sabato 30 novembre 2019

Democrazia e Filosofia | After Democracy - Remo Bodei

Da: Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci - Remo Bodei (Cagliari, 3 agosto 1938 – Pisa, 7 novembre 2019) è stato un filosofo e accademico italiano.
Vedi anche: L'algoritmo sovrano - Renato Curcio 


"I due mali contro cui la ragione filosofica ha sempre combattuto e deve combattere ora più che mai, sono, da un lato, il non credere a nulla; dall'altro, la fede cieca. Insomma tener viva la fede nella ragione contro coloro che non credono neppure nella ragione, che io chiamo i meno che credenti, e contro coloro che credono senza ragionare, cioè i più che credenti. Questo è il compito umile, molto umile ma necessario, della filosofia: un compito da sentinella, più che presuntuosamente da 'guida'. La sentinella che deve stare ad ascoltare l'avvicinarsi del nemico, da qualunque parte provenga, e dare l'allarme prima che sia troppo tardi". (Norberto Bobbio) 

                                                                            


venerdì 29 novembre 2019

Miseria del sovranismo. Smarrimento della dialettica e proliferazione dell'ideologia - Emiliano Alessandroni

Da: https://www.marxismo-oggi.it - Il presente saggio è stato pubblicato nel sito “Dialettica e filosofia” (http://dialetticaefilosofia.it) - 
Emiliano AlessandroniDottore di ricerca presso Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo', redattore della rivista scientifica "Materialismo storico". 



 Questioni teoriche preliminari 

Nella Scienza della Logica Hegel descrive in questi termini la natura ontologicamente relazionale di ogni contenuto determinato:
    Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molteplice relazione verso un altro contenuto. Per quell'esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è[1].
Si tratta di un aspetto successivamente ben compreso e metabolizzato dalla filosofia di Marx: «un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che non sia esso stesso oggetto per un terzo, non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo». Questo riferirsi ad altro, ossia essere in rapporto con altro, costituisce la naturale essenza di ogni ente in quanto ente:
    Esser oggettivi, naturali, sensibili, e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse fuori di sé, oppure esser noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l'identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un oggetto, al di fuori, per soddisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e alla espressione del suo essere. Il sole è oggetto della pianta, un oggetto indispensabile, che ne conferma la vita, come la pianta è oggetto del sole, dell'oggettiva forza essenziale del sole. 
Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura non è un ente naturale, non partecipa dell'essere della natura[2].
L'avere fuori di sé la propria natura significa che nessun ente naturale finito, ma a ben vedere anche nessun contenuto determinato, sia autosufficiente. È infatti nel rapporto in cui sussiste con l'altro da sé che esso rivela la propria specificità. Questo altro da sé, tuttavia, che permette in primissimo luogo di manifestare la specificità del contenuto determinato del sé, è il proprio opposto. La relazione tra gli opposti, nondimeno, non sempre si determina in modo antagonista: certo, nel bocciolo che dilegua al dischiudersi del fiore e nel dileguare di questo alla formazione del frutto di cui ci parla la Fenomenologia dello Spirito, il fiore per apparire deve annientare il bocciolo, così come il frutto deve annientare il fiore. E tuttavia il fiore, se costituisce un essere determinato, costituisce altresì il nulla del bocciolo e dunque costituisce a un tempo un essere determinato e un nulla determinato. Lo stesso dicasi del frutto e di qualunque ente finito che contiene simultaneamente tanto l'essere quanto il nulla.

giovedì 28 novembre 2019

Hegel: "Fenomenologia dello spirito" - Antonio Gargano

Da: AccademiaIISF - Antonio Gargano è un filosofo italiano. Docente presso l'Università degli studi "Suor Orsola Benincasa", Scienze della Formazione.
Leggi anche: Hegel - La Fenomenologia dello spirito - Antonio Gargano 
                         Alexandre Kojéve, Introduzione alla lettura di Hegel (Fenomenologia dello Spirito) - Silvio Vitellaro
    Vedi anche: G. W. F. Hegel: La fenomenologia dello Spirito*- Lucio Cortella  
                            SULLA VORREDE HEGELIANA - Stefano Garroni 
"La fenomenologia dello spirito nel pensiero si Hegel" - Francesco Valentini (https://www.teche.rai.it/1990/06/la-fenomenologia-dello-spirito-nel-pensiero-hegel/)

                                                                      


                                                    Testo letto dal prof. Gargano durante la lezione: http://www.iisf.it/pdfsito/Gargano_Hegel.pdf

martedì 26 novembre 2019

Accumulazione di capitale e ruolo dell’innovazione - Maurizio Donato

Da: https://www.economiaepolitica.it - Maurizio DonatoUniversità di Teramo, è un economista italiano - https://mrzodonato.wordpress.com/



Accumulazione Capitale Marx | Nel primo trimestre del 2019 il ‘valore’ mondiale delle obbligazioni a tassi negativi è tornato ad avvicinarsi ai livelli massimi toccati nell’estate del 2016. Da allora, a riportare in alto i tassi nominali spingendo al rialzo anche i rendimenti delle obbligazioni è stata unicamente la ripresa nelle aspettative di inflazione. Questo obiettivo, una maggiore inflazione, è stato al centro dell’impegno delle banche centrali che dal 2009 hanno iniettato quasi 20mila miliardi di dollari attraverso numerose politiche espansive. Ma evidentemente una politica monetaria pure ultra-accomodante non serve o non basta: i problemi dell’economia sono ‘reali’

Fig. 1 Rendimento dei BUND tedeschi a 10 anni
Secondo gli economisti del periodo classico, affinché possa ripartire il meccanismo di accumulazione, una parte significativa del capitale in eccesso sulle possibilità medie di valorizzazione deve essere svalutato o distrutto, non solo capitale nella sua forma monetaria, ma capitale costante, merci nella loro duplice natura di valori d’uso e valore tout-court, e capitale variabile, la forza-lavoro pagata al suo valore, la cui svalutazione continua sta comportando conseguenze almeno altrettanto paradossali e ben più tragiche dei tassi di interesse negativi.

