mercoledì 30 settembre 2015

Tutto è merce - Gianfranco Pala

   “Nel mercato mondiale la connessione del singolo individuo con tutti, ma nello stesso tempo anche l’indipendenza di questa connessione dai singoli individui stessi, si è sviluppata a un livello tale che perciò la sua formazione contiene già contemporaneamente la condizione del suo trapasso. Il lato magnifico sta proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione naturale, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone perciò la loro indipendenza e indifferenza reciproche. Ma è anche insulso pensare quel nesso materiale come un nesso naturale. Esso invece ne è il prodotto. È un prodotto storico. Appartiene a una determinata fase del suo sviluppo. Il grado e l’universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa individualità diventa possibile presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l’universalità, l’alienazione dell’individuo da sé e dagli altri, ma anche l’universalità e l’organicità delle sue relazioni e delle sue capacità. Volgersi indietro a quella pienezza originaria è altrettanto ridicolo quanto credere di dover rimanere fermi a quel completo svuotamento. Al di là dell’opposizione a quel punto di vista romantico, quello borghese non è mai pervenuto, e perciò esso l’accompagnerà come opposizione legittima fino alla sua morte beata”.  (K. Marx, Lf.q.I,f.22-23)

 Ecco: quello descritto da Marx rappresenta “splendori e miseria” del mercato mondiale, la cui unificazione pone per la prima volta nella storia dell’umanità le antitetiche condizioni materiali per consentire un sufficiente sviluppo della produttività e della disponibilità di tempo. Mancano ancora, infatti, le condizioni sociali per sopprimere il carattere antitetico di tale sviluppo. Ma il modo di esistenza del capitale diventa adeguato al suo concetto solo sul mercato mondiale, dove le merci dispiegano universalmente il loro valore, dove la loro forma autonoma di valore si presenta di fronte a esse come moneta mondiale. Dunque, esporre articolatamente l’ambito mondiale della diffusione della merce (capitalistica) non è pleonastico o ridondante rispetto alla teoria del valore (e del plusvalore). Piuttosto ciò ne costituisce, appunto, la necessaria cornice per conoscere bene il contesto in cui il valore si muove. Si rappresenta così, allo stesso tempo, in via preliminare, nel succedersi dei modi di produzione, la necessità del “cominciamento” di valore per delineare il quadro complessivo reale – l’attuale fase della lotta di classe – al quale in ultima analisi ancora oggi ci si riferisce. È sul valore di scambio, sul denaro, sul capitale – appunto sulla proprietà, sul controllo e sulla disponibilità di essi – che si basa anche lo sviluppo del sistema dell’uguaglianza e della libertà borghese: uno sviluppo libero su una base limitata, cioè adeguata al capitale, che è un sistema della disuguaglianza e dell’illibertà. Il sistema del valore di scambio, su cui si articola il sistema monetario, è infatti solo formalmente il sistema della libertà e dell’uguaglianza, le quali però – quanto più diviene universale la forma-merce – si rovesciano all’occasione nel loro opposto.

lunedì 28 settembre 2015

Astrazione determinata - Paolo Vinci

«È nella pratica che l’uomo deve provare la verità e cioè la realtà del suo pensiero» (K. Marx) 


 Direi che il vero significato della astrazione determinata è questo: l’astrazione determinata è ciò che accade ogni giorno nella società capitalistica. Tale astrazione non è deformazione dello sguardo, ma è appunto ciò che effettivamente accade nello scambio delle merci, dove il valore viene assunto come una proprietà stessa delle cose. Marx chiama ciò apparenza, perché esso corrisponde solo ad un lato della realtà: il fatto che le cose abbiano qualità sociali occulta, il fatto che ciò dipende dal loro esser state prodotte dal lavoro umano e sempre sotto determinati rapporti sociali. Decifrare questa apparenza significa essere in grado di compiere un’inversione, ovvero mostrare che la forma fenomenica del valore nasconde un contenuto: il lavoro che si compie sempre in base a rapporti sociali storicamente determinati.

 L’astrazione non è dunque un prodotto mentale per Marx: l’apparenza non è l’errore, ma il manifestarsi di qualche cosa che occulta nel risultato il processo che vi è dietro. L’apparenza è l’indipendenza di qualche cosa, che in realtà non è indipendente, ma che si pone come tale negando ciò da cui dipende. Questo è quello che Marx chiama forma, parlando di forma merce, forma denaro, per indicare questa dimensione per cui nella forma fenomenica si occulta il processo che lo ha generato. L’apparenza, l’astrazione determinata è un’oggettività spettrale, poiché essa consiste in una esistenza sociale in cui ciò che è materiale subisce una strana vicissitudine.

 Tutta la teoria di Marx ruota intorno a questa oggettività spettrale che presuppone che qualcosa sia separato, che le relazioni sociali si siano rese indipendenti dai loro veri soggetti. Questo elemento soggettivo è importante, poiché è ciò che chiede un superamento della scissione, la riappropriazione da parte del soggetto delle sue relazioni sociali.

 La dialetticità sta proprio nella capacità di tener conto di questa contrapposizione tra il lato fisico naturale e quello sociale, assumendo la loro simultanea presenza a partire dalla opposizione tra valore d’uso e valore di scambio. Quindi il movimento di contenuto e forma che vi ho accennato, riferendomi al passaggio dalla merce al denaro, è un movimento per contraddizione. La teoria di Marx vuole essere una ricostruzione di questo processo per farci vedere che ciò che accade nel capitalismo è esattamente l’irrigidimento dell’opposizione presente nella merce fra il corpo naturale sempre particolare e il valore universale.

 L’irrigidimento consiste in una cancellazione della particolarità; ma ciò accade esclusivamente nella dimensione sociale, non in quella immediatamente naturale. In questo senso abbiamo quella separazione che dà vita a un movimento dialettico, dove funzionano nello stesso tempo due principi opposti. Per questo possiamo dire che l’astrazione che si manifesta nello scambio non è un atto mentale quanto piuttosto il modo di funzionare del modo di produzione capitalistico. Il fatto che il processo reale sia un processo dove si attua una negazione e un’astrazione è direttamente collegato al dominio del capitale, che è un dominio dell’universale astratto sul particolare concreto. Si tratta di non subire gli effetti incontrollati di una contraddizione dialettica non dominata: di ribellarsi a una unilaterale affermazione della universalità del valore di contro soggettività concreta degli individui.

 La «soluzione» nella sua forma più generale, la prospettiva del comunismo che, ad esempio, troviamo accennata nei Grundrisse coincide con l’affermazione del controllo cosciente degli individui sulle loro relazioni sociali.

 Attraverso il comunismo Marx più che una soluzione ci consegna una domanda: come muovendo dall’istanza di autorealizzazione di ogni individuo possa prodursi un nesso sociale unitario e non una forma di dominio separata. E’ possibile un legame sociale che nasca proprio dall’agire degli stessi individui? E’ possibile superare l’individualismo garantendo la libertà di tutti e di ciascuno? 


