una e l'altra cosa hanno la loro importanza; sia la tattica europeo-occidentale che quella russa dipendono dalla concezione della rivoluzione nell'Europa occidentale. Avrei volentieri eseguito questo compito al congresso di Mosca, ma non sono stato in condizioni di parteciparvi.

venerdì 9 maggio 2014

TEMI WITTGENSTEINIANI - Stefano Garroni

Vedi anche:  http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/zettel-presenta-wittgenstein-e-la.html




“La maggior parte delle filosofie sono tentativi di interpretazione. Quella di Wittgenstein è forse più un sintomo e un simbolo, <un simbolo di un’ epoca di scompiglio>, come ha detto José Ferrater Mora.” (Bouveresse, Wittgenstein, scienze, etica, estetica, Laterza 1982: 12).


 1 - Introduzione: Wittgenstein, fondamento e duttilità.

 E’ possibile certo -come d’altronde è stato fatto in modo ottimo anche recentemente[1]- descrivere il pensiero di Wittgenstein, rintracciandone il filo rosso, che ne percorre tutta l’evoluzione e, così, mostrare ‘da dove egli sia partito’ e ‘dove sia andato a parare’. La stessa differenza tra un ‘primo’ ed un ‘secondo’ Wittgenstein, tra il Wittgenstein del Tractatus  e quello delle Philosophische Untersuchungen  o di Über Gewißheit, ad un’analisi più accurata perde in un certo senso di radicalità, poiché non marginali sono i momenti di continuità, che finiscono col risultare[2].

 E’ inoltre innegabile il valore che l’opera di Wittgenstein ha come testimonianza  delle problematiche logiche e morali, che hanno caratterizzato una certa Europa tra le due guerre mondiali: anche ciò -non è dubbio- milita a favore di una sostanziale continuità della riflessione wittgensteiniana. Eppure, in questa lettura si nasconde un pericolo.

 Esattamente il pericolo di attribuire a Wittgenstein qualcosa che egli ha sempre respinto -almeno da un certo momento della sua esistenza- con aspra nettezza: voglio dire l’intento di elaborare una teoria, -in questo senso, di fare della filosofia.

Quel che è accaduto davvero ad Odessa

                                                                                                                                                                     http://contropiano.org/internazionale/item/23801-quel-che-e-accaduto-davvero-ad-odessa

martedì 6 maggio 2014

L. WITTGENSTEIN - LA CULTURA MEDIA CONTEMPORANEA - NOTE AL RAMO D'ORO DI FRAZER - Stefano Garroni - 09-01-97


Trascrizione da:  https://www.youtube.com/playlist?list=PL0CFFE5BB9B8AC96C (audio)


1/10

 […] questo ci consente di arrivare alla questione delle condizioni di asseribilità e quindi di cogliere un punto fondamentale delle cultura contemporanea, usato dall’ideologia post-moderna in una maniera ovviamente infame, ma che è un problema serio, però, se lo si affronta bene: ed è un problema estremamente importante proprio in una prospettiva dialettica. Ora, immaginiamo una situazione piuttosto stupida. Io dico: “oggi è giovedì”, tu mi correggi e dici “no, guarda, è mercoledì”. E io “ come mercoledì ?” e tu “si, ieri era martedì e dunque…” “ah sì, hai ragione, oggi è mercoledì”.

