domenica 29 novembre 2015

LA FASE SUPERIORE DELL’IMPERIALISMO* - Maurizio Brignoli


Le mutazioni strutturali che caratterizzano il passaggio dalla fase multinazionale a quella transnazionale dell’imperialismo, insieme all’ultima crisi di sovrapproduzione, hanno comportato una modificazione dei processi produttivi volta a scardinare la resistenza di classe, la trasformazione dello stato nazionale e la sua subordinazione agli organi sovranazionali del capitale transnazionale e un riacutizzarsi dello scontro interimperialistico.

Dalla fase multinazionale a quella transnazionale

Il passaggio all’attuale fase transnazionale dell’imperialismo, che incomincia agli inizi degli anni ‘70 con l’esplosione dell’ultima crisi di sovrapproduzione, è caratterizzata da importanti trasformazioni strutturali rispetto a quella precedente. La fase multinazionale (1945-1971) si distingue per la realizzazione di forme di integrazione sovranazionale del capitale monopolistico finanziario (Fmi, Bm, Gatt), capaci di garantire stabilità nella lotta fra i concorrenti e di subordinare le istituzionali nazionali rendendo il capitale finanziario autonomo dalle economie nazionali. Direzione e proprietà del capitale multinazionale sono in una nazione, ma gli investimenti sono fatti in molti paesi differenti. Il capitale statunitense impone la sua forza sul mercato mondiale grazie agli investimenti diretti all’estero (ide) delle sue multinazionali e domina, attraverso i suddetti organismi sovranazionali, la comunità finanziaria internazionale, mentre la ricostruzione post-bellica gli garantisce un’egemonia sul mercato mondiale.

La forma multinazionale permette al capitale produttivo, attraverso anche un controllo finanziario centralizzato, di superare i limiti del mercato nazionale tramite un’integrazione delle fasi produttive, di circolazione e di realizzazione del plusvalore; è così possibile una localizzazione più adeguata degli impianti e il superamento della frammentazione della produzione mondiale. La ristrutturazione del sistema capitalistico basata su un’integrazione del mercato mondiale, determina il grande sviluppo dell’economia mondiale (fra il 1948 e il 1971 la produzione annua mondiale mantiene una crescita media del 5,6%), siamo in quella che Eric Hobsbawm chiama “età dell’oro” del capitalismo. Grazie a questa fase espansiva di accumulazione del capitale è possibile realizzare, tramite i sistemi di welfare state, una strategia che punta a integrare il proletariato cercando di favorire un compromesso fra le classi. Le conquiste ottenute dal proletariato sono frutto di un rapporto dialettico fra le lotte condotte nei centri dell’imperialismo negli anni ‘60 e ‘70 e la favorevole fase di espansione del modo di produzione capitalistico. Quando il ciclo accumulativo verrà meno lo “stato sociale” inizierà a essere smantellato. 

sabato 28 novembre 2015

L’Italia prima e dopo l’euro* - Augusto Graziani


LA MONETA AL GOVERNO 
Augusto Graziani , la rivista del manifesto, n. 30, luglio-agosto 2002 

Allorché si prospettava l’adozione dell’euro come moneta unica, gli esperti concordavano nel prevedere per la nuova valuta il destino di una valuta forte. Nel loro insieme, i paesi ammessi a far parte dell’Unione monetaria (undici, in seguito divenuti dodici) formavano un mercato finanziario maggiore di quello statunitense; per di più,alcune delle valute che venivano fuse nell’euro potevano vantare una tradizione consolidata di stabilità e solidità, mentre la struttura industriale che stava alle spalle della nuova moneta era fra le più avanzate del mondo. Tutte queste previsioni erano destinate a risultare fallaci. A partire dal 1° gennaio 1999 e fino ad oggi (giugno 2002) la moneta europea, nonostante la recente ripresa, si è svalutata di circa il 20 % rispetto al dollaro e di oltre il 10% rispetto allo yen giapponese (lo stesso yen si è svalutato del 10% sul dollaro).

Per l’Italia, l’adozione di una moneta comune, unita all’andamento declinante del corso dell’euro rispetto alle altre grandi valute mondiali, ha significato l’abbandono di quello che era stato in passato un carattere tipico della politica valutaria italiana. In anni precedenti, quando l’Italia poteva condurre una politica valutaria indipendente, le autorità monetarie (Banca d’Italia e Tesoro) avevano sempre tentato di realizzare una sorta di linea differenziata. Da un lato veniva perseguito, se non un lieve apprezzamento della lira, almeno un tasso di cambio stabile rispetto al dollaro; questa linea aveva lo scopo di evitare l’aumento dei prezzi in lire delle importazioni quotate in dollari (anzitutto il petrolio, ma anche macchinari ad alta tecnologia, brevetti, apparecchi elettronici). Dall’altro, veniva vista con favore una lieve svalutazione della lira rispetto al marco tedesco, in quanto poteva incoraggiare le esportazioni verso i mercati europei. 