La logica matematica - Piergiorgio Odifreddi



http://www.belloma.it/kb/wp-content/uploads/2013/06/Piergiorgio-Odifreddi-20-lezioni-di-logica-matematica.pdf

domenica 27 settembre 2015

Augusto Graziani, l’uomo che ha davvero capito la moneta - Steve Keen

   In primo luogo, anche se tutti noi tendiamo a pensare allo scambio come qualcosa che coinvolge due persone che commerciano due beni, in realtà tutte le operazioni coinvolgono tre parti -un venditore, un acquirente, e una banca – e solo una merce, la cui contropartita è il trasferimento di una promessa di pagamento della banca dal compratore al venditore. Pertanto tutte le transazioni sono triangolari: qualsiasi pagamento monetario deve quindi essere una transazione di tipo triangolare, che coinvolga cioè almeno tre agenti, il pagatore, il beneficiario, e la banca.

     In secondo luogo, le banche devono essere parte dell’analisi economica – lasciandole fuori si omette il principale (anche se non unico) modo in cui si crea denaro in un’economia moderna – e non possono essere semplicemente accorpate alle altre imprese:

   "Le imprese sono presenti sul mercato come venditori o acquirenti di merci e ricorrono alle banche per effettuare i loro pagamenti; le banche d’altro canto producono mezzi di pagamento, e agiscono come stanze di compensazione tra imprese. In un modello di economia monetaria, le banche e le imprese non possono essere                                                                                     aggregate in un unico settore.”  (A. Graziani)

   Le banche creano moneta mediante l’emissione di un prestito ad un contraente; registrano il prestito come una attività, e il denaro che depositano nel conto del contraente come una passività.

   la moneta è semplicemente la promessa di un terzo di pagare, che noi accettiamo come pagamento definitivo in cambio di beni. I due principali soggetti terzi le cui promesse accettiamo sono lo Stato e le banche.

   E’ semplicemente la natura della moneta: non è sostenuta da nulla di “fisico” ed invece si basa sulla fiducia. 

Psicologia delle Folle (1895, prima parte) - Gustav Le Bon

 "Il punto di vista di Le Bon è caratterizzato da una pessimistica arrendevolezza verso le proprietà della folla, quali si danno immediatamente. Questo è l'atteggiamento di Le Bon: il modello positivo d'individuo a cui è fedele, non può che portarlo a rifiutare in blocco la realtà massa.

 Con Lenin la faccenda sta in tutt'altro modo. Lenin non parla della massa in generale, ma secondo un'ottica precisa, che nel suo caso è quella politica ovviamente. Già con questo, Lenin è in condizione di dare una prima delimitazione al proprio oggetto: la sua analisi si volgerà a quegli aspetti della vita della massa, che son politicamente significativi o, comunque, valuterà il comportamento delle masse solo per quanto ha di politicamente rilevante ...  Il suo atteggiamento è quello di chi, fin dall'inizio, concepisce il dato come 'materia prima'. La conseguenza necessaria è che la sua analisi mette in evidenza del comportamento della massa quanto vi è di manipolabile, di ulteriormente organizzabile: il fatto che un certo progetto da realizzare stia a monte dell'analisi - questo voglio dire - fa sì che la stessa materia dell'analisi assuma un volto (quello della trasformabilità) e non un altro.

 Avveniva lo stesso con Le Bon. La differenza era che egli non mirava ad una più alta organizzazione delle masse, sì invece a trattenerle, contenerle, per assicurare al meglio il privilegio individuale. Tuttavia, nonostante questa differenza anche per lui il progetto da realizzare  predeterminava i caratteri del dato da analizzare." [S. Garroni, Su Freud e la morale (L'uomo e la società),http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/01/freud-e-la-massenpsychologie-stefano.html ]

Parte prima
CAPITOLO I.
Caratteristiche generali delle folle - Legge psicologica della loro unità mentale.

Come è costituita una folla dal punto di vista psicologico. - Un agglomeramento numeroso di individui non basta a formare una folla. - Speciali caratteri delle folle psicologiche.-Orientamento fisso delle idee e dei sentimenti negli individui che le compongono e scomparsa della loro personalità. - La folla è sempre dominata dall'incosciente. - Scomparsa della vita cerebrale e predominio della vita nervosa. - Abbassamento dell'intelligenza e trasformazione completa dei sentimenti. - I sentimenti trasformati possono essere migliori o peggiori di quelli degli individui di cui la folla è composta. - La folla è facilmente eroica quanto criminale.

Nel senso consueto, la parola folla rappresenta una riunione di individui qualsiasi, qualunque sia la loro nazionalità, la professione e il sesso, qualunque siano i casi che li riuniscano.

Il rifiuto del lavoro. Teoria e pratiche nell'Autonomia Operaia - Ottone Ovidi

   Maria Turchetto definisce così l’ideologia del lavoro:
"Quel modo di pensare, largamente introiettato nella nostra società, che fa dell'attività lavorativa continuativa e retribuita il titolo normale e pressoché esclusivo di partecipazione alla vita associata. […] L'idea che sia il lavoro a conferire pieno diritto di cittadinanza è in effetti ampiamente trasversale, interclassista, condivisa da etiche laiche e religiose. É più di un ideologia: è senso comune, rappresenta cioè una norma di comportamento e di giudizio completamente assimilata e che dunque funziona, proceduralmente, senza passare attraverso un attento esame critico, come dispositivo disciplinare." (Il lavoro senza fine. Riflessioni su “biopotere”e ideologia del lavoro tra XVII e XX secolo)
   In assoluto gli autonomi non erano i primi a discutere tematiche antilavoriste. Possiamo ricordare che già nel 1887, Paul Lafargue aveva pubblicato il suo Diritto alla pigrizia, recentemente ripubblicato. Ma queste tematiche non si erano, prima di allora, mai tramutate in programma politico, in azione collettiva che uscisse al di fuori dal comportamento individuale avverso alla pratica lavorativa.

   In Italia, è soprattutto il mondo dell’operaismo che comincia ad accorgersi di alcuni cambiamenti che si stavano verificando nelle grandi concentrazioni industriali. L’attenzione degli operaisti è attratta dalle pratiche di insubordinazione e sabotaggio che si erano diffuse e radicalizzate nelle fabbriche fino ad esplodere con l'autunno caldo del 1969. E’ allora che queste pratiche spontanee e diffuse vengono concepite come molteplici forme dello stesso rifiuto. E saranno la base su cui si formeranno i primi nuclei dell’autonomia. L’autonomia come progetto politico nasce in maniera simbiotica con il rifiuto del lavoro. L’evoluzione del rifiuto del lavoro come impianto teorico e come applicazione pratica va ricercata nella vita quotidiana dei militanti e non solo, negli espropri, nelle spese proletarie, nelle autoriduzioni delle bollette, degli affitti, nell’occupazione di stabili per motivi abitativi o culturali e/o politici, nel modo di lavorare di chi aveva un lavoro fisso e nelle modalità di vita di chi non lo aveva. Risulta chiaro quanto grande sia stata allora la novità, quanto grande l’impatto di una posizione come quella del rifiuto del lavoro praticata e propagandata dagli autonomi. La storia del rifiuto del lavoro è la storia della fabbrica, concentrato di esperienze storiche, di necessità quotidiane, di insoddisfazione nei riguardi dei sindacati e delle pratiche sindacali, di impegno politico ed ancora di metodi di lotta radicali: come il gatto selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla catena di montaggio, lo sciopero a scacchiera o a singhiozzo, il rifiuto del cottimo. L’operaismo degli anni ’60 in Italia, al di là della costellazione dei percorsi politici che lo hanno animato, era declinato sulla centralità politica operaia, per cui la classe operaia era il soggetto politico e l’attore principale del cambiamento della società e della rivoluzione. Tuttavia l’operaismo rompe con la tradizione comunista dell’etica del lavoro e introduce l’idea-forza dell’odio degli operai per la propria condizione.

