lunedì 31 luglio 2017

La lotta di classe nell’antichità greca e romana*- Geoffrey de Ste. Croix**

*Da:  https://traduzionimarxiste.wordpress.com L’articolo è apparso inizialmente sotto il titolo «Class in Marx’s conception of history, ancient and modern» in New Left Review I/146, luglio-agosto 1984.  La traduzione francese, sulla base della quale è stata effettuata quella italiana, si trova in Période.
**Un breve ritratto biografico di de Ste. Croix, insieme ad un riassunto delle tesi sostenute nella sua opera principale, The Class Struggle in the Ancient Greek World (purtroppo mai tradotta in italiano), sono reperibili in questo stesso blog, Traduzioni marxiste.


Lo statuto teorico delle classi sociali nel pensiero di Marx ha suscitato numerose interpretazioni. Al fine di comprenderne il senso, G. E. M. de Ste. Croix propone di ritornare sulle difficoltà specifiche della sua pratica di storico, nonché dell’oggetto fortemente problematico di quest’ultima: le lotte di classe nell’antichità. Gli schiavi costituivano una classe nell’antica Grecia? A detta di altri storici marxisti come Vidal-Naquet e Vernant, la risposta non può che essere negativa. Di fronte a tali società, così lontane dal capitalismo contemporaneo, il solo modo per restituire senso al corso della storia, per de Ste. Croix, consiste nel ristabilire la prospettiva marxiana nella sua forma più rigorosa e coerente: le classi sono l’altra faccia del rapporto sociale di sfruttamento. L’intervento dello storico dell’antichità mostra dunque come un decentramento radicale, uno sguardo rivolto al lontano passato, possa chiarire la complessità dei rapporti sociali odierni. 


È allo stesso tempo un onore ed un piacere prendere la parola qui oggi (1). È un onore che mi sia stato chiesto di tenere la conferenza annuale in memoria di Isaac Deutscher, un uomo che ha sempre seguito il proprio pensiero con grande coraggio, il quale ha cercato per tutta la vita di dire la verità, così come egli la vedeva, senza lasciarsi intimidire dagli attacchi, da qualsiasi parte provenissero. (Non posso che rimpiangere vivamente di non aver avuto occasione di conoscerlo personalmente). Ed è un piacere tenere questa conferenza alla London School of Econmics [d’ora in poi abbreviato come LSE, n.dt.]. Infatti, e la cosa potrebbe forse sorprendervi, è proprio qui che ebbi il mio primo incarico accademico, insegnandovi per tre anni all’inizio degli anni Cinquanta. «Insegnato», tuttavia, è probabilmente un termine eufemistico, poiché i miei interessi, in quanto assistente in Storia economica dell’antichità, erano assai lontani da quanto previsto dal programma del corso; e in effetti, alcuni dei miei colleghi del Dipartimento di storia economica mi hanno talvolta fatto capire – molto educatamente, sia ben chiaro – di essere un po’ infastiditi dal mio occupare un posto che, altrimenti, sarebbe stato appannaggi di qualcuno realmente utile, capace, a differenza di me,  di farsi carico di parte del programma. Allora iniziai a far del mio meglio per trovar qualcuno interessato a quanto avevo da offrire; ma quando facevo il giro dei dipartimenti, chiedendo se potevo tenere delle conferenze suscettibili di riscuotere un qualche interesse fra i loro studenti, le mie proposte venivano prudentemente rifiutate. Poi, improvvisamente, con mia grande gioia, venni inserito nel programma, per quanto ad un livello marginale. Ricevetti una lettera del professore di contabilità, Will Baxter (un’autorità riconosciuta in materia nel mondo anglofono), il quale mi chiedeva di tenere dei corsi nel suo dipartimento. «Sarebbe un grande piacere per noi, era scritto nella lettera, sapere di più a proposito della contabilità dei greci e dei romani, in particolare se conoscevano il sistema della partita doppia – insomma, cose del genere». Ovviamente, io non sapevo niente in merito alla contabilità antica, non più della maggior parte degli altri antichisti, ma mi sono immerso nello studio della questione. Si rendeva necessario un enorme lavoro sulle fonti originali, poiché mi ero reso conto che non vi era praticamente niente di buono nei libri moderni. Viceversa, trovai una quantità sorprendente di testimonianze di prima mano, non solo nelle fonti letterarie e giuridiche, ma anche nelle iscrizioni e sopratutto nei papiri. Quello che scrissi rappresenta, che io sappia, l’unico studio generale sull’argomento ad aver impiegato tutte le differenti tipologie di fonte (2). (Credo venga ancora citato come riferimento). Tenni anche alcuni corsi alla LSE, tanto sulla contabilità antica quanto su argomenti correlati, come il prestito a cambio marittimo (un precursore dell’assicurazione marittima) (3): l’uditorio era costituito dal professore, dalla sua squadra e da storici dell’antichità provenienti da altre facoltà, ma non, per quanto mi era dato sapere, da studenti della LSE stessa. E persino dopo aver lasciato Londra per Oxford, ormai trent’anni fa, sono stato invitato ogni anno a ritornarvi per tenere una conferenza sulla contabilità antica e medioevale, sino alla fine degli anni Settanta.