mercoledì 25 novembre 2015

IL TERRORE - Giorgio Langella


... E allora ricordiamo, in questi giorni così pieni di paura e indignazione per il terrore scatenato a Parigi e non solo, che migliaia di persone sono morte a causa di condizioni di lavoro colpevolmente insicure. È successo e succede qui, nel nostro paese, nella nostra civile Italia. Ricordiamo i morti a causa dell’amianto, quelli della Breda, dell’Eternit. Ricordiamo cosa è successo alla ThyssenKrupp di Torino, all’ILVA di Taranto, alla ex Tricom di Tezze sul Brenta. Ricordiamo cosa è successo alla Marlane-Marzotto di Praia a Mare.
 Sono centinaia, migliaia di vite spezzate in nome del profitto personale di qualcuno. Centinaia, migliaia di morti senza colpevoli perché i responsabili sono gli stessi che controllano il potere e difficilmente vengono condannati da qualche tribunale. Tutti assolti perché il reato è prescritto, o perché non sussiste. O perché è considerato meno importante la vita di un lavoratore rispetto al guadagno che si può ottenere dalla mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro.  Non è logico né civile andare al lavoro e non tornare a casa o tornarci con qualche malattia che ci ucciderà. È una vera e propria guerra non meno oscena di quella scatenata dai “signori del terrore”.
 Cosa si può fare? Resistere e lottare per affermare il proprio inalienabile diritto a un lavoro sicuro e garantito. E non dimenticare …

 … per non dimenticare si riporta la testimonianza (sotto forma di intervista) di un operaio della Marlane-Marzotto che spiega le condizioni alle quali erano costretti i lavoratori (rif. “Marlane: La fabbrica dei veleni” di Francesco Cirillo e Luigi Pacchiano – ed. Coessenza)

