L’Illuminismo è, per dirla con Kant, "l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è
colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la
guida di un altro".
Secondo gli autori, Kant ha avuto il merito di cogliere il senso più profondo dell’Illuminismo, inteso come processo di conoscenza sistematica e scienza tout court; ha presentato però la ragione scientifica come uno "strumento" e cioè come un mezzo di conoscenza non dotato a sua volta di autocoscienza. Insomma, per dirla con Hegel, ciò che manca alla teoria della conoscenza di Kant è la capacità della ragione soggettiva di conoscere l’essenza delle cose e di riconoscerla come la propria essenza. Permane una distanza tra il soggetto e la realtà, non colmata dalla scienza, sebbene questa si presenti come l’unico modo di sistemare la verità delle cose.
Da una parte, la ragione illuministico-kantiana viene ad
assumere una funzione sociale distaccata dalla più intima coscienza umana,
diviene "ragione strumentale", organizzazione ‘neutrale’ di un
materiale umano (l’esperienza in genere) che non riceve da questa ‘architettura
razionale’ nessun accrescimento in termini di autocoscienza, consapevolezza,
capacità di riconoscersi nelle cose e agire nel mondo come a casa propria e a
casa propria come nel mondo. D’altra parte, questa struttura razionale, proprio
a causa della sua pretesa ‘neutralità’ può essere applicata anche a ciò che
razionale non è, anche a ciò che contraddice la moralità e i valori conquistati
dalla ragione illuministica. La dialettica, cioè il rovesciamento nel suo
opposto, che subisce la ragione strumentale, si manifesta anche nella società
stessa come immoralità, come agire controllato e finalizzato dell’uomo verso
scopi che prescindono dalla comprensione qualitativa dell’oggetto. C’è un
totale "rovesciamento dei valori", riprodotto sistematicamente in una
società che ha come scopo ultimo e fine a se stesso, non l’innalzamento della
coscienza umana, ma il dominio delle cose sugli uomini in forma di "potere
economico".
Svelare criticamente e senza appello la
"deformazione" in cui è caduta la pretesa civiltà occidentale; non
concedere alcuna "compassione" a questo stato di cose, è ciò che,
paradossalmente, riscatta l’uomo dalla "barbarie" borghese, dalla
dialettica dell’Illuminismo, dall’ipocrita ideologia borghese di progresso.
Il problema con cui ha a che fare la ‘critica’ non è tanto
quello della "strumentalizzazione" della scienza da parte di alcune
ideologie; piuttosto è il rischio che la critica stessa ricada nell’ideologia
dominante della produzione di merci, la quale è un "processo globale"
che tutto abbraccia, anche ciò che gli si oppone.
la società contemporanea ha esautorato il pensiero
scientifico-filosofico dalla possibilità di esercitare una libera critica del
presente, oltreché una ricostruzione sensata di esso. La critica di Adorno e
Horkheimer è rivolta contro gli attuali "meccanismi sociali"
attraverso i quali la cultura viene prodotta (cinematografia, editoria, sistema
educativo, etc.).
Le potenze economiche riducono all’inferiorità culturale,
politica, ecc., gran parte della popolazione, annullando ogni potere decisionale
del singolo. Allo stesso tempo portano a livelli finora mai raggiunti il
dominio della società sulla natura; le masse e i singoli vengono svuotati da
una parte e riempiti (di merci, di beni, di consumi, ecc.) dall’altra. Lo
spirito (la cultura e il pensiero di un popolo) viene reificato; diventa una
cosa (merce), perciò non è più spirito. "La valanga di informazioni minute
e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso
tempo".
Il pensiero scientifico, da Bacone in poi, si caratterizza
per la sua totale mancanza di emancipazione dalla struttura sociale cui fa
riferimento, e precisamente da quella borghese: "esso non tende […] a
concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo
sfruttamento del lavoro, al capitale privato o statale". Il significato
profondo e qualitativo delle cose cui dovrebbe tendere la scienza, viene
sostituito dalla ricerca asettica, quantitativa della correttezza formale del
procedimento; l’essenza di questo sapere si riduce a tecnica, a operation,
procedimento efficace volto a conservare il dominio dell’economia borghese
sulla coscienza, il dominio dell’uomo sulla natura. In questo quadro si
distinguono anche i compiti propri della scienza da quelli della ricerca
filosofica della verità, la quale diventa a sua volta un ostacolo per il
moderno pensiero scientifico. La filosofia continua a sopravvivere, dicono gli
autori, come idola theatri, come spettro metafisico, considerato dal pensiero
scientifico né più né meno che una moderna mitologia.