   "Nessuna affermazione comunista, più di quella del rifiuto del lavoro, è stata violentemente e continuamente espulsa, soppressa, mistificata, dalla tradizione e dall'ideologia socialiste. Se vuoi mandare in bestia un socialista o se vuoi scoprirlo quando si copre di demagogia, provocalo sul rifiuto del lavoro. Nessun punto del programma comunista, lungo un secolo, da quando Marx parlava del lavoro come “essenza disumana” è stato tanto combattuto: fino a quando la scomunica del rifiuto del lavoro è divenuta taciuta, surrettizia, implicita, ma non meno potente: l'argomento è stato tolto. Ora, è su questo terreno indiretto che l'astuzia della ragione proletaria ha cominciato a restaurare la centralità del rifiuto del lavoro nel programma comunista. […] Nostro compito è la restaurazione teorica del rifiuto del lavoro nel programma, nella tattica, nella strategia dei comunisti." (Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio

sabato 26 settembre 2015

"REALIZZAZIONE DELLA FILOSOFIA" e "MESSA IN OPERA" di HEGEL* - Stefano Garroni

*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed. 

   Non mi sembra che il rapporto di Marx con Hegel segua tracciati netti - per quanto modificantisi in epoche diverse; in realtà, in ogni pagina (o quasi), in cui il problema sia 'interpretare Hegel', Marx sembra muoversi, contemporaneamente, fra due prospettive: nella prima, Hegel è considerato rispetto a problemi espressamente speculativi ed è strettamente congiunto con il (neo) hegelismo successivo; nella seconda, proprio Hegel è invece usato per sostanziare la critica alla filosofia speculativa, di cui il neo-hegelismo (e Proudhon) divengono esempi.

   Al fondo di tutto ciò, osserva Marx, sta il fatto che Proudhon non vede come la legge o ragione, che egli vorrebbe ordinasse la serie degli eventi (storico-economici), in realtà già sta in essi: la superiorità, di Ricardo consiste, secondo Marx, proprio nell'evitare quest'errore.
Ne consegue che quel particolare rapportarsi della regola all'evento e viceversa, su cui, in contrapposizione a Proudhon, Marx costruisce nella Misère de la philosophie la sua prospettiva di filosofia della storia (e conseguentemente di analisi economica), anch'esso, ha non solo una precisa matrice hegeliana, ma pure - e questo per noi conta assai - si lega coerentemente alla critica della filosofia speculativa, che caratterizzava le opere marxiane precedenti (critica hegeliana, sappiamo) operando un ulteriore passo avanti.

   Con l'espressione <messa in opera> voglio sottolineare che Marx tende ormai non più ad occuparsi di generali questioni metodologiche in sé (quale, ad es., il rapporto fra concetto e fenomeno, come aveva fatto nella Heilige Familie), si piuttosto procede ad applicare a circoscritti domini d'esperienza una strumentazione metodologica, che è plastica (dialettica), in quanto volta a determinare quale sia la regola interna ad un certo svolgersi di eventi. 

venerdì 25 settembre 2015

La crisi cinese e la "stagnazione secolare". Intervista a J. Halevi

 Mentre il Giappone è rientrato in recessione e l’Europa è completamente ferma. E la felicità inglese è completamente collegata alla City. No, ripresa vera non ne vedo. 
 Nell’ambito dell’economia e anche della politica mondiale, c’è una zona che gli americani si sono lasciati scappare: le ex zone sovietiche dell’Asia centrale. Per esempio, il Kazakistan è un grosso produttore di gas, petrolio, ecc. Su quell'area c’era inizialmente una idea russo-tedesco-cinese. Quella di costruire un grande asse Germania-Russia-Kazakistan e Cina. Qualche mese fa c’è stato il primo treno merci partito dalla Cina e arrivato a Duisburg…
 Passando per la Russia… Ed anche per l’Ucraina. Questa idea costituiva la nuova frontiera dell’industria meccanica pesante tedesca, perché per realizzarla bisogna ristrutturare gran parte dell’industria russa, ristrutturare il sistema ferroviario del Kazakistan, ecc.
 Questo era il grande progetto.
 L’idea era della Germania... Però secondo me è saltata con l’Ucraina. Ed è stata una scelta americana. Che ha detto alla Germania: io ad est non ti ci faccio andare...
con l’Ucraina sono riusciti a bloccare tutto, a mettere in crisi la Germania. Qui c’è la vera debolezza della Germania. Quando scoppiò la crisi ucraina il quotidiano economico tedesco Handelsblatt era contro il conflitto con la Russia. Però una parte del governo tedesco, come “la baronessa”, la ministra della difesa tedesca Ursula von der Leyen, era completamente a favore di un “ruolo dinamico della Germania nei confronti dell’Ucraina”, cioè di appoggio all’Ucraina. E anche Schaeuble era favorevole a dare alla Germania una funzione di punta nella situazione Ucraina.
 La via di von der Layen e Schaeuble è conflittuale con gli stessi interessi tedeschi. Un economista conservatore come Hans Werner Sinn, l’anno scorso, l'ha detto papale papale: “noi non dobbiamo scontrarci con i russi”.
 Sulla vicenda dell’Ucraina, secondo me, dietro c'è anche la Francia, che ha interesse a mettere i bastoni tra le ruote alla Germania. 
loro hanno appoggiato molto l’Ucraina, nei fatti. L’articolazione era Stati Uniti-Nato-Polonia. In quella partita la Polonia ha giocato un ruolo molto importante, perché praticamente ha trasformato la parte non orientale dell’Ucraina in un protettorato polacco. E dietro c’era la Francia che ha appoggiato, mentre la Germania è entrata in difficoltà. Ma questo ti fa saltare una grande strategia…

giovedì 24 settembre 2015

REALE E' TUTTO CIO' CHE AGISCE* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS



   L'ambiguità del punto di vista di Jung mi pare risulti da un testo come questo:

   "Ci si è soffermati troppo sulla domanda, in fondo sterile se le affermazioni della fede (religiosa) siano o non siano vere. Prescindendo completamente dalla circostanza che la verità di una affermazione metafisica non può mai essere dimostrata o confutata, l'esistenza dell'affermazione è un fatto evidente in sé, che non ha bisogno di altre dimostrazioni, e qualora a ciò si accompagni un consensus gentium, la validità dell'enunciazione entro questi limiti è dimostrata. Di questa possiamo afferrare solo il fenomeno psichico, rispetto al quale la categoria dell'esattezza o della verità oggettiva non ha misura comune. Un fenomeno non si 'liquida' mai con un giudizio razionale e nella vita religiosa si tratta di fenomeni e di fatti, non certo di ipotesi discutibili" (Jung)

lunedì 21 settembre 2015

Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia - Riccardo Bellofiore

 Il significato fondamentale del primo libro del Capitale. 
 Un breve compendio

 Per Marx, la società capitalistica è definita come quel contesto storico in cui le condizioni «oggettive» della produzione (mezzi di produzione, incluso le risorse originarie e il lavoro) sono possedute privatamente da una parte della società, la classe capitalista, mentre l'altra parte, la classe dei lavoratori, ne è esclusa. I lavoratori, separati dalle condizioni materiali del lavoro e quindi incapaci di produrre indipendentemente i propri mezzi di sussistenza, sono costretti a vendere alle imprese capitaliste la sola cosa che posseggono, la condizione «soggettiva» della produzione (la loro forza-lavoro), in cambio di un salario monetario da spendere nell'acquisto dei beni salario. La forza lavoro è la capacità di lavorare: essa è costituita dalle capacità fisiche e mentali che vengono messe in moto nel lavoro utile, che produce qualsiasi tipo di valori d'uso, e che è inseparabile dal corpo vivente degli esseri umani. Il contratto di lavoro tra i capitalisti e i lavoratori salariati presuppone che questi ultimi siano formalmente soggetti liberi (diversi dagli schiavi e dai servi), e, quindi, che mettano la loro forza-lavoro a disposizione dei capitalisti soltanto per un periodo limitato di tempo. I proprietari dei mezzi di produzione, i «capitalisti industriali», hanno bisogno di un finanziamento iniziale dai proprietari di denaro, i «capitalisti monetari», non solo per comprare i mezzi di produzione dagli altri capitalisti (il che, dal punto di vista della classe capitalistica nel suo complesso, è una transazione interna alla medesima), ma anche, e soprattutto, per comprare la forza-lavoro dei lavoratori (il che, dallo stesso punto di vista, è il suo solo acquisto «esterno»). Le merci prodotte appartengono ai capitalisti industriali, che le vendono ai «capitalisti commerciali», i quali, a loro volta, le realizzano sul mercato. Marx nel primo libro suppone che i capitalisti industriali abbiano inizialmente già a loro disposizione il denaro di cui hanno bisogno per attivare i processi produttivi, e che vendano le loro merci sul mercato senza bisogno di intermediari. Dunque, a questo livello di astrazione, le tre figure dei capitalisti (industriali, monetari, commerciali) non hanno bisogno di essere distinte. Il processo capitalistico, in un dato periodo di produzione, può essere riassunto in questi termini. All'inizio del circuito, la compera della forza-lavoro sul cosiddetto mercato del lavoro permette all'imprenditore capitalista di dare inizio alla produzione immediata. Le imprese si aspettano di vendere sul mercato le merci prodotte in cambio di denaro. Ciò che ottengono deve per lo meno coprire l'anticipo iniziale, in modo da chiudere il circuito. Qui sono coinvolti due tipi di circolazione monetaria. I salariati vendono le merci, Mfl (la loro forza-lavoro) in cambio di denaro, D, così da ottenere merci differenti, Mps (il paniere di merci necessarie alla riproduzione dei lavoratori, provenienti dai precedenti processi di produzione e appropriate dai capitalisti). I lavoratori sono così intrappolati in ciò che Marx chiama la «circolazione semplice delle merci», o M - D - M'. Dall'altro lato, le imprese capitalistiche comprano merci per venderle, quindi la circolazione appare dal loro punto di vista D - M - D'. Una volta espressa in questa forma, è chiaro che la circolazione capitalistica ha senso solo se la quantità di denaro alla fine del circuito è maggiore di quella anticipata all'inizio - cioè se D' > D e se il valore anticipato sotto forma di denaro è stato in grado di ottenere un plusvalore, consistente in un profitto monetario lordo. D - M - D' è la «formula generale del capitale», e il capitale è definito da Marx come valore che si autovalorizza. La divisione tra capitalisti e lavoratori salariati potrebbe a questo punto essere reinterpretata come la «separazione» tra coloro che hanno accesso all'anticipazione di denaro come capitale, «denaro che genera denaro», indipendentemente dalla disponibilità di una merce e dunque anche prima della sua produzione, e quelli che hanno invece accesso al denaro solo come reddito, e che per ottenerlo devono già avere la disponibilità di una merce da vendere.

 La domanda fondamentale affrontata da Marx nel primo libro del Capitale è quindi la seguente: come può la classe capitalistica ottenere dal processo economico più di quanto non vi immetta? Ciò che essi immettono, come classe, è il capitale monetario, che «esibisce» (o «espone»: nel seguito useremo i due termini come sinonimi) il lavoro astratto materializzato nei mezzi di produzione e nei mezzi di sussistenza richiesti per il processo di produzione. Ciò che essi ottengono è denaro che «esibisce» il lavoro astratto cristallizzato nelle merci prodotte e vendute sul mercato alla fine del circuito. Da un punto di vista macroeconomico, è chiaro che la «valorizzazione» del capitale non può avere la propria origine nelle transazioni «interne» alla classe capitalistica, ossia tra le imprese, perché qualsiasi profitto un produttore ottenga attraverso l'acquisto a prezzo più basso e la vendita a prezzo più alto determinerebbe una perdita per gli altri produttori. Di conseguenza, la fonte del plusvalore deve essere rintracciata nel solo scambio che è «esterno» alla classe capitalistica, ovvero l'acquisto della forza-lavoro.

 La questione qui è semplicemente comprendere attraverso quale meccanismo tutto ciò può aver luogo. Ritornerò su questo punto in maggiore dettaglio, ma penso che il ragionamento di Marx sia, in estrema sintesi, il seguente. Nel processo lavorativo capitalistico, la totalità dei lavoratori salariati riproduce i mezzi di produzione impiegati e produce un prodotto netto. Il prodotto netto è «esibito» sul mercato in un neo valore che si aggiunge al valore dei mezzi di produzione. Questo vero e proprio «valore aggiunto» è nient'altro che l'espressione monetaria del tempo di lavoro (socialmente necessario) «oggettualizzato» in merci dai lavoratori salariati nel periodo attuale. Il «valore della forza-lavoro» con riferimento all'intera classe lavoratrice è dato dal lavoro contenuto nei salari monetari, che è regolato dal tempo di lavoro (produttore di merci) richiesto alla riproduzione della capacità di lavoro, e quindi dal tempo di lavoro che è richiesto per (ri)produrre i mezzi di sussistenza acquistati sul mercato. Perciò, il plusvalore proviene dal «pluslavoro»: la differenza positiva tra, da una parte, tutto il lavoro vivo speso nella produzione del prodotto netto del capitale, e, dall'altra, la quota di lavoro vivo necessaria alla riproduzione dei salari, che Marx chiama lavoro necessario.


 Nella prima metà del saggio (i primi tre paragrafi), presenterò la mia lettura della teoria macro-monetaria del valore-lavoro, distinguendo chiaramente l'interpretazione dell'argomentazione marxiana dalla mia personale ricostruzione e sviluppo della medesima. Nella seconda metà del saggio (i paragrafi 4 e 5) metterò a confronto la discussione sul primo libro del Capitale con l'approccio di Moseley. Il presente saggio, dunque, presenta un abbozzo sintetico della mia lettura di Marx in parallelo con una critica dell'interpretazione di Moseley, entrambe messe alla prova dell'evidenza testuale. 

domenica 20 settembre 2015

RELIGIONE E POLITICA* - Stefano Garroni

*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed. 

