giovedì 31 gennaio 2013

CENNI STORICI DEL MOVIMENTO COMUNISTA - Stefano Garroni -



1/5
Un’ osservazione da cui vale la pena di partire è questa: recentemente uno storico inglese marxista (Hobsbawm), ha pubblicato un libro dal titolo “IL SECOLO BREVE”. Il secolo breve sarebbe quello arco di tempo che va dalla prima guerra mondiale e quindi dalla rivoluzione d’ottobre arriva fino alla dissoluzione del campo socialista. Perché secolo breve? Perché, secondo Hobsbawm è un secolo che è durato meno di quanto il termine dica, e che è caratterizzato da una fondamentale ambiguità. Se per un verso è stato vissuto, inteso, interpretato dai contemporanei come il momento del grande scontro e contrasto tra i due sistemi sociali contrapposti (quello capitalistico e quello socialistico), nella realtà invece il periodo indicato è stato caratterizzato da una grande gigantesca opera di modernizzazione e industrializzazione a livello mondiale condotta in tempi rapidissimi, certamente all’interno di regimi sociali diversi, da una parte regimi capitalistici e dall’altra i regimi nati dalla rivoluzione d’ottobre, i quali ultimi però non avevano le caratteristiche fondamentali di regimi socialisti. Erano piuttosto regimi non capitalistici basati sulla proprietà statale degli strumenti di produzione e sulla direzione politica fortemente centralizzata e burocratizzata, che tendevano a ottenere appunto una rapida modernizzazione e industrializzazione dei loro paesi rispettivi. Internazionalmente questo contrasto è stato inteso (ecco il problema di fondo), come il grande contrasto tra i due regimi capitalistico e socialistico che si confrontavano a livello internazionale. In realtà si trattava di una rappresentazione propriamente ideologica, autorizzata certo dai regimi dei paesi dell’est europeo poniamo, dalla rivoluzione d’ottobre, ma che non teneva conto di una realtà fondamentale e cioè che l’ipotesi di fondo su cui la rivoluzione d’ottobre era iniziata (ovvero che fosse possibile operare la rottura dell’anello più debole della catena imperialistica, ma che questo avrebbe comportato un’ulteriore rottura in anelli forti, in particolare la Germania, della catena imperialistica), questa ipotesi fondamentale in realtà non si realizzò e, per dirla seccamente, invece della rivoluzione proletaria in Germania come è noto, vinsero i nazisti. Già per Lenin era chiarissimo che se la rivoluzione fosse stata costretta a limitarsi alla Russia, allora la Russia sarebbe stata invasa dall’arretratezza e dalla barbarie asiatica, mentre invece se la rivoluzione si fosse potuta estendere fino a zone di capitalismo avanzato (ripeto in particolare la Germania), lo scettro del comando della rivoluzione mondiale doveva passare appunto alla Germania operaia e la Russia avrebbe offerto il proprio sostegno di uomini e di materie prime, però a questo, diciamo questo paese guida perché più sviluppato, più evoluto dalle più grandi tradizioni politiche, democratiche e dotato di una classe operaia esperta, numerosa e combattiva. Il fallimento di questa ipotesi ha cambiato il quadro internazionale e ha costretto l’unione sovietica appunto nei limiti della sua arretratezza. Ciò ha comportato una serie di conseguenze, politiche e sociali, tra cui (vale la pena di ricordarlo) la necessità per l’unione sovietica di accelerare i tempi, non solo della propria industrializzazione ma specificatamente dell’industrializzazione dal punto di vista dello sviluppo delle industrie pesanti, degli armamenti e delle industrie che producono strumenti di produzione, questo in tempi assai rapidi, sulla base di uno sforzo lavorativo molto intenso e quindi sulla base di una disciplina ferrea all’interno del paese. Ovviamente tutto questo non ha favorito lo sviluppo della democrazia sovietica o operaia e ha contribuito invece a creare le condizioni perché i vecchi strati privilegiati della burocrazia zarista potessero tornare in sostanza al potere coperti dall’adesione apparente al nuovo partito comunista e quindi in sostanza ha contribuito a che si determinasse un’evoluzione burocratica in unione sovietica e la sostituzione progressivamente al potere del proletariato al potere di una burocrazia che governava in nome del proletariato. Dal punto di vista dell’interpretazione del marxismo, della chiarificazione del significato del marxismo tutto ciò ha avuto delle conseguenze notevoli. 

