giovedì 3 settembre 2015

DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO di Adorno e Horkheimer - Carla Maria Fabiani



  L’Illuminismo è, per dirla con Kant, "l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro".


  Secondo gli autori, Kant ha avuto il merito di cogliere il senso più profondo dell’Illuminismo, inteso come processo di conoscenza sistematica e scienza tout court; ha presentato però la ragione scientifica come uno "strumento" e cioè come un mezzo di conoscenza non dotato a sua volta di autocoscienza. Insomma, per dirla con Hegel, ciò che manca alla teoria della conoscenza di Kant è la capacità della ragione soggettiva di conoscere l’essenza delle cose e di riconoscerla come la propria essenza. Permane una distanza tra il soggetto e la realtà, non colmata dalla scienza, sebbene questa si presenti come l’unico modo di sistemare la verità delle cose.

  Da una parte, la ragione illuministico-kantiana viene ad assumere una funzione sociale distaccata dalla più intima coscienza umana, diviene "ragione strumentale", organizzazione ‘neutrale’ di un materiale umano (l’esperienza in genere) che non riceve da questa ‘architettura razionale’ nessun accrescimento in termini di autocoscienza, consapevolezza, capacità di riconoscersi nelle cose e agire nel mondo come a casa propria e a casa propria come nel mondo. D’altra parte, questa struttura razionale, proprio a causa della sua pretesa ‘neutralità’ può essere applicata anche a ciò che razionale non è, anche a ciò che contraddice la moralità e i valori conquistati dalla ragione illuministica. La dialettica, cioè il rovesciamento nel suo opposto, che subisce la ragione strumentale, si manifesta anche nella società stessa come immoralità, come agire controllato e finalizzato dell’uomo verso scopi che prescindono dalla comprensione qualitativa dell’oggetto. C’è un totale "rovesciamento dei valori", riprodotto sistematicamente in una società che ha come scopo ultimo e fine a se stesso, non l’innalzamento della coscienza umana, ma il dominio delle cose sugli uomini in forma di "potere economico".  

  Svelare criticamente e senza appello la "deformazione" in cui è caduta la pretesa civiltà occidentale; non concedere alcuna "compassione" a questo stato di cose, è ciò che, paradossalmente, riscatta l’uomo dalla "barbarie" borghese, dalla dialettica dell’Illuminismo, dall’ipocrita ideologia borghese di progresso.

  Il problema con cui ha a che fare la ‘critica’ non è tanto quello della "strumentalizzazione" della scienza da parte di alcune ideologie; piuttosto è il rischio che la critica stessa ricada nell’ideologia dominante della produzione di merci, la quale è un "processo globale" che tutto abbraccia, anche ciò che gli si oppone.

  la società contemporanea ha esautorato il pensiero scientifico-filosofico dalla possibilità di esercitare una libera critica del presente, oltreché una ricostruzione sensata di esso. La critica di Adorno e Horkheimer è rivolta contro gli attuali "meccanismi sociali" attraverso i quali la cultura viene prodotta (cinematografia, editoria, sistema educativo, etc.).

  Le potenze economiche riducono all’inferiorità culturale, politica, ecc., gran parte della popolazione, annullando ogni potere decisionale del singolo. Allo stesso tempo portano a livelli finora mai raggiunti il dominio della società sulla natura; le masse e i singoli vengono svuotati da una parte e riempiti (di merci, di beni, di consumi, ecc.) dall’altra. Lo spirito (la cultura e il pensiero di un popolo) viene reificato; diventa una cosa (merce), perciò non è più spirito. "La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo".

  Il pensiero scientifico, da Bacone in poi, si caratterizza per la sua totale mancanza di emancipazione dalla struttura sociale cui fa riferimento, e precisamente da quella borghese: "esso non tende […] a concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro, al capitale privato o statale". Il significato profondo e qualitativo delle cose cui dovrebbe tendere la scienza, viene sostituito dalla ricerca asettica, quantitativa della correttezza formale del procedimento; l’essenza di questo sapere si riduce a tecnica, a operation, procedimento efficace volto a conservare il dominio dell’economia borghese sulla coscienza, il dominio dell’uomo sulla natura. In questo quadro si distinguono anche i compiti propri della scienza da quelli della ricerca filosofica della verità, la quale diventa a sua volta un ostacolo per il moderno pensiero scientifico. La filosofia continua a sopravvivere, dicono gli autori, come idola theatri, come spettro metafisico, considerato dal pensiero scientifico né più né meno che una moderna mitologia.

