martedì 6 maggio 2014

L. WITTGENSTEIN - LA CULTURA MEDIA CONTEMPORANEA - NOTE AL RAMO D'ORO DI FRAZER - Stefano Garroni - 09-01-97


Trascrizione da:  https://www.youtube.com/playlist?list=PL0CFFE5BB9B8AC96C (audio)


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 […] questo ci consente di arrivare alla questione delle condizioni di asseribilità e quindi di cogliere un punto fondamentale delle cultura contemporanea, usato dall’ideologia post-moderna in una maniera ovviamente infame, ma che è un problema serio, però, se lo si affronta bene: ed è un problema estremamente importante proprio in una prospettiva dialettica. Ora, immaginiamo una situazione piuttosto stupida. Io dico: “oggi è giovedì”, tu mi correggi e dici “no, guarda, è mercoledì”. E io “ come mercoledì ?” e tu “si, ieri era martedì e dunque…” “ah sì, hai ragione, oggi è mercoledì”.

Questa conversazione banalissima, ha però, da un punto di vista logico, una complicazione molto interessante. Io posso dire “sì, è vero, è mercoledì” oppure “sì hai ragione, è mercoledì” o ancora “sì, è corretto, oggi è mercoledì”. In fin dei conti, quello che voglio dire è che, se vale un certo modo di organizzare la settimana, e se vale un certo vocabolario della lingua italiana, allora si ricava che se ieri era martedì, oggi è certamente mercoledì. In altri termini, invece di dire semplicemente “è vero” io potrei dire a Maurizio “Poste alcune premesse – quel modo di organizzare la settimana, quel certo vocabolario ecc. – tu hai ricavato correttamente che oggi è mercoledì”. Voglio dire che io potrei togliere il termine “è vero” sostituendolo con la frase “è una conclusione rigorosa”: se valgono un certo vocabolario e certe regole, allora “questa conclusione è rigorosa”. Quindi “è vero” è sostituibile con la seconda espressione. Però attenti: quando io dico “è vero” posso intendere questa espressione in altri due sensi. Ad esempio: questo oggetto è rosso. Se è rosso, non è di un colore diverso dal rosso. Voi capite bene che in questo esempio “è vero” significa che “questo oggetto è rosso”. Se la frase è stata pronunciata in una lingua che io conosco, e io ho capito il significato delle parole, allora “questo oggetto è rosso” implica che non è di un colore diverso dal rosso. Cioè io dico “è vero” per intendere che quella proposizione, se ho compreso le parole, è sicuramente accettabile. Vedete bene che questo è un senso di “vero” diverso da quello precedente. Lì significava “è una corretta conclusione del ragionamento”: qui si tratta solamente di accertare se le parole sono state comprese: se le parole sono state comprese, la mia frase è vera.

Quindi “è vero” io posso dirlo sia nel senso che quel certo ragionamento è ben condotto (ho applicato correttamente le regole di un certo gioco), ma posso dirlo anche nel senso che qualcosa è vero in quanto ho capito il significato delle parole. Ma posso intenderlo anche in un altro senso, ad esempio come quando qualcuno dice: la natura è così e così indipendentemente dall’uomo. In questo senso “è vero” significa che c’è una realtà fatta in una certa maniera, e questa maniera prescinde completamente dall’uomo.

Allora, bisogna fare ben attenzione al fatto che, essendo diversi i significati dell’espressione, il problema è sempre quello di riuscire a cogliere che cosa si vuol dire dicendo “è vero”.

Soffermiamoci sul primo senso, dove “è vero” significa sostanzialmente che la conclusione di un ragionamento è corretta, risponde cioè alle regole di costruzione di quel ragionamento.

Adesso, immaginiamo una situazione di cui Wittgenstein si è effettivamente occupato: il matematico Godel dimostrò che qualunque sistema matematico sufficientemente sviluppato in modo rigoroso, produce sempre una proposizione non dimostrabile all’interno di quel sistema.

Ovviamente, fu un evento, perché venne colpita una convinzione millenaria, vale a dire che un esempio di conoscenza rigorosa è appunto la matematica. Qui (secondo Godel) si mostra invece che qualsiasi sistema matematico, se ben condotto fino un certo punto, arriva ad essere contraddittorio.

E Wittgenstein affronta questo problema con un tono molto interessante, che in fin dei conti può essere espresso in questi termini: va bene, si incontra una contraddizione, e allora? Cosa succede in fondo di tanto grave? In altri termini, Wittgenstein dice che bisogna combattere l’angoscia e il discredito superstizioso che i matematici hanno nei confronti del widersprueche.