Non performing capital

lunedì 25 novembre 2019

PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz

Da: http://nena-news.it -
Leggi anche: Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera  
                      Chiarezza - Shlomo Sand 

 


 Nel 1994 l’Olp e Israele firmarono il “Protocollo di Parigi” che formalizzava le relazioni economiche per cinque anni tra Tel Aviv e la nascente Autorità Palestinese. L’intesa è però ancora operativa e sancisce di fatto il controllo totale israeliano dell’economia palestinese 



Roma, 18 novembre 2019, Nena News

Che ogni forma di controllo e repressione, e che ogni forma di colonialismo, aldilà della forza e della violenza, veda la sua espressione più fondamentale negli strumenti di controllo economico, è cosa quanto mai risaputa nonché banale. Questo principio vale ovviamente anche per l’occupazione israeliana della Palestina. Per capire con maggiore consapevolezza quelle che sono le strategie economiche sulla quale si basa questo rapporto tra colonizzati e colonizzatori, e soprattutto per non ricadere nel solito luogo comune secondo il quale gli israeliani sono riusciti a fare miracoli in una terra in cui invece i palestinesi non avevano fatto nulla, bisogna partire dalla morsa mortale del Protocollo di Parigi.

domenica 24 novembre 2019

Geraldina Colotti intervista Alessandra Ciattini

Da: Le Monde Diplomatique, il manifesto, 2019 -
DALLA MAGIA ALLA STREGONERIA Cambiamenti sociali e culturali e la caccia alle streghe, Alessandra Ciattini (a cura di), LA CITTA' DEL SOLE, 15 euro.



L'ultimo lavoro curato dalla studiosa Alessandra Ciattini s'intitola Dalla magia alla stregoneria. Cambiamenti sociali e culturali e la caccia alle streghe. Una raccolta di saggi che, in prospettiva marxista e con taglio multidisciplinare, analizza il rapporto fra credenze e strutture sociali, aggiungendo altri spunti di riflessione a un filone di studi sempre stimolante. Ne abbiamo parlato con la curatrice, docente di Antropologia culturale alla Sapienza.



Come è nato questo lavoro? 

Il libro è nato per mettere insieme studiosi con competenze diverse che hanno indagato i vari aspetti della magia-stregoneria: storia, antropologia, diritto, arte, scienza. In questo senso, costituisce probabilmente una novità, i cui obiettivi sono mettere in evidenza la complessità dei processi storici, la non linearità del rapporto fra struttura e sovrastruttura, l'idea della storia come continuo progresso. Infatti come si può ricavare dal libro, in particolare dal saggio di Federico Martino, se la storia faticosamente avanza, fa anche dei clamorosi passi indietro, come stiamo sperimentando oggi. Per questa ragione mi piace la metafora, utilizzata da Luciano Canfora, che descrive il processo storico come una spirale.

In che termini avete indagato la relazione fra credenza e politica? 

sabato 23 novembre 2019

MES, l'intervento di Vladimiro Giacché in audizione alla Commissione Bilancio.

Da: https://www.lantidiplomatico.it - Vladimiro+Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche (CER), è un filosofo ed economista italiano.
Leggi anche: https://www.ilsussidiario.net/news/caso-mes-cosi-leuropa-grazie-a-conte-fara-fuori-le-nostre-banche
Vedi anche: https://www.byoblu.com/2019/11/21/la-lezione-che-la-germania-non-ha-imparato-vladimiro-giacche/

Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche (Cer), in audizione alla Camera davanti alle commissioni Bilancio e Politiche Ue sul funzionamento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e sulle sue prospettive di riforma (https://webtv.camera.it/evento/15445#) ha dichiarato come sia forse venuto il momento 

"di prendere atto che la soluzione - consistente nell'avviare un processo di generalizzazione del modello export driven tedesco, considerato tale da poter rendere simili tutti i Paesi dell'Eurozona e scongiurare l'eventualità si shock asimmetrici - non ha dato i frutti sperati. Né si può pensare di procedere introducendo, quasi per inerzia, sempre nuovi elementi di rigidità e sempre nuove condizionalità nelle politiche economiche e di bilancio. Occorrerebbe uscire da una trappola evoluzionista che, nonostante gli evidenti fallimenti, continua a incentrare ogni innovazione istituzionale dell'area sul principio originario dell'assimilazione ad un presunto modello migliore. Un modello che, peraltro, sta proprio in questi mesi incontrando i propri limiti strutturali"

Sul caso specifico dell'Italia e prendendo a riferimento anche le parole recenti del Governatore Visco ha aggiunto come: 

"l'Italia appartiene al novero di Paesi che non sono mai incorsi in un default del debito pubblico in tempi di pace, mentre non altrettanto può dirisi di altre economia dell'Eurozona, quali in primis la Germania, ma anche l'Austria, il Portogallo, la Spagna e la Grecia. Il default del debito di Paesi economicamente avanzati è un fenomeno estremamente raro, e anzi mai verificatosi, con la sola eccezione della Grecia, negli ultimi 65 anni. E' importante tenere a mente questi dati di base, perchè nella proposta di riforma del Mes l'attenzione appare concentrata soprattutto sull'eventualità di un rischio sistemico generato all'interno dell'Eurozona dal default del debito pubblico di uno dei Paesi membri".

