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sabato 28 dicembre 2019

I danni economici dell’analfabetismo funzionale - Guglielmo Forges Davanzati

Da: Nuovo Quotidiano di Puglia” - Guglielmo Forges Davanzati 
Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.
Leggi anche: Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello  
                        L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore 

Vi è ampia evidenza teorica ed empirica in merito al fatto che un’istruzione diffusa – oltre a essere desiderabile in quanto tale – è un rilevante fattore di crescita economica. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che l’acquisizione di conoscenze e competenze, sia attraverso i canali formali della scolarizzazione, sia attraverso i canali informali dell’acquisizione di conoscenze mediante reti amicali e relazionali (le c.d. soft skills), entra come input nel processo produttivo e agevola la crescita della produttività del lavoro.
La crescita economica italiana è al palo dalla svolta dei primi anni novanta, con le manovre restrittive dei Governi Amato e Ciampi (1992-1993), anche a causa del sistematico disinvestimento in istruzione, ricerca e sviluppo, dal momento che minore istruzione implica minore crescita. E vi è ampio accordo fra economisti in merito al fatto che il ventennio che inizia a far data dal 1998 è il peggiore della recente storia economica italiana in termini di tasso di crescita e andamento dell’occupazione.
A partire da quella data si fa strada quello che uno dei maggiori economisti italiani della seconda metà del Novecento, Federico Caffè, ebbe a definire l’allarmismo economico, con particolare riferimento – negli anni novanta e ancora più nel successivo decennio – alla convinzione diffusa che la disoccupazione italiana e, in particolare, la disoccupazione giovanile dipenda dal mismatch qualitativo fra domanda e offerta di lavoro. Ci si riferisce, in particolare, al fatto che si è incominciato a ritenere che la disoccupazione giovanile italiana dipenda dalla scarsa preparazione dei nostri giovani, quest’ultima imputabile all’incapacità delle nostre università di fornire conoscenze e soprattutto competenze tecniche adeguate a quelle domandate dalle nostre imprese.
Sia chiaro che il problema esiste, ma la narrazione dominante (e il connesso allarme) ne amplifica notevolmente le dimensioni. La realtà è che i nostri lavoratori, soprattutto giovani, ricevono per contro una preparazione adeguata, ma vengono assunti, laddove cioè accade, con contratti a tempo determinato, spesso in condizioni di sottoccupazione intellettuale e spesso costretti a emigrare o ad accettare forme di part-time involontario. Una condizione di precariato diffusa, con contratti di lavoro intermittenti, di incerta durata, che amplifica la spirale perversa composta da bassa crescita e peggioramento della qualità dell’occupazione. 

mercoledì 31 agosto 2022

Perché la riduzione del cuneo fiscale non è un vantaggio per i lavoratori - Guglielmo Forges Davanzati

 Da: “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 30 agosto 2022. - Guglielmo Forges Davanzati 

Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.


Vi è un diffuso consenso fra i partiti politici sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale per rilanciare la crescita economica in Italia. La proposta è stata lanciata qualche mese fa da Confindustria e gode di un ampio credito, da Fratelli d’Italia al PD. Vediamo di cosa si tratta. 

Il cuneo fiscale è la differenza fra il salario lordo pagato dal datore di lavoro e il salario netto percepito dal lavoratore. Secondo gli ultimi dati OCSE (si vedano i rapporti periodici Taxing wages), in Italia, il peso della tassazione sul lavoro è notevolmente elevato, pari a circa il 47.9% dello stipendio. Il cuneo fiscale è la somma di due componenti principali: l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e i contributi previdenziali. Il dipendente paga l’imposta e parte dei contributi, il datore di lavoro si fa carico della restante parte dei contributi previdenziali. La parte quantitativamente più consistente della differenza fra salario lordo e salario netto riguarda le aliquote INPS. La ripartizione del cuneo è pari al 16% di imposte, 7% dei contributi dei lavoratori, 24% di contributi dei datori di lavoro. Il cuneo fiscale viene quantificato sulla base della normativa fiscale e previdenziale vigente e applicata sulla retribuzione media. 

Nell’opporsi fermamente all’istituzione del salario minimo, Confindustria, da mesi, propone un abbattimento del cuneo fiscale, che avrebbe, a suo avviso, il duplice vantaggio di rilanciare la domanda interna, per effetto dell’aumento dei salari netti, e di stimolare la competitività delle imprese italiane, per effetto della compressione dei costi. Confindustria ne propone una riduzione di notevole entità (un “taglio shock” per Enrico Letta), per un ammontare pari a 16 miliardi di euro con una distribuzione di due terzi a vantaggio del lavoratore e di un terzo a favore dell’impresa. Secondo le stime dell’associazione degli imprenditori, le retribuzioni fino a 35.000 euro aumenterebbero di oltre 1200 euro, con un incremento pari a una mensilità all’anno a beneficio di circa 15 milioni di lavoratori dipendenti. 

Vi sono solide ragioni per nutrire dubbi sulle proprietà salvifiche di questa misura. Vediamole. 

sabato 19 marzo 2022

Le sanzioni logorano soprattutto chi le impone - Guglielmo Forges Davanzati

 Da: "Nuovo Quotidiano di Puglia", 18 marzo 2022. - https://www.facebook.com/guglielmo.davanzati - Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.


E’ stato calcolato che, ad oggi e durante il pieno dispiegarsi dell’egemonia statunitense, un terzo della popolazione mondiale è soggetto a sanzioni e che, fra il 1990 e il 2000, le misure imposte dagli Stati Uniti sono quasi raddoppiate rispetto al periodo 1950-1985 (Greene, 2021). Occorre hiedersi se le sanzioni applicate alla Russia siano efficaci e se producano effetti collaterali per chi le impone, e per l’economia italiana. La risposta è che le sanzioni, salvo casi del tutto eccezionali, non funzionano e possono produrre effetti economici indesiderati. 

Swift è l’acronimo di Society for Worldwide Interbank Financial Telecomunication ed è una piattaforma di comunicazione, con sede legale in Belgio, istituita nel 1973, usata da banche e società di intermediazione per scambiare informazioni sui trasferimenti internazionali di denaro. Lo Swift è utilizzato per garantire la massima sicurezza su queste transazioni attraverso l’uso di codici standard. Si calcola che Swift consente pagamenti internazionali nell’ordine di cinque miliardi di dollari al giorno trasferiti da circa undicimila soggetti di oltre duecento Paesi (Maronta, 2022). 