Mi chiamo Depalma Francesco ed ho lavorato alla Marlane di Praia a Mare dal 1964 al 1990.
Domanda: Con che mansione?
Risposta: Operaio specializzato in tintoria.
D.: Vi ricordate cosa facevate di specifico?
R.: La tintura delle presse la miscelazione delle lane terital. Si facevano delle buche grosse vicino al capannone e si mettevano dentro il rimanente del rifiuto del colore.
D.: Cioè voi pigliavate i coloranti che non erano più servibili e li portavate fuori?
R.: Si c’erano delle buche grandissime.
D.: E chi le faceva queste buche?
R.: La direzione le faceva fare agli addetti ai lavori e quando erano piene queste buche si ricoprivano.
D.: E voi facevate questo lavoro?
R.: Si ma non tutte le volte …si coprivano almeno un paio di volte al mese.
D.: Insomma prendevate i coloranti della fabbrica e li mettevate nei bidoni?
R.: Si poi li sotterravamo dalla parte del mare.
D.: Sempre nel terreno della Marlane?
R.: Si, vicino agli alberi.
D.: Ma chi vi comandava per questo lavoro?
R.: Carlo Lomonaco e Cristallino per la tintoria mentre per il finissaggio Nicodemo e Tripano.
D.: Lomonaco e Cristallino vi chiamavano e vi dicevano prendete questi rifiuti e seppellitevi
R.: Si.
D.: Ma non vi rendevate conto che era una cosa illegale?
R.: Si ma non potevi dire non lo voglio fare, se non lo facevi tu lo faceva un altro, in quelle condizioni dovevi farlo per forza.
D.: E lo facevate di giorno o di notte?
R.: Sempre di sabato mattina o di sera quando la fabbrica era chiusa e nessuno lavorava.
D.: Con voi c’erano altri operai?
R.: La maggior parte delle volte lo facevo io e Ruggeri di Praia a Mare.
D.: E quando facevate questo lavoro avevate delle mascherine di protezione, dei guanti, non pensavate che era pericoloso quel materiale?
R.: No andavo come sono adesso, non ci davano né guanti né protezioni.
D.: Quindi prendevate tutto con le mani?
R.: Si con le mani nude.
D.: E vi ricordate per quanto tempo avete fatto questo lavoro?
R.: L’ho fatto fino a 15 giorni prima di licenziarmi.
D.: Vi ricordate per quante volte lo avete fatto? 10-15 volte? più o meno?
R.: Parecchie volte, si faceva quasi tutti i sabato.
D.: E si facevano sempre buche nuove o si usavano sempre le stesse?
R.: Le ruspe scavavano fino a 3-4 metri di profondità.
D.: Quindi tutta l’area della Marlane è piena di rifiuti tossici?
R.: Si tutta la parte a mare è piena di rifiuti tossici.
D.: Parliamo della zona vicino al depuratore.
R.: Si in quella zona. Io ho anche pulito il depuratore. Quando si riempiva di melma io ripulivo tutta la vasca e buttavo i rifiuti sotto un pergolato di uva.
D.: Quando il depuratore era pieno scaricava a mare?
R.: Dopo che lo avevamo pulito scaricavano a mare, ma l’acqua era sporca lo stesso color terra e finiva a mare.
D.: Poi vi siete ammalato e continuavate ad andare lo stesso al lavoro?
R.: Si anche da ammalato andavo a lavorare.
D.: Quali erano le condizioni di lavoro all’interno della fabbrica?
R.: Le condizioni erano che dall’inizio c’erano fumi e nebbia che non si vedeva ad un metro di distanza, agli inizi degli anni 70.
D.: Questa nebbia da dove proveniva?
R.: Dal fumo delle caldaie dove si tingevano le stoffe.
D.: C’era un ambiente unico o c’erano divisori?
R.: No era tutto unico.
D.: Vi ricordate di altri operai che stavano con voi e che sono morti?
R.: Erano operai che stavano vicino a me, Tonino Maffei, Vittorio Oliva, Vincenzo Lamboglia, erano amici con i quali ci davamo il cambio.
D.: Non avete mai pensato che quell’aria fosse velenosa?
R.: Si, pensavamo che a lungo andare poteva far male, ma pensavamo anche al vivere oggi, alla pagnotta.
D.: E voi dicevate al medico di queste condizioni di lavoro?
R.: E quando c’è stato il medico? chi l’ha mai visto, non ho mai fatto una radiografia, 26 anni esatti ho lavorato e mai visto un medico, si tirava avanti così.
D.: Avete mai pensato ad una protesta, c’erano dei sindacalisti in fabbrica?
R.: Si, io ero iscritto alla CGIL, tutti promettevano e nessuno faceva niente. C’erano la CGIL e la CISL, tutti promettevano miglioramenti economici e di lavoro quando c’erano le votazioni e poi facevano poco e niente.
D.: Voi che tipo di lavoro facevate?
R.: Io lavoravo alla lisciatrice, una macchina 16 metri lunga.
D.: Usavate coloranti?
R.: Al tops ed alle pezze si usavano coloranti per tingere.
D.: Avevate mascherine, tute, qualche protezione?
R.: No niente, a fine turno di lavoro ci davano una busta di latte, poi abbiamo saputo che ci faceva più male che bene, ci procurava parecchie sofferenze allo stomaco.
D.: Ma questi coloranti li preparavate voi?
R.: Si, preparavamo i coloranti per la stampa, a parte quelli della lisciatrice che li preparava un magazziniere, per la stampa li dovevo preparare io.
D.: E come avveniva questa preparazione?
R.: Si preparavano duecento litri di acqua, si prendeva il colore e si scioglievano piano piano.
D.: E come lo facevate a mano?
R.: Si prendeva un bastone e un bidone di ferro a volte anche di plastica, quando si era sciolto bene il prodotto si portava il bidone vicino alla macchina e si versava un secchietto alla volta e piano piano si stendeva sulla fibra da tingere.
D.: E neanche per questo lavoro usavate misure di sicurezza?
R.: Solo le mani usavamo.
D.: pensavate che con quella busta di latte risolvevate tutto?
R.: Si pensava di risolvere i guai che avevamo dentro ed invece con il passare degli anni i guai sono venuti fuori tutti in una volta e chi più chi meno tutti quanti abbiamo avuto qualcosa.
D.: Sapevate questi coloranti da cosa erano composti?
R.: Non l’ho sentito, erano tutti sigillati, mi ricordo per esempio gli acidi che si usavano per la lana.
D.: Su questi fusti che voi pigliavate non c’erano scritte che dicevano pericolo, dei simboli con il teschio di morte?
R.: Queste cose non esistevano proprio, quando i fusti arrivavano al magazzino, il magazziniere le strappava, scompariva vano.
D.: E voi sapevate che in questi fusti c’erano questi veleni e che quindi facevano male?
R.: Lo sapevamo noi e lo sapevano anche i dirigenti degli uffici che erano velenosi, ma purtroppo come ho detto prima quando si va a lavorare bisogna subire il bello ed il cattivo tempo.
D.: Ma Lomonaco non era l’esperto chimico?
R.: Si era il capo della tintoria, doveva sapere ma non si metteva contro la direzione. Cristallino faceva gli acquisti dei coloranti e quindi sapeva se erano nocivi o no.
D.: E Lomonaco non vi vedeva come facevate questi coloranti?
R.: Certo veniva nel corridoio e guardava il nostro lavoro, si avvicinava un secondo e se ne andava.
D.: A seguito delle denunce che ci sono state siete state ascoltato da qualche autorità?
R.: Si è venuto un maresciallo dei carabinieri e mi ha chiesto come si lavorava i pericoli che c’erano.
D.: E questo maresciallo è stato mandato dalla Procura di Paola?
R.: Non lo so, non me lo ha detto. Ma ad un certo punto quando parlavo del mio lavoro mi ha detto di non continuare più altrimenti avrebbe indagato anche me.

 Francesco Depalma è deceduto pochi mesi dopo questa intervista. La sua testimonianza filmata non è stata  ammessa al processo di primo grado che ha visto assolti tutti gli imputati. è la giustizia di “lorsignori”. 

domenica 22 novembre 2015

SOCIALISMO O BARBARIE FONDAMENTALISTA?* - Renato Caputo


 Piaccia o meno la crisi strutturale del modo di produzione capitalista impone scelte radicali. Spazi per soluzioni riformiste e keynesiane non ce ne sono, al di là della riproduzione di un’aristocrazia operaia con i sovraprofitti garantiti dalla politica imperialista. La caduta tendenziale del tasso di profitto rende inoltre sempre più acuta la crisi di sovrapproduzione. Se non si sarà in grado di superare la crisi con un modo di produzione più razionale, l’alternativa rischia di essere la barbarie ben rappresentata dalla diabolica spirale xenofobia-fondamentalismo.