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Voi capite che questo è un luogo interessante perché, per chi è abituato al ragionamento dialettico, una posizione che afferma decisamente che il principio di non contraddizione non è così importante, e che bisogna anzi distruggere il pregiudizio che lo eleva a norma vincolante, è una cosa interessante. E Wittgenstein fa alcuni esempi. Nella conversazione comune, ad esempio, può avere un fondatissimo motivo rispondere a una domanda “sì e no”: quante volte lo facciamo? Il che è importante perché il discorso sul principio di non contraddizione viene affrontato portando la questione al livello dell’esperienza comune, e trovando nell’esperienza comune la possibilità di luoghi in cui questo principio viene violato. Cioè, voglio dire che questo spostamento dal piano del formalismo logico all’attenzione su come vanno le cose nella vita comune, è un movimento che il pensiero moderno comincia a fare dal seicento e che è una componente fondamentale della prospettiva dialettica.

Ma l’argomento di fondo di Wittgenstein è questo: torniamo al primo senso di “è vero”, cioè “è vero” come “ben ricavato da certe regole”. Allora, dice Wittgenstein, è del tutto possibile che all’interno di un certo sistema, una proposizione sia contraddittoria ma che non lo sia più all’interno di un altro sistema. In altre parole, il fatto che un certo sistema conduca ad una proposizione contraddittoria diventa di fatto uno stimolo ad un’ulteriore elaborazione di un’ulteriore sistema che, superando i limiti del precedente, tolga il carattere contraddittorio di quella proposizione.

Voi ricordate che quando Engels scrive la recensione al primo libro del Capitale di Marx, sottolinea proprio che Marx inizia la sua riflessione mettendo in evidenza i widerspruche della tradizione economica. Cioè il punto di partenza di Marx sono proprio quei widerspruche in cui si imbatte la tradizione economica. Voglio dire che in Engels il ruolo del widerspruche è proprio questo: è una contraddizione non risolvibile all’interno di un sistema; per questo, allora, viene prodotto un nuovo sistema che riesce a togliere il widerspruche. Nell’economia politica il widerspruche fondamentale è questo: le merci si scambiano al loro valore ma mediante lo scambio delle merci si produce profitto: ovviamente non è possibile. Questa contraddizione non è superabile all’interno della circolazione delle merci. E infatti Marx la supera spostando il piano, non parlando più in prima battuta della circolazione, ma passando al piano della produzione e delle relazioni sociali della produzione. E quindi organizzando un modo di vedere i fatti storico-sociali che è fuori dell’ottica del sistema dell’economia politica.

Allora, questo è importante, noi troviamo nel nostro Wittgenstein questo discorso: una proposizione che abbia il carattere di widerspruche ha sempre tale carattere all’interno di un sistema – cioè di un certo linguaggio, di certe regole, di certe procedure. Il fatto che dentro quel sistema sia un widerspruche non impedisce affatto che in un’ulteriore sistema, quella contraddizione venga tolta. Ora, quando noi parliamo, a livello della vita quotidiana, a livello dell’indagine scientifica – quale che sia il livello - parliamo necessariamente servendoci di un certo linguaggio, di certe regole che valgono per quel linguaggio: e quindi è sicuramente sempre vero che, se qualcosa è contraddittorio, è contraddittorio all’interno di un certo sistema linguistico. Voglio dire che affermare che “x è contraddittorio” non significa nulla se non si aggiunge “rispetto a”.

E allora, dice Wittgenstein, il fatto che una certa proposizione (diciamo “b”) sia, all’interno di un sistema “S”, contraddittoria che cosa significa? Significa che indica il limite oltre il quale quel sistema non può andare. E’ come se fosse un cartello indicatore che dice: se tu lavori all’interno di questo sistema non ti spingere più in là. Ovviamente, se il widerspruche ha questo senso, allora si comprende perché può essere la molla dell’elaborazione di un nuovo sistema – per uscire cioè dai limiti di quel certo sistema ed elaborarne un altro. Qui abbiamo uno spaccato di storia della scienza.

Ma abbiamo anche un’altra affermazione molto importante in Wittgenstein. Poniamo una proposizione “r”che non sia contraddittoria: anche questa sarà non contraddittoria all’interno di un sistema. Quindi non ha nessun senso dire: “r” [in assoluto] non è contraddittoria: non è contraddittoria all’interno di un sistema dato [ma non in assoluto]. Se si è capito questo, allora si capisce perché, quando si valuta una proposizione oppure una teoria, sembra del tutto ovvio che il problema sia quello di valutare la verità della proposizione o della teoria. Ma questo è un errore, perché la proposizione o la teoria sono all’interno di un sistema. Allora il problema autentico è quello di valutare se all’interno di quel sistema, quella proposizione – o quel complesso di proposizioni che è una teoria – è asseribile: se è corretto, cioè, stante un certo sistema, un certo linguaggio e certe regole, arrivare ad enunciare quella proposizione. Quindi non c’è più il problema della verità di qualcosa, ma c’è il problema dell’asseribilità di qualcosa.