Già a partire dai primi giorni della guerra, la Russia è stata esclusa dal circuito Switf e gli analisti si chiedono se ciò comporti effettivamente danni ingenti alla sua economia: quella che è stata definita la madre di tutte le sanzioni. Il più prossimo precedente di una sanzione del genere lo si ritrova ai danni delle banche iraniane nel 2012: ebbe successo, ma è da ricordare che l’Iran era stato di fatto isolato dalla comunità finanziaria internazionale. Oggi, per la Russia, alternative a Switf esistono e si chiamano in primo luogo Cips e criptovalute. Cips è un’istituzione, analoga a Switf, sviluppata in Cina a partire dal 2015, alla quale fanno capo diciannove grandi banche cinesi e altre di quarantasette Paesi. 

Le criptovalute, valute che circolano esclusivamente on-line ‘in parallelo’ rispetto a quelle ufficiali, potrebbero rappresentare un’ulteriore fonte di diversificazione del rischio per la finanza russa. 
In economie nelle quali la gran parte della moneta circolante è dematerializzata e nelle quali vi è forte e crescente interdipendenza fra i sistemi bancari, l’imposizione di sanzioni rischia di produrre un effetto boomerang articolato in questi passaggi. Le sanzioni riducono i trasferimenti di liquidità fra soggetti; si traducono, quindi, in un calo generalizzato di fiducia che si manifesta, anche nei Paesi che le hanno imposte, in restrizione del credito: dunque calo della produzione e dell’occupazione. 

Un secondo fronte sul quale si esercitano le sanzioni è quello dell’energia, con il blocco del gasdotto Nord Stream 2. 
Il Nord Stream 2, lungo 1.200 chilometri (745 miglia) sottomarino, che va dalla costa baltica russa alla Germania nord-orientale, è costato 12 miliardi di dollari e segue lo stesso percorso del Nord Stream 1, completato più di dieci anni fa. Come il suo gemello, Nord Stream 2 sarà in grado di portare 55 miliardi di metri cubi di gas all'anno dalla Russia all'Europa, aumentando le forniture di gas a un prezzo relativamente basso. 
Il gruppo russo Gazprom ha una partecipazione di maggioranza nel progetto da 10 miliardi di euro (12 miliardi di dollari). Nell'azionariato della società che lo gestisce ci sono anche le compagnie tedesche Uniper e Wintershall, la francese Engie, l'anglo-olandese Shell e l'austriaca Omv. 

Il 22 febbraio 2022 la Germania ha sospeso il processo di certificazione di Nord Stream 2, ritardandone ulteriormente l’entrata in servizio. Sull’efficacia di questo strumento sanzionatorio può essere utile rivolgersi al recente passato, attraverso uno studio del Kiel Institute sugli effetti delle sanzioni per la Crimea (Crozet and HIinz, 2016) dal quale si evidenzia che, nel periodo oggetto di esame, le sanzioni hanno danneggiato soprattutto, se non esclusivamente, i Paesi che le hanno imposte. Ciò a ragione dell’elevata dipendenza europea, e italiana in particolare, dal gas russo, accresciuta dall’assenza di una politica energetica comune europea. 

venerdì 22 novembre 2019

Verso la rottura dell’unità nazionale? -  Guglielmo Forges Davanzati

Da: "La gazzetta del Mezzogiorno", 20 novembre 2019 - https://www.facebook.com/guglielmo.davanzati
Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.

La cosiddetta secessione dei ricchi – ovvero la richiesta di maggiore autonomia da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – è un segnale lampante della rottura di quello che si potrebbe definire il ‘patto implicito’ che ha tenuto insieme Nord e Sud del Paese, ovvero un patto basato su una divisione del lavoro che ha storicamente visto le imprese del Nord produrre e vendere a beneficio dei consumatori residenti nelle regioni meridionali. Questo patto, al netto degli aspetti formali e della Costituzione vigente, ha consentito all’intero Paese di mantenere la sua unità formale e, al tempo stesso, di percorrere un sentiero di crescita trainato da investimenti pubblici e privati a sostegno della domanda interna.

La divergenza, in termini di Pil pro-capite, fra Nord e Sud del Paese comincia ad assumere dimensioni rilevanti a partire dalla seconda metà degli anni settanta: sono anni caratterizzati dalla crescita pervasiva della criminalità organizzata (che dal Sud comincia a mettere radici nelle principali città settentrionali), dallo smantellamento progressivo della Cassa per il Mezzogiorno e dalla contrazione degli investimenti pubblici al Sud. Sono anche anni caratterizzati da consistenti aumenti di spesa pubblica, nella gran parte dei casi improduttiva: quello che l’economista Marcello De Cecco ebbe a definire ‘keynesismo criminale’. Sia sufficiente a riguardo considerare che la spesa pubblica in rapporto al Pil sale dal 34% del 1974 (a fronte della media della Comunità europea del 38%) a oltre il 50% della fine degli anni ottanta. La pressione fiscale, pari al 25% in rapporto al Pil nel 1973 (inferiore di quasi quattro punti percentuali rispetto alla media OCSE), raggiunge il 40% alla fine degli anni ottanta. Un incremento significativo e mal distribuito: la crescita dell’evasione fiscale spinge i governi di quegli anni a provare a recuperare gettito soprattutto attraverso l’aumento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, generando crescenti diseguaglianze distributive.

L’Italia diventa un Paese propriamente dualistico e, negli anni successivi e fino a oggi, accentua questa caratteristica, con un Nord il cui settore industriale recupera margini di profitto e un Sud che viene sostanzialmente sussidiato e che si incammina verso una specializzazione produttiva sempre più orientata in settori tecnologicamente maturi (agroalimentare, turismo, ristorazione, intrattenimento). Il Veneto - una delle regioni più povere d’Italia nei decenni successivi al termine della seconda guerra mondiale - comincia la sua traiettoria di crescita, beneficiando delle politiche di decentramento produttivo messe in atto dalla grande impresa del Nord-Ovest. Politiche che trovano la loro ragione nel tentativo (riuscito) di sedare i conflitti interni alla fabbrica che caratterizzano gli anni settanta e che si realizzano nella nascita di piccole unità produttive nel Nord-Est. A partire dalla fine degli anni ottanta, il Veneto trova la sua rappresentanza politica nella Lega Nord. La quota dei salari sul Pil comincia a contrarsi in modo rilevante.

