sabato 30 dicembre 2017

GRAMSCI E LA DIALETTICA - Stefano Garroni

Da:  mirkobe79 - Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. 



PREAMBOLO: I titoli degli incontri seminariali non sono mai rigorosamente indicativi dell’argomento trattato, poiché il tono colloquiale delle lezioni di Stefano Garroni e la stessa natura degli incontri (una serie di seminari collettivamente autogestiti miranti alla formazione marxista di quadri comunisti) fanno sì che la sua esposizione, fatta a braccio e sovente improvvisata, non sia mai sistematica (come sarebbe stata in un intervento scritto), né circoscritta all’argomento richiamato dal titolo, ma sempre aperta ad allargarsi verso ulteriori tematiche, inizialmente non previste; spesso suggerite dagli interventi degli altri compagni che lo seguivano nei seminari.  


NOTA: fra parentesi quadre il Redattore fa delle aggiunte per rendere più semplice la comprensione degli interventi e la stessa esposizione. 


GRAMSCI E LA DIALETTICA (28-03-2002)

Le radici hegeliane di Marx. Contro Della Volpe.

1/10
Intervento: […] La critica che viene fatta a Karl Marx da Max Weber [parte dalla tesi weberiana della presunta avalutatività che deve caratterizzare le scienze, lo statuto di scientificità di ogni scienza particolare, e si può riassumere in questi termini], cioè: tu [Marx] hai preso una posizione [la critica economica, nonché morale e politica, del capitalismo],  ed è giusta fintanto che tu espliciti il tuo riferimento. Cioè tu hai concettualizzato un sistema che non ha nessuna pretesa di essere lo specchio del reale. Però ecco: come si concilia questa cosa con l’idea della totalità?

Stefano Garroni: Certamente. Quello che dici è interessante perché poi è uno dei temi fondamentali. Intanto dico, en passant, [vediamo] che cosa significa idea per Hegel: dire che la filosofia è idealismo non è una proposizione idealistica, perché [significa dire] esattamente che la filosofia produce il modello, ma il modello è sia il modello e sia la cosa. Affermare che “La filosofia è idealismo” non è idealismo. Perché? Perché il presupposto è sempre l’Uomo:  il pensiero sta dentro il mondo, quindi il movimento del mondo e del pensiero sono lo stesso movimento, perché [sono il risultato] dell’esperienza stessa che si svolge. 

giovedì 28 dicembre 2017

Più flessibilità del lavoro crea davvero più occupazione? - E.Brancaccio, N.Garbellini, R.Giammetti* –

Da: http://www.econopoly.ilsole24ore.com - * Rispettivamente Università del Sannio, Università di Bergamo, Università Politecnica delle Marche. 

La libertà di licenziamento e le altre forme di deregolamentazione del lavoro favoriscono le assunzioni? Svariati esponenti di governo e del mondo dei media hanno sostenuto che l’aumento dell’occupazione che si è registrato negli ultimi mesi in Italia sarebbe frutto della ulteriore flessibilità dei contratti sancita dal Jobs Act. Questa tesi, come vedremo, non trova riscontri nella ricerca prevalente in materia. Un primo dubbio sulla supposta relazione tra riforma del lavoro e occupazione sorge mettendo semplicemente a confronto i dati ufficiali sull’Italia con quelli relativi agli altri paesi europei. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, la crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata molto più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si è registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo, inoltre, non si rilevano significativi avvicinamenti dell’Italia alla media europea (dati Ameco Eurostat). In altre parole, paesi in cui negli ultimi due anni non si sono registrati cambiamenti nella legislazione del lavoro, hanno visto crescere l’occupazione decisamente più che in Italia. 

L’esito di questa banale comparazione non è casuale. Dopo un ventennio di ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione. Economisti e istituzioni che per lungo tempo hanno salutato con favore le politiche di deregolamentazione del lavoro, hanno dovuto riconoscere che non vi sono evidenze sufficienti per sostenere che tali politiche favoriscano le assunzioni. 

martedì 26 dicembre 2017

"Decrescita o sviluppo delle forze produttive?" - Domenico Losurdo

Da:  AccademiaIISF - MARX A CENT’ANNI DALLA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE - http://www.iisf.it/pdfsito/LOSURDO.pdf
Domenico_Losurdo (Università di Urbino)  è un filosofo, saggista e storico italiano.