sabato 29 luglio 2017

Quando le latrine saranno d’oro*- Luca Cangianti

*Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, il Saggiatore, 2017, pp. 521, € 29,00.    https://www.carmillaonline.com/ 


“Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine” scriveva Lenin a quattro anni di distanza dalla presa del Palazzo d’Inverno. L’immagine evocava lo stravolgimento economico atteso dall’emergere di una società comunista in cui i beni principali sarebbero diventati liberi e lo stesso denaro avrebbe perso le sue funzioni di misura dei valori, di mezzo di circolazione e di tesaurizzazione. Tuttavia, aggiungeva Lenin, “quel periodo è di là da venire.” Gli scritti curati da Vladimiro Giacché in Economia della rivoluzione si collocano all’interno di questa forbice storica: in queste pagine infatti il profilo del rivoluzionario russo è quello del padre costituente e soprattutto dello statista costretto a calare la teoria marxista in un contesto emergenziale di guerra e sottosviluppo.

Vladimiro Giacché limita il suo lavoro di selezione agli scritti economici posteriori alla Rivoluzione d’Ottobre suddividendoli in tre periodi: quello riguardante i primi sei mesi di potere sovietico, il comunismo di guerra e la Nuova politica economica (Nep). Il pensiero di Lenin nel corso di queste tre fasi subisce evoluzioni, sia a causa delle emergenze del momento che per gli esiti delle sperimentazioni cui i singoli provvedimenti economici venivano sottoposti. Nei primi scritti si affrontano: i problemi sollevati dalla legge sulla socializzazione della terra che aboliva il latifondo distribuendo i campi ai contadini; il decreto sul controllo operaio che non intaccava né il diritto di proprietà né la funzione direttiva del capitalista; la nazionalizzazione del settore bancario. Gli scritti del periodo della guerra civile si focalizzano invece sulla crisi alimentare e sulle requisizioni delle eccedenze cerealicole. Nella primavera del 1918 fu infatti vietato il commercio privato del grano e istituito il monopolio statale con acquisto a prezzo fisso. Infine i contributi che vanno dal marzo 1921 allo stesso mese del 1923 sono dedicati alla Nep che sostituì le requisizioni emergenziali – volte al sostentamento degli operai e dei soldati a danno dei contadini – con un’imposta in natura, pagata la quale si riacquistava la libertà di vendere localmente i cereali.

L’intera periodizzazione è tuttavia attraversata da un filo rosso ben definito: secondo Lenin senza lo sviluppo delle forze produttive e la conseguente crescita culturale delle masse il comunismo è impossibile. 

venerdì 28 luglio 2017

Crisi dell'utopia*- Luciano Canfora**

*Da:  I Dialoghi di Trani    **Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano 


domenica 23 luglio 2017

L’ingannevole abbaglio della libertà sessuale*- Alessandra Ciattini**

*Da:   https://www.lacittafutura.it    **Sapienza Università di Roma
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/06/linferiorita-della-donna-tra-natura-e.html

La libertà sessuale non costituisce l’unico obiettivo degli esseri umani, anche se così ci vogliono far credere. 

Sebbene siamo ormai del tutto assuefatti ai contenuti surrettiziamente o esplicitamente sessuali della pubblicità, degli spettacoli che i mass media propongono a chi, estenuato dal lavoro, cerca semplicemente qualcosa che lo distragga dai problemi angosciosi da cui siamo circondati, non possiamo non distanziarci da questa ubriacatura, cercando di elaborare una qualche riflessione critica. 