martedì 22 gennaio 2013

IL CAPITALE - LIBRO I SEZIONE VI IL SALARIO



CAPITOLO 17

TRASFORMAZIONE IN SALARIO DEL VALORE
E RISPETTIVAMENTE DEL PREZZO DELLA FORZA LAVORO
Alla superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare quale prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che viene pagata per una determinata quantità di lavoro. Qui si parla del valore del lavoro e si chiama l’espressione monetaria di quest’ultimo prezzo necessario o naturale del lavoro. D’altra parte si parla di prezzi di mercato del lavoro ossia di prezzi oscillanti al di sopra o al di sotto del suo prezzo necessario.
Ma che cos’è il valore di una merce? È la forma oggettiva del lavoro sociale speso per la sua produzione. E mediante che cosa misuriamo la grandezza del suo valore? Mediante la grandezza del lavoro in essa contenuto. Da che cosa sarebbe dunque determinato per esempio il valore di una giornata lavorativa di dodici ore? Dalle dodici ore lavorative contenute nella giornata lavorativa di dodici ore; il che non è che un’insulsa tautologia[21].
Per essere venduto sul mercato come merce, il lavoro dovrebbe comunque esistere prima di essere venduto. Ma se l’operaio potesse dargli un’esistenza autonoma, venderebbe merce e non lavoro[22].
Fatta astrazione da queste contraddizioni, uno scambio diretto di denaro ossia di lavoro oggettivato con lavoro vivente, abolirebbe o la legge del valore che comincia a svilupparsi liberamente proprio e soltanto sulla base della produzione capitalistica, oppure la stessa produzione capitalistica, la quale si basa per l’appunto sul lavoro salariato. La giornata lavorativa di 12 ore si presenta per esempio in un valore di denaro di 72 €. O si ha uno scambio di equivalenti e in tal caso l’operaio riceve per il suo lavoro di 12 ore 72 €. Il prezzo del suo lavoro eguaglierebbe il prezzo del suo prodotto. In questo caso egli non produrrebbe alcun plusvalore per il compratore del suo lavoro, i 72 € non si trasformerebbero in capitale, la base della produzione capitalistica scomparirebbe: ma è precisamente su questa base che egli vende il suo lavoro e che il suo lavoro costituisce lavoro salariato. Oppure egli riceve in cambio delle sue 12 ore di lavoro meno di 72 € ossia meno di 12 ore di lavoro.
Dodici ore di lavoro vengono scambiate con dieci, sei, ecc. ore di lavoro.

giovedì 10 gennaio 2013

Circa la categoria di "merce" in Marx. Arbeitskraft e Arbeitvermögen. - Stefano Garroni -


“Di primo acchito, la ricchezza borghese appare come un’immane raccolta di merci, la singola merce essendone l’esistenza (Dasein) elementare. Ma la singola merce si rappresenta (darstellen) sotto il duplice punto di vista[1] di valore d’uso (d’ora in avanti <gw>, abbreviazione del tedesco Gebrauchswert) e valore di scambio (<tw>, dal tedesco Tauschwert). [2]</tw></gw>

Questo incipit è ripreso, pressocché letteralmente, nel capitolo sulla <merce> del primo libro di Das Kapital, con una variante, però, che forse merita di esser sottolineata.</merce>
Se in Zur Kritik, Marx parla della merce come  esistenza (Dasein) elementare della ricchezza borghese, in Das Kapital, invece, preferisce definirla Elementarform della stessa ricchezza borghese[3]; ciò che va notato, qui, è che il generico esistere è concepito da Marx (certo sulle orme di Hegel) come un processo, che si svolge mediante ‘figure’ o forme diverse, sicché quando parlo dell’esistere di un qualcosa posso intendere o il suo immediato e puntuale esserci, oppure la serie di quelle figure o forme, attraverso cui l’oggetto si svolge e raggiunge il suo finish.