Prima lezione:

lunedì 25 dicembre 2017

“RAZZISMO E CULTURA” - Frantz Fanon


Da: Frantz Fanon, Scritti politici. Per la rivoluzione africana. 2006 - https://www.facebook.com/jose.p.rojas.14/notes?
Frantz_Fanon è stato uno psichiatra, scrittore e filosofo francese, nativo di Martinica e rappresentante del movimento terzomondista per la decolonizzazione.


TESTO DELL’INTERVENTO DI FANON AL PRIMO CONGRESSO DEGLI SCRITTORI E DEGLI ARTISTI NERI DI PARIGI, SETTEMBRE 1956, PUBBLICATO NEL NUMERO SPECIALE DI “PRÉSENCE AFRICAINE”, GIUGNO-NOVEMBRE 1956.
Audio originale dell’intervento: http://www.ina.fr/audio/PH909013001


“La riflessione sul valore normativo di certe culture, decretato unilateralmente, merita attenzione. Uno dei paradossi in cui ci si imbatte più facilmente è il contraccolpo suscitato dalle definizioni egocentriche e sociocentriche.

Viene innanzitutto affermata l’esistenza di gruppi umani privi di cultura, poi quella di culture gerarchizzate e infine la nozione di relatività culturale.

Dalla negazione globale al riconoscimento singolo e specifico. Ed è proprio questa storia sanguinosa e frammentaria che bisogna cercare di tracciare a livello dell’antropologia culturale.

Esistono, possiamo dire, certi insiemi di istituzioni, vissute da determinati uomini, nel quadro di aree geografiche precise, che a un certo punto hanno subito l’attacco diretto e brutale di schemi culturali diversi. Lo sviluppo tecnico del gruppo sociale così emerso, generalmente elevato, lo autorizza a instaurare un dominio organizzato. L’impresa di deculturazione è soltanto il negativo di un più gigantesco lavoro di asservimento economico e persino biologico.

La dottrina della gerarchia culturale è quindi solo un modulo della gerarchizzazione sistematica perseguita in modo implacabile.

La teoria moderna dell’assenza d’integrazione corticale dei popoli coloniali ne è il versante anatomico-fisiologico. La comparsa del razzismo non è determinante. Il razzismo non è un tutto, ma l’elemento più visibile, più quotidiano, talvolta il più rozzo di una data struttura.

Studiare i rapporti tra razzismo e cultura significa porsi il problema della loro azione reciproca. Se la cultura è il complesso dei comportamenti motori e mentali, sorto dall’incontro dell’uomo con la natura e con i suoi simili, va detto che il razzismo è un vero e proprio elemento culturale. Ci sono quindi culture con razzismo e culture senza razzismo.

sabato 23 dicembre 2017

La società artificiale - Renato Curcio

Da:  http://www.rivistapaginauno.it/ - Renato Curcio è un saggista e sociologo italiano, tra i fondatori delle Brigate Rosse. 
Incontro-dibattito sul libro La società artificiale. Miti e derive dell'impero virtuale, di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2017), presso il Csa Vittoria, Milano, 14 settembre 2017. 