   "la religione è il rapporto con l'assoluto nella forma del sentimento, della rappresentazione, della credenza; e nel suo centro che tutto contiene, tutto è presente come accidente e transeunte. Se ci si attiene a questa forma anche in relazione allo Stato - cosicché anche per esso la religione sia ciò che essenzialmente è determinante e valido - lo Stato - in quanto organismo che si è sviluppato nelle esistenti differenze, leggi e ordinamenti - è abbandonato all'oscillazione, all'incertezza, alla distruzione. L'obiettivo e l'universale - le leggi -, invece che essere determinati come esistenti e validi, ricevono la determinazione di un negativo nei confronti di quella forma, che assorbe in sé tutto il determinato e, perciò, si volge in soggettivo."  (Hegel, Grundlinien)
Eccone la conseguenza per il comportamento umano:
   "al giusto non è data alcuna legge, siate devoti e potrete fare tutto ciò che volete - potete abbandonarvi all'arbitrio, alla passione e potete lasciar gli altri, che per ciò patiscono torti, alla fiducia e alla speranza della religione o, ancor peggio, scacciarli e condannarli in quanto irreligiosi." (ibid.)

   due miti centrali dell'attuale ideologia (quella che si vuole 'post-ideologica') sono, da un lato, la riduzione della moralità e della libertà a semplice immediata espressione della soggettività particolare; dall'altro, la riduzione della scienza a mera tecnologia efficace.

   per la prospettiva dialettica, non ha senso parlare di un'umanità estranea al proprio mondo, - dacché essa è sempre nel proprio mondo -; piuttosto avrà senso parlare di un mondo dell'uomo, fatto in modo tale, per cui l'estraneazione umana risulti proprio, e paradossalmente, dall'appartenere a quel mondo, dall'essere inserito in esso.

   Insomma, se si dà una situazione di scissione tra l'uomo e il suo mondo (naturale e sociale), ciò deriva non da un'autentica separazione tra uomo e mondo, ma sì dal fatto che quel mondo è autenticamente scisso.

   Cosa significa per Marx realizzazione della filosofia? Due processi, intimamente congiunti.
Da un lato 'realizzare' la filosofia significa riuscire a coglierne le connessioni profonde con i movimenti sociali e politici, che storicamente si svolgono; in questo senso, potremmo dire, materialistica è la filosofia 'realizzata', in quanto si sa prodotto della complessiva esperienza  umana - non solo teoretica e scientifica, ma anche politica e sociale.
Dall'altro lato, 'realizzare' la filosofia significa far assumere ai movimenti sociali e politici il livello e l'ampiezza di coscienza conquistati dalla filosofia. In questo senso la filosofia realizzata comporta, anche, una trasformazione della politica, che da mera risultante dello scontro tra forze sociali diverse, si eleva ad espressione di  un  processo di rinnovamento umano complessivo. 

CARTESIO - Henrich, Ricoeur, Lojacono, Hösle, Calabrò

sabato 19 settembre 2015

La psicanalisi - Gabriella Giudici


   Il termine psicanalisi compare per la prima volta in uno scritto del 1896, L’ereditarietà e l’eziologia della nevrosi, in cui Freud lo utilizza al posto di altri usati in precedenza per illustrare i suoi metodi osservativi e terapeutici di alcuni disturbi psichici. Un anno prima, il medico viennese aveva iniziato ad elaborare una spiegazione simbolica dei sogni, lavorando su un suo sogno personale elaborato nella notte tra il 23 e il 24 luglio 1895 e noto come «il sogno dell’iniezione di Irma».

  Si trattava dell’inizio dell’elaborazione di una nuova visione dell’inconscio e dell’analisi della psiche, il cui primo passo maturo è rappresentato, appunto, dall’Interpretazione dei sogni (1900) e dai Tre saggi sulla sessualità (1905). Con L’interpretazione dei sogni Freud, infatti, offre un’illustrazione del rapporto tra coscienza e inconscio, evidenzia la natura simbolica dei sogni ed adotta il metodo terapeutico delle “libere associazioni”, abbandonando l’ipnosi, mentre nel testo del 1905 indica nelle pulsioni sessuali e nel loro ruolo nella vita umana, la spiegazione principale della nevrosi.

   Ciononostante, Freud non si attribuì la paternità della psicanalisi, dichiarando invece il proprio debito verso lo psichiatra viennese Joseph Breuer [Prima conferenza sulla psicanalisi, Boston 1909].

   Sulla base delle sue osservazioni di psicopatologie di diversa gravità – dall’isteria, alla nevrosi ossessiva, alle fobie, i tic, ed altre ancora – la psicologia freudiana saldò progressivamente le interpretazioni dei fenomeni psicopatologici con quelli dei processi psichici normali, estendendo la propria attenzione a diversi campi dell’attività umana, quali la creazione artistica, la linguistica, l’antropologia, ecc., costruendo un modello esplicativo unitario.


LA JUNGHIANA SINCRONICITA'*- Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 



   Se il 'perturbante' freudiano è inscindibilmente legato ad una incertezza (emozionale, più ancora che intellettuale) sulla consistenza dell'io; se rimanda di necessità al sospetto (ancora una volta sentito più che argomentato) che la 'persona' non altro sia che un automatismo inspiegabile, la junghiana 'sincronicità', invece, indica una relazione conoscitiva, che si stabilisce secondo tracciati scientificamente inconcepibili. Ciò che a Jung interessa è quel certo convergere di casualità, che sembra testimoniare una relazione tra soggetto e mondo, tra psiche e natura, che nega - o almeno, oltrepassa le forme di sapere, ammesse e autorizzate dall' immagine conoscitiva del mondo.

   L'ambiguità della tesi junghiana è trasparente: il principio della sincronicità significativa - per quanto Jung lo presenti non alternativo ma integrativo di quello scientifico o causalistico -, in realtà, è il tentativo di restaurare un punto di vista antiscientifico nella sua essenza. 

venerdì 18 settembre 2015

Attualità di Ferdinand de Saussure - Tullio De Mauro



http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/03/ferdinand-de-saussure-paolo-virno.html

Il ruolo della borghesia nel Manifesto del partito comunista

   I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare de potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse. 
   A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. 



giovedì 17 settembre 2015

POST-MODERNO E CAMBIO SOCIALE* - Stefano Garroni

*Da DIALETTICA E SOCIALITA', Stefano Garroni, BULZONI Ed.