Nel modo di esprimersi degli economisti borghesi –continua  Zur Kritik- la merce è innanzi tutto “qualunque cosa necessaria, utile o piacevole per il vivere, oggetto dei bisogni umani, mezzo di vita nel senso più ampio del termine. Questo esserci della merce come GW e la sua esistenza naturalmente manifesta coincidono … Il  valore d’uso ha valore solo per l’uso e si realizza unicamente nel processo del consumo.”[4]

Questa pagina non si presta solo alla banale osservazione che, anche per Marx, la produzione economica ha da essere utile necessariamente per l’uomo, quale che sia il bisogno che essa soddisfi; piuttosto è importante, mi sembra, rilevare che la riflessione marxiana evidenzia come il modo di pensare degli economisti borghesi faccia intimamente corpo con l’angustia ed astrattezza dell’atteggiamento (filosofico!) utilitarista.[5] Per fare un esempio,  così scrive De Vecchi: “Jevons ipotizza un mercato ‘perfetto, nel senso che ogni scambista possiede informazioni complete sulla disponbilità delle varie merci da parte di tutti gli atri scambisti, sulle loro intenzioni ad effettuare tutti gli scambi tra due merci qualsiasi a un identico rapporto di scambio, e sui termini nei quali avvengono gli scambi in un dato istante.”; ed ancora: “Jevons ipotizza un mercato ‘perfetto’, nel senso che ogni scambista possiede informazioni complete sulla disponibilità delle varie merci da parte di tutti gli altri scambisti, sulle loro intenzioni ad effettuare tutti gli scambi tra due merci qualsiasi a un identico rapporto di scambio, e sui temini nel quale avvengono gli scambi in un dato istante.” [6]

Richiamandosi ad un motivo che già era della tradizione economica, Marx sottolinea che quale che sia la forma sociale della ricchezza, i GW contrappongono sempre il loro contenuto indifferente a tale forma.[7]
“Per quanto oggetto dei bisogni sociali e, quindi, interno all’insieme sociale, tuttavia il GW non ha in sé l’impronta di nessun rapporto sociale di produzione … (una merce) è merce in quanto è indifferente rispetto all’uso che se ne fa.

Il valore d’uso nella sua indifferenza nei confronti di una determinata forma economica, dunque il GW in quanto GW, si colloca fuori dell’ambito di analisi dell’economia politica[8]. Il valore d’uso rientra certamente nell’ambito dell’economia politica, quando codesto valore è una forma determinata: ovvero, in quanto immediatamente il GW è la base materiale, nella quale si rappresenta un determinato rapporto economico, il TW.[9]

Una disarmonia tra valore d’uso e valore di scambio consiste nel fatto che mentre il GW appare essere un necessario presupposto per la merce, il valore di scambio si presenta dapprima come rapporto quantitativo, in cui valori d’uso diversi si scambiano tra di loro. In tale rapporto, essi formano la stessa grandezza di scambio[10]. Così commenta icasticamente (ma affatto realisticamente) Marx: un volume di Properzio ed otto prese di tabacco possono avere lo stesso TW, nonostante l’estrema diversità di GW, che hanno elegie e tabacco.[11]

Come TW, un GW è tanto valore quanto un altro, purché stiano tra loro nella corretta proporzione.[12]
Insomma, con totale indifferenza nei confronti della loro naturale forma di esistenza e senza alcun riguardo alla specifica natura del bisogno per il quale sono un GW, le merci nello scambio si sovrappongono[13], si sostituiscono l’una con l’altra, valgono come equivalenti e rappresentano la stessa unità, nonostante la  loro variopinta apparenza.