Controllo sociale, lavoro e trasformazione del sistema politico
Il lavoro di ricerca è sempre un lavoro teso su una corda, nel senso che stiamo cercando di affrontare dei processi sociali nuovi, che ci sorprendo perché, come abbiamo tentato di dire soprattutto nel primo lavoro, L'impero virtuale (1), sono processi ad altissima velocità storica e sorpassano la nostra capacità di adattamento. Il tempo, la storia, dell'Ottocento e del Novecento, per rimanere negli ultimi due secoli, aveva un passo molto più lento: il lavoratore del sud Italia che veniva a lavorare alla Pirelli a Milano o alla Fiat di Torino, poteva arrivare anche digiuno di quella che era una cultura del mondo del lavoro, sindacale, di classe ecc., e aveva poi il tempo per entrare progressivamente nei problemi che stava vivendo insieme ai diversi contesti che attraversava e che erano abbastanza omogenei: i contesti urbani dei quartieri, quelli di fabbrica, i contesti sociali più organizzati. Oggi questo non c'è più. Oggi i tempi sono talmente violenti e veloci che ci mettono di fronte a delle dinamiche che sono mondiali, e che solo dieci anni fa non esistevano. Facebook, per esempio, che nel 2007 entra come processo sociale non più riferito a un piccolo gruppo di università, e dieci anni dopo raggiunge i due miliardi di utenti. È quindi comprensibile che le persone che vi si sono riversate lo vivano più esperenzialmente e intuitivamente che avendone contezza e gli strumenti per leggere che cos'è, come funziona, come funzionano loro stessi mentre utilizzano questo tipo di strumenti.
Ne L'impero virtuale dunque abbiamo cercato di affrontare l'insorgere di questo tipo di processi sociali, legati a una tecnologia particolare, che hanno sorpreso abitudini, consuetudini, modi di leggere la realtà e di viverla in tutti i campi: nel lavoro, nel consumo, nello svago, nella vita di relazione.
Come secondo passaggio ci siamo concentrati sul terreno del mondo del lavoro, con L'egemonia digitale (2), cercando di capire come e fino a che punto gli sguardi che noi avevamo - che derivano dalla storia dell'organizzazione del lavoro che ha caratterizzato il Novecento, una discussione partita già nell'Ottocento con Marx e la forte elaborazione di quali erano le dinamiche profonde del modo di produzione capitalistico rispetto al mondo del lavoro - reggevano nella nuova situazione. 
Questi due lavori ci hanno però messo in evidenza un loro limite, che possiamo considerare ovvio in qualche modo perché erano approcci nuovi, e che ritengo anche un valore: entrambi nascevano da un'esperienza prevalentemente narrativa, all'interno di cantieri sociali. Ci eravamo appoggiati alle persone che vivevano in modo diretto nei luoghi più significativi dei processi che volevamo guardare, e attraverso le loro narrazioni avevamo cercato di costruire un territorio a partire dal quale fosse poi possibile passare a un momento di analisi più profondo. Ma questo poneva il limite della dimensione fenomenologica: le persone raccontavano storie che erano emblematiche, sistemate attraverso una serie di verifiche, ed è ovvio che se lavoratrici e lavoratori raccontano, seppur con parole diverse, sempre la stessa storia, quella storia diventa oggetto di una riflessione e ci consente di passare dalla sua narrazione fenomenologica a individuarne le dinamiche più profonde. È vero però che alcuni momenti della microfisica del potere delle storie che raccontavano erano, da un punto di vista tecnologico, talmente complessi e talmente banalizzati dalle parole con cui venivano narrati, che spesso si aveva la sensazione di aver capito di cosa si stava parlando e invece, andando poi a fondo, non era così chiaro. E quindi in quest'ultimo lavoro, La società artificiale, fatto insieme a gruppi di persone che a Roma e a Milano hanno voluto accompagnare questa riflessione e con incontri svolti su territori specifici che poi vedremo, lo sforzo è stato cercare di andare a vedere le dinamiche più profonde dei processi che avevamo raccontato, esplorato e cercato di capire nei due lavori precedenti. 

giovedì 21 dicembre 2017

In viaggio in Medio Oriente: Iraq/Afghanistan - Alberto Negri

Da: http://www.lantidiplomatico.it/ - alberto-negri è un giornalista italiano.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/medio-oriente-alberto-negri-marco.html

Irak: "Perché l'Iraq è stata la più grande fake news della storia contemporanea. 
La preparazione fu un lavoro enorme da parte della propaganda americana, anglosassone in generale 
con migliaia e migliaia di pagine di giornali in cui si documentava il possesso da parte di Saddam di armi di distrazione di massa".... 

martedì 19 dicembre 2017

L’anarchia selvaggia di Pierre Clastres - Alessandra Ciattini

Da:  https://www.lacittafutura.it - alessandraciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 

Come sorge il potere? Dall’autoassoggettamento di molti o dalla prevaricazione di pochi?