Come scrive Luciano Canfora la libertà sessuale costituisce “il valore assoluto” nella società contemporanea (La schiavitù del capitale, 2017: 90) e sarebbe opportuno chiederci perché, dal momento che gli esseri umani hanno tante altre potenzialità che li potrebbero stimolare al raggiungimento di gratificazioni assai diverse tra loro.
Sono ben consapevole che scrivendo queste righe andrò incontro a numerose critiche e sarò etichettata come moralista (come se anche l’attuale edonismo fondato sulla ricerca del piacere sessuale non fosse una scelta morale). Ciò nonostante, seguo per la mia strada e «lascio dir le genti», convinta che, per affrontare gli immani problemi del mondo contemporaneo, ci vogliano uomini e donne di una tempra morale ben diversa da quella di coloro che sono alla continua ricerca della soddisfazione momentanea (non a caso un film di vari anni fa, di notevole successo, che contrapponeva romanticamente la poesia al mondo degli affari e della tecnica, era intitolato L’attimo fuggente). 

mercoledì 19 luglio 2017

INTRODUZIONE AL «CAPITALE»* - Karl Korsch

*Da: http://www.palermo-grad.com - Si tratta dell’Introduzione ad un’edizione del Capitale uscita nel 1932 a Berlino presso la Verlagsgesellschaft des Allgemeinen Deutschen Gewerkschaftsbundes. Porta la data del 28 aprile 1932. Nel testo qui tradotto abbiamo omesso buona parte del quinto paragrafo dedicato ai problemi e criteri specifici dell’edizione in questione. 
Si ringraziano Gian Enrico Rusconi per aver concesso la riproduzione della sua traduzione, Valerio Valerio per averla trasferita in Word, Riccardo Bellofiore per alcune minime correzioni al testo e Matteo Di Figlia per la preparazione del pdf del testo.
I. Come l’opera di Platone sullo Stato, il libro di Machiavelli sul Principe, il Contratto sociale di Rousseau, anche l’opera di Marx, Il capitale deve la sua grande e duratura efficacia al fatto che ad una svolta storica ha colto ed espresso in tutta la sua pienezza e profondità il nuovo principio irrompente nell’antica configurazione del mondo. Tutti i problemi economici, politici e sociali, attorno ai quali si muove teoricamente l’analisi marxiana del Capitale, sono oggi problemi pratici che muovono il mondo e intorno ai quali viene condotta in tutti i paesi la lotta reale delle grandi potenze sociali, gli Stati e le classi. Per aver compreso a tempo che questi problemi costituivano la problematica determinante per la svolta mondiale allora imminente, Karl Marx si è rivelato ai posteri come il grande spirito preveggente del suo tempo. Ma neppure come massimo spirito del suo tempo egli avrebbe potuto cogliere teoricamente questi problemi e incorporarli nella sua opera, se essi non fossero già stati nello stesso tempo posti in qualche modo anche nella realtà di allora, come problemi reali. Il destino singolare di questo tedesco del Quarantotto fece sì che egli, scagliato fuori dalla sua sfera d’azione pratica dai governi assoluti e repubblicani d’Europa, grazie a questo tempestivo allontanamento dalla retriva e limitata situazione tedesca, venisse inserito proprio nel suo autentico peculiare spazio storico d’azione. Proprio in seguito a questi molteplici spostamenti violenti del suo campo d’attività, prima e dopo la fallita rivoluzione tedesca del 1848, l’allora appena trentenne pensatore e ricercatore Marx, che attraverso la discussione teorica della filosofia hegeliana aveva già elaborato un sapere vasto e profondo di respiro mondiale in forma filosofica prettamente tedesca, nei suoi due periodi successivi di emigrazione, prima in Francia e in Belgio, poi in Inghilterra, poté entrare nel rapporto più diretto, pratico e teorico, anche con le due nuove forme del mondo di allora più gravide di conseguenze per il futuro. Queste erano, da un lato, il socialismo e comunismo francese, che al di là delle conquiste della grande rivoluzione borghese giacobina spingevano verso nuove mete proletarie; dall’altro, la forma avanzata della moderna produzione capitalistica, e dei rapporti di produzione e di scambio corrispondenti, nata in Inghilterra dalla rivoluzione industriale degli anni 1770 - 1830.

giovedì 13 luglio 2017

A PROPOSITO DI FANTOZZI E DI MR. SMITH - Paolo Massucci*

*(Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni"