Questa conversazione banalissima, ha però, da un punto di vista logico, una complicazione molto interessante. Io posso dire “sì, è vero, è mercoledì” oppure “sì hai ragione, è mercoledì” o ancora “sì, è corretto, oggi è mercoledì”. In fin dei conti, quello che voglio dire è che, se vale un certo modo di organizzare la settimana, e se vale un certo vocabolario della lingua italiana, allora si ricava che se ieri era martedì, oggi è certamente mercoledì. In altri termini, invece di dire semplicemente “è vero” io potrei dire a Maurizio “Poste alcune premesse – quel modo di organizzare la settimana, quel certo vocabolario ecc. – tu hai ricavato correttamente che oggi è mercoledì”. Voglio dire che io potrei togliere il termine “è vero” sostituendolo con la frase “è una conclusione rigorosa”: se valgono un certo vocabolario e certe regole, allora “questa conclusione è rigorosa”. Quindi “è vero” è sostituibile con la seconda espressione. Però attenti: quando io dico “è vero” posso intendere questa espressione in altri due sensi. Ad esempio: questo oggetto è rosso. Se è rosso, non è di un colore diverso dal rosso. Voi capite bene che in questo esempio “è vero” significa che “questo oggetto è rosso”. Se la frase è stata pronunciata in una lingua che io conosco, e io ho capito il significato delle parole, allora “questo oggetto è rosso” implica che non è di un colore diverso dal rosso. Cioè io dico “è vero” per intendere che quella proposizione, se ho compreso le parole, è sicuramente accettabile. Vedete bene che questo è un senso di “vero” diverso da quello precedente. Lì significava “è una corretta conclusione del ragionamento”: qui si tratta solamente di accertare se le parole sono state comprese: se le parole sono state comprese, la mia frase è vera.

Quindi “è vero” io posso dirlo sia nel senso che quel certo ragionamento è ben condotto (ho applicato correttamente le regole di un certo gioco), ma posso dirlo anche nel senso che qualcosa è vero in quanto ho capito il significato delle parole. Ma posso intenderlo anche in un altro senso, ad esempio come quando qualcuno dice: la natura è così e così indipendentemente dall’uomo. In questo senso “è vero” significa che c’è una realtà fatta in una certa maniera, e questa maniera prescinde completamente dall’uomo.

Allora, bisogna fare ben attenzione al fatto che, essendo diversi i significati dell’espressione, il problema è sempre quello di riuscire a cogliere che cosa si vuol dire dicendo “è vero”.

Soffermiamoci sul primo senso, dove “è vero” significa sostanzialmente che la conclusione di un ragionamento è corretta, risponde cioè alle regole di costruzione di quel ragionamento.

Adesso, immaginiamo una situazione di cui Wittgenstein si è effettivamente occupato: il matematico Godel dimostrò che qualunque sistema matematico sufficientemente sviluppato in modo rigoroso, produce sempre una proposizione non dimostrabile all’interno di quel sistema.

Ovviamente, fu un evento, perché venne colpita una convinzione millenaria, vale a dire che un esempio di conoscenza rigorosa è appunto la matematica. Qui (secondo Godel) si mostra invece che qualsiasi sistema matematico, se ben condotto fino un certo punto, arriva ad essere contraddittorio.

E Wittgenstein affronta questo problema con un tono molto interessante, che in fin dei conti può essere espresso in questi termini: va bene, si incontra una contraddizione, e allora? Cosa succede in fondo di tanto grave? In altri termini, Wittgenstein dice che bisogna combattere l’angoscia e il discredito superstizioso che i matematici hanno nei confronti del widersprueche.


2/10

Voi capite che questo è un luogo interessante perché, per chi è abituato al ragionamento dialettico, una posizione che afferma decisamente che il principio di non contraddizione non è così importante, e che bisogna anzi distruggere il pregiudizio che lo eleva a norma vincolante, è una cosa interessante. E Wittgenstein fa alcuni esempi. Nella conversazione comune, ad esempio, può avere un fondatissimo motivo rispondere a una domanda “sì e no”: quante volte lo facciamo? Il che è importante perché il discorso sul principio di non contraddizione viene affrontato portando la questione al livello dell’esperienza comune, e trovando nell’esperienza comune la possibilità di luoghi in cui questo principio viene violato. Cioè, voglio dire che questo spostamento dal piano del formalismo logico all’attenzione su come vanno le cose nella vita comune, è un movimento che il pensiero moderno comincia a fare dal seicento e che è una componente fondamentale della prospettiva dialettica.