Una prima puntualizzazione del rapporto tra valore d’uso e valore di scambio potrebbe esser così schematizzata:


  • Sappiamo che i GW sono immediati mezzi di vita, i quali derivano da una attività sociale, ovvero dall’erogazione di forza-lavoro, necessaria alla loro produzione: i GW sono, dunque, lavoro oggettivato, materializzazione del lavoro sociale: in questo senso è vero che tutte le merci sono cristallizzazioni di una stessa sostanza.
  • Ma se consideriamo le diverse attività produttive –le quali danno luogo a diversi GW-, non possiamo certo affermare che tutte le merci siano cristallizzazioni esattamente di una stessa sostanza: ogni diverso GW pretende, infatti, l’erogazione di un lavoro concreto, specifico, destinato a produrre non qualunque merce, ma esattamente quella lì di cui è il caso. Cos’è, dunque, questa stessa sostanza?
  • Rispondere alla domanda è fondamentale, perché significa dotarsi di un criterio, in base al quale poter affermare che due merci naturalmente diverse e di quantità diverse hanno lo stesso valore, in quanto contengono la stessa quantità di quella comune sostanza, che si presenta immediatamente come valore di scambio.[14]
  • Quando si dice che merci diverse hanno uno stesso valore di scambio, ovvero, quando si dice, poniamo, che x M = y M’ ( che la quantità della merce ha lo stesso valore di scambio della quantità della merce M’) stabiliamo una relazione quantitativa a tutta prima ben comprensibile, la quale ci dice quale sia il valore di scambio di x M, assegnando ad y M’ la funzione di equivalente.[15]

Ma possiamo complicare ulteriormente la formula ed affermare, così, che un numero indefinito di altre merci hanno lo stesso valore di scambio y M’a questo punto potremmo dire di aver compreso perfino il senso e il processo di formazione del  denaro (y M’ = D), ovvero dell’ equivalente generale[16]
Riflettiamo ancora sulla situazione, in cui GW diversi, ed in quantità diverse, equivalgano tutti ad una stessa quantità di valore di scambio: dunque, la diversa utilità dei vari GW perde di rilievo ed emerge unicamente che, tutti, rappresentano uno stesso lavoro semplice, privo di specificazioni (Gleichgültig) e differenze (Unterschiedlos).

Se dal punto di vista del TW esistono diversità tra le merci in questione, queste derivano non dai differenti, determinati lavori che ogni GW comporta, ma sì dalle diverse quantità di lavoro erogato per ogni singolo caso, quali che siano le qualità determinanti dei singoli lavori e dei loro prodotti.
Possiamo dire, dunque, che quando diverse merci vengono misurate per il loro valore di scambio, ciò a cui si fa attenzione non è più il generico lavoro/fatica, né il lavoro in quanto specifica, determinata attività, finalizzata ad un certo scopo ma non ad un altro. Sì piuttosto in quanto energia, misurabile matematicamente e, quindi, presupponendo un’organizzazione sociale, che rende possibile questa astratta quantificazione (non si tratta, dunque, di una generica asterazion, ma sì di una astrazione storicamente determinata).

Ciò che entra in considerazione, dunque, è certo il lavoro, ma a prescindere dalle sue determinazioni o qualità particolari: insomma, ora è in considerazione il lavoro astratto, privo di differenze (nel senso, che abbiamo tentato di chiarire).