"La proposta di riforma del Mes va in direzione di accentuare, anzichè ridurre, questa inefficienza caratterizzata dal rallentamento del Pil nominale in proporzione più accentuato del miglioramento del saldo di bilancio. In questi anni, nell'Eurozona, è aumentata la dipendenza dalla crescita della domanda estera. A tale dipendenza si fa riferimento, almeno indirettamente, nella proposta di riforma del Mes. Si tratta tuttavia di un richiamo nettamente sottodimensionato rispetto all'attenzione prestata agli indicatori di finanza pubblica. Sebbene questa sproporzione possa sembrare ovvia, dal momento che si vuole associare il Mes a rischi inerenti il debito pubblico, essa rappresenta invece un ennesimo errore di prospettiva nell'impostazione della politica economica europea".

"Il Mes costituisce un ulteriore rafforzamento delle regole che disciplinano la politica di bilancio dei Paesi dell'Eurozona, muovendosi in perfetta linea di continuità con le modifiche apportate al Patto di stabilità nel 2012. Riguardo agli aspetti più tecnici della riforma, posso anticipare di condividere le argomentate perplessità già espresse in questa sede dal professor Giampaolo Galli. Occorre porsi due domande di fondo: il Mes è utile all'Eurozona? è utile all'Italia? Riguardo alla prima domanda, per rispondere occorre verificare in quale misura il debito pubblico - e in generale i problemi inerenti alla disciplina di bilancio - costituiscano oggi un fattore di rischio per la moneta unica. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l'Eurozona si sia tenuta nel suo insieme ai precetti della disciplina di bilancio, e questo si è riflesso sulle dinamiche del debito, che sono più favorevoli nell'Eurozona rispetto a Stati Uniti e Regno Unito. Ciononostante, il debito è aumentato anche nell'Eurozona, e questo fatto sta spingendo verso l'adozione di meccanismi di controllo ancora più stringenti. Obiettivo a cui mira la riforma del Mes. In sostanza, si ritiene che, non essendo stato conseguito l'obiettivo di riduzione del debito, debba essere rafforzata la disciplina dei Paesi membri. Si compie, a nostro giudizio, un errore di analisi che non dovrebbe essere avallato".

"La discussione sulla riforma del Mes non può prescindere dalla possibile evoluzione" negativa "degli scambi mondiali e del ciclo di crescita, per un motivo molto semplice: si tratta di fattori che incidono direttamente anche sulle prospettive delle finanze pubbliche. Ci troviamo nuovamente di fronte al tipico problema di uno shock simmetrico - una contrazione degli scambi mondiali - che può generare effetti asimmetrici sulle singole economie. Di fronte ad un indebolimento delle previsioni di crescita, i mercati potrebbero adottare un comportamento di 'flight to quality', e penalizzare quindi i Paesi con maggiore livello di debito pubblico come l'Italia. Questo, indipendentemente dall'effettiva capacità del sistema economico di contrastare lo shock di origine. Capacità che, al momento, appare essere maggiore in Italia che in Germania".

E la conclusione di Giacchè è chiara: 

"Per l'Italia è prioritaria l'esigenza di ritornare su un sentiero di rientro del debito pubblico ma deve essere chiaro che la riforma del Mes non è un meccanismo facilitatore in tal senso. Al contrario, così come sono stati predisposti, gli strumenti di assistenza finanziaria sembrano perfetti per innescare una nuova crisi del debito, perseverando in tal modo nei gravi errori del 2011-12" 


venerdì 22 novembre 2019

Verso la rottura dell’unità nazionale? -  Guglielmo Forges Davanzati

Da: "La gazzetta del Mezzogiorno", 20 novembre 2019 - https://www.facebook.com/guglielmo.davanzati
Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.

La cosiddetta secessione dei ricchi – ovvero la richiesta di maggiore autonomia da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – è un segnale lampante della rottura di quello che si potrebbe definire il ‘patto implicito’ che ha tenuto insieme Nord e Sud del Paese, ovvero un patto basato su una divisione del lavoro che ha storicamente visto le imprese del Nord produrre e vendere a beneficio dei consumatori residenti nelle regioni meridionali. Questo patto, al netto degli aspetti formali e della Costituzione vigente, ha consentito all’intero Paese di mantenere la sua unità formale e, al tempo stesso, di percorrere un sentiero di crescita trainato da investimenti pubblici e privati a sostegno della domanda interna.

La divergenza, in termini di Pil pro-capite, fra Nord e Sud del Paese comincia ad assumere dimensioni rilevanti a partire dalla seconda metà degli anni settanta: sono anni caratterizzati dalla crescita pervasiva della criminalità organizzata (che dal Sud comincia a mettere radici nelle principali città settentrionali), dallo smantellamento progressivo della Cassa per il Mezzogiorno e dalla contrazione degli investimenti pubblici al Sud. Sono anche anni caratterizzati da consistenti aumenti di spesa pubblica, nella gran parte dei casi improduttiva: quello che l’economista Marcello De Cecco ebbe a definire ‘keynesismo criminale’. Sia sufficiente a riguardo considerare che la spesa pubblica in rapporto al Pil sale dal 34% del 1974 (a fronte della media della Comunità europea del 38%) a oltre il 50% della fine degli anni ottanta. La pressione fiscale, pari al 25% in rapporto al Pil nel 1973 (inferiore di quasi quattro punti percentuali rispetto alla media OCSE), raggiunge il 40% alla fine degli anni ottanta. Un incremento significativo e mal distribuito: la crescita dell’evasione fiscale spinge i governi di quegli anni a provare a recuperare gettito soprattutto attraverso l’aumento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, generando crescenti diseguaglianze distributive.

L’Italia diventa un Paese propriamente dualistico e, negli anni successivi e fino a oggi, accentua questa caratteristica, con un Nord il cui settore industriale recupera margini di profitto e un Sud che viene sostanzialmente sussidiato e che si incammina verso una specializzazione produttiva sempre più orientata in settori tecnologicamente maturi (agroalimentare, turismo, ristorazione, intrattenimento). Il Veneto - una delle regioni più povere d’Italia nei decenni successivi al termine della seconda guerra mondiale - comincia la sua traiettoria di crescita, beneficiando delle politiche di decentramento produttivo messe in atto dalla grande impresa del Nord-Ovest. Politiche che trovano la loro ragione nel tentativo (riuscito) di sedare i conflitti interni alla fabbrica che caratterizzano gli anni settanta e che si realizzano nella nascita di piccole unità produttive nel Nord-Est. A partire dalla fine degli anni ottanta, il Veneto trova la sua rappresentanza politica nella Lega Nord. La quota dei salari sul Pil comincia a contrarsi in modo rilevante.

