Da: https://www.vanityfair.it - Alessia Arcolaci Giornalista, autrice, podcaster. - Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell'Ufficio per il Medio Oriente e dell'Ufficio balcanico per il giornale. -
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Palestina, il premio Pulitzer Chris Hedges: «Il genocidio non finirà senza intervento esterno. Dobbiamo dare voce alla verità che l'élite vuole silenziare».«Due cose mi hanno colpito quando mi sono recato in Cisgiordania dopo vent’anni. La prima è che nulla è cambiato nel sistema di occupazione: i checkpoint, i mezzi militari israeliani, strade riservate ai coloni e all’esercito, e la consapevolezza costante che, in qualsiasi momento, può scatenarsi violenza letale. Circa mille palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dall’inizio del genocidio a Gaza. La seconda: l’espansione dell’occupazione è drammaticamente aumentata, con circa 700mila coloni oggi nelle colonie, e sempre più terre palestinesi confiscate. Dopo il 7 ottobre, si sono formate milizie di coloni armati con fucili d’assalto israeliani, che attaccano regolarmente villaggi palestinesi. Il livello di paura, pur non paragonabile a Gaza, è comunque intenso».
«C’è un solo modo di fare il reportage: ascoltare e registrare le voci di chi subisce apartheid e genocidio. Tutti gli altri racconti, commentatori, autorità, sono filtrati da agende politiche. Il nostro compito è mettere sotto accusa il potere, a prescindere da chi lo esercita. Ciò si ottiene solo stando con gli oppressi: le loro esperienze smascherano il potere e danno voce ai silenziati. Questa è la mia linea come giornalista, sia in Centro America, sia in Medio Oriente o nella ex‑Jugoslavia. Non sono mai stato stenografo dei potenti, cosa che invece molti ex colleghi del New York Times hanno scelto di fare».
Cosa manca nella narrazione dei media di oggi rispetto a quanto accade in Palestina?
«I media pubblicano articoli e opinioni che accettano acriticamente le narrative sioniste, senza distinguere tra ebrei e sionisti. Demonizzano proteste studentesche e critiche al genocidio. Non hanno raccontato con onestà le alleanze interreligiose nelle proteste. Slogan anti-sionisti o pro- Palestina vengono spesso bollati come antisemitici o discorsi d’odio. Il New York Times, secondo un memo interno ottenuto da The Intercept, ha vietato ai giornalisti parole come “campi profughi”, “territori occupati”, “genocidio” o “massacro” nei pezzi su Palestina, scoraggiando persino l'uso del termine “Palestina” nei titoli. Questa distorsione ha distrutto quella poca autorità morale che i media ancora avevano e legittima menzogne usate da figure come Trump per delegittimare le istituzioni democratiche».
Qual è il significato morale, politico e anche giuridico di definire ciò che sta accadendo a Gaza «genocidio».
«Secondo Francesca Albanese e gli studiosi di diritto internazionale, i bombardamenti israeliani su Gaza hanno reso il 90 per cento dei palestinesi senzatetto, distruggendo infrastrutture vitali, con massacri ripetuti e una strategia di assedio che mira alla carestia e allo spostamento forzato. Questo corrisponde alla definizione classica di genocidio: un processo composto da atti criminali volti con intenti distruttivi verso un gruppo. L'uso del termine “Amalek” da parte dei leader israeliani, incluso Benjamin Netanyahu, per descrivere i palestinesi, richiama esplicitamente un ordine biblico di sterminio totale, una manifestazione di intento genocida. Nella Bibbia, Dio comanda al re Saul, nel primo libro di Samuele, di uccidere ogni persona appartenente ad Amalek, una nazione rivale dell'antico Israele. “Così parla il Signore Onnipotente”, dice Samuele a Saul. “Io punirò gli Amaleciti per quello che hanno fatto a Israele quando gli si opposero lungo il cammino dall'Egitto. Ora va', attacca gli Amaleciti e distruggi completamente tutto ciò che appartiene loro. Non risparmiare nessuno: uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, bovini e pecore, cammelli e asini”. Israele, insieme ai governi che lo sostengono, conduce una dura battaglia per screditare l'uso della parola genocidio. Una volta riconosciuto, un genocidio impone il rispetto delle leggi, sia nazionali che internazionali, per impedirne la prosecuzione. Questo comporterebbe la cessazione immediata delle forniture di armi e degli aiuti a Israele».