Cerchiamo di capire meglio, quale senso possa avere – in Marx – l’espressione <lavoro astratto="">.</lavoro>

L’ipotesi più immediata – e suggerita a volte dallo stesso testo di Marx-  è che si ha lavoro astratto, quando si prescinde dalla particolarità, dalla determinatezza di ogni lavoro concreto, ritrovandosi così tra le  mani la semplice capacità lavorativa umana, senz’altre determinazioni.[17]
Quest’ipotesi esplicativa, di cui pure si hanno altri esempi in testi marxiani[18], ha il limite di ridurre il lavoro astratto ad un semplice efflatus vocis, che non riesce a suggerirci nulla di riconoscibile nella realtà (Wirklichkeit), nulla di vivo, di operante effettivamente.
Se fosse questa la strada, attraverso cui giungere alla categoria di lavoro astratto, non potremmo concludere altrimenti se non che codesta categoria è solo un oggetto di pensiero, qualcosa che ha realtà unicamente per il pensiero e che, dunque, non è possibile elevarlo alla funzione di regolatore di fatto degli scambi economici.

Ma proviamo a proporre un’altra strada, un altro ragionamento –di cui,per altro, abbiamo già sottolineato alcune caratteristiche..
Quale che sia la società, per mantenersi e svolgersi, essa ha bisogno di lavoro –non di un lavoro in particolare, ma di lavoro nel senso di tutto quel complesso di possibili attività, di potenzialità,[19] che ne soddisfano i bisogni -  non dunque un lavoro senza ulteriori determinazioni, sì piuttosto di un lavoro capace di assumere tutte le determinazioni, necessarie al vivere sociale, in un certo momento storico[20].
A differenza dal lavoro astratto di cui abbiamo detto prima, questo lavoro generalmente sociale esiste, solo, se si articola e differenzia attraverso i molti lavori concreti, determinati, ovvero quelli che producono certe merci e non altre, che soddisfano certi bisogni e non altri.[21]  Non si tratta, dunque, di valore astratto, perché spogliato di ogni determinazione, ma perché capace di tutte le variazioni di lavoro concreto, storicamente date e storicamente plasmabili.

A questo punto scopriamo che il marxiano ‘lavoro astratto’ non ha sostanzialmente nulla a che spartire con una nozione empiristica, dacché riproduce la forma  e la struttura della totalità dialettica, insomma di quel tutto che, pur essendo fatto di parti, pur essendo articolato in parti, è sempre oltre le singole parti e il loro stesso insieme.[22]

Detto in altri termini, ognuno dei diversi lavori determinati o concreti sono specificazioni –storicamente mutevoli- della generale capacità (Vermögen) lavorativa dell’umanità in generale. Capacità che –com’è ovvio per ogni universale, inteso dialetticamente- non esiste se non appunto nelle sue determinazioni, specificazioni concrete.[23]

Per chiarir meglio quest’ultimo punto, ricordiamo una precisazione dell’economista francese Suzanne de Brunhoff[24]: il lavoro astratto, nel senso qui chiarito, è sempre lavoro, che produce qualcosa, destinata ad entrare nella circolazione mercantile e, dunque, capace, potenzialmente, di realizzare plusvalore.
In altri termini il lavoro improduttivo non rientra nella Arbeitsvermögen (Ma qui si apre un alrtro tema, che merita una trattazione specifica).






[1] - Si noti che Marx non parla di due qualità della merce, nel senso ad es. che l’una possa esser separata dall’altra; sì piuttosto, di due prospettive, secondo le quali la stessa merce deve poter essere considerata.

