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Rispettivamente Università del Sannio, Università di Bergamo,
Università Politecnica delle Marche.
La
libertà di licenziamento e le altre forme di deregolamentazione del
lavoro favoriscono le assunzioni? Svariati esponenti di governo e del
mondo dei media hanno sostenuto che l’aumento dell’occupazione
che si è registrato negli ultimi mesi in Italia sarebbe frutto della
ulteriore flessibilità dei contratti sancita dal Jobs
Act.
Questa tesi, come vedremo, non trova riscontri nella ricerca
prevalente in materia. Un primo dubbio sulla supposta relazione tra
riforma del lavoro e occupazione sorge mettendo semplicemente a
confronto i dati ufficiali sull’Italia con quelli relativi agli
altri paesi europei. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, la
crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata
molto più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si
è registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo, inoltre,
non si rilevano significativi avvicinamenti dell’Italia alla media
europea (dati Ameco Eurostat). In altre parole, paesi in cui negli
ultimi due anni non si sono registrati cambiamenti nella legislazione
del lavoro, hanno visto crescere l’occupazione decisamente più che
in Italia.
L’esito
di questa banale comparazione non è casuale. Dopo un ventennio di
ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi
economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche
significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione.
Economisti e istituzioni che per lungo tempo hanno salutato con
favore le politiche di deregolamentazione del lavoro, hanno dovuto
riconoscere che non vi sono evidenze sufficienti per sostenere che
tali politiche favoriscano le assunzioni.
Alcuni
riferimenti aiuteranno il lettore a sincerarsi di questo approdo
della ricerca scientifica in materia. Nel 2006, in una celebre
rassegna dedicata all’argomento, l’ex capo-economista del
FMI Olivier
Blanchard arrivò
a dichiarare che «le differenze nei regimi di protezione
dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i
tassi di disoccupazione dei vari paesi» [1]. A conclusioni analoghe
è giunto Tito
Boeri,
che da un’ampia ricognizione di studi in materia realizzata con Jan
van Ours e
pubblicata nel 2008, rilevò che su tredici ricerche sugli stock di
occupati e disoccupati esaminate, soltanto una segnalava una
relazione tra riduzione delle tutele e crescita dell’occupazione
mentre altre nove davano risultati indeterminati e tre addirittura
indicavano che la maggior precarizzazione del lavoro è
statisticamente associata a riduzioni dell’occupazione e aumenti
della disoccupazione [2].
Ancor
più significative sono le ammissioni di quelle istituzioni
internazionali che per lungo tempo hanno esortato i governi a
procedere lungo la via della flessibilità del lavoro.
Nell’Employment Outlook del 1999 l’OCSE evidenziò
l’assenza di correlazioni tra le norme a protezione dei lavoratori
e i tassi di disoccupazione [3]. Il test dell’OCSE è stato in
seguito da più parti replicato con dati aggiornati, e ha dato sempre
lo stesso risultato. [4]
Il
grafico seguente riproduce l’analisi empirica dell’OCSE
estendendola a dati relativi all’arco 1985-2013 (Figura 1).
Sull’asse verticale è riportato il tasso di disoccupazione medio
in ciascun paese. Sull’asse orizzontale è riportato il livello
medio dell’indice di protezione del lavoro nei vari paesi calcolato
dall’OCSE. Se esistesse una relazione statistica significativa tra
le due variabili, i punti rappresentativi di ogni paese esaminato
dovrebbero aggregarsi intorno a una linea crescente da sinistra verso
destra, a indicare un nesso tra livelli più alti dell’indice di
protezione dei lavoratori e livelli più alti della disoccupazione.
Invece, come si evince dal grafico, i punti si disperdono sul
diagramma, a riprova dell’assenza di una relazione statistica tra
tutele del lavoro e disoccupazione.
Figura
1 –
il
test dell’OCSE su flessibilità e disoccupazione, riprodotto con
dati aggiornati (Fonte: D. Suppa, Appendice, in E. Brancaccio,
Anti-Blanchard, 2° ed., Franco Angeli, Milano 2016; dati OECD).
Più
di recente, il World Development Report pubblicato nel 2013
dalla World
Bank è
giunto alla seguente conclusione: «Nuovi dati e metodologie più
rigorose hanno scatenato un’ondata di studi empirici negli ultimi
due decenni sugli effetti della regolamentazione del lavoro […]
Sulla base di questa ondata di nuove ricerche, l’impatto globale
della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all’intensità
che il dibattito suggerirebbe. Per la maggior parte, le stime tendono
ad essere insignificanti o modeste» [5]. Ed ancora, il World
Economic Outlook 2016 del FMI evidenzia
che «le riforme che facilitano il licenziamento dei lavoratori a
tempo indeterminato non hanno, in media, effetti statisticamente
significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche» [6].
Sulla
stessa lunghezza d’onda si situa l’Employment Outlook 2016
dell’OCSE, in cui si legge: «La maggior parte degli studi empirici
che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di
flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse hanno un impatto
nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo» [7].
Infine, con riferimento specifico al Jobs Act, uno studio
di Sestito e Viviano pubblicato
da Bankitalia nel
2015 attribuisce alla maggior libertà di licenziamento introdotta
dalla nuova normativa soltanto il cinque percento dell’aumento
totale delle assunzioni a tempo indeterminato [8]. Una possibile
spiegazione di questi risultati è che la precarizzazione dei
contratti può forse indurre le imprese ad assumere lavoratori nelle
fasi di ripresa economica, ma consente loro di liberarsi facilmente
di quegli stessi lavoratori nei periodi di crisi: alla fine, tra
creazione e distruzione di posti di lavoro l’effetto netto delle
deregolamentazioni sull’occupazione risulta essere pressoché
nullo.