La richiesta di autonomia differenziata - di cui si parlerà venerdì pomeriggio al museo Castromediano durante un seminario organizzato dalla Flc Cgil - è il compimento, ad oggi, di questa tendenza. Si tratta della richiesta di trattenere in quei territori la massima parte delle tasse lì pagate, oltre che di trasferire alle regioni competenze fin qui proprie dello Stato: istruzione in primis, ed è stata ratificata in prima battuta dal Governo Gentiloni – per poi essere rilanciata, soprattutto su impulso della Lega, dal primo Governo Conte.

La ‘secessione dei ricchi’ viene fondamentalmente motivata con due argomenti:

1. Le aree più ricche del Paese non possono più permettersi di concedere alle aree più povere trasferimenti perequativi, che non farebbero altro che finire nel calderone della spesa improduttiva, della corruzione, del clientelismo. D’altra parte – si sostiene – le stesse regioni meridionali avrebbero tutto da guadagnare dalla loro maggiore autonomia – e quindi da minori risorse pubbliche – dal momento che sarebbero maggiormente incentivate a fare uso produttivo di queste ultime.

2. L’arricchimento delle aree già più ricche del Paese favorirebbe anche le aree più povere per effetto di un meccanismo di locomotiva: se la crescita delle aree più ricche (ri) parte, la ricchezza lì prodotta ‘sgocciola’ nelle aree più povere. Come dire: se la locomotiva parte, trascina con sé anche i vagoni.

Per comprendere perché rischia di prodursi la rottura del ‘patto implicito’ che ha tenuto coesa l’Italia occorre far sintetico riferimento ai cambiamenti dello scenario macroeconomico, in particolare a far data dalla prima crisi, nel 2007. Il cambiamento al quale ci si riferisce attiene alla crescita delle interconnessioni su scala globale: le cosiddette catene globali del valore. Fuori dai tecnicismi, ci si riferisce al fatto che ogni prodotto finito contiene parti componenti realizzate in altri Paesi o altre regioni dello stesso Stato. Le nostre principali imprese – le più grandi e più innovative – hanno risposto alla caduta della domanda a seguito della crisi provando ad agganciarsi, attraverso catene di subfornitura (si pensi alla componentistica per le automobili), al capitale tedesco e dei Paesi satelliti della Germania. Nell’attuale gioco neo-mercantilista, dove ciò che conta è esportare più di quanto esportino i concorrenti (e importare meno), il Sud conta sempre meno come mercato di sbocco. E’ un processo ancora embrionale, che riguarda (su fonte Banca d’Italia) un numero non molto grande di imprese del Nord, stimate in circa 180mila su 4.5 milioni di imprese lì localizzate.

Almeno per questi casi, due fattori sono da considerare:

a. Le imprese del Nord producono sempre meno beni finali e sempre più produzioni intermedie, non vendibili nel Mezzogiorno per la sostanziale inesistenza in loco di un tessuto industriale;

b. I residenti nel Mezzogiorno – per la caduta dei redditi, l’aumento delle emigrazioni, l’invecchiamento della popolazione – consumano sempre meno. SVIMEZ calcola, a riguardo, che il calo cumulato dei consumi dei meridionali dal 2008 al 2017 è stato nell’ordine del -11%.

A ciò vanno aggiunte le politiche economiche attuate nel Mezzogiorno negli ultimi decenni, caratterizzate – come ci informa SVIMEZ – da una costante riduzione degli investimenti pubblici (riduzione che va avanti dall’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno), che ha contribuito a frenare la crescita delle aree più deboli del Paese.

A ciò si può aggiungere la scomparsa della stessa idea di delegare allo Stato ciò che, nel caso italiano, la gran parte del nostro settore privato non fa: ovvero finanziare le innovazioni tecnologiche. 


martedì 23 ottobre 2018

La manovra del Governo danneggia il Mezzogiorno - Guglielmo Forges Davanzati

Tramite Riccardo Bellofiore  da: https://www.quotidianodipuglia.it, 21 ottobre 2018, - guglielmo-forges-davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.


Il documento di Economia e Finanza ha, per così dire, ingannato numerosi commentatori, convinti che si tratti di una svolta radicale della politica economica italiana e convinti che finalmente ci siamo lasciati alle spalle le politiche di austerità.

Si tratta di un inganno dal momento che, come verrà mostrato, questa manovra – sebbene basata su un aumento del rapporto deficit/Pil – non contribuisce alla ripresa della crescita. Ed è un’illusione ottica pensare che qualunque politica fiscale espansiva generi crescita, nel breve come nel lungo periodo. La manovra del Governo, poi, si configura come un insieme di interventi che rischia di accentuare le divergenze regionali.

Per le seguenti ragioni:

1) La flat tax – ancora in fase di definitiva elaborazione - è un’imposta regressiva, che, cioè, fa pagare più tasse, in termini relativi, ai percettori di redditi bassi rispetto ai percettori di redditi alti. Poiché questi ultimi si trovano prevalentemente al Nord, l’effetto macroeconomico non può non essere maggiore detassazione al Nord rispetto alle aree deboli del Paese.

2) Il reddito di cittadinanza, nella sua ultima formulazione e dunque con il vincolo della spesa per prodotti italiani, va nella direzione di incentivare i consumi per beni prodotti al Nord e, al tempo stesso, di disincentivare le innovazioni da parte delle imprese lì localizzate. L’appello all’italianità, in questo caso, dato il dualismo che caratterizza storicamente l’economia italiana, si traduce di fatto in un appello a comprare beni prodotti nelle regioni più ricche del Paese. 
Molto è stato detto sui centri per l’impiego. Anche in questo caso, va rimarcata una significativa disparità, nel loro funzionamento, fra Sud e Nord del Paese, con prevedibili effetti di segno negativo sulla loro capacità, nelle regioni meridionali, di funzionare in modo efficace.

3) La “pace fiscale” – ovvero, chiamata per quello che è, il condono per gli evasori – al netto delle discutibili implicazioni etiche e anche economiche (di norma, i condoni creano l’aspettativa di ulteriori condoni, accrescendo, non diminuendo, l’evasione), riguarda ovviamente i percettori di redditi variabili, dunque non i dipendenti pubblici e, più in generale, non i percettori di redditi tassati “alla fonte”. 
Anche in questo caso, il dualismo dell’economia italiana conta. La “pace fiscale” non può che tradursi, nei fatti, in un sostegno al reddito delle partite IVA e delle piccole imprese del Nord. 

martedì 16 aprile 2019

La teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva come teoria della politica economica - Guglielmo Forges Davanzati

Da: http://www.consecutio.org/ - Guglielmo Forges Davanzati Università del Salento, è un economista italiano.