Ma l’argomento di fondo di Wittgenstein è questo: torniamo al primo senso di “è vero”, cioè “è vero” come “ben ricavato da certe regole”. Allora, dice Wittgenstein, è del tutto possibile che all’interno di un certo sistema, una proposizione sia contraddittoria ma che non lo sia più all’interno di un altro sistema. In altre parole, il fatto che un certo sistema conduca ad una proposizione contraddittoria diventa di fatto uno stimolo ad un’ulteriore elaborazione di un’ulteriore sistema che, superando i limiti del precedente, tolga il carattere contraddittorio di quella proposizione.

Voi ricordate che quando Engels scrive la recensione al primo libro del Capitale di Marx, sottolinea proprio che Marx inizia la sua riflessione mettendo in evidenza i widerspruche della tradizione economica. Cioè il punto di partenza di Marx sono proprio quei widerspruche in cui si imbatte la tradizione economica. Voglio dire che in Engels il ruolo del widerspruche è proprio questo: è una contraddizione non risolvibile all’interno di un sistema; per questo, allora, viene prodotto un nuovo sistema che riesce a togliere il widerspruche. Nell’economia politica il widerspruche fondamentale è questo: le merci si scambiano al loro valore ma mediante lo scambio delle merci si produce profitto: ovviamente non è possibile. Questa contraddizione non è superabile all’interno della circolazione delle merci. E infatti Marx la supera spostando il piano, non parlando più in prima battuta della circolazione, ma passando al piano della produzione e delle relazioni sociali della produzione. E quindi organizzando un modo di vedere i fatti storico-sociali che è fuori dell’ottica del sistema dell’economia politica.

Allora, questo è importante, noi troviamo nel nostro Wittgenstein questo discorso: una proposizione che abbia il carattere di widerspruche ha sempre tale carattere all’interno di un sistema – cioè di un certo linguaggio, di certe regole, di certe procedure. Il fatto che dentro quel sistema sia un widerspruche non impedisce affatto che in un’ulteriore sistema, quella contraddizione venga tolta. Ora, quando noi parliamo, a livello della vita quotidiana, a livello dell’indagine scientifica – quale che sia il livello - parliamo necessariamente servendoci di un certo linguaggio, di certe regole che valgono per quel linguaggio: e quindi è sicuramente sempre vero che, se qualcosa è contraddittorio, è contraddittorio all’interno di un certo sistema linguistico. Voglio dire che affermare che “x è contraddittorio” non significa nulla se non si aggiunge “rispetto a”.

E allora, dice Wittgenstein, il fatto che una certa proposizione (diciamo “b”) sia, all’interno di un sistema “S”, contraddittoria che cosa significa? Significa che indica il limite oltre il quale quel sistema non può andare. E’ come se fosse un cartello indicatore che dice: se tu lavori all’interno di questo sistema non ti spingere più in là. Ovviamente, se il widerspruche ha questo senso, allora si comprende perché può essere la molla dell’elaborazione di un nuovo sistema – per uscire cioè dai limiti di quel certo sistema ed elaborarne un altro. Qui abbiamo uno spaccato di storia della scienza.

Ma abbiamo anche un’altra affermazione molto importante in Wittgenstein. Poniamo una proposizione “r”che non sia contraddittoria: anche questa sarà non contraddittoria all’interno di un sistema. Quindi non ha nessun senso dire: “r” [in assoluto] non è contraddittoria: non è contraddittoria all’interno di un sistema dato [ma non in assoluto]. Se si è capito questo, allora si capisce perché, quando si valuta una proposizione oppure una teoria, sembra del tutto ovvio che il problema sia quello di valutare la verità della proposizione o della teoria. Ma questo è un errore, perché la proposizione o la teoria sono all’interno di un sistema. Allora il problema autentico è quello di valutare se all’interno di quel sistema, quella proposizione – o quel complesso di proposizioni che è una teoria – è asseribile: se è corretto, cioè, stante un certo sistema, un certo linguaggio e certe regole, arrivare ad enunciare quella proposizione. Quindi non c’è più il problema della verità di qualcosa, ma c’è il problema dell’asseribilità di qualcosa.