Il “grottesco” smaschera il fallimento dell’uomo contemporaneo omologato ai valori della cultura borghese

Nei messaggi e nelle scene dei popolari film di Fantozzi (regista Luciano Salce), interpretati da Paolo Villaggio, attore da poco scomparso, la parte migliore non è da rintracciarsi nell’aver saputo rappresentare virtù e debolezze degli Italiani, come hanno affermato le televisioni ed i giornali, né, tanto meno, nell’evidenziare la stoltezza dell’attaccamento al posto fisso di lavoro, come asserito da Il Corriere della Sera. Queste sono solo banali affermazioni ideologiche per nascondere una realtà inammissibile della nostra società: il completo fallimento dell’individuo moderno e contemporaneo e delle sue aspirazioni borghesi a cui l’intera società (non solo quella italiana) aderisce acriticamente.

L’amara comicità dei film di Fantozzi infatti si basa sulla distanza, ovviamente estremizzata, tra gli sforzi per ottenere quanto desiderato (successo individuale, conquista di status sociale) e i risultati effettivamente conseguiti. Ma c’è di più: in tutti i personaggi traspare un’aperta scissione tra aspirazioni del soggetto e auto narrazione, cioè tra come si è e come si vorrebbe apparire. Si tratta di quella falsa coscienza che è il riflesso di una società, appunto, scissa come quella nostra capitalistica. Essa infatti necessita di una potente e pervasiva ideologia per poter garantire l’adesione, o almeno la passiva accettazione, ad un modo di produzione che, al di là delle apparenze, anziché benessere ed autorealizzazione individuale per tutti, produce (e presuppone) divisione della società in classi, miseria, guerre e devastazione ecologica planetaria. Il comico-grottesco e la sensazione di disagio che prova lo spettatore in questi film scaturiscono proprio dallo smascheramento di questa falsa coscienza del soggetto omologato ai valori della società borghese. Tutto ciò è oggi più attuale che mai: è imbarazzante -e disarmante-, osservare, ad esempio, come mi è capitato in questi giorni durante un viaggio, nella famosa ed “elegante” via Montenapoleone a Milano (in realtà semplicemente una via di shopping per ricchi portafogli), comuni passanti fotografare con ammirazione e servile devozione Ferrari ed altre lussuose auto posteggiate.

Il concetto di inautenticità dei rapporti umani, anche se non identificato in questi termini, viene da molto lontano -sin dall’antichità- nella storia del pensiero e della letteratura. Tuttavia è solo con la modernità, cioè con lo sviluppo del sistema capitalistico tra la fine del settecento e l’ottocento, che il problema della falsa coscienza dell’individuo e dell’inautenticità delle relazioni diventa tanto rilevante. La ragione di ciò è da rintracciarsi nella contraddizione tra i valori di Liberté, Egalité e Fraternité della rivoluzione francese assunti a fondamento della nascente ideologia borghese e la realtà della condizione effettiva dell’individuo all’interno della stessa società capitalistica. Si pensi a quanto poco l’universalismo (fraternité) possa essere compatibile con l’individualismo della privatizzazione del profitto o a quanto la libertà possa esserlo con il lavoro salariato del proletario, che per sopravvivere deve accettare quel dato livello di sfruttamento stabilito e, giocoforza, limitare le possibilità di scelta personale, come pure di partecipazione allo sviluppo della vita collettiva e politica, mortificando pertanto qualsiasi aspettativa di libera scelta ed autorealizzazione; per non parlare dell’uguaglianza, allorché, come è drammaticamente evidente in questo tempo, si accentuano sempre più le differenze di reddito (è quanto ci si deve aspettare in un sistema, quello capitalistico, il quale si basa, per poter funzionare, sulla separazione tra individuo possessore di capitale ed individuo possessore di sola forza lavoro). Poiché tuttavia i suddetti valori post-rivoluzionati di libertà, uguaglianza e fraternità sono essenziali per garantire il consenso al sistema capitalistico, essi, pur privati di sostanza, rimangono ancora vivi all’interno dell’ideologia della società capitalistica. Ma questa ideologia allo stesso tempo “strizza l’occhio” anche all’individuo che “meritocraticamente” compete sempre con gli altri per arricchirsi ed accrescere il proprio status. Tale contraddizione è alla base della crisi identitaria e morale dell’uomo moderno.