 Che «in guerra, la verità è la prima vittima» [Eschilo] è risaputo sin dall’antica Grecia, ma generalmente proprio ciò «che è noto, non è conosciuto» [Hegel]. Così assistendo ai telegiornali che commentavano a «caldo» i tragici attacchi terroristici che hanno sconvolto la Francia, la cosa che mi ha più colpito è che l’unico barlume di verità fosse rinvenibile nelle parole di un dittatore: Bashar Al Assad. Il presidente siriano ha sostenuto che lui e il suo popolo comprendono meglio di ogni altro l’orrore che ha sconvolto Parigi: “la Francia ha conosciuto quello che noi viviamo in Siria da cinque anni”. Tuttavia, ha aggiunto, parte della responsabilità per l’espansione del terrorismo va attribuita alla stessa Francia e più in generale «alle politiche occidentali nella regione, tra cui il supporto a chi è alleato dei terroristi». Tanto più che lo stesso Assad, già nel Giugno del 2013, in un’intervista al «Frankfurter Allgemeine Zeitung», aveva messo sull’avviso gli occidentali che seminavano vento in Medio oriente: “Se gli europei consegnano armi (ai terroristi), il cortile dell’Europa si trasformerà in (un terreno) propizio al terrorismo e l’Europa ne pagherà il prezzo”. 

giovedì 19 novembre 2015

UN CONFRONTO TRA FREUD E JUNG* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 

 Per Freud (quel livello "ulteriore" dello psichico, non esauribile da una descrizione causalistica),  non si tratta di un universo più ricco e articolato rispetto a quello pensabile dal "sano intelletto"; sì piuttosto di un dominio limaccioso, in cui fluidità si coniuga con inerziale ripetitività, in cui l'imprevedibilità consegue alla deficienza  di strutturazione e l'intricatezza alla povertà di forme.

 Se per Jung il dominio del "sano intelletto" è una sorta di deposito immiserito delle potenzialità inconsce e, quindi, ogni interpretazione (che si uniformi alle procedure intellettuali) non può che ridurne, rimpicciolirne la misteriosa, imprevedibile ricchezza; per Freud, invece, (almeno per il Freud che più è distante da Jung), è solo trasponendosi sul piano della coscienza che l'inconscio, il pulsionale, acquista un senso, una consistenza. Tuttavia, questo passaggio, anche per Freud, è un autentico cambiamento di terreno, un effettivo passaggio da una dimensione ad un'altra. 

 Ciò significa che, realizzandosi, qualcosa di sostanziale muta, viene a cadere, non perché  una sovrabbondanza di senso venga contratta, immiserita; sì invece, perché dalla mancanza di senso si passa alla produzione di senso. 

martedì 17 novembre 2015

La crisi cinese e la stagnazione secolare - Joseph Halevi



Guardare le cose dalla ristretta visuale europea, o peggio ancora italiana, impedisce di cogliere le dinamiche globali, nascondendo molto di quel che avviene - di vitale - sul piano macro. (Noi Restiamo
https://www.youtube.com/channel/UCbGVZSvYvWBvcKUylJAgZOg



giovedì 12 novembre 2015

La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore

 ...La gran parte degli autori che ho citato ha scritto quanto ho riportato negli anni Settanta. Quale l’attualità in ciò che hanno sostenuto allora? Enorme, a mio parere. La svolta neoliberista, se ha spiazzato per lungo tempo le questioni che si ponevano in quel decennio, non le ha affatto cancellate. Le ha viste semmai eclissarsi per tornare allo scoperto con maggior forza ed evidenza, ma in un contesto di rapporti di forza sociali ben più degradato.

 Per mio conto, mi sono trovato a coordinare, per Rifondazione Comunista e assieme a Emiliano Brancaccio (quello che scrivo impegna, sia chiaro, soltanto me), una commissione sulla politica economica. Eravamo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. La mia convinzione – potrei dire, da sempre: dall’inizio degli anni Settanta – è che la crisi italiana non soltanto fosse paradigmatica, pur nella sua eccezionalità, delle dinamiche del capitalismo europeo e globale, ma anche che essa avesse una natura ‘strutturale’. Non era, come non è, riducibile alla questione della diseguaglianza (i ‘bassi salari’). Né era, o è, risolvibile con un più acceso (e benvenuto) conflittualismo, con una (auspicata) migliore distribuzione: un po’ più di reddito qui, un po’ meno di orario di lavoro lì.