Ovviamente, mi rendo conto che tutto questo è abbastanza “tosto” : lasciamo un momento da parte e passiamo all’altro tema. L’altro tema è quello del seguire una regola. Voi ricordate che l’altra volta si faceva questo esempio: immaginiamo uno psicologo che mette davanti al paziente delle macchie e gli domanda “cosa sono?” e il paziente risponde “questo è un cavallo” e ne indica la coda, la testa ecc. Questa è una metafora per dire che il rapporto uomo – realtà è il rapporto con una macchia confusa a cui si cerca di dare una forma, un senso a posteriori. Si cerca di fare questo avendo dei modelli di fondo: ad esempio, i principi logici. Sulla base di questo modello di fondo allora la macchia assume un volto, è descrivibile: torniamo di nuovo alle condizioni di asseribilità.


3/10

Se io dico “questo è un cavallo”, quello che sto dicendo è : organizzando questa materia sulla base di quella forma di fondo che uso, questo è un cavallo. Quindi, all’interno di queste condizioni questo è un cavallo. Non sto dicendo semplicemente “questo è un cavallo”, cioè “questo è vero”: sto dicendo che, dentro una certa struttura dell’esperienza, che è quella che è anche perché uso certe forme di base, questo è un cavallo. Ma allora è vero che queste forme di base – Wittgenstein usa due espressioni: o form oppure bild, che significa immagine – sono quelle che mi consentono di dare un ordine interno all’esperienza, mi consentono di dire “questa macchia è un cavallo” e quindi di valutarla ecc. E ogni ragionamento e ogni giudizio che io pronuncerò sarà sulla base di questo bild fondamentale. Domanda: è possibile parlare del bild ? Ovviamente non è possibile, perché è la condizione del parlare e del ragionare. Se quella è la condizione del ragionare, io non potrò descrivere il bild : perché – come dire? – è l’atmosfera stessa che mi consente di vivere ( di parlare, valutare, ragionare ecc.). Quindi il bild è non dicibile.

Se consentite questa proposizione assurda: se noi andassimo a i testi di Hegel noi troveremmo certamente qualcosa che, curiosamente, è stato rimproverato a Hegel: è cioè, le famose forme del’esperienza che lui descrive (ad es. la famosa triade tesi – antitesi – sintesi) non sono spiegate: ci sono, vengono usate per spiegare l’esperienza. Sono ricavate l’una dall’altra ma non c’è una giustificazione di quel modo di procedere dell’esperienza. Appunto perché delle forme di base non si parla: si mostrano. Ad esempio, mettiamo che qualcuno mi chieda: “qual è la tipica faccia cinese”? Io gli do una serie di fotografie di uomini cinesi, gliele mostro e dico “ecco qual è la tipica faccia cinese”. Non c’è una fotografia che mostri la tipica faccia cinese. Tu guarda i cinesi: da questo guardare tu ricavi il senso di un bild di fondo. Ovviamente questa è una metafora per dire che quel bild di fondo che è la condizione del ragionamento non è oggetto del ragionamento: è, invece, la condizione del ragionamento. E, in linea di principio, quello schema di fondo potrebbe anche essere diverso. Questa è una radice fondamentale dell’antidogmatismo: cioè, il rendersi conto che qualunque argomentazione, per quanto organizzata sistematicamente, rimanda poi ad alcuni presupposti che, in linea di principio, potrebbero cambiare. Come voi sapete, da parte di compagni spesso si dice: “certo, il marxismo va sviluppato ma mantenendo fermi i principi”. Questo è ridicolo. Infatti, cosa sono i principi? Sono indicabili? Se tu mi dici “questo è il principio” dai una formulazione al principio: ma perché non un’altra? Cioè, ogni formulazione che dai del principio è un’interpretazione del principio. Quindi, in realtà tu non puoi mai separare il principio dalla sua interpretazione. Allora il problema non è quello di salvare i principi riempendoli di contenuti nuovi: perché il principio sta nei contenuti che ci metti dentro. Cioè, si tratta di fare, molto modestamente, la prosecuzione dell’analisi e della ricerca, della pratica ecc., senza fissare prima dei paletti che non hanno nessun senso perché sono, inevitabilmente, un’interpretazione.