Ovviamente, mi rendo conto che tutto questo è abbastanza “tosto” : lasciamo un momento da parte e passiamo all’altro tema. L’altro tema è quello del seguire una regola. Voi ricordate che l’altra volta si faceva questo esempio: immaginiamo uno psicologo che mette davanti al paziente delle macchie e gli domanda “cosa sono?” e il paziente risponde “questo è un cavallo” e ne indica la coda, la testa ecc. Questa è una metafora per dire che il rapporto uomo – realtà è il rapporto con una macchia confusa a cui si cerca di dare una forma, un senso a posteriori. Si cerca di fare questo avendo dei modelli di fondo: ad esempio, i principi logici. Sulla base di questo modello di fondo allora la macchia assume un volto, è descrivibile: torniamo di nuovo alle condizioni di asseribilità.


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Se io dico “questo è un cavallo”, quello che sto dicendo è : organizzando questa materia sulla base di quella forma di fondo che uso, questo è un cavallo. Quindi, all’interno di queste condizioni questo è un cavallo. Non sto dicendo semplicemente “questo è un cavallo”, cioè “questo è vero”: sto dicendo che, dentro una certa struttura dell’esperienza, che è quella che è anche perché uso certe forme di base, questo è un cavallo. Ma allora è vero che queste forme di base – Wittgenstein usa due espressioni: o form oppure bild, che significa immagine – sono quelle che mi consentono di dare un ordine interno all’esperienza, mi consentono di dire “questa macchia è un cavallo” e quindi di valutarla ecc. E ogni ragionamento e ogni giudizio che io pronuncerò sarà sulla base di questo bild fondamentale. Domanda: è possibile parlare del bild ? Ovviamente non è possibile, perché è la condizione del parlare e del ragionare. Se quella è la condizione del ragionare, io non potrò descrivere il bild : perché – come dire? – è l’atmosfera stessa che mi consente di vivere ( di parlare, valutare, ragionare ecc.). Quindi il bild è non dicibile.

Se consentite questa proposizione assurda: se noi andassimo a i testi di Hegel noi troveremmo certamente qualcosa che, curiosamente, è stato rimproverato a Hegel: è cioè, le famose forme del’esperienza che lui descrive (ad es. la famosa triade tesi – antitesi – sintesi) non sono spiegate: ci sono, vengono usate per spiegare l’esperienza. Sono ricavate l’una dall’altra ma non c’è una giustificazione di quel modo di procedere dell’esperienza. Appunto perché delle forme di base non si parla: si mostrano. Ad esempio, mettiamo che qualcuno mi chieda: “qual è la tipica faccia cinese”? Io gli do una serie di fotografie di uomini cinesi, gliele mostro e dico “ecco qual è la tipica faccia cinese”. Non c’è una fotografia che mostri la tipica faccia cinese. Tu guarda i cinesi: da questo guardare tu ricavi il senso di un bild di fondo. Ovviamente questa è una metafora per dire che quel bild di fondo che è la condizione del ragionamento non è oggetto del ragionamento: è, invece, la condizione del ragionamento. E, in linea di principio, quello schema di fondo potrebbe anche essere diverso. Questa è una radice fondamentale dell’antidogmatismo: cioè, il rendersi conto che qualunque argomentazione, per quanto organizzata sistematicamente, rimanda poi ad alcuni presupposti che, in linea di principio, potrebbero cambiare. Come voi sapete, da parte di compagni spesso si dice: “certo, il marxismo va sviluppato ma mantenendo fermi i principi”. Questo è ridicolo. Infatti, cosa sono i principi? Sono indicabili? Se tu mi dici “questo è il principio” dai una formulazione al principio: ma perché non un’altra? Cioè, ogni formulazione che dai del principio è un’interpretazione del principio. Quindi, in realtà tu non puoi mai separare il principio dalla sua interpretazione. Allora il problema non è quello di salvare i principi riempendoli di contenuti nuovi: perché il principio sta nei contenuti che ci metti dentro. Cioè, si tratta di fare, molto modestamente, la prosecuzione dell’analisi e della ricerca, della pratica ecc., senza fissare prima dei paletti che non hanno nessun senso perché sono, inevitabilmente, un’interpretazione.

Bene, noi invece comprendiamo perfettamente che quest’impronta fondamentale, che è la condizione stessa del ragionamento, in linea di principio potrebbe cambiare.