   "Il senso di questo volume sta nella tesi, secondo cui in tanto è possibile restituire al testo di Marx tutta la sua forza teorica, in quanto (anche) se ne riconsideri il rapporto con la lezione hegeliana. Di fatto, l'impoverimento scolastico e dogmatico del marxismo si lega strettamente ad una tradizione interpretativa di Hegel, largamente posta in crisi dalla più recente e rigorosa letteratura critica. Su questa base, tento confronti fra recise pagine di Marx e di Hegel, ritrovando fra esse consonanze, che fanno giustizia - a quanto mi sembra - di accreditati luoghi comuni. L'Appendice che chiude il volume, serve a mostrare come lo stravolgimento dogmatico e scolastico del marxismo ne abbia diminuita grandemente la capacità critica innovatrice. 
   La pubblicazione di questo volume è stata possibile dall'affettuoso sostegno e dall'intelligente contributo di Francesco Valentini, Alessandro Mazzone e Enza Celluprica. Ovviamente ringrazio questi docenti del loro apporto, scusandomi della misura limitata, in cui son riuscito a farne tesoro nel mio scritto. (S. Garroni) 

mercoledì 16 settembre 2015

IL CAPITALE DI MARX (12) - Riccardo Bellofiore.



Video degli incontri del ciclo di letture del I libro del "Capitale" di Karl Marx organizzato da Noi Restiamo Torino e tenuto da Riccardo Bellofiore (Università di Bergamo). 

Lezioni precedenti:
https://www.youtube.com/playlist?list=PL5P5MP2SvtGh94C81IekSb83uO7nLgHmL

martedì 15 settembre 2015

J.S.MILL E L'ARROGANZA DELLA RAGIONE* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 

   "La vita di un uomo non è più importante per l'universo di quella di un'ostrica (...) Quando io sarò morto, i principi dei quali io sono composto adempiranno ancora la loro parte nell'universo e saranno egualmente utili nella grande fabbrica del mondo, come quando componevano questa creatura individuale. La differenza nell'insieme non sarà maggiore di quella che corre tra il mio essere in una camera o all'aria aperta. Uno di questi mutamenti è per me più importante dell'altro, ma non è così per l'universo". (D. Hume)

   Se l'uomo moderno è individuo, nel senso che sa liberarsi delle proprie radici immediate, dei propri legami naturali ed ambientali; se è individuo, nel senso di libero creatore della propria personalità, allora:

   "egli esiste come essere libero, come possibilità di essere il contrario di se stesso in relazione ad una determinatezza: e nel singolo come tale non vi è niente che possa esser considerato come determinatezza; in questa libertà quindi è posta altrettanto bene la possibilità del non riconoscimento e della non libertà". (Hegel)

   L'onnipotenza dell'educazione/ragione si rivela disperata casualità; la personalità che è frutto di quell'onnipotenza è sempre revocabile, aperta alla continua possibilità di smentirsi, di costruirsi altrimenti: è gratuita. In definitiva l'arroganza della ragione produce labili, revocabili frutti. 

lunedì 14 settembre 2015

La Primavera di Atene – Yanis Varoufakis

  ...confermare l’affermazione del Dottor Schäuble che le elezioni non possono essere autorizzate a cambiare qualcosa in Europa. Che la democrazia finisce dove inizia l’insolvenza.

 Quelle orgogliose nazioni che hanno problemi di debito  devono essere condannate a una prigione del debito entro la quale è impossibile produrre la ricchezza necessaria per ripagare i propri debiti e uscire di prigione. Ed è così che l’Europa si sta trasformando dalla nostra casa comune alla nostra comune gabbia di ferro.

 Quindi, permettetemi di essere chiaro su questo: la medicina non è solo amara. È tossica. Un medico che consigliasse una simile medicina mortale ad un paziente sarebbe stato arrestato e radiato dall’associazione medica. Ma nell’Eurogruppo, il fatto che la medicina sta uccidendo il paziente è visto come la prova che la stessa medicina è necessaria. Che la dose deve essere aumentata!

 Per cinque anni il programma di austerità della troika ha creato la più lunga e profonda recessione nella storia. Abbiamo perso un terzo del nostro reddito collettivo. La disoccupazione è passata dal 10% al 30% in un paese dove solo il 9% dei disoccupati ha ricevuto l’indennità di disoccupazione. La povertà ha inghiottito 2 dei nostri 10 milioni di popolazione. E non è mai andato in un altro modo.

 Quando ho deciso di ridurre gli enormi stipendi dei manager HFSF, nominati in gran parte dalla troika, ho ricevuto una lettera da Mr Thomas Wieser, il presidente dell’Euro Working Group, un funzionario chiave della Troika, che mi ha detto che non potevo farlo senza la sua approvazione.
In un paese dove la Troika impone continui tagli alle rivendicazioni salariali e pensionistiche, il ministro non può ridurre gli stipendi esorbitanti dei “Troika boys and girls” – stipendi pagati dalla nostra nazione in bancarotta.

 nel 1967 ci sono stati i carri armati e nel 2015 ci sono state le banche. Ma il risultato è lo stesso nel senso di aver rovesciato il governo o di averlo costretto a rovesciarsi da solo – come il Primo Ministro Tsipras purtroppo ha deciso di fare la notte del nostro magnifico referendum, la notte che mi sono dimesso dal mio ministero, e poi di nuovo il 12 luglio.

 La ragione per cui non mi sono dimesso allora, alla fine di aprile o all’inizio di maggio, era che la mia sicurezza che la Troika non avrebbe offerto al mio primo ministro nessun accordo anche mezzo decente dopo che avesse concesso loro quasi tutto quello che avevano chiesto. Per loro, lo scopo era la nostra umiliazione, piuttosto che un duro, austero accordo. E così ho aspettato perché Alexis irriggidisse il suo tono. Il referendum gli ha dato questa possibilità.

 Quando l’Eurogruppo ha segnalato alla BCE di chiudere le nostre banche per rappresaglia al nostro referendum – le stesse banche che la BCE aveva ripetutamente dichiarato solventi – ho consigliato due o tre atti di rappresaglia favorevoli a noi. Quando sono stato messo in minoranza all’interno del nostro “gabinetto di guerra”, sapevo che eravamo al game over.

 Ma poi i coraggiosi, la gente senza paura della Grecia, nonostante la propaganda condotta dagli oligarchi delle stazioni televisive e radiofoniche, ignorando le banche chiuse, hanno votato un sonoro ‘No’ alla resa. Quella notte Danae e io abbiamo sentito che avevamo avuto un’altra possibilità. O che, per lo meno, dovevamo dimetterci se pensavamo che le nostre armi fossero state tutte usate, e scendere in piazza con il nostro coraggioso popolo. 
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venerdì 11 settembre 2015

2015 Il bambino e il cormorano, quali scenari per la borghesia europea - Mauro Casadio

  Una cosa certa è che siamo entrati dentro un cambiamento profondo a livello mondiale. La crisi sistemica del capitalismo procede, determinando molti e diversi effetti concreti, non solo l’esodo di masse enormi. I parametri interpretativi usati fino ad oggi stanno saltando uno a uno producendo uno sbandamento mai visto finora anche tra militanti ed organizzazioni che tentano di mantenere una identità di classe e comunista.
  Di fronte a questi sconvolgimenti il recupero del pensiero marxista, l’uso dei corretti strumenti teorici per leggere tendenze e prospettive è fondamentale per inquadrare le questioni e agire politicamente a tutto campo. La sinistra di oggi, reduce di una cultura politica ormai sconfitta, di cui Tsipras ne è l’ultimo vergognoso esempio, ormai non gode più di nessun spazio. Il miserabile buonismo opportunistico anche rispetto al drammatico esodo di massa di queste settimane, che da noi marcia “scalzo”, rimuove sistematicamente la lettura di classe dei fenomeni, lettura che mai come oggi dimostra la sua validità, non può che portare a ulteriori sconfitte, ad accodarsi al renzismo anche se condannato a parole ma accettato e digerito nei comportamenti politici e sociali. 

giovedì 10 settembre 2015

Un altro Nietzsche - Domenico Losurdo

Leggi anche:   http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2003-12/losurdo.html#links

CREDENZA/ERRORE e CREDENZA/FEDE* - Stefano Garroni

*Da  QUADERNO FREUDIANO, Stefano Garroni, Ed. BIBLIOPOLIS 


   Un complesso di credenze morali  - e di comportamenti ed istituzioni da quelle ispirati -, secondo J. S. Mill, rimanda ad un equivoco linguistico, ad un vizio di ragionamento: nel contesto "legge di natura", un termine - "legge" - è usato ambiguamente, in senso descrittivo, ma anche in senso prescrittivo.