Bene, noi invece comprendiamo perfettamente che quest’impronta fondamentale, che è la condizione stessa del ragionamento, in linea di principio potrebbe cambiare.

C’è un’altra pagina molto interessante in cui si immagina che ci sia una persona che voglia mettere in serie i numeri razionali. Come si fa? Ma come per gli altri numeri (quelli interi, quelli irrazionali ecc.) Ma, dice Wittgenstein: un momento, qui è cambiato l’oggetto. Qui si tratta non dei numeri naturali né dei numeri irrazionali, si tratta dei numeri razionali. E io non capisco cosa vuol dire mettere in serie questi numeri determinati. In altre parole: se c’è un concetto generale di “serie” che io ho ricavato per astrazione da tante cose che ho ordinato in serie, chi me lo dice che poi quel concetto è applicabile ad un oggetto diverso? Appunto, è il discorso sui principi. E cioè non è vero che il principio – per es. il concetto di messa in serie - è qualcosa che , quali che siano gli oggetti, io applico ad essi; per es.: devo mettere in serie quei cavalli, quei numeri irrazionali, le note musicali ecc., allora, quello è il modello di messa in serie, quindi lo prendo e lo applico a cose diverse. No!. In realtà la messa in serie ha da essere in relazione con le cose che vengono messe in serie, e quindi in qualche modo è sempre una partita aperta: quale forma esattamente il mettere in serie avrà in quel contesto preciso. E questo significa anche un’altra cosa: quando io applico una regola (può essere una regola morale o scientifica ecc.) certamente la applico in situazioni che sono diverse. E quindi questa applicazione non può non tener conto della diversità delle situazioni. L’applicazione della regola in quel contesto lì è oggetto di interpretazione: come si applica la regola in questo contesto? E non basta dire: in un altro contesto l’abbiamo applicata così, perché si trattava appunto di un altro contesto.

Questo vale, ad esempio, anche per la linea politica di un partito. Se il modo di applicare la regola – il “mettere in serie” ad es. - è cosa diversa in contesti diversi, cambia in situazioni diverse, allora anche l’applicazione della linea politica cambia in situazioni diverse.

4/10

E allora che cosa propriamente vuol dire “applicare la linea”? Ma ogni volta che la si applica, in realtà la si interpreta, la si muta. Per cui se io faccio un congresso, stabilisco la linea e poi delego ad altri il compito di applicarla, in realtà li delego anche a fare la linea, perché la linea non sta nella formulazione astratta, ma sta nell’applicazione reale, perché quest’applicazione reale la muta. Ci sono sempre delle scelte da fare. E allora quando io ho delegato altri ad applicare la linea, vuol dire che io ho rinunciato a stabilire qual è la linea. E allora, ovviamente, un partito burocratizzato non ha attività nelle sezioni. Per forza, perché è nell’applicazione concreta che la linea veramente vive.

Quindi si potrebbe dire questo: esiste un senso per cui quella regola di fondo, quel bild , cioè la condizione stessa per poter vivere, operare, ragionare ecc. non è una cosa di cui si possa ragionare, perché ragionare significa applicarla.