L’estraniazione segna negativamente quell’apparente
positività con la quale l’Illuminismo crede di appropriarsi delle cose. Il
possesso, il dominio, il comando, il potere esercitato dalla ragione sulle cose
è in realtà un allontanamento, un distacco e, nella società borghese
contemporanea, un rovesciamento del dominio: l’uomo socializzato controlla la natura,
ma a sua volta è controllato da una seconda natura, la struttura economica
della società.
Da una parte la civiltà occidentale si libera di ciò che non
è conforme alla ragione, domina la natura, l’ignoto, ecc.; dall’altra però non
elimina la paura stessa dell’ignoto, lasciandolo fuori della sua organizzazione
sociale e scientifica, la quale viene a poggiare su criteri di uguaglianza,
omologazione e dominio che, al dunque, annullano ogni libertà essenziale
dell’individuo.
Questo è l’aspetto più contraddittorio e autodistruttivo
dell’Illuminismo che, invece di realizzare il sapere, lo distrugge
trasformandolo in mero calcolo utilitaristico, in formalismo logico, in un
ambito separato dalla realtà, dalla natura, dall’essere delle cose.
Il procedimento dialettico hegeliano, secondo Horkheimer e
Adorno, riesce bene a utilizzare il carattere fondamentale del pensiero
illuministico, cioè quello di negare, per superare e togliere, gli aspetti
contraddittori e irrazionali del reale. Ma ricadendo nell’esigenza di affermare
comunque la razionalità, di affermarla nonostante l’irrazionalità di una realtà
poco prima negata, cede al carattere paradossale dell’Illuminismo: la critica
dell’Illuminismo al mito (come l’esempio classico e originario di irrazionalità
nella storia del pensiero occidentale) ristabilisce il mito stesso. Il mito di
una realtà pienamente razionale. Il mito antico era l’immediata interpretazione
umana della natura, superata la quale, da parte dell’Illuminismo, si instaura
il ‘mito’ di una realtà pienamente razionale. Chiaramente il primo ‘mito’ è
differente dal secondo, ma, nella sostanza, quello che vogliono sottolineare i
due autori è che così come il mito originario si presentava resistente ad ogni
intervento critico della ragione, anche il mito moderno (la ragione
assolutizzata e incontestabile) si presenta impermeabile alla possibilità di
essere a sua volta sottoposto a critica.
E’ un progresso
distruttivo quello a cui l’Illuminismo conduce. Non c’è opera che testimoni in
modo più eloquente dell’intreccio di mito e Illuminismo di quella omerica,
testo originale della civiltà europea.
Secondo Horkheimer e Adorno, l’itinerario di Odisseo è lo
stesso itinerario del soggetto (del Sé) moderno-borghese, il quale, prima di
prendere coscienza della sua razionalità, deve emanciparsi faticosamente da uno
stadio di civiltà ancora legato a culti, forme di dominio e di vita mitiche.
L’emancipazione dal mito, tuttavia, non annulla il mito in quanto tale, che
anzi, proprio nell’Odissea, diventa metafora della struttura borghese della
società e dell’individuo come tale.
L’astuzia di Odisseo
rappresenta il ‘lume’ della ragione, contrapposto a una brutalità tutta
naturale e mitica, comunque originaria, nella quale l’uomo si trova a dover
combattere con forze ed istinti caratterizzati negativamente nell’epos omerico
(Polifemo, la maga Circe, le Sirene, etc.). "L’organo con cui il Sé
sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi, è l’astuzia."
L’astuzia di Odisseo rappresenta un ‘ordine’ (la patria, la
famiglia a cui l’eroe tenta di ritornare attraverso il suo lungo viaggio);
quell’ordine borghese che permette la riproduzione e l’autoconservazione
dell’uomo entro schemi e rapporti da lui dominati e regolati.
Il distacco dal mito, che nell’epos omerico viene descritto,
porta l’uomo a irrigidirsi. Assistiamo, in altri termini, a una sorta di
razionalizzazione (come irrigidimento) della vita e della coscienza umana, che
si presenta come una conquista di civiltà, raggiunta attraverso un’avventura
epicomitica. Una conquista descritta mitologicamente e che al contempo emancipa
(o crede di emancipare) definitivamente l’uomo dal mito. L’irrigidimento
costitutivo del Sé (della coscienza umana moderno-borghese) sta proprio nella
contraddittoria convinzione di essersi per sempre liberato del mito e nel
credere che questa liberazione sia anche la realizzazione stessa del progresso.