Nella grande letteratura, e nell’arte in genere, del Novecento, il tema della falsa coscienza e della crisi dell’uomo contemporaneo, nelle sue diverse modalità espressive, è quindi uno dei motivi più ricorrenti. In tale ambito si può certamente collocare il drammatico ma brillante romanzo “Mr. Smith” di Luis Bromefield, scritto a metà Novecento, forse non abbastanza conosciuto, il cui protagonista racconta la propria storia personale e, alla ricerca di se stesso e del senso della vita, riflette con lucida schiettezza sull’inautenticità delle relazioni umane nella nostra società, conformate alla cultura borghese. La società in cui vive Mr. Smith non è semplicemente collocata sullo sfondo delle vicende narrate, ma, nella sua pervasività ideologica, condiziona la maggior parte dei rapporti umani, omologandoli, falsificandoli e in definitiva disumanizzandoli. E’ interessante che lo svolgimento del romanzo, pur partendo dal punto di vista di un uomo, Mr. Smith, appartenente all’alta borghesia, mostri, nelle riflessioni dello stesso protagonista, quanto il conformismo borghese eserciti una irrecuperabile inibizione dello sviluppo della libera personalità ed un inaridimento devastante di ogni relazione umana.

In “Mr. Smith”, come nei popolari film di Fantozzi, pur nelle loro forme espressive totalmente differenti e ovviamente non paragonabili, si presenta pertanto una potente critica dell’ideologia borghese, sempre più dominante e ben caratterizzata nella nostra attuale società, a dispetto della falsa affermazione della “fine delle ideologie”. Fantozzi e Mr. Smith dunque possono e devono far riflettere, ben oltre quanto supinamente dichiarato dai mass media in occasione della scomparsa del noto Attore. 

mercoledì 12 luglio 2017

Hegel e il mondo dell’astratto*- Carla Maria Fabiani**

*Da:  http://www.dialetticaefilosofia.it
**Università del Salento
Leggi anche;   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/03/francesco-valentini-soluzioni-hegeliane.html


Note a margine ad alcuni saggi di Roberto Finelli 1


Nel lungo corso della storia del pensiero filosofico politico, Finelli attribuisce piena originalità alla distinzione hegeliana fra società civile e Stato politico. La societas civilis, prima di Hegel, era contrapposta sostanzialmente a societas naturalis. Hegel, nel 1821 e poi nel 1827, concettualizza la bürgerliche Gesellschaft, come parte autonoma del sistema, in cui il principio dell’individualità (particolarità) si trova essenzialmente coniugato a quello dell’universalità. 

Anche a Jena Hegel aveva meditato a lungo sul mondo dell’economia e dell’economia politica, ma, a ben vedere, appare originale, nei Lineamenti, la teorizzazione della capacità, da parte della società civile, di autoriprodursi e di autoregolarsi (come un organismo) indipendentemente dall’intervento del mondo della politica. Ed è soprattutto in questo senso che la società civile hegeliana si presenta, nei riguardi dello spirito (del fare consapevole dell’uomo moderno o del suo agire etico-intenzionale), come seconda natura (automatismo naturalistico-inintenzionale), o come riproporsi di elementi e dinamiche naturali in ambito strettamente spirituale. Degno di nota perciò, in Hegel, nel quadro di un progredire apparentemente senza ostacoli dalla natura allo spirito, questa permanenza di natura o addirittura questo regresso alla natura in ambito etico. Ma, bisogna fare attenzione a cosa esattamente si intenda per natura in quest’ambito. 

lunedì 10 luglio 2017

La crisi marxista del Novecento: un’ipotesi d’interpretazione*- Stefano Garroni**



*Da:   http://www.marxismo-oggi.it     **Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano.