1. Premessa

Ammesso che se ne possa dare una definizione univoca, la c.d. eterodossia, in Economia Politica, non è affatto scomparsa nell’Università italiana. Ciò che realmente è scomparso è il marxismo, come diretta conseguenza del processo di depoliticizzazione del discorso economico. La deriva tecnocratica che ha prepotentemente investito la teoria economica (e l’insieme delle scienze sociali) ha generato tre esiti: i) la Storia del pensiero economico intesa come tecnica archivistica; ii) la teoria economica neoclassica declinata come tecnica econometrica; iii) parte dell’eterodossia (la teoria sraffiana) intesa come critica tecnica a una teoria neoclassica non più esistente o comunque non più dominante. Il resto è divenuto indicibile e, non a caso, questo saggio su Marx è pubblicato in una rivista di Filosofia[1].


2. Introduzione

È ben noto che Marx, opponendosi alla teoria malthusiana della sovrappopolazione assoluta, considera la sovrappopolazione relativa – o esercito industriale di riserva (EIR) – una condizione necessaria per la riproduzione capitalistica. Ed è ben noto che, opponendosi a Malthus, Marx considera la sovrappopolazione relativa come prodotto del capitalismo, non la risultante di un dato di natura: «una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario della accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione» (Marx 1972, 82). Una estensione di questa tesi, in parte sviluppata da Kalecki, fa riferimento al ruolo che l’EIR esercita nella sfera propriamente politica: in altri termini, le sue fluttuazioni non determinano solo l’andamento dei salari, modificando il potere contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro, ma contribuiscono a determinare anche – e soprattutto – la forza contrattuale dei lavoratori nella sfera politica, ovvero la loro capacità di incidere sulla politica economica. Questa tesi verrà utilizzata in questo saggio per mostrare come la teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva può essere letta come una teoria della politica economica: il decisore politico non massimizza una funzione del benessere sociale, né agisce esclusivamente per l’acquisizione di consenso (come nella modellistica dominante), ma assume provvedimenti di politica economica – qui, in particolare, di politica del lavoro – per fini ridistributivi[2]. Ne segue che, ad esempio, un aumento del tasso di disoccupazione riduce il potere contrattuale dei lavoratori sia nel mercato del lavoro sia nella sfera politica, rendendo possibili politiche di ridistribuzione a favore del Capitale. Si osservi che, in questa prospettiva teorica, non si sta stabilendo una direzione di causalità univoca fra tasso di disoccupazione e decisioni di politica economica. Può accadere anche il contrario, ovvero che una iniziale misura ridistributiva a vantaggio del capitale indebolisca i lavoratori e renda possibili ulteriori misure di ridistribuzione a favore del capitale: detto diversamente, la relazione fra le variabili considerate è dinamica e biunivoca, secondo un approccio di causazione circolare cumulativa, stando al quale una variabile può essere, al tempo stesso, causa ed effetto di un’altra variabile. Questo presuppone – come verrà mostrato – che il “modello” non è strutturato nella tradizionale forma di una una variabile esogena che determina una variabile endogena. In altri termini, la prima è causa della seconda, così come la seconda è causa della prima. 

mercoledì 18 aprile 2018

Esiste davvero il negazionismo economico? - Guglielmo Forges Davanzati

Da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/ - guglielmo.forges davanzati é un economista italiano.


In un recente articolo sul blog lavoce.info, il prof. Guido Tabellini, ex Rettore dell’Università Bocconi, propone un’entusiastica recensione di un libro di due autori francesi – Pierre Cahuc e André Zylbrerger, un vero best seller – sul c.d. “negazionismo economico”. La tesi di fondo è che “la conoscenza economica ha ora solide basi empiriche e le sue prescrizioni sono diventate più affidabili” e ciò nonostante “questi progressi sono spesso ignorati al di fuori della disciplina, con la conseguenza che il dibattito di politica economica è di frequente viziato da pregiudizi ideologici”. 

È evidente il presupposto dal quale Cahuc, Zylberger e e il prof. Tabellini partono: l’Economia è una scienza esatta, esiste un’unica ‘verità in Economia alla quale si arriva mediante un processo di continua e progressiva eliminazione di errori, l’Economia è una scienza sperimentale il cui statuto metodologico è (o deve tendere a) quello delle scienze della natura. 

Non è una tesi nuova e le obiezioni rivolte a questo modo di concepire l’Economia sono state e sono molteplici. Già nel 1900, Maffeo Pantaleoni, economista italiano di orientamento liberista, ebbe a dichiarare “In Economia esistono due scuole di pensiero: chi la conosce e chi non la conosce”. Non è questa la sede per richiamare i tanti argomenti contrari a questa posizione: è sufficiente rilevare che in Economia, a differenza delle scienze della natura, è impossibile replicare un esperimento[1]

Qui è forse più interessante mettere in rilievo alcune conseguenza implicite di questa posizione: conseguenze per certi aspetti paradossali o contradditorie rispetto a ciò che Tabellini scrive. 

venerdì 9 dicembre 2016

ELEMENTI DI ECONOMIA DEL LAVORO - Guglielmo Forges Davanzati


L’economia del lavoro ha come proprio campo d’indagine lo studio del funzionamento del  mercato  del  lavoro,  con  particolare  riferimento  all’individuazione  delle  cause  della disoccupazione e dei meccanismi che sono alla base della determinazione dei salari, sia sul piano teorico, sia sul piano empirico. A tal fine, e per quanto riguarda la trattazione che segue, si fa propria un’opzione metodologica che rinvia alla coesistenza di paradigmi alternativi e competitivi, non riconducibili a un schema teorico unitario e unanimemente condiviso. Questa opzione si basa sulla convinzione che ogni schema teorico si basa su assiomi, ovvero su premesse non dimostrate né dimostrabili, che sono radicalmente in contrapposizione con gli assiomi propri di altri schemi teorici e che, per questa ragione, non  si  rende  possibile  giungere  a  una  sintesi.  In  quanto  segue,  verranno  descritti  i principali  orientamenti  teorici  presenti  nel  dibattito  contemporaneo:  il  modello neoclassico, il modello keynesiano, il modello postkeynesiano nella sua variante della c.d. teoria monetaria della produzione.