   Siccome le due accezioni del termine sono contemporaneamente presenti, allora quanto appare come il normale corso delle cose, immediatamente si trasvaluta nel suo significato, assumendo il senso di un accadere secondo quanto deve accadere: che le cose stiano così e così non è più, solo, l'accertamento di uno stato di fatto, ma quasi l'espressione di una volontà superiore che così ha statuito e che, dunque, obbliga ad un tipo di comportamento. L'ambiguo uso del termine "legge" ha immediati effetti emozionali: quanto si presenta come legge di natura, subito si sacralizza acquistando, così, imperatività al limite del ricattatorio. 

   Ma tutto avviene perché la portata logico-semantica del termine "legge" non viene chiarita, la sua ambiguità è mantenuta e, quindi, resta celata la scorrettezza logica dell'intera espressione "legge di natura".

   Ci sono credenze dalla vasta portata pratica, alla cui base si cela un argomento scorretto; si tratta di credenze che vanno combattute mostrandone, appunto, il vizio logico [si pensi, per es. alla giustapposizione: modo di produzione capitalista = legge di natura. N.d."il comunista"].

   "se l'idea denotata da questa parola (Natura) fosse stata assoggettata alla sua (del socratico metodo elenchistico) analisi rigorosa, e se i soliti luoghi comuni in cui essa compare fossero stati sottoposti al controllo della sua potente dialettica, i successori non si sarebbero precipitati, come subito fecero, in modi di pensare e di ragionare la cui pietra angolare era formata proprio dall'uso sbagliato di essa (...)" (J. S. Mill) 

mercoledì 9 settembre 2015

UNA TESTIMONIANZA SULLA FIGURA DI STEFANO GARRONI - Ermanno Semprebene

Stefano Garroni (Roma, 26 gennaio 1939 – Roma, 13 aprile 2014) è stato un filosofo italiano. Assistente presso la Cattedra di Filosofia Teoretica (Roma Sapienza) diretta, nell'ordine, dai Proff. U. Spirito, G. Calogero e A. Capizzi. Nel 1973 entrò a far parte del Centro di Pensiero Antico del CNR diretto dal Prof G. Giannantoni. -
Leggi anche: Dialettica riproposta - Stefano Garroni - LA CITTA' DEL SOLE
CONTRO LA GUERRA! - Stefano Garroni

   Circa 25 anni fa ho incontrato Stefano Garroni, che era docente di filosofia e ricercatore presso il CNR. Il mio incontro con lui fu una strana coincidenza. Avevo cominciato a frequentare il Circolo culturale "Valerio Verbano" a San Lorenzo (Roma). Non sono mai stato un gran frequentatore di circoli politici, ma era un periodo della mia vita in cui sentivo forte l'esigenza di approfondire meglio certe tematiche che, nonostante avessi sempre fatto parte di quell'area di sinistra alternativa ancora abbastanza diffusa (anche se già in crisi soprattutto dopo la caduta del blocco socialista), non avevo mai scandagliato seriamente. Anzi, nonostante la partecipazione anche assidua a manifestazioni, scioperi e letture varie, purtroppo mal comprese, la mia "militanza" era molto povera. Sostanzialmente m'ero fermato a quando, da giovane studente liceale e poi lavoratore avevo partecipato ai corsi di preparazione politica del PCdI marxista-leninista e alle letture della Nuova Unità, il loro giornale. E anche questa attività non era durata molto tempo. Poi, trovato un lavoro fisso (era un periodaccio quello del 1977), avevo cambiato città e mollato tutto tranne l'attività, anche questa di breve durata, nella CGIL, partecipando, chissà poi perché, a un congresso nazionale a Rimini come rappresentante sindacale. Non una bella esperienza per chi, come me, si aspettava tutta un'altra linea assai diversa da quella che invece si stava già da tempo portando avanti all'ombra del PCI. 

   Avevo cominciato a frequentare un corso sul Capitale al circolo Valerio Verbano, una lettura in comune con altri compagni e con la frequente supervisione di Gianfranco Pala. Una presenza, quella di Pala, assolutamente necessaria per riuscire a comprendere un testo altrimenti arduo, almeno per me. Era qualche tempo che il nostro lavoro sul Capitale proseguiva proficuamente e mi si presentò casualmente la possibilità di assistere, sempre al circolo Verbano, ad un altro incontro (ma poi furono più d'uno) sul tema della dialettica in Marx tenuto da Stefano Garroni. Devo essere sincero ne rimasi meravigliato. Non solo per la capacità espositiva e argomentativa estremamente qualificata di Stefano, basata su rimandi puntuali e precisi alla letteratura, alla psicologia, all'arte, alla poesia e persino alla musica, ma anche per la presenza all'incontro di un docente di musica, di cui non ricordo più il nome, che intervallava l'esposizione di Stefano, facendoci ascoltare brani di musica classica legati all'argomento trattato. Fu un'esperienza particolarissima e fu per me, e non solo per me, l'inizio di una lunga frequentazione dei seminari e gruppi di studio tenuti in seguito da Stefano, che portarono alla costituzione del Collettivo di formazione marxista tuttora esistente.

   Stefano Garroni era un ottimo insegnante, ma soprattutto era un convinto e convincente comunista. E la sua militanza è stato il lavoro di tutta una vita. Prima nella sua attività di studio, che non ha mai lasciato, poi nel PCI e nei quotidiani Unità e Paese Sera e, dopo l'abbandono del PCI, nel suo lavoro di ricercatore, nell'insegnamento, il cui obiettivo è sempre stata la formazione di “persone”, ossia uomini e donne dotati di uno spiccato senso critico. Era del tutto persuaso che per portare avanti la lotta politica fosse necessario un costante lavoro culturale e uno studio appassionato, senza i quali non sarebbe stato neppure immaginabile costruire una società fondata sull'autogoverno dei produttori; obiettivo che costituiva lo sfondo di tutta la sua attività intellettuale e di insegnamento, la quale era dunque fortemente animata da un pervadente impegno etico-politico.

martedì 8 settembre 2015

Stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio del profitto? - Vladimiro Giacché

        «Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero. Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers, reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’». (Secular stagnation: Facts, Causes and Cures, a cura di C. TEULINGS E R. BALDWIN)

        Secondo Marx la società capitalistica è caratterizzata da una tendenza di lungo periodo alla diminuzione della profittabilità del capitale, ossia alla caduta del saggio di profitto. Tale tendenza è basata sulla teoria del valore-lavoro. Per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che possiedono). È il lavoro umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè lavoro supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (lavoro necessario): questo pluslavoro produce infatti un valore supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione.