La seconda ristampa del libro “L’anarchia selvaggia” di Pierre Clastres (Elèuthera, Milano 2017), un antropologo francese scomparso prematuramente nel 1977, ci consente di tornare a riflettere su due problemi centrali: il sorgere del potere e la distinzione / differenza tra società centralizzate e società acefale (nel linguaggio dell’autore “divise” e “indivise”).
Si tratta ovviamente di due problemi capitali, che non hanno esclusivamente una portata teorica, ma che costituiscono anche le problematiche all’interno delle quali si dispiegano le nostre vite quotidiane, scontrandosi con gli ostacoli che il potere e la divisione in dominanti e dominati frappongono alla nostra legittima realizzazione e alla nostra ragionevole richiesta di riconoscimento da parte degli altri.
Affrontando questi problemi Clastres, che fu forse l’allievo preferito di Claude Lévi-Strauss, cui tuttavia non risparmia critiche, talvolta assume il tono nietzschiano di colui che scopre qualcosa a cui nessuno prima ha mai pensato, quando invece purtroppo per il nostro amor proprio spesso ci limitiamo a ripetere qualcosa che qualcuno sia pure da noi dimenticato ha già detto. Ma questo è un po’ un difetto di tutti quelli che si sono richiamati alla cosiddetta French Theory, ossia il poststrutturalismo, che nella sua foga distruttiva ha accantonato la misura e la prudenza.
Il principale ispiratore della riflessione di Clastres è Étienne de la Boétie (1530-1563), affettuoso amico di Michel de Montaigne (1533-1592), il quale probabilmente a solo 18 anni scrisse il famoso “Discorso sulla servitù volontaria”, diffuso clandestinamente con il significativo titolo “Il Contr’Uno”, divenuto un classico del pensiero anarchico e un’imprescindibile lettura ancora oggi. 

domenica 17 dicembre 2017

giovedì 14 dicembre 2017

"Il difetto ereditario dei filosofi" - Carlo Sini

Da:  CarloSiniNoema - Carlo_Sini è un filosofo italiano.

                        Lezione 2 - Heidegger,"Il compito del pensiero"- https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/11/il-compito-del-pensiero-carlo-sini.html 

Lezione 3 - Nietzsche,"Il difetto ereditario dei filosofi"(Parte prima):
,

Lezione 3 - Nietzsche,"Il difetto ereditario dei filosofi"(Parte seconda) - https://www.youtube.com/watch?v=A2cCyrnpwzw 

sabato 9 dicembre 2017

Il concetto di lavoro fra Hegel e Marx: Sul post-marxismo. F.M.Cacciatore, A.Nizza, M.Mazzeo

Da:  AccademiaIISF



Fortunato M. Cacciatore (Università della Calabria) "Scissioni e resti del popolo sovrano. Lavoro, politica e produzione della plebe dal XXI secolo a Hegel"

Angelo Nizza (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) "Il linguaggio che produce e il lavoro che parla. Da Rossi-Landi all’operaismo"

Marco Mazzeo (Università della Calabria) "Il pugno che lavora: Muhammad Ali operaio della parola"



mercoledì 6 dicembre 2017

"La democrazia: da governo di tutti a governo dei meno"- Luciano Canfora

Da:  MagistraturaDem - Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. 


sabato 2 dicembre 2017

"Riflessioni" 6... - Stefano Garroni




Se la produzione avviene in condizioni storico-sociali determinate, allora sembra vero che, se di produzione si vuol parlare, di fronte a noi si aprano solo due possibili strade: o quella della descrizione dei modi di produzione nelle differenti epoche storiche; o quella che, subito, limita il discorso ad un’epoca determinata, ad es., la presente (ed appunto questo secondo, Marx dichiara essere il suo scopo).