La richiesta di autonomia differenziata - di cui si parlerà venerdì pomeriggio al museo Castromediano durante un seminario organizzato dalla Flc Cgil - è il compimento, ad oggi, di questa tendenza. Si tratta della richiesta di trattenere in quei territori la massima parte delle tasse lì pagate, oltre che di trasferire alle regioni competenze fin qui proprie dello Stato: istruzione in primis, ed è stata ratificata in prima battuta dal Governo Gentiloni – per poi essere rilanciata, soprattutto su impulso della Lega, dal primo Governo Conte.

La ‘secessione dei ricchi’ viene fondamentalmente motivata con due argomenti:

1. Le aree più ricche del Paese non possono più permettersi di concedere alle aree più povere trasferimenti perequativi, che non farebbero altro che finire nel calderone della spesa improduttiva, della corruzione, del clientelismo. D’altra parte – si sostiene – le stesse regioni meridionali avrebbero tutto da guadagnare dalla loro maggiore autonomia – e quindi da minori risorse pubbliche – dal momento che sarebbero maggiormente incentivate a fare uso produttivo di queste ultime.

2. L’arricchimento delle aree già più ricche del Paese favorirebbe anche le aree più povere per effetto di un meccanismo di locomotiva: se la crescita delle aree più ricche (ri) parte, la ricchezza lì prodotta ‘sgocciola’ nelle aree più povere. Come dire: se la locomotiva parte, trascina con sé anche i vagoni.

Per comprendere perché rischia di prodursi la rottura del ‘patto implicito’ che ha tenuto coesa l’Italia occorre far sintetico riferimento ai cambiamenti dello scenario macroeconomico, in particolare a far data dalla prima crisi, nel 2007. Il cambiamento al quale ci si riferisce attiene alla crescita delle interconnessioni su scala globale: le cosiddette catene globali del valore. Fuori dai tecnicismi, ci si riferisce al fatto che ogni prodotto finito contiene parti componenti realizzate in altri Paesi o altre regioni dello stesso Stato. Le nostre principali imprese – le più grandi e più innovative – hanno risposto alla caduta della domanda a seguito della crisi provando ad agganciarsi, attraverso catene di subfornitura (si pensi alla componentistica per le automobili), al capitale tedesco e dei Paesi satelliti della Germania. Nell’attuale gioco neo-mercantilista, dove ciò che conta è esportare più di quanto esportino i concorrenti (e importare meno), il Sud conta sempre meno come mercato di sbocco. E’ un processo ancora embrionale, che riguarda (su fonte Banca d’Italia) un numero non molto grande di imprese del Nord, stimate in circa 180mila su 4.5 milioni di imprese lì localizzate.

Almeno per questi casi, due fattori sono da considerare:

a. Le imprese del Nord producono sempre meno beni finali e sempre più produzioni intermedie, non vendibili nel Mezzogiorno per la sostanziale inesistenza in loco di un tessuto industriale;

b. I residenti nel Mezzogiorno – per la caduta dei redditi, l’aumento delle emigrazioni, l’invecchiamento della popolazione – consumano sempre meno. SVIMEZ calcola, a riguardo, che il calo cumulato dei consumi dei meridionali dal 2008 al 2017 è stato nell’ordine del -11%.

A ciò vanno aggiunte le politiche economiche attuate nel Mezzogiorno negli ultimi decenni, caratterizzate – come ci informa SVIMEZ – da una costante riduzione degli investimenti pubblici (riduzione che va avanti dall’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno), che ha contribuito a frenare la crescita delle aree più deboli del Paese.

A ciò si può aggiungere la scomparsa della stessa idea di delegare allo Stato ciò che, nel caso italiano, la gran parte del nostro settore privato non fa: ovvero finanziare le innovazioni tecnologiche. 


giovedì 21 novembre 2019

Il capitale: forme e funzioni - Karl Marx

Da: https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/il-capitale-forme-e-funzioni-karl-marx -
Leggi anche: http://www.criticamente.com/marxismo/capitale/capitale_3/Marx_Karl_-_Il_Capitale_-_Libro_III_-_27.htm -


   "In periodi di depressione la domanda del capitale da prestito è domanda di mezzi di pagamento e niente altro; in nessun caso è domanda di denaro come mezzo di acquisto. La domanda di mezzi di pagamento è una semplice domanda di convertibilità in denaro, quando i commercianti e i produttori possono offrire delle garanzie sufficienti; è una domanda di capitale monetario quando ciò non si verifica, cioè un anticipo di mezzi di pagamento dà loro la forma monetaria equivalente che loro manca.

   Coloro che dicono che esiste semplicemente una carenza di mezzi di pagamento hanno soltanto in mente quelle persone che posseggono garanzie bona fide (effetti garantiti da merce), o sono dei pazzi che credono sia dovere e facoltà di una banca trasformare, con pezzi di carta, tutti gli speculatori falliti in capitalisti solidi e solvibili. Coloro che dicono che esiste una semplice carenza di capitale, fanno puramente un gioco di parole, oppure si riferiscono esclusivamente a quegli avventurieri del credito che ora sono di fatto messi in condizioni di non poter più a lungo ottenere capitale altrui con il quale portare avanti i loro affari e pretendono che la banca non soltanto li aiuti a restituire il capitale perduto, ma li metta per di più in grado di continuare le loro speculazioni fraudolente, poiché in tali periodi vi è una massa di capitale inconvertibile in seguito alla sovraimportazione e alla sovraproduzione.