 Il mio tentativo nella commissione fu quello di organizzare discussioni che portassero gli economisti italiani ‘di sinistra’ – una categoria purtroppo sempre più affetta dalla tara di agognare una presenza mediatica la più pronunciata possibile (tra un appello, una lettera, un monito, una comparsata in televisione); come anche dal desiderio profondo di divenire consiglieri di un qualche nuovo Principe - alla cognizione che 
il capitalismo che si era costituito negli anni Ottanta e Novanta, non era per niente un ritorno del ‘liberismo’, un trionfo di una generica ‘globalizzazione’, un misterioso e novissimo ‘postfordismo’, né tanto meno la vittoria di un introvabile ‘pensiero unico’. Insomma, le vuote sigle della sinistra alternativa e radicale. Era invece un ‘nuovo’ capitalismo nel pieno di un intervento politico attivo, che aveva trasformato e incluso i lavoratori dentro un meccanismo infernale, che gestiva internamente la domanda effettiva, e che dava vita a nuove forme del vecchio sfuttamento.

 Da studiare era il nuovo mondo della produzione e della finanza, prima ancora di porre in questione domanda e distribuzione: perché appunto reform recovery vanno insieme. Un capitalismo per cui era prevedibile l’avvicinarsi di una grande crisi (tanto che sovrastimai la gravità della crisi scoppiata nel 2000, e con Joseph Halevi mi trovai pronto a quella del 2007; gli economisti della nostra sinistra se ne accorsero, male, a fine 2008). Con pazienza bisognava attrezzarsi sul piano ‘strutturale’ del modo di produzione: tanto per quel che riguardava l’approfondimento della conoscenza, quanto per quel che riguardava l’abbozzo di costruzione di un programma minimo. Muovendosi verso una politica economica attenta, ebbene sì, alle questioni legate alla ‘socializzazione degli investimenti’. Basta andarsi a rileggere quello che scrivevo allora.

 Se devo essere sincero, non ho mai capito bene quale e quanto fosse l’investimento della dirigenza del Partito su quella sotto-commissione. Non molto, sospetto. Ci veniva detto di rimanere ‘sulle generali’, perché erano ‘ovviamente’ i politici a dover dettare la linea programmatica. E però quando le elezioni si avvicinavano ci si chiedeva con urgenza di scrivere le righe da mettere fianco a fianco agli altri mattoni approntati, separatamente, dagli ‘ecologisti’, dalle ‘femministe’, e così via (io, devo dire, mi sottrassi). 
Una cosa deve essere chiara. Una socializzazione degli investimenti, per essere proposta da sinistra (figuriamoci da partiti o movimenti comunisti), non si improvvisa. Richiede un lavoro. Non individuale, ma collettivo. Di lunga lena, che si costruisce nel tempo: basti pensare a che tipo di scuola e di università presuppone.

 Bisognerebbe cominciare, un giorno o l’altro, con pazienza, a farlo, scontando i tempi della costruzione inevitabilmente lenta. Se no sarebbe meglio, di queste cose, non parlarne nemmeno. Non è tema né di articoli né di interventi ai convegni, se non si vuole essere superficiali. Pure, potete contare sul fatto che la dura realtà dei fatti (che hanno la testa dura, e non badano agli equilibri dei politici o delle comunità intellettuali) ci costringerà a parlarne sempre di più, seppur male, nei tempi a venire. Speriamo solo di sfuggire alla massa di banalità, e di vere e proprie insensatezze, che ci affligge sulla questione dell’euro, dove un tragitto simile è stato già percorso, in modo probabilmente irreparabile, sino a che non si sa veramente cosa dica la politica della sinistra (al singolare). 

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mercoledì 11 novembre 2015

LO SPAZIO DELLA PSICOANALISI* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS

 Secondo Jung, il livello più profondo dell'inconscio si rivela, quando le interpretazioni autorizzate dalla teoria freudiana non riescono a liberare il soggetto da quel disagio, da quella sofferenza, che lo hanno condotto in analisi. In altre parole, si rivela, quando l'approccio causalistico al disturbo psichico, pur avendo sprigionata la sua intera potenza ed ottenuto quanto è alla sua portata, tuttavia, non è riuscito ad assicurare quella, relativa, pace e tranquillità, che hanno da caratterizzare la personalità emancipata dalla nevrosi.

 Due sono le cose che Jung vuol dire: in primo luogo, che la teoria psicoanalitica è costruita nel rispetto del principio di casualità; in secondo luogo, che quel rispetto rinvia ad una concezione vetusta della scienza, come anche ad una visione dell'uomo, unilateralmente centrata sulla ragione e sulla diffidenza - intellettualistica, atea - per tutto ciò che sappia di misticismo, di religione, di irrazionalità.

 Per Freud la partita dell'ordinamento della personalità si gioca, tutta, sotto la "dittatura della ragione".
 Non esiste un mondo inconscio che possa, per principio, guidare la ragione, produrre senso per l'uomo.
 Il senso è dell'uomo; la personalità è una sua costruzione, la sua più alta opera d'arte.