Qui bisogna fare attenzione. Quando si affrontano problemi (teorici o no, che siano) riguardanti un certo ambito del sapere -e lo si vuol fare seriamente-, allora l’attenzione deve esser rivolta all’effettiva realtà -storica o attuale- di quell’ambito determinato. Se il problema è precisare il “punto di partenza dell’economia politica”, la questione va posta, tenendo presente che cosa effettivamente fanno coloro i quali si occupano di economia politica. In altri termini, non si possono affrontare problemi scientifici (ma d’altronde neanche quelli politici o morali, ecc.), se non ricostruendo il modo in cui, di fatto, quei problemi si pongono nell’attuale o si son posti nella storia. Perché in realtà un problema scientifico -teorico o no, che sia- è tutt’altra cosa da un’arbitraria speculazione, una soggettiva elucubrazione: infatti, esso non nasce casualmente, ma sì da reali difficoltà, che si incontrano nel praticare quel determinato ambito del sapere. Non meraviglia, dunque, se Marx, ponendosi il problema dell’Ausgangspunkt dell’economia politica, faccia bene attenzione a come gli economisti hanno ritenuto di risolverlo e perché non vi siano riusciti.

E’ in questa prospettiva che Marx chiama in causa una procedura diffusa tra gli economisti: quella di far precedere un trattato di economia da una parte introduttiva, in cui si chiarisca cosa significhi produzione in generale -l’evidente sottinteso di tale procedura è che, in primo luogo, bisogna definire l’oggetto di studio, e che ciò può farsi descrivendone le caratteristiche costanti.

In realtà, revocare in dubbio l’opportunità di tale procedura (come Marx fa) significa porre una questione, logica ed epistemologica, di grande rilievo. La nozione di produzione in generale è, infatti, solo un esempio di ciò che intende per «concetto» una lunga tradizione scientifica e filosofica, ma anche il pensiero comune.

Entro quest’ottica, posti gli individui a, b, c, ..., n, elaborarne il concetto significa raccogliere tutte -e solo- le caratteristiche comuni agli individui in questione, scartandone, invece, le altre, quelle che differenziano un individuo dall’altro. Le origini empiristiche di tale procedura sono del tutto ovvie, ma è anche opportuno sottolineare che così procede il pensiero comune.

La critica di Marx a questo modo di concepire il «concetto» (nel nostro caso, la produzione in generale) presenta, ancora un volta, nettissime affinità con tesi già espresse da Hegel.

Prima di tutto, va notato che Marx non rifiuta in blocco questa forma di astrazione; al contrario, riprendendo Hegel, la definisce una verständliche Abstraktion, ricorrendo ad un’espressione (tedesca, ovviamente) su cui vale la pena soffermarsi un pochino.

L’aggettivo verständliche -va da sé- richiama un termine, che abbiamo già incontrato: Verstand o intelletto; dal che ricaviamo che questa forma di astrazione si colloca all’interno di quello scindere l’immediata totalità dell’esperienza, che -lo abbiamo visto prima- è, a dir così, il compito o risultato della critica intellettuale (quella, ad es., che produce le robinsonate, di contro al naturale punto di partenza dell’economia politica). Tutti ricordiamo che nel Manifesto Marx aveva celebrato la funzione storica della borghesia e del capitalismo, capaci con il loro dinamismo, irriguardoso di ogni confine, di distruggere l’idiotismo delle chiuse ("naturali") comunità feudali o, comunque, precapitalistiche. Qui, nell’Introduzione, Marx ripropone questo discorso, sia pure non nella prospettiva generalmente storica e sociale, ma sì in quella teorica ed epistemologica.

Il termine verständliche, però, corrisponde, anche, all’italiano «sensato» (come quando si dice, ad es., «far così e così è cosa sensata»); questo secondo significato è strettamente legato al primo -non solo nell’uso della lingua tedesca, ma anche nella riflessione di Hegel.

Infatti, il mondo del Verstand è, anche, il mondo dell’agire, dell’utile, dell’ «economico» nel significato di efficace, pragmaticamente positivo, di ‘razionale’ -nel senso in cui l’economia, anche oggi, si pone il problema dei mezzi razionali per conseguire scopi, in una condizione di penuria.