Quelle che qui seguono sono schematiche osservazioni, spero raccolte con una certa logica e sistematicità, il cui scopo è prospettare una possibilità di lettura d’un groviglio di eventi, quanto mai complicato e dalle molte sfaccettature, che – nonostante certa uggiosa retorica <novista> – costituiscono tuttora la nostra contemporaneità. Che si tratti di una possibilità di lettura significa non solo il limite della mia cultura (ad es., non sono un economista, né uno storico), ma anche che la cosa stessa si dispone secondo diverse prospettive e angolazioni (aspetto questo che certamente non meraviglia chi abbia qualche familiarità con la dialetticità della storia). Come che sia, non è dubbio che quanto andrò scrivendo non solo è unilaterale, ma anche passibile di revisioni (anche profonde) per me stesso – se lo studio ulteriore portasse a conclusioni non compatibili con l’ipotesi, che qui schematicamente espongo. 

venerdì 7 luglio 2017

Il radicamento del pensiero antropologico post-moderno nella società contemporanea*- Alessandra Ciattini**



** Sapienza – Università di Roma - Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/usamerica-nellepoca-tecnetronica.html 

Introduzione
Negli ultimi decenni numerose sono state le opere di più o meno grande diffusione, nelle quali si sono analizzate e sono state ampiamente confutate le tesi sostenute dai cosiddetti autori post-moderni, sia pure nella consapevolezza che tale corrente di pensiero non costituisce un filone omogeneo, giacché contiene in sé varianti, sfumature e tendenze non omologabili in uno stesso cliché. Sono convinta, tuttavia, che il noto pamphet di Terry Eagleton (Le illusioni del post-modernismo, 1998) colga nel segno quando individua le debolezze di questo pensiero, soprattutto quando denuncia con vigore la sua incapacità di dare una risposta seria ai drammatici problemi, con cui si confronta la società contemporanea.
D'altra parte, in opere di tutt'altro spessore (v. per es. Ideologia. Storia e critica di un'idea pericolosa, 2007), lo stesso Eagleton approfondisce tali tematiche, indicando il difficile percorso da intraprendere per rilanciare una visione complessiva e critica della società contemporanea, che sia però schierata dalla parte dei lavoratori, nel senso di tutti coloro che vendono la loro forza-lavoro in un processo, il cui fine ultimo è rappresentato dalla valorizzazione del                                                                                  capitale1.
Un filosofo italiano, Roberto Finelli, è ugualmente critico, sia pure in senso diverso, giacché a suo parere i temi centrali del pensiero postmoderno, dominanti da circa 40 anni, quali: “I miti della fine della storia e dei conflitti, del valore del frammento in opposizione alla totalità e al sistema, del primato del linguaggio e dell'interpretazione, della cancellazione della realtà ad opera del virtuale, sono crollati ad opera della realtà stessa e della sua lezione che ha intensificato la modernità del capitalismo nell'ipermodernità di un capitalismo globale che si propone come unica forma possibile di vita, pur nella dilatazione a <mondo> delle sue scissure, depredazioni e contraddizioni” (http://www.sinistrainrete.info/filosofia/2737-roberto-finelli-dal-postmoderno-allipermoderno.html, p. 2). 

giovedì 6 luglio 2017

La Germania incantata*- Collettivo Clash City Workers**


Il ruolo svolto dalla Germania a livello politico ed economico all'intemo del contesto europeo - e, più in generale, di quello mondiale - è sotto gli occhi di tutti e nelle parole di molti di più.
Il nesso che si è affermato tra le sue performance economiche e la sua preminenza politica ha, inoltre, posto la Germania alternativamente come nemico da combattere o come modello da imitare.
La luce del 'miracolo' tedesco non dovrebbe però impedirci di ricostruirne la genesi, considerarne i fondamenti e, così facendo, cogliere la vasta zona d'ombra che, come vedremo, lo avvolge se si guarda alla realtà sociale. Così facendo emergono delle linee di frattura assai diverse: non tanto lungo i confini geografici bensì interne alla società tedesca stessa, che la accomuna a una situazione presente in tutta Europa.
Due eventi possono essere considerati al contempo come spartiacque della recente storia tedesca e come snodi nel processo di edificazione della sua egemonia: da un lato, la riunificazione del Paese, avvenuta nel 1990 e condotta come una vera e propria colonizzazione dell'Est da parte dell'Ovest, e dall'altro l'operazione politica condotta sotto il secondo governo del cancelliere socialdemocratico Schroder, in carica dal 2002 al 2005, meglio nota come "Agenda 2010" e concretizzatasi nel "Piano Hartz", il tutto nel quadro della costruzione dell'eurozona. Libertà, democrazia, spirito umanitario, lotta alla disoccupazione e alla povertà, queste sono le parole chiave con cui sono stati caratterizzate queste fasi e provvedimenti. Qualche dubbio sulla loro correttezza però può sorgere e in questo testo proveremo a leggere nelle pieghe dei numeri del mercato del lavoro tedesco e capire meglio come è fatto.
Il Piano Hartz prende il nome da Peter Hartz (1), importante manager della Volkswagen divenuto consigliere di Schroder proprio per la riforma del mercato del lavoro con il fine di "risollevare l'economia tedesca". 
In un discorso divenuto poi celebre (2), però, Schroder dichiarò quello che forse era il vero obiettivo della legge: "Abbiamo costruito il migliore Niedriglohnsektor che c'è in Europa". La parola tedesca è traducibile come "settore a basso salario", ovvero una porzione del mercato del lavoro strutturalmente caratterizzata da salari più bassi, e deliberatamente creata per giocare questo ruolo. Negli ultimi anni, dal 2010 in poi, in Germania tale settore risulta stabilmente costituito da una porzione degli occupati oscillante tra il 20 e il 25%. Poco oltre, Schroder, rivendica come il programma dell'Agenda 2010, "imposto contro una rilevante opposizione sociale", stia cominciando a funzionare, producendo tra le altre cose una stagnazione del costo unitario del lavoro, ovvero del rapporto tra costo di un'ora di lavoro e sua produttività. In un contesto, come quello tedesco, dove la produttività è aumentata dal 1995 lentamente ma costantemente, ciò vuol dire che la retribuzione del lavoro ha subito un abbassamento, si guadagna uguale producendo di più. Questi due passaggi, in sostanza, ci restituiscono plasticamente il vero senso delle riforme Hartz, e per giunta per bocca del loro massimo sostenitore: abbattere il costo del lavoro. 