        Proprio a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore, Marx definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro: si verifica, in altri termini, «una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento». Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita della «composizione organica del capitale». Si tratta di «un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro». La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto - ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) - diminuisca . 

        Questa la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. È quindi la crescente produttività del lavoro sociale a far calare il saggio di profitto. E questo calo per Marx ostacola a sua volta lo sviluppo del processo capitalistico di produzione e favorisce il prodursi delle crisi:

        «nella misura in cui il saggio di profitto, il saggio di valorizzazione del capitale complessivo è il pungolo della produzione capitalistica, così come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico. (Questa stessa caduta favorisce sovrapproduzione, speculazione, crisi, capitale in eccesso accanto alla forza-lavoro in eccesso o sovrappopolazione relativa)».  (K. MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti) 

        Per Marx la crisi è da un lato parte integrante del funzionamento normale del modo di produzione capitalistico, è più precisamente il modo attraverso cui, periodicamente, il capitalismo risolve i suoi problemi. Per ciò stesso, la crisi secondo Marx è però d’altra parte anche qualcosa di diverso, e cioè un sintomo:

        «nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale» . (K. Marx, Gundrisse)


Il valore della forza-lavoro - Maurizio Donato

Da: https://mrzodonato.wordpress.com - Maurizio Donato insegna Economia politica alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo.


Nello studio dell’economia politica, sia che si faccia riferimento alla tradizione classica che ad altre prospettive teoriche, ci si imbatte in variabili che si presentano in  forma monetaria – pensiamo ai prezzi – assieme ad altre che assumono una dimensione non monetaria ma – per così dire – fisica, per  esempio la disoccupazione.
Questo non è difficile da comprendere. Le cose cambiano quando le due forme si presentano “assieme”. Cioè quasi sempre.
Se noi scriviamo
[2] v = L * w
stiamo esprimendo il capitale variabile come prodotto tra il numero dei lavoratori salariati e il salario unitario loro corrisposto. Essendo il prodotto tra una grandezza fisica (il numero dei lavoratori) e una monetaria (il salario) il risultato è una grandezza esprimibile in termini di valore che comprende in sé entrambe le categorie, nel nostro caso la massa salariale corrisposta al totale dei lavoratori. Così se si modifica v, per esempio se cresce, noi non possiamo sapere a priori se questo aumento è dovuto al numero dei lavoratori cresciuto a salario invariato, a un aumento di salario corrisposto allo stesso numero di lavoratori o a una qualche combinazione di questi fattori.
La questione si “complica” (ma solo un po’) se ammettiamo che le stesse forme di espressione delle categorie possano cambiare nel corso del tempo; per esempio il capitale variabile v, dopo essere transitato (di solito per poco tempo..) nelle tasche dei lavoratori, si trasforma in merci fisiche che, a loro volta, si trasformano nella materialissima  nostra esistenza o sopravvivenza.
E’ una trasformazione, questa ultima, in energia psico-fisica,  e questo è chiaro perché fa parte della nostra esperienza quotidiana: assumiamo cibo, acqua, aria, cultura e di questi elementi – trasformati – ci nutriamo. 

lunedì 7 settembre 2015

Nichilismo e insorgenza nell’analisi hegeliana del divenire - Rosario Gianino


 Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione. Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione.

 il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro della mutazione.

 per Hegel la stessa impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto piuttosto consente che accada qualcosa come un “transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).

 Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili.

 Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito, empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un agire  negativo autoreferenziale, di un agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione di qualcos’altro.

 Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo, rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi: negare il proprio nulla. 

domenica 6 settembre 2015

IN DIFESA DELLO SPIRITO DI SCISSIONE E DELL’UNITÀ DEI COMUNISTI - Renato Caputo

   Si sente spesso ripetere che, considerati gli attuali sfavorevoli rapporti di forze, si dovrebbero mettere da parte le chiacchiere sulla prospettiva della transizione al socialismo e portare avanti nei fatti una politica riformista. Tale posizione dimentica che in primo luogo non solo dal punto di vista teorico, dal punto di vista del marxismo, ma anche dal punto di vista storico-empirico le più significative riforme le hanno fatte le forze che miravano a un rivolgimento radicale dell’ordine costituito. Anzi ogni qualvolta si è abbandonata tale prospettiva in nome del realismo più che riforme si sono realizzate contro-riforme. Tanto più che l’attuale situazione di crisi internazionale e di assenza di un campo socialista, rende sostanzialmente irrealizzabile una politica riformista, visto che i margini di profitto tendono a diminuire e, quindi, sempre meno c’è da ridistribuire, considerato anche che le più forti alternative al capitalismo appaiono essere oggi le forze dell’integralismo religioso. Tanto meno tale prospettiva riformista appare credibile e verosimile all’interno dell’Unione europea, considerati gli statuti liberisti su cui tale unione si è fondata e che impediscono, nei fatti, anche una politica di stampo keynesiano.

   Non reggono alla prova dei fatti nemmeno le obiezioni (fatte proprie in Italia da Sel, in Grecia da ambienti vicini a Tsipras) che stando al governo, pur non rompendo con la logica dell’austerità, sarà possibile varare misure favorevoli ai subalterni come il reddito di cittadinanza. In questo caso, al di là degli aspetti utopistici, che sono rimasti fino a ora al massimo delle pie illusioni, tutte le volte che forme di sostegno al reddito sono state realizzate hanno finito per andare contro gli interessi dei lavoratori viii. Resta, infatti, la questione di come individuare le risorse per questo ammortizzatore sociale, che per altro aumenterebbe il baratro fra italiani e immigrati privi di cittadinanza. Se come vorrebbero i liberisti tali risorse venissero dallo smantellamento del cosiddetto welfare state, tali misure sostituirebbero un diritto collettivo con un diritto individualista favorendo la logica egoista del capitalismo. Se le risorse fossero prese, come generalmente è avvenuto, da quanto prodotto dal lavoro salariato, si avrebbe lo svantaggio di contrapporre lavoratori, sempre più impoveriti, a disoccupati che sopravvivono grazie a un reddito. Infine se si avesse davvero la forza di farlo finanziare dai capitalisti e dalle rendite, tolto che il loro reddito dipende unicamente dallo sfruttamento di quanto prodotto dalla forza lavoro salariata, richiederebbe la costruzione di rapporti di forza notevolmente differenti, sviluppando un poderoso conflitto sociale. A questo punto, però, non resta che domandarsi se è sensato impegnarsi a costruire un tale conflitto per avere un mero palliativo, per cui continueremo ad avere una parte della forza-lavoro sempre più sfruttata e un’altra condannata alla disoccupazione o a lavori precari? Tanto varrebbe allora spendere i rapporti di forza conquistati per imporre una diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario e di ritmi. 
http://www.lacittafutura.it/giornale/in-difesa-dello-spirito-di-scissione-e-dell-unita-dei-comunisti.html