  L’estraniazione segna negativamente quell’apparente positività con la quale l’Illuminismo crede di appropriarsi delle cose. Il possesso, il dominio, il comando, il potere esercitato dalla ragione sulle cose è in realtà un allontanamento, un distacco e, nella società borghese contemporanea, un rovesciamento del dominio: l’uomo socializzato controlla la natura, ma a sua volta è controllato da una seconda natura, la struttura economica della società.

  Da una parte la civiltà occidentale si libera di ciò che non è conforme alla ragione, domina la natura, l’ignoto, ecc.; dall’altra però non elimina la paura stessa dell’ignoto, lasciandolo fuori della sua organizzazione sociale e scientifica, la quale viene a poggiare su criteri di uguaglianza, omologazione e dominio che, al dunque, annullano ogni libertà essenziale dell’individuo.

  Questo è l’aspetto più contraddittorio e autodistruttivo dell’Illuminismo che, invece di realizzare il sapere, lo distrugge trasformandolo in mero calcolo utilitaristico, in formalismo logico, in un ambito separato dalla realtà, dalla natura, dall’essere delle cose.

  Il procedimento dialettico hegeliano, secondo Horkheimer e Adorno, riesce bene a utilizzare il carattere fondamentale del pensiero illuministico, cioè quello di negare, per superare e togliere, gli aspetti contraddittori e irrazionali del reale. Ma ricadendo nell’esigenza di affermare comunque la razionalità, di affermarla nonostante l’irrazionalità di una realtà poco prima negata, cede al carattere paradossale dell’Illuminismo: la critica dell’Illuminismo al mito (come l’esempio classico e originario di irrazionalità nella storia del pensiero occidentale) ristabilisce il mito stesso. Il mito di una realtà pienamente razionale. Il mito antico era l’immediata interpretazione umana della natura, superata la quale, da parte dell’Illuminismo, si instaura il ‘mito’ di una realtà pienamente razionale. Chiaramente il primo ‘mito’ è differente dal secondo, ma, nella sostanza, quello che vogliono sottolineare i due autori è che così come il mito originario si presentava resistente ad ogni intervento critico della ragione, anche il mito moderno (la ragione assolutizzata e incontestabile) si presenta impermeabile alla possibilità di essere a sua volta sottoposto a critica.

  E’ un progresso distruttivo quello a cui l’Illuminismo conduce. Non c’è opera che testimoni in modo più eloquente dell’intreccio di mito e Illuminismo di quella omerica, testo originale della civiltà europea.

  Secondo Horkheimer e Adorno, l’itinerario di Odisseo è lo stesso itinerario del soggetto (del Sé) moderno-borghese, il quale, prima di prendere coscienza della sua razionalità, deve emanciparsi faticosamente da uno stadio di civiltà ancora legato a culti, forme di dominio e di vita mitiche. L’emancipazione dal mito, tuttavia, non annulla il mito in quanto tale, che anzi, proprio nell’Odissea, diventa metafora della struttura borghese della società e dell’individuo come tale.

  L’astuzia di Odisseo rappresenta il ‘lume’ della ragione, contrapposto a una brutalità tutta naturale e mitica, comunque originaria, nella quale l’uomo si trova a dover combattere con forze ed istinti caratterizzati negativamente nell’epos omerico (Polifemo, la maga Circe, le Sirene, etc.). "L’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi, è l’astuzia."

  L’astuzia di Odisseo rappresenta un ‘ordine’ (la patria, la famiglia a cui l’eroe tenta di ritornare attraverso il suo lungo viaggio); quell’ordine borghese che permette la riproduzione e l’autoconservazione dell’uomo entro schemi e rapporti da lui dominati e regolati.

  Il distacco dal mito, che nell’epos omerico viene descritto, porta l’uomo a irrigidirsi. Assistiamo, in altri termini, a una sorta di razionalizzazione (come irrigidimento) della vita e della coscienza umana, che si presenta come una conquista di civiltà, raggiunta attraverso un’avventura epicomitica. Una conquista descritta mitologicamente e che al contempo emancipa (o crede di emancipare) definitivamente l’uomo dal mito. L’irrigidimento costitutivo del Sé (della coscienza umana moderno-borghese) sta proprio nella contraddittoria convinzione di essersi per sempre liberato del mito e nel credere che questa liberazione sia anche la realizzazione stessa del progresso.