Se, dunque, la produzione in generale è un esempio di verständliche Abstraktion, possiamo dire, in italiano, che si tratta di una astrazione sensata. e ciò perché, come Marx chiarisce, raccogliendo i caratteri comuni alla varie forme di produzione succedutesi nella storia, ci consente di risparmiare ripetizioni e lungaggini (nella tradizione empiristica, questa è la giustificazione fondamentale delle astrazioni). Si tratta, dunque, di uno strumento utile all’impresa scientifica, esattamente nel senso in cui lo stesso Hegel lo riconosceva tale. Ma la questione non finisce qua; al contrario, è a questo punto che inizia il contributo importante, che Marx dà alla caratterizzazione -e, quindi, alle possibilità d’uso- di questo strumento scientifico.

Poniamo che siano dati gli individui a, b, c, ..., n (ad es., i vari modi di produzione succedutisi nella storia) e che p, q, r siano loro caratteristiche costanti; il concetto di produzione in generale risulterà, dunque, P = p, q, r.

Va considerato, però, osserva Marx che, ad. es., «p», si svolga in p’, p" e che queste nuove caratteristiche, immediatamente ricavabili da «p», non si trovino in tutti gli esempi storici di modi di produzione, sebbene in uno e non nell’altro, nel più antico come pure nel più moderno ma non in quelli intermedi, ecc. (E’ le cose stanno proprio così, come mostra la storia dei diversi modi di produzione). E’ chiaro che, a questo punto, la formula della produzione in generale (P = p, q, r) rivela forti limiti, se il problema è quello di capire cosa sia produzione

In altre parole, ci rendiamo conto a questo punto che comprendere cosa sia produzione non è mai possibile, se non combinando -e volta a volta, in modo diverso- caratteristiche comuni a tutti i modi di produzione e caratteristiche che, invece, differenziano questo da quello.

In conclusione, mediante l’analisi critica della verständliche Abstraktion, Marx propone, in realtà, una concezione del conoscere scientifico che, articolando comune e differente, giunge a cogliere la particolarità dell’oggetto suo. Che tutto ciò sia appieno hegeliano è difficilmente smentibile. 

mercoledì 29 novembre 2017

Le parole sono importanti - Alessandra Ciattini 

Da:  https://www.lacittafutura.it -   insegna Antropologia culturale alla Sapienza.


Le parole non forniscono solo informazioni, ma forgiano la nostra mente.
Debbo dire che non ho mai molto apprezzato il cinema minimalista di Nanni Moretti, ma mi ha colpito il suo sottolineare, in più occasioni, per esempio in Palombella rossa (1989), che “Le parole sono importanti”, tanto che giunge in una scena a schiaffeggiare la sua interlocutrice perché gli ha attribuito espressioni a lui del tutto estranee come per esempio trend negativo, ribadendo che lui non parla né pensa così. Non solo, ma si incollerisce anche di fronte ad espressioni come kitchcheap, o di fronte a frasi fatte, ripetute senza immaginazione e prive di qualsiasi tentativo di riflessione, sollecitando a non farsi condizionare dall’ambiente che ci circonda, dalle espressioni giornalistiche più usate, da una maniera stravolta di parlare che ci conduce a pensare e a vivere male. Soprattutto ho condiviso l’idea che le parole contribuiscono a forgiare il nostro pensiero, divenendo così un potente strumento sia di manipolazione che di emancipazione. 

Sicuramente l’intuizione di Moretti è intelligente, anche se poi giunge a sostenere una posizione irrazionalistica, quando afferma, in altre sequenze del film, che odia la parola scritta perché in essa un pensiero una volta cristallizzato si trasformerebbe in una menzogna, dimenticando che anche le parole scritte come quelle parlate possono avere un diverso valore di verità e che, d’altra parte, nessuno può esprimersi se non attraverso la mediazione della parola o di altri strumenti comunicativi come per esempio i gesti. Pertanto, non possiamo fare a meno della parola scritta o parlata e dobbiamo sempre valutarne il significato e il contenuto, tenendo presente sia il contesto sociale in cui essa viene pronunciata, sia il ruolo sociale di chi la emette e di chi la riceve. Insomma, ogni forma di comunicazione prevede irrimediabilmente una mediazione, senza quale esiste solo la telepatia o la condivisione mistica, le quali non mi sembrano funzionare molto bene. 

sabato 25 novembre 2017

"Il compito del pensiero" - Carlo Sini


Da: CarloSiniNoema - Carlo_Sini è un filosofo italiano.