[2] - K.Marx, Zur Kritik der Politischen Ökonomie. Erstes Kapitel: die Ware, Dietz Verlag Berlin 1971: 21

[3] - K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie. Erster Band. Buch I : Der Produktionsprozeß des Kapitals, vlo in  Marx Engels WerkeBand 23, Berlin Dietz Verlag 1970: 49. (D’ora in avanti MEW. 26.I). La prima osservazione da fare è che entrambe le formulazioni usate da Marx si coniugano perfettamente con la concezione del movimento storico come sviluppo a partire da un <germe> o Keim, che già troviamo in Hegel e che Engels esplicitamente riprenderà più volte. Va sottolineato, però, che, secondo Marx, la forma elementare del capitale non è ancora, in sé e per sé, capitale, ma lo diviene in certe condizioni. La forma elementare, insomma, è l’Ausgangspunkt  della Kapitalbildung,, il punto di partenza della costruzione capitalistica, ma solo a patto che se ne diano le condizioni appropriate. </germe>

[4] - Zur Kritik, op. Cit.: 21. A differenza dalla capacità di lavoro, la merce –si legge in MEW. 26.1: 134- è una cosa materiale, che sta in contrapposto all’uomo e che ha una determinata utilità per lui; nella merce si materializza, si cristallizza un certo quantum di lavoro. Naturalmente in primo luogo, nel travail, qui se fixe et réalise in a venal and echangeable commodity, Adam Smith include tutti i lavori intellettuali, che vengono consumati direttamente nella produzione materiale. Non solo il lavoratore materiale diretto e il lavoratore che opera con macchinari, ma anche l’overlooker, l’ingegnere, il manager, ecc., in breve il lavoro dell’intero personale, che è presente in una determinata sfera della produzione materiale, allo scopo di produrre determinate merci e la cui cooperazione è necessaria per la fabbricazione delle merci. Nella realtà essi aggiungono al capitale costante il loro lavoro complessivo e, d’altrettanto, fanno crescere il valore. Già da quanto detto,si ricava che se un  lavoro non è utile ad altri, non crea valore di scambio, ma solo un oggetto d’uso personale per il produttore: in questo senso, non si tratta di lavoro produttivo (Pennavaja, op. cit.: 11).

[5] - Il che inevitabilmente comporta l’immagine della vicenda economica, centrata su due astrazioni: (a) i desideri o bisogni (naturali o artefatti) del singolo uomo o dell’uomo en tant que tel, il quale  (b) è autore di consapevoli  e libere scelte, operate nel quadro di un mercato  che, col tempo, diviene addirittura mondiale. Per la questione del nesso fra economia marginalistica, da un lato, e psicologismo e utiltarismo, dall’altro, cf. N. De Vecchi, JevonsIl  problema del calcolo logico in economia politica, Milano 1976.

[6] - N. De Vecchi, op. cit.: 50s. Mutando ciò che c’è da mutare, questa è esattamente l’impostazione della morale utilitaristica.

[7]  - Per quanto possa esser presente questo motivo nella tradizione economica, ciò che sul serio vale sottolineare è l’implicita distinzione, che Marx opera, tra contenuto materiale della dimensione economica e sua struttura formale: è proprio tale distinzione che consentirà a Marx di cogliere la radicale storicità dei modi di produzione e le loro differenti ‘leggi di sviluppo’. Ricordiamo, inoltre,  l’affermazione di Hegel, per cui la forma è l’essenza del reale.

[8] - Questo è il motivo, per cui compilatori tedeschi trattano con amore i valori d’uso, fissati sotto il nome di <beni> ... Cose sensate sui <beni> bisogna cercarle in Avviamenti alla merceologia. Come Marx ribadisce, in Das Kapital, op. cit.: 50, lo studio delle varie qualità delle merci costituisce una scienza specifica: la merceologia o Warenkunde.</beni></beni>

[9] - Zur kritik, op. cit.: 22.

[10] - E’ ovvia la precisazione, che se ne trae: se il Gw sta a significare relazione del ‘bene’ con necessità o desideri umani, invece, il TW implica necessariamente che la singola merce sia posta in raffronto con altre merci: quindi, come Marx dirà, a rigore non esiste il valore di scambio, sì esistono i  valori di scambio.

[11] - Cf. AAVV, Marx in questione, Napoli 2009: 66.

[12] - Zur Kritik, op. cit. : 22.