Si propongono, a seguire, due appendici: la prima dà conto del dibattito su diseguaglianze distributive e crescita economica; la seconda riporta un breve importante saggio di M. Kalecki, rilevante per la comprensione dello studio del funzionamento del mercato del lavoro in una prospettiva postkeynesiana e marxista. Alla trattazione di queste teorie vengono qui aggiunte due sezioni dedicate, rispettivamente, agli effetti delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sull’occupazione e al dibattito sugli effetti dell’accumulazione di capitale umano sulla crescita economica e dell’occupazione.

Alla stesura di questi appunti hanno contribuito Andrea Pacella (Università di Catania) che ha scritto parte del cap.1 e Gabriella Paulì (Università del Salento), che ha scritto parte del cap.4 e del cap. 5. Lecce, marzo 2016

LEGGI TUTTO:        https://www.dropbox.com/s/lqbu9gy1iqvepoe/ELEMENTI%20DI%20ECONOMIA%20DEL%20LAVORO%20-FORGES%20DAVANZATI.pdf?dl=0

lunedì 9 dicembre 2019

Per un’altra Università - Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova

Da: Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova https://www.riccardobellofiore.info -
Giovanna Vertova, Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi. -
Riccardo Bellofiore, Università di Bergamo, Professore ordinario di Economia politica. -
Leggi anche: Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università - Alessandra Ciattini 

Negli ultimi anni una serie di riforme ha portato l’università italiana a una profonda crisi.

La sfida odierna è quella di restituirle il suo ruolo di luogo di formazione culturale ed educazione al pensiero critico.


Di critiche dell’Università se ne sprecano. Ne abbiamo scritta una pure noi, dal titolo ambiguo quant’altrimai: Ai confini della docenza, sottotitolo Per una critica dell’Università. Il volume lo abbiamo voluto scaricabile gratuitamente dal sito della Accademia University Press. (https://www.aaccademia.it/scheda-libro?aaref=1223

Ambiguo perché il titolo potrebbe essere scambiato per una lamentela giocata sull’assonanza docenza/decenza; e il sottotitolo potrebbe parimenti apparire al lettore distratto un’aggiunta alla sempre più lunga lista di cahiers de doléances contro l’istruzione superiore. Le cose non stanno proprio così. Il titolo rimanda a una serie televisiva famosa, in originale The Twilight Zone, che uno dei curatori non propriaente giovane vide nella sua prima stagione, introdotta così:

C’è una quinta dimensione oltre quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi ai confini della realtà.


Il sottotitolo gioca sul significato che Marx dà al termine ‘critica’: non limitarsi a rilevare errori, ma individuarne le condizioni di possibilità, e dunque la necessità e i modi di un cambiamento. 



L’alleggerimento dei programmi e la compressione degli apprendimenti 

L’università è in stato di grave crisi, pure la coscienza di quanto sia grave questa crisi manca. Manca in primo luogo al suo interno, dove invece abbondano le strategie difensive, del tipo ‘ha da passare la nottata’. La serie di riforme dai primi anni duemila in poi si è succeduta ininterrotta, in una logica autodistruttiva anche dal punto di vista di chi quelle riforme ha pensato. Ogni risultato è stato cancellato dalla furia dissolvente di una riforma successiva. La logica iniziale è stata quella di sostituire alla conoscenza le competenze, e di accelerare un apprendimento reso sempre più scheletrico. I problemi cui intendeva rispondere la riforma Berlinguer erano ben reali. Gli studenti italiani si laureavano tardi, e trovavano impiego in occupazioni non corrispondenti agli studi. Il primo triennio avrebbe dovuto fornire tanto le conoscenze di base quanto una prima professionalizzazione, affinché si potesse entrare prima nel mercato del lavoro.

sabato 21 maggio 2022

Sanzionati e sanzionatori - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it - Alessandra Ciattini (collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni”) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza. 

Leggi anche: Le sanzioni logorano soprattutto chi le impone - Guglielmo Forges Davanzati 

Sachs: «Il grande errore degli Stati Uniti è credere che la Nato sconfiggerà la Russia» - Federico Fubini 

La conflittualità valutaria e l’enigma del gas valutato in rubli - Francesco Schettino 

La battaglia del gas. Con la mossa russa in gioco la nostra sopravvivenza - Alberto Negri 

COME DISTRUGGERE UN PAESE: IL NOSTRO - Vincenzo Costa 

Vedi anche: Geopolitica. Gli USA perderanno anche la leadership energetica - Demostenes Floros


L’UE e gli Stati Uniti, re delle sanzioni, hanno preso misure controproducenti per loro e non solo?



L’impiego delle sanzioni per colpire i propri nemici è una pratica antica, che può avere esiti imprevisti. Ricordo per esempio il Blocco continentale, cui aderirono la Russia e l’Austria, deciso nel 1806 a Berlino da Napoleone Bonaparte, con il quale proibiva l’approdo ai porti dei paesi occupati dai francesi alle navi britanniche in analogia al trattamento che ricevevano le imbarcazioni francesi quando si avvicinavano alle coste d'oltreManica. Dopo che la sua flotta congiunta a quella spagnola era stata sconfitta nella celebre battaglia di Trafalgar, nei pressi di Cadice, nel 1805 l’imperatore dei francesi ritenne che quello fosse l’unico mezzo per piegare i suoi più pericolosi nemici; mezzo che d’altra parte, anche se non sempre rispettato, avvantaggiò la Francia, consentendole di esportare i suoi prodotti in tutta Europa.

Anche l’Italia fu sanzionata dalla Società delle Nazioni in occasione della sua espansione coloniale in Etiopia nel 1935 e le fu proibito di importare armi, materiale militare etc., ma poté continuare a ricevere rifornimenti energetici.