Vedi anche: Lezione1- Hegel,"Filosofia e Metodo" - https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/11/hegelfilosofia-e-metodo-carlo-sini.html

Lezione 2 - Heidegger,"Il compito del pensiero", parte prima:


Lezione 2 - Heidegger,"Il compito del pensiero", parte seconda:  https://www.youtube.com/watch?v=JXtN-gfzc_4 

venerdì 17 novembre 2017

"Riflessioni" 5.0 - Stefano Garroni



                                                                                        Feticismo 

...noi troviamo il termine "feticismo" usato da Marx per intendere in definitiva quella situazione per cui le conseguenze, del rapporto sociale che si stabilisce nel capitalismo tra capitale e lavoro, appaiono alla coscienza, che è immersa nell'esperienza della società capitalistica, e quindi che non ha un rapporto critico rispetto ad essa, come caratteristiche delle cose. Per esempio il valore è il valore della merce; la televisione ci dice che c'è l'inflazione, che cresce e si abbassa, ha la febbre, non ha la febbre; eccetera. Ecco, queste conseguenze, questo modo di strutturarsi dei rapporti sociali in un momento determinato appare, alla coscienza immersa nella società capitalistica, come una serie di qualità delle cose: della merce, del mercato ecc. Questo Marx indica con feticismo.

Il problema che si pone è il seguente: perché Marx usa questo termine? Che cosa esattamente vuole intendere? Che rapporto ha questo termine con il termine utilizzato appunto nella tradizione antropologica? Pongo questa domanda apparentemente erudita, da persona che ha il problema erudito di ricostruire l'esattezza di un testo. Il perché di questa problematica ce lo mostra per esempio Napoleoni, o per esempio Colletti; per Colletti faccio riferimento a un saggio compreso in Ideologia e società. Qui Colletti era ancora marxista, o almeno così veniva considerato. Il libro fu pubblicato nel 1969. Faccio riferimento al capitolo intitolato Teoria del valore e feticismo. Anche lasciando fuori la citazione precisa, un elemento è comune ai due i personaggi: quello di mostrare la contraddizione fondamentale della società capitalistica basata sulla contrapposizione, citando Napoleoni, di una tesi antropologica e morale di Marx da un lato, e dall'altro lato il rapporto tra capitale e lavoro.; in Colletti la contrapposizione tra                                                                                    individuo naturale feuerbachiano e rapporto capitale-lavoro. 

In sostanza dice Napoleoni: Marx ritiene che l'essenza dell'uomo sia la sua capacità produttiva. Questa è la tesi antropologica sull'uomo di Marx e, ovviamente, Napoleoni cita il Marx giovane Marx dei manoscritti parigini del '44. Questa essenza dell'uomo viene contraddetta dal rapporto capitale-lavoro, in quanto in questo rapporto il lavoro vivo, quindi l'attività, l'energia vitale dell'uomo, è subalterna rispetto al lavoro oggettivato, rispetto alla macchina, rispetto al capitale. È chiaro che qui c'è da inserire un terzo personaggio: c'è questa tesi antropologica di Marx (l'essenza dell'uomo è la sua capacità produttiva), c'è il rapporto di capitale, e terzo c'è un principio morale: l'essenza dell'uomo va rispettata, salvata e potenziata. Messo insieme il sillogismo diventa questo: l'essenza dell'uomo è la sua capacità produttiva, l'essenza dell'uomo va salvata, rispettata e potenziata, ma il capitalismo aggioga il lavoro vivo, cioè la capacità produttiva dell'uomo rispetto al lavoro morto, e quindi il capitalismo va condannato. 

giovedì 16 novembre 2017

Il circuito del capitale - Tony Norfield

Da:  https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ - Link all’articolo originale in inglese  Economics of Imperialism

Questo articolo si basa su un saggio scritto ormai più di trent’anni fa. Saggio che, con alcune modifiche stilistiche minori, una conclusione rivista e qualche aggiornamento alle note, ripropongo qui come contributo alla comprensione del Capitale di Marx. Le note a piè di pagina sono numerose, in molti casi fanno riferimento sia a pagine specifiche di un’edizione del Capitale che alla collocazione precisa di un passo all’interno di un capitolo. Questo al fine di agevolare il lettore nel rintracciare i riferimenti in altre edizioni e nelle risorse online (specialmente l’ottimo Marxist Internet Archive, [per la traduzione italiana, in riferimento al Capitale, si rimanda al sito CriticaMente, n.d.t.]).