Perché ha deciso di includere il rapporto di Francesca Albanese per le Nazioni Unite (nuovo rapporto presentato all’Onu) nel libro?
«Quando verrà scritta la storia del genocidio a Gaza, uno dei nomi più coraggiosi e determinati nella difesa della giustizia e del rispetto del diritto internazionale sarà quello di Francesca Albanese. Prende sul serio il suo mandato come relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, incarico che prevede il monitoraggio e la denuncia delle “violazioni dei diritti umani” commesse da Israele contro i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. I suoi rapporti sono esaustivi, meticolosamente documentati e frutto di una ricerca instancabile. La ammiro, e ammiro la sua professionalità. Albanese si impegna a chiedere conto delle proprie responsabilità a coloro che sostengono e alimentano il genocidio, denunciando quella che definisce “la corruzione morale e politica del mondo” per quanto riguarda i crimini commessi contro i palestinesi. Ha avvisato organizzazioni private che potrebbero essere “penalmente responsabili” per aver aiutato Israele nell'attuazione del “genocidio” a Gaza. Ha annunciato che, se fosse confermato quanto riportato da alcune fonti, ovvero che l'ex ministro degli Esteri britannico David Cameron avrebbe minacciato di ritirare i finanziamenti e il sostegno alla Corte Penale Internazionale (CPI) nel caso in cui venissero emessi mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant, sia Cameron che l'ex primo ministro britannico Rishi Sunak potrebbero essere accusati di un reato penale secondo lo Statuto di Roma. Lo Statuto, infatti, criminalizza anche coloro che cercano di impedire la persecuzione dei crimini di guerra. Ha inoltre invitato i vertici dell’Unione Europea a essere chiamati a rispondere per complicità o crimini di guerra, sottolineando che le loro azioni non possono rimanere impunite. È stata una delle principali sostenitrici della flottiglia Madleen, che tentava di rompere il blocco imposto a Gaza e di consegnare aiuti umanitari, scrivendo che l’imbarcazione, intercettata da Israele, trasportava non solo forniture, ma anche un messaggio di umanità. Per via della sua intelligenza, integrità e coraggio, Francesca Albanese riceve minacce di morte ed è bersaglio di campagne diffamatorie orchestrate con precisione da Israele e dai suoi alleati. Eppure non si arrende».
Quante forme può avere la resistenza?
«La resistenza è un atto. Deve essere vista. Deve essere udita. Deve interrompere il funzionamento dell'apparato del potere. Quando resistiamo al male radicale, accettiamo una vita che, secondo gli standard della società più ampia, è un fallimento. Significa sfidare l’ingiustizia a costo della propria carriera, della propria reputazione, della propria stabilità economica e, a volte, della propria vita. Significa essere un eretico per tutta la vita. E, forse, questo è il punto più importante: significa accettare che la cultura dominante, persino le élite liberali, ti spingeranno ai margini e cercheranno di screditare non solo ciò che fai, ma la tua stessa persona».
Lei lo ha vissuto in prima persona.