Oggi, dal punto di vista del Diritto internazionale, le sanzioni debbono avere come unico obiettivo quello di far cessare “una condotta illecita” e non possono avere una funzione afflittiva e punitiva. Esse non possono comportare l’uso della forza, che può essere deciso solo dal Consiglio di sicurezza delle NU, evento assai improbabile dato il diritto di veto delle grandi potenze. Ne consegue che gli Stati possono applicare “contromisure a fini di autotutela”, ma queste debbono essere rispettose dei diritti umani e non contraddire altre norme sancite dal Diritto internazionale. È cosa dubbia se il diritto di autotutela sia riservato anche agli Stati diversi dallo Stato leso, per colpire chi avrebbe violato gli obblighi procedenti dal Diritto internazionale e che stabiliscono sostegni di tipo solidaristico. E ciò mette in questione la decisione del cosiddetto Occidente di sostenere l’Ucraina.

sabato 5 giugno 2021

Vedendo il linguaggio e chi lo usa - Tullio De Mauro

Da: Nuovoeutile - Annamaria Testa -Tullio De Mauro è stato un linguista, lessicografo, accademico e saggista italiano, ministro della pubblica istruzione dal 2000 al 2001. 


                                                                              

giovedì 24 marzo 2022

COME DISTRUGGERE UN PAESE: IL NOSTRO - Vincenzo Costa

Da: https://www.facebook.com/vincenzo.costa.79025 - Vincenzo Costa è professore ordinario alla Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele, dove insegna Fenomenologia (triennale) e Fenomenologia dell'esperienza (biennio magistrale).

Leggi anche: Filosofia e scienza - Vincenzo Costa 

Fare la pace o fare la guerra? - Roberto Fineschi 

Le sanzioni logorano soprattutto chi le impone - Guglielmo Forges Davanzati

L’America sconfigge la Germania per la terza volta in un secolo - Michael Hudson 

Guerra in Ucraina, intervista a Emiliano Brancaccio - Daniele Nalbone

Vedi anche: Verità e punti di vista - Carlo Sini 


Le guerre servono a ridisegnare equilibri di potere. Non solo militare e non principalmente militare. L’aspetto militare è sempre subordinato a quello politico-economico. E di fatto la guerra in Ucraina sta ridisegnando gli equilibri, e ogni giorno ognuno dei duellanti (che sono tutti gli attori della politica internazionali, gli Stati Uniti, la russia, la Cina, la UE, l’India) giocano questa partita. L’aspetto spettacolare e di propaganda, i morti (che sono reali e tragici) fanno parte di questo gioco per ridisegnare, per negoziare gli equilibri economico-politici, oltre che ovviamente militari. 

In questo quadro ci sono i vasi di coccio, che sono paesi come il nostro, nei suoi rapporti con il resto del mondo. Che cosa sta cambiando nel mondo e per noi? La risposta è semplice: stiamo distruggendo il futuro del paese. 

1) Questa guerra ci lascerà più poveri, molto più poveri. L’inflazione è già altissima, e nei prossimi mesi crescerà, mentre i salari resteranno al palo. STANNO DISTRUGGENDO IL POTERE D’ACQUISTO DELLE CLASSI LAVORATRICI DEL PAESE, dei pensionati, dei giovani che già arrancano dietro a lavori precari. Stanno bombardando la nostra vita, e di questo le persone se ne accorgeranno a fine anno, man a mano che il processo si paleserà: sarà l’apparire della realtà. 

2) STANNO DISTRUGGENDO I NOSTRI RISPARMI. 
Con un’inflazione simile i nostri risparmi si stanno disintegrando, tra poco i pochi soldi che molti di noi sono riusciti a mettere da parte per il “non si sa mai” varranno poco, sempre meno. 
Si era gridato al pericolo quando i populisti stavano mettendo a rischio il risparmio degli italiani, ma adesso è il governo che, deliberatamente, seguendo i dettami della casa bianca, per dimostrare fedeltà, sta distruggendo i nostri risparmi. 

3) STANNO DISTRUGGENDO IL SISTEMA PRODUTTIVO DEL PAESE.
In primo luogo perché con costi dell’energia così alti non saremo competitivi, e quindi nel commercio internazionale altri prenderanno le nostre fette di mercato (e non saranno ovviamente i russi, ma americani, inglesi, francesi). Fette di mercato perse significa PERDITA DI POSTI DI LAVORO. 
In secondo luogo, ABBIAMO PERSO UN MERCATO, forse non decisivo, ma comunque importante e cospicuo, COME QUELLO RUSSO, in cui esportavamo di tutto, dai macchinari al vino alla moda. Quello che il ministero degli esteri Russo ha chiarito non è un minaccia da gangster: ha semplicemente detto che quel mercato non sarà recuperato in futuro, perché le espressioni di ostilità sono eccessive, l’odio che il nostro governo sta esprimendo è fuori misura. Questo danneggerà inevitabilmente il tessuto produttivo del paese. 

4) Esporteremo forse qualcosa di più negli USA, ma dipenderemo sempre più da essi, non solo militarmente. E di fatto, se l’intera Europa ha accettato, spesso cambiando posizione nel giro di poche ore (come Francia e Germania), è perché gli USA hanno minacciato sanzioni contro di noi se non li avessimo seguiti nell’applicazione delle sanzioni contro la Russia. 

Sanzioni che, tuttavia, danneggiano l’economia europea ma sono una boccata d’ossigeno per quella statunitense. Ma essendo noi a sovranità limitata, non solo militare ma anche economica, abbiamo come europei dovuto accettare il diktat. 

5) Se questo continua, se si blocca la “locomotiva tedesca”, o se rallenta, questo sarà un altro colpo durissimo per la nostra ripresa e per il nostro sistema produttivo, può provocare una spirale terribile che, un misto di inflazione e recessione: la tempesta perfetta. 

6) La UE ha cambiato natura: è diventata un’agenzia militare. Non solo la parte di PIL dei paesi membri è lievitata a dismisura, ma la UE ha oramai un bilancio militarizzato, peraltro inficiato da conflitti di interesse enormi (Si veda il rapporto ENAAT), dato che la grandi industrie degli armamenti è implicata. Industria che ovviamente non conosce crisi e che anzi sta già facendo lauti profitti, sulla pelle degli ucraini e nostra. 

7) Dombrovskis ci ha massacrati per uno 0,4% che servivano per il reddito di cittadinanza e per le pensioni. Sarebbe stato l’Armageddon. Invece aumentare a dismisura le spese militari è perfettamente compatibile. In fondo, per questi signori siamo solo carne da macello, le vite umane servono solo in quanto sono funzionali all’accumulazione del capitale, al profitto. 
Ovviamente, questo è debito buono, non è debito cattivo. Ora sappiamo che cosa è il debito buono. 