 Allora è chiaro che l'obiettivo della terapia (per Freud) sarà, certo, in accordo con Jung, la costruzione d'una personalità integrata, equilibrata; sapendo, però, che ciò non significa mediare (né tantomeno sottomettere la prima al secondo) fra ragione ed irrazionale fondo psichico, misticamente produttore di senso; ma sì, al contrario, significherà l'impegno a forgiare una ragione ordinatrice, che continuamente tessa quella tela che è la personalità, intrecciando fili diversi, secondo forme che dovranno continuamente esser ritoccate, reinventate. Significherà, insomma, giungere ad una personalità "artisticamente" plasmata dalla ragione. 

martedì 10 novembre 2015

Marx e lo Stato - Domenico Losurdo

TRAME DEL RICONOSCIMENTO IN HEGEL - Roberto Finelli

 Il processo del Geist come Soggetto in Hegel può essere letto dunque non come un divenire che dall’Uno trapassa nel Due ricomponendosi nel Tre, non come un transitare che dall’interno va all’esterno per poi ritornare dentro di sé, bensì come un processo che dall’esterno va all’interno, dall’indeterminato al determinato, dal vuoto al pieno, attraversando tutte le autorappresentazioni parziali e inadeguate – tutte le opposizioni – che rendono esterna al Sé la coscienza di Sé. E proprio per questo il conoscere in Hegel è sempre un riconoscere, giacché il conoscere è sempre un ritrovare il Sé nell’Altro.

 Il fatto è che Hegel a Jena, anche attraverso la sua frequentazione, iniziata da tempo, dell’economia politica, è ormai ben consapevole che il privato, sia nel senso della proprietà che nel senso della profondità della coscienza e della libertà individuale, costituisce una caratteristica irrinunciabile del moderno, dato che egli mira a una socializzazione che, pur rifiutando l’impianto atomistico del contrattualismo giusnaturalistico, non può non includere in sé anche la libertà e l’autonomia della persona. E l’«Anerkennung», il riconoscimento, deve appunto valere come un nesso di socializzazione che possa concrescere con l’approfondirsi dell’autocoscienza del singolo. Ossia come l’articolarsi di istituti che scandiscano con la loro diversa tipologia di relazioni lo spirito oggettivo ma che corrispondano contemporaneamente alla maturazione verticale del singolo quanto alla sua natura non naturalistica bensì autenticamente spirituale e universale. Questo significa che per Hegel v’è un profondo parallelismo, anzi un nesso intrinseco, tra la molteplicità delle forme delle istituzioni sociali e la molteplicità delle forme dell’autocoscienza personale. A forme diverse, secondo gradi distinti di profondità e di maturità dell’autocoscienza individuale, corrispondono luoghi e logiche istituzionali di socializzazione diverse. A gradi diversi dell’autoriconoscimento corrispondono modalità diverse dell’essere riconosciuto.

 Nel mondo del diritto la presa di «possesso» si trasforma in «proprietà» e il «bene-di-famiglia», la proprietà d’ognuno, viene riconosciuto universalmente, viene riconosciuto e fatto valere attraverso la volontà di tutti. Il singolo qui, non più riferito e conchiuso nell’intero familiare, si rapporta, attraverso l’universale della legge, a tutti gli altri singoli. È persona giuridica, soggetto di diritti e di dovere. È cittadino, riconosciuto come libero e autonomo nel suo volere quanto giuridicamente responsabile per i suoi beni e le sue azioni e penalmente perseguibile. Solo che la liberazione del singolo dalla chiusura familiare attraverso l’universalizzazione messa in atto dal diritto è una liberazione astratta. Nel senso che il diritto deve trattare tutte le singolarità come ciascuna eguale alle altre, senza che si dia differenza alcuna tra di loro, perché ammettere la differenza significherebbe far regredire il diritto all’istituzione del privilegio. Il diritto considera solo la forma dei rapporti tra i singoli, senza occuparsi del loro contenuto. Si occupa sì della proprietà ma senza mai porre la questione della sua genesi, della sua storia, della sua utilizzazione e destinazione, insomma delle determinazioni concrete. Il riconoscimento giuridico riconosce dunque ciascuno come «persona», identica alle altre: senza accogliere, possiamo noi aggiungere, proprio quella concretezza d’individualità che fa ciascuno diverso e incomparabile rispetto agli altri e che pure era l’oggetto del riconoscimento nel chiuso del mondo familiare.

 Con parole dei nostri giorni, e con termini che derivano dalla relazione di trasfert e controtrasfert che connota una seduta di psicoanalisi, possiamo dire che non posso accogliere, riconoscere veramente l’altro fuori di me, intenderlo e comprenderlo nella sua specificità e complessità di vita, se contemporaneamente non riconosco, ritrovo e rivivo dentro di me le medesime movenze, contraddizioni e complessità emozionali, se non attingo cioè quell’alterità interiore che costituisce il fondo della mia egoità presuntivamente più certa e identificata in un incontraddetto sapere. Così come reciprocamente io posso essere riconosciuto nella mia più propria esperienza e identità di vita, nel progetto e nei desideri più personali e individuali del mio esistere, solo se un altro mi accoglie e mi contiene, mettendo in atto verso se medesimo quello stesso sfondamento interiore dell’identità più apparente e di superficie che io ho compiuto rispetto a me stesso. La mia individuazione, la coincidenza con il mio piano più individuale dell’esistere, possono derivare solo dall’essere, a mia volta, riconosciuto da un altro fuori di me, ossia accolto secondo la medesima interiorizzazione e pensato dal suo pensiero. Il conoscere come riconoscere in Hegel, al suo livello più elevato di compimento, è dunque sempre l’insieme del riconoscimento dell’altro, del riconoscersi e dell’essere riconosciuto

lunedì 9 novembre 2015

Perché quella di classe è una lotta continua... - Luciano Gallino



http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/la-lotta-di-classe-dopo-la-lotta-di.html