   È un principio fondamentale della produzione capitalistica che il denaro si contrappone alla merce quale forma autonoma del valore, cosicché diventa la merce universale in contrapposizione a tutte le altre merci. In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore. Di qui la svalorizzazione generale delle merci, la difficoltà, anzi l’impossibilità di trasformarle in denaro, ossia nella loro forma puramente fantastica.

   In secondo luogo, la moneta di credito stessa è denaro unicamente nella misura in cui rappresenta, in assoluto, nel suo valore nominale, il denaro effettivo. Di qui misure coercitive, aumento del tasso d’interesse ecc. al fine di assicurare le condizioni di convertibilità nell’interesse di trafficanti di denaro. Ma la causa prima si trova nel fondamento stesso del sistema di produzione. Una svalorizzazione della moneta di credito scuoterebbe tutti i rapporti esistenti. Il valore delle merci viene quindi sacrificato al fine di salvaguardare l’esistenza immaginaria e indipendente di questo valore nel denaro.

   (Karl Marx, Il capitale. Libro III, Sezione V, Cap. 32)

mercoledì 20 novembre 2019

Marc Bloch - Alessandro Barbero

Da: Rinascimento Culturale - Alessandro_Barbero è uno storico, scrittore e accademico italiano, specializzato in storia del Medioevo e in storia militare.

                                                                           

" ... La concezione dialettica della storia di Marc Bloch si legava all’idea della sua utilità civile e quindi del ruolo militante dello studioso. Uomo di grande cultura e di grande passione civile, Bloch era convinto che scopo ultimo della conoscenza del passato è la comprensione delle condizioni storiche, sociali ed economiche che hanno portato al nostro presente, rendendo così possibile la sua trasformazione. Questo atteggiamento fortemente critico e propositivo spinse Bloch verso la militanza politica, non solo come intellettuale impegnato nella diffusione della cultura storica; ma anche come uomo, che ha dato il suo contributo alla lotta contro il nazismo, aderendo in ultimo alla Resistenza francese. Come ha scritto Maurice Aymard, la riflessione storiografica prende nel caso di Bloch «una dimensione del tutto personale, e nello stesso tempo emblematica, che fonda l'unità della sua opera e della sua vita. La storia del passato non può essere scritta se non da chi assume il ruolo di testimone, attivo e impegnato, del presente».

L’attività storiografica di Bloch si fondava sul tentativo di legare strettamente il presente al passato e «di applicare nell’interpretazione delle manifestazioni sociali dei nostri tempi le facoltà di analisi che lo storico ha esercitato nella critica dei documenti dei tempi lontani». Studiare criticamente i fenomeni storici, saper coglierne le differenze e le analogie, le continue interrelazioni con l’ambiente materiale e le condizioni culturali che caratterizzano una società significava per il grande storico francese tentare di penetrare l’avvenire: «Esaminando come e perché l’ieri è stato diverso dall’altro ieri, essa [la storia] trova, in questo accostamento, il modo di prevedere in che senso il domani, a sua volta, si opporrà all’ieri».

In armonia con le posizioni dello storico francese, lo studioso inglese Edward H. Carr ha scritto: «la storia […] è un processo di carattere sociale, a cui gli individui partecipano in quanto esseri sociali; e l’immaginaria antitesi tra società e individuo non è altro che un cartello sviante messo lì apposta per confonderci». E aggiunge, sottolineando il rapporto che la storia intrattiene con la cultura e le esigenze delle società presenti: «Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere pienamente il presente unicamente alla luce del passato. Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato e accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa la duplice funzione della storia».

Studiare oggi, per esempio, le opere di Marc Bloch non significa soltanto riscoprire le intenzioni originarie dell’innovazione metodologica della storia e, più in generale delle scienze umane, che fu elaborata nel corso del Novecento. Ma, soprattutto, significa dare nuovo risalto ad una concezione dialettica della storia e dell’attività umana, propria di Bloch e di tanti altri studiosi a lui contemporanei, che sottolinei i rapporti reciproci e ambivalenti tra la dimensione materiale e la dimensione ideologica e culturale, che individui le condizioni concrete in cui determinate società e mentalità si sono sviluppate, superando quei limiti temporali e geografici tanto comodi nello studio, ma fuorvianti nell’analisi della realtà. È questa concezione della storia che ci insegna a vedere uno sviluppo continuo, seppur contraddittorio, nell’attività umana e ci permette di comprendere le ragioni d’essere della società attuale per migliorarla. Perché solo l’impegno civile può dar significato all’attività conoscitiva dello studioso." 
(Adriana Garroni - Marc Bloch oltre la nouvelle histoire: prospettive teoriche da riscoprire*- Adriana Garroni

martedì 19 novembre 2019

Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace" - Antonello Guerrera

Da: https://www.repubblica.it - antonello guerrera è corrispondente da Londra per «la Repubblica» e giornalista parlamentare a Westminster.


"CIÒ A cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto ". A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all'Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939.


Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l'aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell'abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest'intervista a Repubblica.



Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all'offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili? 

"Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell'apartheid  -  nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi  -  che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l'8 luglio, prima dell'invasione di Gaza, Israele pratica l'apartheid ricorrendo a "due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi 'fuorilegge'. Del resto, quando l'esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell'omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi". E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri".

lunedì 18 novembre 2019

Il declino di Roma - Luca Dammicco

Da: https://www.iltascabile.com - Luca Dammicco, nato a Roma nel 1986, fotografo. -
Tutte le immagini sono tratte dal progetto in evoluzione No cannon ball did fly di Luca Dammicco. 