L’astuzia di Odisseo si manifesta anche come superamento del
"sacrificio" (sacrificio dell’uomo al dio) e come consapevolezza da
parte dell’eroe nell’usare il linguaggio.
è piuttosto la presa di coscienza, da parte di Odisseo,
dell’inganno che il sacrificio in quanto tale rappresenta. Rendere, da parte
dell’uomo, un sacrificio al dio vuol dire non solo ingraziarselo (e attraverso
di lui ingraziarsi la natura), ma in qualche modo dominarlo, comunque
controllarlo, sebbene da una posizione di inferiorità, e limitarne il potere.
Ma l’uomo, in cuor suo, dicono Horkheimer e Adorno, non può non sapere che la
divinità a cui ci si sacrifica in realtà viene in questo modo a far parte di
uno scambio tutto umano, il cui valore ultimo certo non va al dio.
L’uso ‘astuto’ e indiretto del sacrificio lo trasfigura e ne
rovescia il senso originario; porta alla coscienza dell’uomo la possibilità di
falsificare e dissimulare il rapporto con gli dèi, esclusivamente per il suo
vantaggio personale. "Ma inganno, astuzia e razionalità non sono
semplicemente opposti all’arcaismo del sacrificio. Odisseo non fa che elevare
ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che è forse la ragione
più intima del carattere illusorio del mito." Ecco allora che questa presa
di coscienza è un passo oltre la magia del sacrificio, il quale, in questo
modo, viene realizzato dall’uomo come consapevole inganno, come scambio
moderno-borghese ante litteram, come dominio cosciente sulla natura
divinizzata, come rovesciamento infine del rapporto di dominio del dio
sull’uomo.
Questo stacco illuministico dal mito è rappresentato bene
anche dal modo in cui Odisseo usa il linguaggio e precisamente il suo nome.
Udeis in greco vuol dire nessuno; con questo significato del proprio nome
Odisseo si presentò a Polifemo il quale, reso cieco dall’eroe, pur chiedendo
aiuto ai Ciclopi venne frainteso quando questi gli chiesero chi l’avesse
ridotto a quel modo: "Nessuno!" rispose. "Nasce così la
coscienza del significato: nelle sue angustie Odisseo si accorge del dualismo,
in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse."
Assistiamo, dicono gli autori, a un duplice sdoppiamento; da
una parte il linguaggio si separa dalla cosa designata, potendo di per sé
assumere significati anche opposti, che indicano opposte realtà, dall’altra è
l’uomo stesso a sdoppiarsi nel proprio nome, ingannando la realtà al fine di
autoconservarsi come individuo dotato di ragione e capace di dominare astutamente
le circostanze esterne.
Dall’astuzia di Odisseo "[…] emerge il nominalismo, il
prototipo del pensiero borghese. L’astuzia dell’autoconservazione vive di
questo processo in atto fra parola e cosa.[…] L’astuto pellegrino è già l’homo
oeconomicus a cui somigliano tutti gli uomini dotati di ragione."
Nella società contemporanea e ‘di massa’ viene istituito un
nesso inscindibile fra bisogni, sistema produttivo, tecnica, dominio. Di fronte
a questo potente quadrinomio l’individuo si presenta piuttosto come
"consumatore" passivo. La produzione di cultura non risponde a
esigenze che soddisfino la qualità umana, la coscienza, la consapevolezza
critica, e così via, ma la riproduzione del "capitale investito". Il
lavoratore stesso, dicono gli autori, è orientato dalla produzione anche nel
suo tempo libero. "Il compito che lo schematismo kantiano aveva ancora
assegnato ai soggetti, quello di riferire in anticipo la molteplicità sensibile
ai concetti fondamentali, è levato al soggetto dall’industria." In altri
termini: la produzione industriale di ‘cultura’ toglie al soggetto la capacità
di pensare autonomamente, in virtù di se stesso, ne annienta l’interna attività
intellettiva, poiché semplicemente la sostituisce con l’automatismo, la
ripetitività, già data al di fuori e a prescindere dalla coscienza.
E’ questa una condizione di alienazione in cui l’uomo massa
vive e si conserva, senza per altro averne l’esatta percezione.
La cultura diventa "imitazione", vuota di
contenuto.
"Nessuno deve rendere conto ufficialmente di ciò che
pensa. In cambio ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di
istituzioni e relazioni, che formano uno strumento ipersensibile di controllo
sociale."
Assistiamo a un ‘nichilismo’ reale, del quale gli autori ci
danno un quadro sociologico e antropologico molto ampio e articolato e per il
quale, al momento, non forniscono soluzioni di sorta.
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