Se, violentando e semplificando il suo pensiero, è corretto ipotizzare che la struttura produttiva di un paese decada per il disinteresse della politica economica e per la scarsa lungimiranza di un ceto imprenditoriale sempre più asfittico e collegato, come un gemello siamese, al mondo della finanza e dei derivati, è inevitabile che i giovani escano dal mondo del lavoro e ingrossino le fila dell’emarginazione sociale. Troppi sconfinamenti di campo si direbbe oggi; ma era proprio quanto Schumpeter e Weber sollecitavano. Da oggi l’eresia avrà, ahimè, un corifèo in meno. (Ugo Marani) 

MARX E IL BISOGNO DI RELIGIONE - Renato Caputo

 Il passaggio da una visione mitologico-religiosa a una visione filosofico-scientifica segna il passaggio dal mondo antico, dall’ancien régime al mondo moderno. Ciò era evidente già a Hegel che nell’esporre le forme dello spirito assoluto, ossia le forme attraverso cui le civiltà si sono comprese, ha indicato per il mondo antico la forma artistico-mitologica, per il mondo cristiano la forma religiosa, per il mondo moderno, posteriore alla Rivoluzione francese, la forma filosofico-scientifica.

 Tale Rivoluzione aveva coinvolto solo in modo marginale la Prussia e, soprattutto, con la sconfitta di Napoleone si era aperta una fase di Restaurazione, per molti versi analoga a quella della nostra epoca storica, in cui si era cercato di reimporre con la forza la visione del mondo religiosa. Anzi la Nato del tempo, ossia la più potente alleanza militare volta a impedire ogni tentativo di mettere in discussione l’ordine imposto dalla Restaurazione, prendeva il nome di Santa Alleanza. Quest’ultima, di cui la Prussia era una pedina fondamentale, aveva represso nel sangue i primi moti rivoluzionari dei primi anni Venti, ma era riuscita solo parzialmente a contenere i moti rivoluzionari degli anni Trenta.

 Così dopo la morte di Hegel nel 1831, la Restaurazione dominava ancora la Prussia, e tuttavia i giovani intellettuali progressisti che alle sue lezioni si erano formati, si battevano per l’affermazione, in primo luogo nel loro paese, della modernità. Tale lotta passava, dunque, per la lotta alla visione del mondo mitologico-religiosa in nome di una visione del mondo scientifico-filosofica. 

giovedì 5 novembre 2015

IL CAPITALE DI MARX (14) - Riccardo Bellofiore



Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo).


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Dalla crisi capitalistica alla guerra delle valute: il contesto globale conferma la necessità del socialismo* - Bruno Steri

*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″  

 Negli ultimi decenni dello scorso secolo - per rispondere ad una persistente e globale crisi di accumulazione, certificata dai dati sulla caduta tendenziale del saggio di profitto - l’Occidente capitalistico ha infilato la via della speculazione finanziaria alla ricerca di un surplus che l’economia reale non garantiva più. Proprio la disponibilità di “denaro facile” ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie, protrattasi finché il castello di carta (la cosiddetta “economia da casinò”) non è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Ovviamente le famiglie si indebitano perché non hanno un reddito sufficiente a sopravvivere: è qui, nell’impennarsi della disuguaglianza caratterizzante la società e l’economia reale, che va individuata la contraddizione essenziale. Ed è qui che una società capitalistica non riesce a intervenire per disinnescare il dispositivo che in profondità genera la crisi. Questo intendeva Marx quando scriveva: 

 “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse, in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo della società”.

 Per far fronte al tracollo strutturale del 2007, gli establishment di Usa, Ue e Giappone hanno per un verso realizzato una colossale socializzazione delle perdite convertendo in debito pubblico i debiti privati e, per altro verso, hanno fatto ricorso a massicce immissioni di liquidità nel sistema attraverso politiche monetarie espansive (bassi tassi e Quantitative Easing). Sul primo fronte, la medicina non è nuova: dopo aver lautamente soccorso le banche a suon di centinaia di miliardi, si è passati a smantellare il welfare per mettere sotto controllo il debito pubblico, scaricando i costi della crisi sul salario indiretto e su quello differito. Contemporaneamente, per dare fiato alle imprese, si è dato luogo ad un colossale processo di precarizzazione del mercato del lavoro, nel tentativo di diminuire la disoccupazione: quella da insufficienza di domanda effettiva (disoccupazione “keynesiana”) e quella determinata dalla “sostituzione di macchine a lavoro” (disoccupazione “tecnologica” o “ricardiana”). Inducendo le imprese ad assumere lavoratori “usa e getta”, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, si ottiene comunque l’effetto indesiderato di un calo della produttività del lavoro: si possono infatti costringere i precari a lavorare di più, ma non a lavorare meglio. E’ quel che è avvenuto in Italia – e in generale nei Paesi deboli dell’Ue – sulla scia delle politiche imposte da Bruxelles e Berlino, senza che - con ciò - si sia registrata un’apprezzabile inversione di tendenza rispetto al dramma della disoccupazione.