«Quando sono tornato nella redazione del New York Times dopo essere stato fischiato durante una cerimonia di laurea nel 2003 per aver denunciato l'invasione dell’Iraq, e dopo essere stato pubblicamente rimproverato dal giornale per la mia posizione contro la guerra, giornalisti e redattori che conoscevo e con cui avevo lavorato per quindici anni abbassavano lo sguardo o si allontanavano quando mi avvicinavo. Non volevano essere contaminati dallo stesso contagio che stronca la carriera. Le istituzioni dominanti: lo Stato, la stampa, la chiesa, i tribunali, il mondo accademico, pronunciano il linguaggio della moralità, ma servono le strutture del potere, per quanto vili, perché da esse ricevono denaro, status e autorità. Nei momenti di crisi nazionale, basta guardare alla Germania nazista o all'Italia fascista, tutte queste istituzioni, inclusi il mondo accademico e la chiesa, sono complici attraverso il loro silenzio o la loro collaborazione attiva con il male radicale. E le nostre istituzioni, che si sono arrese al potere delle multinazionali, alla lobby israeliana e all’ideologia utopica del neoliberismo, non sono diverse. Coloro che hanno reso possibile il cambiamento sono quelli che hanno scartato ogni nozione di “praticità”. Non cercano di operare all’interno del sistema. Non sanno nemmeno se, o cosa, potranno ottenere le loro minuscole proteste, ignorate o demonizzate dai media. Ma, nonostante tutto, restano saldi ai loro imperativi morali. Lo fanno perché quei valori sono giusti e sono veri. Non si aspettano ricompense per la loro virtù, e in effetti non ne ricevono. Ma attraggono il bene verso il bene. Il loro messaggio di sfida non passa inosservato. Non passa inascoltato. Il battito costante della resistenza smaschera la mano morta dell’autorità e la putrefazione dello Stato. Tutto ciò per cui ho lottato nella mia vita è oggi in condizioni peggiori. Ma questo non invalida la lotta. È la lotta, non il risultato, a definire una vita morale. Alla fine, non combatto i fascisti perché so che vincerò. Li combatto perché sono fascisti».
Perché ha scelto di pubblicare oggi questo libro?
«L’ascesa degli Stati autoritari, dotati di strumenti per la censura, la sorveglianza e il controllo che superano di gran lunga qualsiasi cosa mai immaginata dai più zelanti fascisti o stalinisti, preannuncia un futuro cupo. Eppure, la nostra dignità e la determinazione a vivere nella verità, a schierarci senza esitazione con i crocifissi della terra, esigono una risposta. Siamo chiamati a testimoniare, anche se una popolazione autoillusa non vuole ascoltare, anche se quella verità comporta inevitabilmente la nostra emarginazione. “A cosa servono le mie parole,” si chiedeva Joseph Roth, messo al bando dal regime nazista, “contro i fucili, gli altoparlanti, gli assassini, i ministri fuori di senno, gli stupidi intervistatori e giornalisti che interpretano la voce di questo mondo di Babele, già confuso di suo, attraverso i tamburi di Norimberga?” Ma aggiungeva: “Bisogna scrivere, anche quando ci si rende conto che la parola stampata non può più migliorare nulla.” La speranza, la speranza vera, nomina la realtà amara che ci sta davanti. Ma rifiuta di cedere, nonostante l’oscurità, alla disperazione. Grida verso un universo indifferente con ogni atto compiuto per nominare, indebolire e distruggere il potere maligno. Deride la sconfitta certa. Assicura alle vittime, in questo caso i palestinesi, che non sono stati dimenticati. Che possiamo riuscirci o meno è irrilevante. So bene che il genocidio non finirà senza un intervento esterno. E so bene che nessun paese, eccezion fatta per lo Yemen, è disposto a intervenire. Ma ciò che conta non è quello che facciamo nella vita. È quello che facciamo con ciò che la vita ci offre. La vittoria consiste nel conservare la nostra autonomia morale. La vittoria è pretendere, a qualunque costo, giustizia per i palestinesi. La vittoria è dire le verità che le élite dominanti vogliono mettere a tacere. Una vita così vale la pena di essere vissuta. È una vita piena di significato. Se non altro, mantiene viva la nostra integrità e preserva ciò che è sacro».
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