Dei tre libri del Capitale di Marx, il secondo, dedicato al processo di circolazione del capitale, è il più trascurato. Laddove ha riscosso una qualche attenzione, come riguardo all’utilizzo degli schemi di riproduzione per analizzare la “trasformazione” dei valori in prezzi di produzione, è stato spesso frainteso [1]. La prima sezione di questo saggio delinea il rapporto metodologico fra i tre libri del Capitale; la seconda affronta in modo più ampio gli argomenti del secondo libro e la sua relazione col primo.

1.  Distinzioni metodologiche 
Una concisa formulazione del rapporto tra i tre libri del Capitale si trova nella prima pagina del capitolo primo, libro terzo. Marx vi nota che il primo libro analizza il processo di produzione capitalistica immediato, “astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze ad esso estranee”, e che il secondo studia il processo di circolazione del capitale, il quale andrebbe aggiunto al processo di produzione immediato così da completare “il corso dell’esistenza del capitale”. Il terzo libro, invece, va oltre questa sintesi, al fine di “scoprire ed esporre le forme concrete che sorgono dal processo di movimento del capitale, considerato come un tutto”. In contrasto con i primi due libri, il terzo considera quegli aspetti del capitale che:
si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione. [2]
L’analisi contenuta nei primi due libri viene dunque condotta al livello del “capitale in generale”, raggiungendo il piano dei “diversi capitali” e della concorrenza nel terzo libro. Le forme assunte dal capitale nella “superficie della società” non vengono esaminate immediatamente, e persino nel terzo libro vengono soltanto “avvicinate”.

lunedì 13 novembre 2017

Hegel e la rivoluzione - Domenico Losurdo:


Da:  Scuola di filosofia Roccella Jonica - Domenico_Losurdo è un filosofo, saggista e storico italiano.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2017/01/perche-e-fallito-il-comunismo-domenico.html



Il dibattito:  https://www.youtube.com/watch?v=SFHLZM0YjWk

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“Per la coscienza virtuosa l’universale è verace nella fede o in sé; e non è ancora un’universalità effettuale, ma astratta […]. La virtù non somiglia soltanto a quel contendente che nella lotta era tutto occupato a mantenere immacolata la spada, essa è anche entrata in lizza per preservare le armi […]. La virtù vien dunque vinta dal corso del mondo perché suo fine è in effetto l’essenza astratta e ineffettuale […]. Così il corso del mondo ottiene la vittoria su ciò che, in contrapposizione a lui, costituisce la virtù […]. Ma esso non trionfa di alcunché di reale […]; trionfa di tale pomposo discorrere del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa; di tale pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; – simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un eccellente essenza; – ma è invece una gonfiatura che fa grossa la propria testa e quella degli altri, la fa grossa di vento [...]”.

“La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole; giacché dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia […]".

"Ecco dunque in effetto qual è il risultato di tale opposizione: la coscienza si sbarazza, come di un vano mantello, della rappresentazione del bene in sé che non avrebbe ancora effettualità alcuna. Nella sua lotta la coscienza ha sperimentato come il mondo non sia tanto malvagio quanto pareva: la sua effettualità è, infatti, la realtà dell’universale”.
Hegel, fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia 1960, pp. 319-324. (homolaicus)

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Utopismo vuol dire: preferisco che il mondo sia così e così invece che come è. Significa pretendere di dettare al mondo la regola del proprio essere, non ricavando questa regola dall’evoluzione del mondo, ma ricavandola dalle mie preferenze. In questo senso il marxismo è radicalmente antiutopista. 
(riflessioni-40-stefano-garroni)