  L’astuzia di Odisseo si manifesta anche come superamento del "sacrificio" (sacrificio dell’uomo al dio) e come consapevolezza da parte dell’eroe nell’usare il linguaggio.

  è piuttosto la presa di coscienza, da parte di Odisseo, dell’inganno che il sacrificio in quanto tale rappresenta. Rendere, da parte dell’uomo, un sacrificio al dio vuol dire non solo ingraziarselo (e attraverso di lui ingraziarsi la natura), ma in qualche modo dominarlo, comunque controllarlo, sebbene da una posizione di inferiorità, e limitarne il potere. Ma l’uomo, in cuor suo, dicono Horkheimer e Adorno, non può non sapere che la divinità a cui ci si sacrifica in realtà viene in questo modo a far parte di uno scambio tutto umano, il cui valore ultimo certo non va al dio.

  L’uso ‘astuto’ e indiretto del sacrificio lo trasfigura e ne rovescia il senso originario; porta alla coscienza dell’uomo la possibilità di falsificare e dissimulare il rapporto con gli dèi, esclusivamente per il suo vantaggio personale. "Ma inganno, astuzia e razionalità non sono semplicemente opposti all’arcaismo del sacrificio. Odisseo non fa che elevare ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che è forse la ragione più intima del carattere illusorio del mito." Ecco allora che questa presa di coscienza è un passo oltre la magia del sacrificio, il quale, in questo modo, viene realizzato dall’uomo come consapevole inganno, come scambio moderno-borghese ante litteram, come dominio cosciente sulla natura divinizzata, come rovesciamento infine del rapporto di dominio del dio sull’uomo.

  Questo stacco illuministico dal mito è rappresentato bene anche dal modo in cui Odisseo usa il linguaggio e precisamente il suo nome. Udeis in greco vuol dire nessuno; con questo significato del proprio nome Odisseo si presentò a Polifemo il quale, reso cieco dall’eroe, pur chiedendo aiuto ai Ciclopi venne frainteso quando questi gli chiesero chi l’avesse ridotto a quel modo: "Nessuno!" rispose. "Nasce così la coscienza del significato: nelle sue angustie Odisseo si accorge del dualismo, in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse."

  Assistiamo, dicono gli autori, a un duplice sdoppiamento; da una parte il linguaggio si separa dalla cosa designata, potendo di per sé assumere significati anche opposti, che indicano opposte realtà, dall’altra è l’uomo stesso a sdoppiarsi nel proprio nome, ingannando la realtà al fine di autoconservarsi come individuo dotato di ragione e capace di dominare astutamente le circostanze esterne.

  Dall’astuzia di Odisseo "[…] emerge il nominalismo, il prototipo del pensiero borghese. L’astuzia dell’autoconservazione vive di questo processo in atto fra parola e cosa.[…] L’astuto pellegrino è già l’homo oeconomicus a cui somigliano tutti gli uomini dotati di ragione."

  Nella società contemporanea e ‘di massa’ viene istituito un nesso inscindibile fra bisogni, sistema produttivo, tecnica, dominio. Di fronte a questo potente quadrinomio l’individuo si presenta piuttosto come "consumatore" passivo. La produzione di cultura non risponde a esigenze che soddisfino la qualità umana, la coscienza, la consapevolezza critica, e così via, ma la riproduzione del "capitale investito". Il lavoratore stesso, dicono gli autori, è orientato dalla produzione anche nel suo tempo libero. "Il compito che lo schematismo kantiano aveva ancora assegnato ai soggetti, quello di riferire in anticipo la molteplicità sensibile ai concetti fondamentali, è levato al soggetto dall’industria." In altri termini: la produzione industriale di ‘cultura’ toglie al soggetto la capacità di pensare autonomamente, in virtù di se stesso, ne annienta l’interna attività intellettiva, poiché semplicemente la sostituisce con l’automatismo, la ripetitività, già data al di fuori e a prescindere dalla coscienza.

  E’ questa una condizione di alienazione in cui l’uomo massa vive e si conserva, senza per altro averne l’esatta percezione.

  La cultura diventa "imitazione", vuota di contenuto.

  "Nessuno deve rendere conto ufficialmente di ciò che pensa. In cambio ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di istituzioni e relazioni, che formano uno strumento ipersensibile di controllo sociale."

  Assistiamo a un ‘nichilismo’ reale, del quale gli autori ci danno un quadro sociologico e antropologico molto ampio e articolato e per il quale, al momento, non forniscono soluzioni di sorta. 

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