 All’opposto di quanto fatto dai fondamentalisti del mercato, la Cina ha risposto alla crisi propagatasi dall’epicentro occidentale riorientando lo sviluppo verso i consumi interni e con un poderoso programma di stimoli pubblici: investimenti infrastrutturali, aumento dei salari, prezzi amministrati per i beni di prima necessità, nuova fase di urbanizzazione, estensione del permesso di residenza ai lavoratori migranti (hukou). Tali interventi si sono realizzati in un Paese in cui, essendo riconosciuta e tutelata l’economia non statale, permane comunque il monopolio pubblico dei settori strategici (settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni, ricerca scientifica e high-tech, risorse naturali) e in cui vige il controllo pubblico del settore finanziario e bancario. Le Nazioni Unite avevano già riconosciuto ad un Paese che conta oggi un miliardo e 357 milioni di abitanti (dati del 2013) meriti indiscutibili sul terreno del progresso sociale e umanitario: tra il 1978 e il 2004, il “socialismo con caratteristiche cinesi” ha ridotto il numero dei poveri assoluti da 250 a 25 milioni, cioè a meno del 2% della popolazione; ha innalzato la vita media a 71 anni (nel 1949 era di 40 anni). Il costante aumento dei salari è andato di pari passo con il progredire della sindacalizzazione, cui ha dato nuovo slancio la legge entrata in vigore dal 1 gennaio 2008 che prevede tutele più efficaci nei luoghi di lavoro. 

lunedì 2 novembre 2015

ESTIRPATORI DI OGGI, ESTIRPATORI DI IERI - Alessandra Ciattini

             Premessa

Grande scandalo e turbamento ha suscitato nella grande stampa e nei canali televisivi internazionali la devastazione e distruzione portata avanti dai tanto vituperati terroristi dell'Isis o Daesch, che dir si voglia. Esecrazione ovviamente del tutto condivisibile, giacché comporta la distruzione di monumenti che costituiscono un patrimonio di valore inestimabile, che documenta il lato migliore della purtroppo drammatica storia dell'umanità, e che ci consente di ricostruire criticamente fasi storiche ormai appartenenti al passato, anche se, in molti casi, la loro influenza è ancora operante nel presente. 
Per esempio, La Stampa del 5 ottobre 2015 descrive, anche con l'ausilio di un video, la distruzione dell'arco di trionfo a Palmira [1], costruito circa 2.000 anni fa e letteralmente polverizzato con l'esplosivo.
Ma come spiegare tanta ferocia iconoclasta e tale carica di assurda distruttività, in un mondo che, almeno a parole, predica il valore della differenza e la necessità di rispettarne le manifestazioni? Ci viene in soccorso Il Fatto quotidiano del 23 giugno 2015, il quale sottolinea che, in realtà, i jihadisti non abbattono con la loro furia devastatrice tutti i monumenti del passato, ma scelgono solo i simboli legati a figure divine o sacre considerate in contraddizione con la loro fede, come per esempio due mausolei islamici, situati sempre nel sito di Palmira, o le statue dei due Budda di Bamiyan, distrutte nel 2001 in Afghanistan dai Taliban. A tale osservazione Il Fatto quotidiano aggiunge che tale “modus operandi nasce da una degenerazione delwahabismo, corrente islamica di origine saudita che predica un ritorno alla “purezza” e al rigore originale riguardo ai testi sacri, in opposizione alla “cultura corrotta” contemporanea, e che ha ispirato la distruzione di simboli di culto da parte di gruppi fondamentalisti”. 

domenica 1 novembre 2015

"Dopo la Grande Recessione". 30 tesi* - Vladimiro Giacché

*Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ”La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″  

 Dopo la Grande Recessione i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza.

 Si tratta di un modello che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un'insostenibile crescita di debito e asset finanziari ("financial depth") che in poco meno di 30 anni sono passati dal 119% del pil mondiale (1980) al 356% (2007).

 Tra le controtendenze alla caduta del saggio di profitto, nel periodo 1980-2007 un ruolo preminente (anche se non esclusivo) ha quindi giocato la finanziarizzazione, ossia il "capitale produttivo d’interesse" (Marx, Capitale, L. III sez 3).
 Esso ha consentito:

 a) il mantenimento di una buona propensione al consumo da parte della classe lavoratrice in USA, UE e Giappone, nonostante salari reali calanti dall'inizio degli anni Settanta: questo grazie alla speculazione di borsa e allo sviluppo del credito al consumo;

 b) il sostegno ad industrie di settori maturi, che hanno potuto sopravvivere nonostante un'evidente sovrapproduzione (cfr. settore automobilistico): questo grazie alle società finanziarie collegate e al credito al consumo;

 c) la possibilità, per le stesse industrie del settore manifatturiero, di fare profitti attraverso la speculazione di borsa, attraverso la finanza proprietaria, il trading, ecc.