Qui si potrebbe fare un’analogia interessante. C’è un paragrafo dell’Enciclopedia di Hegel in cui Hegel critica Kant, perché Kant avrebbe preteso di stabilire quali sono le condizioni del conoscere prima di applicarsi nella conoscenza. In sostanza, Kant direbbe: “prima di cominciare a studiare qualche cosa, stabiliamo quali sono le condizioni per conoscerla” (sono le forme a-priori dell’intelletto ecc.). Ed Hegel gli dice che questo non ha senso, perché stabilire le condizioni formali del conoscere significa “conoscere il conoscere”; cioè, non è possibile parlare di queste condizioni formali, si tratta bensì di applicarle. Vale a dire, mettiti a conoscere e vediamo allora che cosa significa conoscere. Appunto, le regole di fondo non si dicono, si mostrano. Questo da un lato. Dall’altro lato, le regole si interpretano, cioè si devono adeguare alle situazioni, e quindi si modificano. Ed è un po’ come la faccenda della tipica faccia cinese e della regola di fondo: mostrando le diverse fotografie di uomini cinesi è come se io mostrassi varie applicazioni della regola. E poiché di questa regola non si può parlare – allo stesso modo in cui non è possibile mostrare la “tipica” faccia cinese – allora come si mostra la regola? Applicandola, mostrandone le varie applicazioni cos’ come si possono mostrare le varie fotografie. E allora voi capite che qui il ritmo del pensiero è un ritmo continuo: non ci sono, qui, principi che “chiudano”. I principi io li vedo attraverso le applicazioni. Dal punto di vista nostro questo è importante, perché quello che dice “questi sono i principi del marxismo” sta imbrogliando. I principi del marxismo stanno nella loro applicazione, stanno nel fare il marxismo.

Al contrario, chi vuole ad ogni costo mantenere fermi i principi, non può fare a meno di avere un papa, una religione: come quando si diceva “il segretario generale del partito è il più grande marxista”.

I principi non sono indicabili: bisogna invece indicare il ritmo continuo del pensiero, il suo dinamismo, ecco perché non sono indicabili i principi, perché bisogna indicare invece questo ritmo continuo del movimento. [...]

lunedì 5 maggio 2014

Vita di Marx - Franz Mehring -

...Certamente, la grandezza senza pari di Marx risiede non da ultimo nel fatto che in lui l'uomo di pensiero e l'uomo d'azione erano indissolubilmente legati, che si completavano e si sostenevano a vicenda. Ma non è meno certo che in lui il lottatore ebbe sempre il sopravvento sul pensatore. In questo i nostri grandi pionieri la pensavano tutti così come ebbe ad esprimersi Lassalle, quando disse che con grande piacere avrebbe fatto a meno di scrivere quel che sapeva, purché fosse infine scoccata l'ora della azione pratica. E quanto avessero ragione in ciò, noi lo abbiamo sperimentato con raccapriccio ai nostri tempi, quando certi severi eruditi che hanno ponzato per tre o magari per quattro decenni su ogni virgola delle opere di Marx, in un'ora storica, in cui avrebbero potuto e dovuto una buona volta agire come Marx, non hanno saputo far altro che rigirarsi su se stessi come cigolanti banderuole.
Ma non per questo io voglio nascondere che non mi sentivo per nulla chiamato a preferenza di altri ad abbracciare tutto l'immenso campo del sapere che Marx ha dominato. Già per il compito di dare nella ristretta cornice del mio studio una immagine chiara e trasparente del secondo e del terzo volume del Capitale, mi sono rivolto all'aiuto dell'amica Rosa Luxemburg. I lettori le saranno grati, così come le sono grato io, per aver corrisposto così prontamente al mio desiderio; la parte terza del capitolo dodicesimo è stata redatta da lei. È una grande gioia per me inserire in questo mio scritto le preziose pagine dovute alla sua penna, così come è per me una gioia non minore l'avere avuto dalla nostra comune amica Clara Zetkin-Zundel il consenso a lasciare che la mia navicella prendesse il mare sotto la sua bandiera. L'amicizia di queste donne è stata per me di inestimabile conforto in questo tempo tra le cui tempeste molti di questi campioni «tutti d'un pezzo » del socialismo sono stati spazzati via come foglie secche dal vento d'autunno.
Franz Mehring - Steglitz-Berlin, marzo 1918-
Vita di Marx
A Clara Zetkin-Zundel erede dello spirito marxista