domenica 2 luglio 2017

Scetticismo, volontarismo o dialettica? Con Gramsci, per orientarsi nel mondo*- Emiliano Alessandroni**

*Da:   http://www.marxismo-oggi.it  (Relazione al convegno “Antropologia applicata e approccio interdisciplinare”. Prato, 17-19 dicembre 2015). **Urbino "Carlo Bo"Studi Internazionali. Lingue, Storia, Culture 
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/liberta-e-necessita-hegel-sartre.html 

La produzione intellettuale gramsciana mantiene la coerenza di una critica, a volte implicita a volte esplicita, a due particolari modi di rapportarsi al mondo, che si ripresentano spesso nel corso dei processi storici e che ritroviamo anche nel nostro presente.

Il primo è quello dello scettico: di colui, vale a dire, che «tende a togliere ai fatti economici ogni valore di sviluppo e di progresso»[1]; di coloro che amano «parlare di fallimenti di ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze» seguitando a vivere «nel loro scetticismo»[2] privo di responsabilità. Il secondo è quello del volontarista: atteggiamento, afferma Gramsci, «sguaiato e triviale»[3] che tende a rimuovere le condizioni, il quadro complessivo, l'equilibrio di forze oggettive entro cui l'azione si trova a operare, sicché «si immagina che il meccanismo della necessità sia stato capovolto»: ora «la propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile» e «si può ciò che si vuole»[4].

A tale volontà astratta che conduce all'utopia e al velleitarismo, Gramsci contrappone la volontà razionale: questa sorge quando si comprende che «la libertà coincide con la necessità»[5], quando il volere è «coscienza operosa della necessità storica»[6].

La razionalità di cui sopra, tuttavia, è data soltanto dalla struttura dialettica del reale, dal fatto che questo non costituisce un manto piatto e uniforme, privo di fratture interne, bensì «un rapporto di forze in continuo mutamento di equilibrio»[7].

Il concetto di dialettica percorre e contraddistingue l'intero corpo dei Quaderni. La stessa categoria di egemonia risulta strettamente legata a questo concetto. Egemonia (culturale) significa invero che l'universo ideale e sentimentale di una delle forze che compongono la realtà, occupa la maggior parte dello spazio totale. Ma questo non equivale a dire che lo spazio totale venga occupato, da una di queste forze, nella sua completa estensione. Resta pur sempre, invero, una superficie residua, ancorché ridotta, ricoperta dalle antitesi.

sabato 1 luglio 2017

CAPIRE L'ECONOMIA CONTEMPORANEA. NODI FONDAMENTALI*- Riccardo Bellofiore**


Il conflitto delle idee nella teoria economica - parte1: 


Il conflitto delle idee nella teoria economica - parte 2: https://www.youtube.com/watch?v=g5GYUi0BnUw#t=10.686104