Qui non si tratta di fare i complottisti. Qui non indichiamo cause segrete. La differenza tra complottismo e analisi intellettuale è che l’analisi segue i fenomeni, cerca di mettere in luce che cosa un’azione produce, e questa guerra sta producendo questo, insieme ad altre trasformazioni più profonde, ma l’abbiamo già fatta troppo lunga. 

Queste sanzioni sono sanzioni contro di noi, sono sanzioni che pagheremo noi, e noi si intende la gente che lavora (lavoratori e imprenditori), mentre altri ne trarranno motivo di arricchimento. 

Da questa guerra uscirà una società più ingiusta, più crudele, più carica di odio. 

mercoledì 18 gennaio 2017

La scomparsa del marxismo nella didattica e nella ricerca scientifica in economia politica in Italia*- Guglielmo Forges Davanzati**

**(Università del Salento) 


La lotta di classe “dall’alto” si è tradotta in una rilevante compressione della quota dei salari sul Pil , un formidabile attacco ai diritti dei lavoratori, e, per quanto qui rileva, una riorganizzazione dei sistemi formativi pienamente funzionale alle nuove forme di regolazione capitalistica. E ha dato luogo anche a una ridefinizione della divisione internazionale del lavoro, che ovviamente ha riguardato anche l’Italia.

In questo saggio si è proposta una chiave di lettura delle cause del processo di demolizione in atto dell’università pubblica di massa in Italia, a partire da considerazioni di carattere più generale relative ai processi di ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi. In particolare, si è rilevato che il tessuto produttivo dell’economia italiana è sempre più composto da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e collocate in settori produttivi maturi. Si è argomentato che le politiche di sottofinanziamento del sistema universitario di fatto assecondano questo modello di sviluppo, nel quale le nostre imprese non domandano forza-lavoro altamente qualificata né ricerca di base e applicata. Queste scelte appaiono pienamente legittimate dalla visione dominante nella teoria economica oggi che rafforza la sua egemonia e rende sostanzialmente impossibile la produzione di pensiero critico. In questo scenario, non sorprende la drammatica marginalizzazione del marxismo, e più in generale del “pensiero critico”, nella didattica e nella ricerca in Università.



mercoledì 23 febbraio 2022

L’ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO NEL PROCESSO DI RISTRUTTURAZIONE DEL CAPITALISMO ITALIANO - Franceco Spedicato

Da: http://www.dialetticaefilosofia.it - Questo saggio è una rielaborazione della Tesi di laurea magistrale in Labour economics (Università del Salento), svolta sotto la supervisione del prof. Guglielmo Forges Davanzati.

1. INTRODUZIONE 

Il presente lavoro ha lo scopo di indagare le modalità con cui all’interno del processo di ristrutturazione del capitalismo, il sistema produttivo abbia avuto la necessità di intervenire sul modello di istruzione e formazione, al fine di creare un nuovo tipo di forza-lavoro per garantirsi adeguati margini di profittabilità. 

Focalizzeremo la nostra attenzione principalmente su due aspetti che interessano il lavoro gratuito, con specifico riferimento al funzionamento dell’alternanza scuola-lavoro. 

Primo: il lavoro gratuito appare essere uno strumento rilevante per agevolare la riproduzione allargata del capitale in una fase di tendenziale contrazione del tasso di crescita economica globale e di desertificazione industriale del contesto italiano. 

Secondo: la modalità attraverso cui la nuova gestione della forza-lavoro approfondisce la già precaria condizione materiale dei lavoratori, compromettendo i livelli qualitativi della manodopera. 

Il punto di partenza di questa analisi risiede nell’ipotesi stando alla quale il contesto economico-sociale è composto da attori diversi portatori di interessi differenti e contrapposti, in un contesto di antagonismo distributivo e di strutturale instabilità del sistema. Adottiamo elementi della teoria post-keynesiana tra i quali il principio della moneta endogena (come formulata nella teoria monetaria della produzione) per fornire elementi esplicativi del legame che intercorre tra circuito bancario, piccole imprese e progressivo depotenziamento del sistema produttivo, e della teoria marxista. A quest’ultima attiene il rapporto fra struttura economica ed elementi sovrastrutturali di una data società, la divisione della società in classi sociali e il concetto classico dell’esercito industriale di riserva in riferimento alla precarizzazione del lavoro. 

L’esposizione è organizzata come segue. Nella sezione 2, dopo aver delineato il quadro generale, procederemo all’illustrazione del processo di ristrutturazione capitalista in Italia, per poi affrontare le specificità strutturali del sistema produttivo, la precarizzazione, la dequalificazione della manodopera e il lavoro gratuito. Nella sezione 3 illustreremo il dispositivo dell’alternanza scuola-lavoro, lo spirito che la sottende con riferimento al quadro legislativo che ha disciplinato il mutamento del modello di istruzione e formazione. Proseguiremo col trattare il legame tra l’alternanza e l’accelerazione del processo di precarizzazione del lavoro per poi terminare con una comparazione storica al fine di evidenziare lo stretto legame tra le esigenze di mercato e il sistema formativo. La sezione 4 propone alcune considerazioni conclusive. [...] 

[...] 4. CONCLUSIONE 

La presente trattazione ha rappresentato un tentativo di delineare il processo in itinere qual è la ristrutturazione del capitalismo in Italia e le ripercussioni sul piano della gestione della manodopera e sul sistema formativo. A proposito degli effetti dei recenti mutamenti del modello d’istruzione e formazione sull’occupazione e sul sistema produttivo medesimo, con l’ausilio di elementi di teoria post-keynesiana e marxista, abbiamo fornito un’analisi della fase attuale divergente da quella riconducibile alla teoria dominante nell’ambito europeo. 

Partendo dall’analisi del contesto globale sempre più finanziarizzato e connotato dalla tendenziale contrazione della crescita aggregata, ci siamo soffermati sul processo d’indebolimento del comparto industriale in Italia avallato da retoriche post-industrialiste e rafforzato da indirizzi neoliberali fortemente limitativi dell’intervento politico statale in economia. Il processo di deindustrializzazione che ne è scaturito, ha comportato la rinuncia delle conquiste sociali dal piano della produzione, della capacità di innovazione sino all’organizzazione del lavoro interessando la qualità dello stesso. In riferimento a quest’ultimo, abbiamo affrontato la pressante questione della diffusione endemica della sottoccupazione e del lavoro gratuito sia nel pubblico che nel privato a causa dalla tendenza all’automazione della produzione con l’espulsione di quote crescenti della relativa forza-lavoro eccedente

Dunque, trattando il legame fra l’alternanza scuola-lavoro e la precarizzazione dell’occupazione, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sull’iter legislativo in materia di istruzione e formazione mettendo il luce la logica sottesa a tali processi: ridurre il mismatch tra domanda e offerta di lavoro formando una nuova tipologia di forza-lavoro capace di adattarsi alle esigenze del mercato. Proseguendo, ci siamo soffermati sul dispositivo dell’alternanza e le modalità di funzionamento del medesimo che, legato al quadro legislativo che disciplina il lavoro, è ragionevole ritenere che possa agevolare politiche di riorganizzazione aziendale approfondendo la precarizzazione del lavoro. In conclusione, una riflessione sulla stretta connessione tra il modello d’istruzione e formazione rispetto le esigenze del sistema capitalistico.