Porta di Roma è una “centralità metropolitana”, uno dei moderni quartieri costruiti nella periferia della capitale negli ultimi anni. Inaugurato nel 2007, alla confluenza tra l’Autostrada A1 e il Grande Raccordo Anulare, oggi non è ancora servito dalla metropolitana. Gli abitanti utilizzano quasi tutti la macchina perché l’ampia estensione del quartiere rende difficile la pedonalità. Negozi e attività faticano a svilupparsi, divorati dalla presenza della Galleria Porta di Roma, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa: 220 esercizi, 150.000 metri quadri, 7.000 posti auto. Nei palazzi del quartiere, molti degli appartamenti sono ancora vuoti, come la maggioranza degli uffici. La speranza è che la comunità di residenti contribuirà a rendere vivibile e ospitale il quartiere, ma oggi Porta di Roma appare come una lunga sequenza di parcheggi e di case sfitte. Gli spazi verdi non sono curati, non ci sono piazze o luoghi di socialità che non siano i corridoi della galleria commerciale. 

Porta di Roma, purtroppo, è tutt’altro che un caso isolato. Negli ultimi vent’anni, ma il discorso potrebbe estendersi a tutta la storia di Roma capitale, sono state costruite decine di quartieri simili, all’estrema periferia della città. Si tratta di scelte di politica urbana che hanno riguardato direttamente centinaia di migliaia di cittadini, e influenzato indirettamente il funzionamento della città.

Oggi la discussione pubblica su Roma, però, queste scelte politiche relativamente recenti sembra ignorarle del tutto, rimanendo fondata invece su concetti vacui e solo apparentemente apolitici come quelli di “decoro” e “degrado”. Il racconto della città, sui giornali, sui blog o tra cittadini è appiattito sulla condivisione meccanica degli effetti più iconici della crisi. I disservizi dell’ATAC (la società del trasporto pubblico romano), le foto dei rifiuti, i video di animali a passeggio nella periferia (come se non fossero la normalità in una città che ha invaso la campagna) sono diventati protagonisti del discorso sullo stato di salute della città. Una retorica che ha contribuito a portare al governo la giunta Cinque Stelle e che ora è stata fatta propria anche dalle altre forze politiche, oltre che dalla quasi totalità dei commentatori. 

domenica 17 novembre 2019

Lento assassinio di Julian Assange. Giustizia negata per chi ha denunciato i misfatti del governo - Philip Giraldi

Da: http://ossin.org - Testo originale: killing-julian-assange-justice-denied-when-exposing-official-wrongdoing -
Philip Giraldi, Ph.D., Executive Director of the Council for the National Interest.
Leggi anche: Assange in Tribunale - Craig Murray


Continua l’orribile trattamento del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, e molti osservatori citano il suo caso come sintomatico della trasformazione in "stato di polizia" sia degli Stati Uniti che dell’Europa, dove il primato della legge viene subordinato all'opportunità politica



Julian Assange è stato il fondatore e caporedattore del controverso sito di notizie e informazioni WikiLeaks. Come dice il suo nome, dopo il 2006 il sito è diventato famoso, e anche molto, per la pubblicazione di materiali che gli venivano passati da funzionari del governo e da altre fonti, convinte si trattasse di informazioni utili al pubblico, ma che non sarebbero state probabilmente accettate dai media mainstream, che sono diventati sempre più timidi e dipendenti da logiche aziendali. 

WikiLeaks è diventato noto a un pubblico globale nel 2010, quando ottenne da Bradley Manning, un soldato dell’esercito statunitense, una grande quantità di documenti classificati relativi alle varie guerre che gli Stati Uniti stavano combattendo in Asia. Parte del materiale riguardava fatti che potrebbero essere considerati crimini di guerra. 

WikiLeaks è tornato in prima pagina nei giornali durante le elezioni presidenziali del 2016, quando il sito web ha pubblicato le e-mail della candidata Hillary Clinton e del responsabile della sua campagna, John Podesta. Le e-mail hanno rivelato come Clinton e il suo team abbiano collaborato col Comitato nazionale democratico per impedire la nomination del suo rivale alle primarie, Bernie Sanders. Va notato che il materiale pubblicato da WikiLeaks era in gran parte documentario e di natura fattuale, cioè non si trattava di "fake news".

Essendo un giornalista che dovrebbe essere protetto dal Primo Emendamento nella sua libertà di parola, la natura della "minaccia" rappresentata dal giornalista Assange è inevitabilmente in qualche modo diversa da quella di una fuga di notizie ad opera di un funzionario governativo, denunciato come informatore. Assange è stato calunniosamente accusato di essere un "nemico dello Stato", probabilmente anche un agente russo, e in un primo tempo venne inquisito dalle Autorità svedesi per delle accuse di stupro, successivamente ritirate. Per evitare di essere arrestato, egli ottenne l’asilo politico da un governo ecuadoriano amico, sette anni fa a Londra. La polizia britannica aveva un mandato per arrestarlo immediatamente, perché non era riuscito a presentarsi all’udienza sulla richiesta di liberazione con cauzione, avendo ricevuto l’asilo politico. Che è effettivamente quel che poi è accaduto, quando Quito ha revocato il suo status di protezione ad aprile. 

A quanto pare, Julian Assange non era per niente solo mentre si trovava nell'ambasciata ecuadoriana. Tutte le sue comunicazioni, anche con i suoi avvocati, venivano intercettate da una compagnia di sicurezza spagnola assunta a tal fine, sembra dalla CIA. Pare vi fosse anche un piano della CIA per rapire Assange. In un tribunale normale e in un paese normale, la richiesta del governo sarebbe stata respinta per motivi costituzionali e legali, ma non è stato così in questa occasione. Gli Stati Uniti hanno persistito nelle loro richieste di estradizione di Assange dalla Gran Bretagna e Londra sembra essere più che disposta a giocare con loro. Assange è innegabilmente odiato dall'establishment politico statunitense, e anche da gran parte dei media, in modo bipartisan. I democratici lo accusano della sconfitta di Hillary Clinton mentre il segretario di Stato Mike Pompeo lo ha definito un "truffatore, un codardo e un nemico”. Lo stesso WikiLeaks viene considerato dalla Casa Bianca un “servizio di intelligence non governativo ostile”. Chiudere Julian Assange in prigione per il resto della sua vita può essere anche definita “giustizia”, ma si tratta in realtà di vendetta contro qualcuno che ha svelato le bugie del governo. Alcuni politici statunitensi hanno persino affermato che la prigione è troppo poco per Assange, insistendo sul fatto che dovrebbe essere giustiziato. 