C’è un’altra pagina molto interessante in cui si immagina che ci sia una persona che voglia mettere in serie i numeri razionali. Come si fa? Ma come per gli altri numeri (quelli interi, quelli irrazionali ecc.) Ma, dice Wittgenstein: un momento, qui è cambiato l’oggetto. Qui si tratta non dei numeri naturali né dei numeri irrazionali, si tratta dei numeri razionali. E io non capisco cosa vuol dire mettere in serie questi numeri determinati. In altre parole: se c’è un concetto generale di “serie” che io ho ricavato per astrazione da tante cose che ho ordinato in serie, chi me lo dice che poi quel concetto è applicabile ad un oggetto diverso? Appunto, è il discorso sui principi. E cioè non è vero che il principio – per es. il concetto di messa in serie - è qualcosa che , quali che siano gli oggetti, io applico ad essi; per es.: devo mettere in serie quei cavalli, quei numeri irrazionali, le note musicali ecc., allora, quello è il modello di messa in serie, quindi lo prendo e lo applico a cose diverse. No!. In realtà la messa in serie ha da essere in relazione con le cose che vengono messe in serie, e quindi in qualche modo è sempre una partita aperta: quale forma esattamente il mettere in serie avrà in quel contesto preciso. E questo significa anche un’altra cosa: quando io applico una regola (può essere una regola morale o scientifica ecc.) certamente la applico in situazioni che sono diverse. E quindi questa applicazione non può non tener conto della diversità delle situazioni. L’applicazione della regola in quel contesto lì è oggetto di interpretazione: come si applica la regola in questo contesto? E non basta dire: in un altro contesto l’abbiamo applicata così, perché si trattava appunto di un altro contesto.

Questo vale, ad esempio, anche per la linea politica di un partito. Se il modo di applicare la regola – il “mettere in serie” ad es. - è cosa diversa in contesti diversi, cambia in situazioni diverse, allora anche l’applicazione della linea politica cambia in situazioni diverse.

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E allora che cosa propriamente vuol dire “applicare la linea”? Ma ogni volta che la si applica, in realtà la si interpreta, la si muta. Per cui se io faccio un congresso, stabilisco la linea e poi delego ad altri il compito di applicarla, in realtà li delego anche a fare la linea, perché la linea non sta nella formulazione astratta, ma sta nell’applicazione reale, perché quest’applicazione reale la muta. Ci sono sempre delle scelte da fare. E allora quando io ho delegato altri ad applicare la linea, vuol dire che io ho rinunciato a stabilire qual è la linea. E allora, ovviamente, un partito burocratizzato non ha attività nelle sezioni. Per forza, perché è nell’applicazione concreta che la linea veramente vive.

Quindi si potrebbe dire questo: esiste un senso per cui quella regola di fondo, quel bild , cioè la condizione stessa per poter vivere, operare, ragionare ecc. non è una cosa di cui si possa ragionare, perché ragionare significa applicarla.

Qui si potrebbe fare un’analogia interessante. C’è un paragrafo dell’Enciclopedia di Hegel in cui Hegel critica Kant, perché Kant avrebbe preteso di stabilire quali sono le condizioni del conoscere prima di applicarsi nella conoscenza. In sostanza, Kant direbbe: “prima di cominciare a studiare qualche cosa, stabiliamo quali sono le condizioni per conoscerla” (sono le forme a-priori dell’intelletto ecc.). Ed Hegel gli dice che questo non ha senso, perché stabilire le condizioni formali del conoscere significa “conoscere il conoscere”; cioè, non è possibile parlare di queste condizioni formali, si tratta bensì di applicarle. Vale a dire, mettiti a conoscere e vediamo allora che cosa significa conoscere. Appunto, le regole di fondo non si dicono, si mostrano. Questo da un lato. Dall’altro lato, le regole si interpretano, cioè si devono adeguare alle situazioni, e quindi si modificano. Ed è un po’ come la faccenda della tipica faccia cinese e della regola di fondo: mostrando le diverse fotografie di uomini cinesi è come se io mostrassi varie applicazioni della regola. E poiché di questa regola non si può parlare – allo stesso modo in cui non è possibile mostrare la “tipica” faccia cinese – allora come si mostra la regola? Applicandola, mostrandone le varie applicazioni cos’ come si possono mostrare le varie fotografie. E allora voi capite che qui il ritmo del pensiero è un ritmo continuo: non ci sono, qui, principi che “chiudano”. I principi io li vedo attraverso le applicazioni. Dal punto di vista nostro questo è importante, perché quello che dice “questi sono i principi del marxismo” sta imbrogliando. I principi del marxismo stanno nella loro applicazione, stanno nel fare il marxismo.

Al contrario, chi vuole ad ogni costo mantenere fermi i principi, non può fare a meno di avere un papa, una religione: come quando si diceva “il segretario generale del partito è il più grande marxista”.

I principi non sono indicabili: bisogna invece indicare il ritmo continuo del pensiero, il suo dinamismo, ecco perché non sono indicabili i principi, perché bisogna indicare invece questo ritmo continuo del movimento. [...]

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