La
precarizzazione può invece avere un effetto tangibile sul potere
contrattuale dei lavoratori, e per questa via può deprimere i salari
e ampliare le disuguaglianze tra i redditi. Questa tesi è stata
avanzata, tra gli altri, dall’economista Richard
Freeman dell’Università
di Harvard,
e di recente ha trovato riscontri in varie ricerche empiriche [9]. Da
un’analisi sui paesi OCSE effettuata sul periodo 1991-2013 e
recentemente presentata alla Scuola superiore della Magistratura,
abbiamo rilevato che una unità in meno nei livelli di protezione del
lavoro non presenta relazioni significative con la crescita
complessiva del Pil mentre risulta statisticamente associata a una
quota del reddito nazionale destinata ai salari mediamente più bassa
di circa mezzo punto percentuale.
Inoltre,
abbiamo verificato che eventuali shock nella legislazione del lavoro
che riducano gli indici di protezione dei lavoratori di circa mezzo
punto, nel quinquennio successivo risultano statisticamente associati
a riduzioni cumulate della quota salari fino a quattro punti
percentuali complessivi e a incrementi corrispondenti della quota di
reddito destinata ai profitti e alle rendite [10]. A quanto pare, le
riforme del lavoro risultano correlate non alla crescita
dell’occupazione e del reddito nazionale, quanto piuttosto agli
esiti del conflitto distributivo sulla ripartizione di quest’ultimo.
NOTE
[1]
Blanchard, O. (2006). European Unemployment: The Evolution of Facts
and Ideas, Economic Policy, 45.
[2] Boeri, T., van Ours J. (2008). Economia dei mercati del Lavoro imperfetti, Egea, Milano.
[3] OECD (1999), Employment Outlook, June.
[4] Suppa, D. (2016). Appendice statistica, in E. Brancaccio, Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia. Seconda edizione, Franco Angeli, Milano.
[5] World Bank (2013), World Development Report 2013: Jobs. Washington D.C.: World Bank Publications.
[6] International Monetary Fund (2016), Time for a supply side boost? Macroeconomic effects of labor and product market reforms in advanced economies. In World Economic Outlook 2016. Washington, DC: IMF.
[7] OECD (2016), OECD Employment Outlook 2016 (Paris: OECD).
[8] Sestito, P., Viviano, E. (2015). Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market, Banca d’Italia, Occasional Papers, n. 325.
[9] Freeman, R. (2008). Labor market institutions around the world. London, LSE CEP Discussion Paper No 844. Cfr. anche Campos, N.F. and J.B. Nugent (2015), The Freeman Conjecture, IZA/World Bank Conference on Employment and Development: Technological Change and Jobs, Bonn.
[10] Brancaccio, E., Garbellini, N., Giammetti, R. (2016), Labour deregulation, gdp growth and functional income distribution, di prossima pubblicazione (draft presentato al seminario “La riforma del mercato del lavoro tra diritto ed economia”, Scuola Superiore della Magistratura, Scandicci (FI), 26 ottobre). Cfr. anche, Brancaccio, E., Garbellini, N., Giammetti, R. (2017), Dagli slogan alle evidenze: una rassegna sugli effetti delle deregolamentazioni del lavoro, in Buffa, F. (a cura di) (2017), La nuova disciplina del mercato del lavoro, Key Editore, Roma.
[2] Boeri, T., van Ours J. (2008). Economia dei mercati del Lavoro imperfetti, Egea, Milano.
[3] OECD (1999), Employment Outlook, June.
[4] Suppa, D. (2016). Appendice statistica, in E. Brancaccio, Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia. Seconda edizione, Franco Angeli, Milano.
[5] World Bank (2013), World Development Report 2013: Jobs. Washington D.C.: World Bank Publications.
[6] International Monetary Fund (2016), Time for a supply side boost? Macroeconomic effects of labor and product market reforms in advanced economies. In World Economic Outlook 2016. Washington, DC: IMF.
[7] OECD (2016), OECD Employment Outlook 2016 (Paris: OECD).
[8] Sestito, P., Viviano, E. (2015). Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market, Banca d’Italia, Occasional Papers, n. 325.
[9] Freeman, R. (2008). Labor market institutions around the world. London, LSE CEP Discussion Paper No 844. Cfr. anche Campos, N.F. and J.B. Nugent (2015), The Freeman Conjecture, IZA/World Bank Conference on Employment and Development: Technological Change and Jobs, Bonn.
[10] Brancaccio, E., Garbellini, N., Giammetti, R. (2016), Labour deregulation, gdp growth and functional income distribution, di prossima pubblicazione (draft presentato al seminario “La riforma del mercato del lavoro tra diritto ed economia”, Scuola Superiore della Magistratura, Scandicci (FI), 26 ottobre). Cfr. anche, Brancaccio, E., Garbellini, N., Giammetti, R. (2017), Dagli slogan alle evidenze: una rassegna sugli effetti delle deregolamentazioni del lavoro, in Buffa, F. (a cura di) (2017), La nuova disciplina del mercato del lavoro, Key Editore, Roma.
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