Le accuse esposte nell’incriminazione statunitense riguardano una presunta cospirazione, con Chelsea Manning, per pubblicare gli "Iraq War Logs", gli "Afghanistan War Logs" e i cablo del Dipartimento di Stato USA. Il 23 maggio, il governo degli Stati Uniti ha accusato Assange di avere anche violato l'Espionage Act del 1917, che criminalizza qualsiasi rivelazione di informazioni classificate del governo degli Stati Uniti in qualsiasi parte del mondo da parte di chiunque. Il suo uso creerebbe un precedente: qualsiasi giornalista investigativo che riveli misfatti del governo degli Stati Uniti potrebbe essere accusato dello stesso reato. 

Assange è attualmente detenuto in isolamento nel penitenziario di alta sicurezza di Belmarsh. È possibile che il Dipartimento di Giustizia USA, dopo essere riuscito ad ottenere Assange attraverso il procedimento di estradizione, lo accusi di collusione col governo russo, di una cospirazione per "recare danno agli Stati Uniti" per metterla in gergo giuridico. È improbabile che Assange venga sottoposto a qualcosa che si avvicini a un processo equo, indipendentemente dalle accuse. 

La detenzione di Assange si sarebbe dovuta concludere il 22 settembre per fine pena, ma resta in carcere in attesa di estradizione e la corte di Westminster ha fissato la relativa udienza per il 25 Febbraio 2020. Il giudice distrettuale Vanessa Baraitser ha stabilito che Assange non dovesse essere rilasciato anche se la pena detentiva era terminata, perché vi è pericolo di fuga. La sua posizione giuridica carceraria è stata debitamente modificata da definitiva quella di persona in attesa di estradizione, e l’udienza è stata fissata dinanzi al Tribunale di alta sicurezza di Belmarsh piuttosto che dinanzi ad un tribunale ordinario. Belmarsh è il luogo in cui vengono processati i terroristi, e i processi che vi si svolgono sono sottoposti ad un controllo pubblico e mediatico ridotto. 

Più recentemente, il 21 ottobre 2019, Assange è nuovamente comparso dinanzi al tribunale di Westminster per un’udienza di trattazione dell’istanza di estradizione verso gli Stati Uniti. Il giudice Baraitser ha respinto una richiesta del collegio di difesa di un rinvio di tre mesi per raccogliere prove, dal momento che era stato negato ad Assange l'accesso alle proprie carte e ai suoi stessi documenti per preparare la sua difesa. Il procuratore del governo britannico James Lewis QC e i cinque "rappresentanti" statunitensi presenti si sono opposti a qualsiasi rinvio del procedimento di estradizione e sono stati accontentati dal giudice Baraitser, che ha respinto tutte le richieste della difesa. 

Un'altra udienza di trattazione si terrà il 19 dicembre, mentre l’udienza finale di estradizione è fissata per il mese di febbraio. A quel punto, Assange sarà presumibilmente consegnato agli US Marshalls per la traduzione ad un carcere federale della Virginia, in attesa del processo. Ovviamente, ciò presuppone che resti in vita, per quanto il suo stato di salute sia notevolmente peggiorato e si sia detto che egli è stato torturato dalle autorità britanniche. 

L'ex ambasciatore britannico Craig Murray, che conosce bene Julian Assange, era presente quando è comparso in tribunale il 21. Murray è rimasto scioccato dall'aspetto di Assange, e ha detto che aveva perso peso e sembrava fosse invecchiato considerevolmente. Camminava zoppicando in modo pronunciato e, quando il giudice gli ha chiesto il suo nome e la data di nascita, egli ha avuto difficoltà a rispondere. Murray lo ha descritto come un "relitto umano, farfugliante e incoerente" e ha anche concluso che "uno dei più grandi giornalisti e dissidenti dei nostri tempi viene torturato a morte dallo Stato, sotto i nostri occhi". 

Il tribunale britannico era del tutto indifferente alle pessime condizioni di Assange. Il   giudice Baraitser ha detto al prigioniero manifestamente in difficoltà che, se non era in grado di seguire il processo, i suoi avvocati gli avrebbero potuto in seguito spiegare cose era successo. I rappresentanti della Corona hanno respinto tutte le obiezioni sollevate da Assange e dai suoi avvocati, spesso dopo discussioni con i funzionari statunitensi presenti. Un processo descritto dettagliatamente da Murray che, dopo aver raccontato il diniego di giustizia cui aveva assistito, ha osservato che Julian Assange viene "lentamente ammazzato davanti a tutti e processato per avere pubblicato la verità sugli atti vergognoso del governo". Ha concluso che "a meno che Julian non venga rilasciato a breve, verrà distrutto. Se allo Stato è consentito fare questo, allora chi è il prossimo? ” E’ proprio così.


sabato 16 novembre 2019

GIOVANNI ARRIGHI prima de IL LUNGO XX SECOLO - Giordano Sivini

Da: http://www.palermo-grad.com - giordano sivini (Trieste 1936) è stato professore di sociologia politica presso la Facoltà di Economia dell'Università della Calabria.
Vedi anche: Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino” - Alessandro Visalli 

La forza strutturale della classe per superare lo stallo prodotto dal marxismo tradizionale 

Per Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [1l’evoluzione storica del capitalismo è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’area di accumulazione del capitale, dalle città-stato dell’Europa continentale al mondo quale è oggi, attraverso cicli sistemici, governati ciascuno da Stati che hanno avuto funzioni egemoniche, in fasi successive di espansione materiale e di espansione finanziaria. L’espansione materiale è il risultato di attività che mettono in movimento una crescente massa di merci, forza lavoro inclusa, producendo profitti. Quando i profitti calano a causa della crescente competizione tra i capitali, invece di essere reinvestiti fluiscono in forma liquida da tutto il sistema verso gli istituti finanziari alimentando l’espansione finanziaria. La capacità egemonica si indebolisce e gli altri Stati del sistema cercano di appropriarsene per orientarla verso nuovi orizzonti produttivi, finché emerge uno che, concentrando potenza economica e militare, diventa il perno di una nuova configurazione egemonica. 