Leggi tutto: http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/91scuola_lavoro.pdf

lunedì 26 dicembre 2016

Per una rinascita del materialismo storico negli studi di filosofia, storia e scienze umane*- Stefano G. Azzarà**


Da diversi decenni, gli studi di orientamento storico-materialistico in ambito filosofico – ma considerazioni non molto diverse potrebbero essere fatte per l’ambito storico e più in generale per le scienze umane nel loro complesso – versano nelle università italiane in una situazione di grave difficoltà. Non ricostruisco qui nei dettagli il rilevante significato culturale che per una lunga stagione questa corrente ha avuto nel nostro paese. La linea di pensiero che da Labriola conduce a Gramsci e al gramscismo ha ripensato dalle fondamenta le categorie del marxismo, riconducendole al loro rapporto genetico con la dialettica hegeliana e dunque sia con l’esperienza della filosofia classica tedesca in senso stretto, sia con tutto il dibattito politico-culturale che dalla Rivoluzione francese ha attraversato il XIX secolo. Questa impostazione, che più volte si è misurata con le autonome prese di posizione di Croce e Gentile e che dunque ha saputo dialogare con i punti più alti della tradizione filosofica italiana, ha saputo proporre poi su queste basi una riflessione originale. Una riflessione che dopo la sconfitta del fascismo e la fine della Seconda guerra mondiale, e da quel momento almeno fino agli anni Settanta del Novecento, non solo ha contribuito a modernizzare il dibattito culturale di un paese che risultava ancora per larghi tratti arretrato rispetto alle esperienze europee più avanzate ma ha anche posto le basi intellettuali per una sua rinascita civile e politica.

Ritengo sbagliata, largamente immaginaria e persino strumentale la tesi assai diffusa che parla di un interminabile inverno del pensiero all’insegna dell’egemonia culturale marxista in Italia, sia quando questa tesi assume il tono nostalgico del rimpianto di una nobiltà perduta, sia – come per lo più in verità accade – quando si presenta come il sospiro di sollievo caricaturale di chi ritiene di essersi liberato una volta per tutte da una dittatura ideologica soffocante e persino totalitaria. Tuttavia, è vero che, proprio prendendo sul serio la riflessione gramsciana sulla posizione decisiva della produzione culturale nel funzionamento della società, sul ruolo degli intellettuali e sull’importanza della dimensione del consenso nella politica, il marxismo italiano aveva saputo esercitare su molteplici piani un’influenza assai profonda, in grado di confrontarsi ad armi pari con altre e diverse tradizioni – dal liberalismo all’azionismo, dall’esistenzialismo al personalismo cattolico – che rendevano un tempo quanto mai ricco e pluralistico il panorama filosofico nazionale. E da qui aveva saputo proiettarsi all’avanguardia del dibattito internazionale, facendo conoscere e apprezzare in tutti i paesi l’afflato umanistico, storicistico e universalistico – e dunque profondamente democratico – della sua ispirazione.

Oggi la situazione appare molto diversa per questa impostazione e un patrimonio culturale di grande rilievo è andato in frantumi e sembra essersi del tutto disperso. Lasciato libero il campo dalle vecchie generazioni di studiosi, il materialismo storico non ha pressoché più cittadinanza nel mondo accademico in quanto tradizione di studi con una sua legittimità e autonomia. E se ancora persiste un certo rispetto “archeologico” nei suoi confronti quando si guarda alle acquisizioni del passato, la sua stessa dignità scientifica non viene più riconosciuta e viene semmai contestata quando si tratta invece di affrontare le grandi questioni del presente.

domenica 26 giugno 2022

Le prime (amare) indicazioni dalla guerra in Ucraina - Gianandrea Gaiani

 Da: https://www.analisidifesa.it - Gianandrea Gaiani Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa.


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 Il ritorno della guerra, quella “vera”, convenzionale, brutale e ad alta intensità sta determinando reazioni e riflessioni in Europa oltre a decisioni politiche e finanziarie di rilievo come l’adesione ormai diffusa presso molte nazioni (Italia inclusa) all’obiettivo di portare le spese militari al 2 per cento del PIL, addirittura al 3 per cento nel caso della Polonia che ha varato un massiccio riarmo, o come il fondo speciale per Difesa tedesco da 100 miliardi di euro.

“L’Europa si sente vulnerabile non solo per il fatto che i missili russi potrebbero colpirla ma anche perché, facendo un inventario delle capacità disponibili in termini di dotazioni i singoli Paesi si sono resi conto di non essere in grado di affrontare questo scenario”,  ha affermato Emanuele Serafini, direttore per l’Europa Occidentale e Nato di Lockheed Martin nel corso del convegno “Industria della Difesa, scenari e prospettive nella crisi post Ucraina”, organizzato al palazzo dell’Esercito, a Roma l’8 giugno.

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Una definizione che ben fotografa la drammatica realtà emersa dalle prime indicazioni fornite dal conflitto in Ucraina.

Difficile prevedere quando e con quali esiti potrà avere termine la guerra che prese il via nel 2014 nella regione orientale del Donbass ma ha subito una rapida escalation dal 24 febbraio scorso con l’intervento militare russo e il coinvolgimento indiretto degli stati membri della NATO quali fornitori di massicci aiuti militari e programmi di addestramento alle truppe di Kiev.

Dopo quasi 4 mesi di combattimenti ad alta intensità è forse presto per parlare di “lezioni” ma è certo possibile tracciare alcune indicazioni che questo conflitto fornisce all’Occidente e alle nazioni europee, determinate non solo dagli sviluppi bellici sul campo di battaglia ma anche dalla natura di questa guerra.