Arrighi definisce i cicli in termini di D-M-D’, entro il quale D-M è la fase di espansione economica e M-D’ quella di espansione finanziaria, così che il capitalismo può essere configurato come dominio del valore su aree di accumulazione di crescente ampiezza. L’obiettivo è di capire come si concluda al momento della sua massima espansione. Su questo terreno l’attività scientifica di Arrighi si sviluppa dopo l’abbandono di una diversa prospettiva epistemologica, basata sul rapporto antagonistico tra capitale e lavoro. 

Nei primi anni ’70, direttamente coinvolto nelle lotte operaie, aveva prodotto il concetto di forza strutturale della classe, che è rimasto centrale nei suoi lavori fino alla fine degli anni ’80, quando, constatando l’incapacità del marxismo del movimento operaio di leggere le trasformazioni strutturali del capitalismo e percependo che l’omogeneità di classe si sta disgregando, viene a trovarsi in un cul de sac. Fino ad allora orientata a verificare le potenzialità di una trasformazione del mondo in senso socialista, la ricerca si sposta sulle possibilità di superamento del capitalismo attraverso l’analisi della sua evoluzione storica, “Una volta spostato il centro d’attenzione nella definizione di capitalismo verso un’alternanza di espansione materiale e finanziaria, diventa molto difficile mantenere il lavoro dentro il modello” [2].

Rileggere i lavori di Arrighi sulla lotta di classe e le prospettive socialiste contribuisce perciò ad evidenziare la diversità di prospettiva epistemologica e politica rispetto alla teoria dei cicli sistemici e ad interrogarsi sulle ragioni della svolta, dopo la quale – constata amaramente John Saul, che di Arrighi è stato compagno di lotte in Africa – “non viene più menzionato, neppure una sola volta, il ‘socialismo’ come un possibile antidoto alla stretta mortale del capitalismo occidentale sul Sud globale” [3].

venerdì 15 novembre 2019

Chiarezza - Shlomo Sand

Da: invictapalestina.org - Traduzione: Simonetta Lambertini, 28 febbraio 2019 (trad. aggiornata 21 marzo 2019) Shlomo_Sand è uno storico e scrittore israeliano. 



Sebbene residente in Israele, “Stato del popolo ebraico”, ho seguito da vicino il dibattito in Francia su antisemitismo e antisionismo. Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo. 

Iniziamo con i problemi di definizione. Già da molto tempo mi sento a disagio, non solo per la recente formula in voga: “civiltà giudaico-cristiana”, ma anche davanti all’uso tradizionale del vocabolo “antisemitismo”. Questo termine, come sappiamo, è stato inventato nella seconda metà del 19° secolo da Wilhelm Marr, nazional-populista tedesco che detestava gli ebrei. Nello spirito di quel tempo, coloro che usavano quel termine avevano come presupposto fondamentale l’esistenza di una gerarchia di razze in cima alla quale si trova l’uomo bianco europeo, mentre la razza semita occupa un rango inferiore. Uno dei fondatori della “scienza della razza” fu, come sappiamo, il francese Arthur Gobineau.

Ai nostri giorni, la Storia un pochino più seria non conosce altro che delle lingue semitiche (l’aramaico, l’ebraico e l’arabo, che si sono diffuse nel Vicino Oriente), mentre, al contrario, non conosce nessuna razza semitica. Sapendo che gli ebrei d’Europa non parlavano correntemente l’ebraico, che era utilizzato solo per la preghiera (come i cristiani usavano il latino), è difficile considerarli come semiti. 

Bisogna forse ricordare che il moderno odio razziale contro gli ebrei è, soprattutto, un’eredità delle chiese cristiane? Dal quarto secolo, il cristianesimo si è rifiutato considerare l’ebraismo come una religione legittima concorrente, e da lì, ha creato il famoso mito dell’esilio: gli ebrei sono stati esiliati dalla Palestina per avere partecipato all’omicidio del figlio di Dio – pertanto, è opportuno umiliarli per dimostrare la loro inferiorità. Ma occorre sapere che non c’è mai stato un esilio degli ebrei di Palestina, e, fino ad oggi, non troveremo alcun testo di ricerca storica sul tema!

Personalmente, faccio parte di quella scuola di pensiero tradizionale che rifiuta di vedere gli ebrei come un popolo-razza estraneo all’Europa. Già nel 19° secolo, Ernest Renan, dopo essersi liberato del suo razzismo, aveva affermato che: “L’ebreo delle Gallie … era, molto spesso, solo un gallo che professava la religione israelita.” Lo storico Marc Bloch ha specificato che gli ebrei sono: “Un gruppo di credenti reclutati precedentemente in tutto il mondo mediterraneo, turco-cazaro e slavo”. E Raymond Aron aggiunge: “I cosiddetti ebrei, per la maggior parte, non sono biologicamente dei discendenti delle tribù semitiche …”. La giudeofobia, tuttavia, si è sempre ostinata a vedere gli ebrei non come un’importante fede, ma come una nazione straniera.