[13] - Come si potrebbe dire in geometria –d’altronde più volte Marx –ma in generale l’economia politica- fa ricorso ad un linguaggio, che deriva dall’ambito matematico o delle scienze naturali (chimiche e biologiche in particolare). In proposito, v. C. Pennavaja,. K.Marx. L’analisi della forma di valoreLaterza 1976: 8. “Uno dei grandi errori dell’economia politica classica, sta nel fato che non riesca a giungere dall’analisi della merce e, in particolare, del valore della merce, a ricavare la forma di valore, che le si presenta come TW. I suoi rappresentanti migliori, come A. Smith e D. Ricardo, trattano la forma valore come qualcosa del tutto indifferente ovvero eterno alla natura della merce. La ragione non sta solo nel fatto  che l’analisi della grandezza di valore assorbe tutta la loro attenzione. La cosa è più profonda: la forma valore del prodotto del lavoro è la forma più astratta, ma anche più generale del modo di produzione borghese … Va notato una volta per tutte che, con economia politica classica, io intendo tutta l’economia dopo Petty, che indaga l’interna connessione dei rapporti di produzione borghesi, in contraddizione con la economia volgare, che si dà da fare solo all’interno dell’apparente connessione, … la quale (economia volgare) perciò si limita a sistematizzare, a render ancor più piatte e stravolgerle in una eterna verità –così  come  una visione del mondo -le rappresentazioni banali, ma per sé piacevoli, degli attori della produzione borghese. (MEW. 23: 95n.)

[14] - Anticipando sul testo di Marx, com’è noto, per lui, la ‘comune sostanza’ è il lavoro astratto o generalmente umano, che in quantità diverse, è socialmente cristallizzato in merci diverse. Potremmo dire che il lavoro sociale, astratto o generalmente umano è l’insieme dei lavori determinati o concreti ( cioè dei lavori richiesti dalla produzione di questa e non di quella merce, dunque, specificamente volti a produrre M e non M’), i quali costituiscono le determinate articolazioni del lavoro astratto o sociale. Possiamo dire, dunque, che il lavoro generalmente umano è un’astrazioneche va formandosi mediante il meccanismo economico dello scambio, ma anche che lo rende possibile, tale meccanismo. In questo senso, il lavoro astratto esiste, in quanto astrazione socialmente e storicamente necessaria, che non va confusa con la generica e indeterminata fatica, che dai tempi più antichi fu considerata come valore del bene.

[15] - Naturalmente i rapporto tra GW e TW, quale si realizza nella società capitalistica, appartiene specificamente a quest’ultima. (V. Pennavaja, op.cit.: 6.).

[16] - Se quantità diverse di merci diverse vengono sempre misurate nei termini di quantità di Y, quest’ultima merce assurge al ruolo di denaro. Un anticipo di questo argomento marxiano lo troviamo in Sulla formazione e la distribuzione delle ricchezze del fisiocratici Turgot (Roma 1975).

[17] - In proposito vale la pena ricordare che, a volte, Marx usa l’espressione Arbeitsvermögen , in luogo del più abituale Arbeitskraft.

[18] - Ad es., nell’ “Intr.” alla Zur Kritik …, op.cit. : 229, Marx definisce “eine verständige Abstraktion“  (un’astrazione sensata) l’espressione la produzione in generale, supportando questa sua tesi con argomenti tipicamente empiristici (la possibilità di usare formule abbreviate, che però mettono in luce aspetti, presenti in ogni caso concreto, dunque, la possibilità di evitare inutili ripetizioni).

[19] - In questa chiave è interessante l’uso da parte di Mrx dell’espressione Arbeitsvermögen.

[20] - Utilissimo alla comprensione di ciò, quanto cita da Marx C. Pennavaja, op.cit.: 14s.

[21] - Per comprendere ciò è utilissimo tener presente che cosa modifichi la grandezza di valore di una merce. (C. Pennavaja, op.cit. 1976: 8); ma di grande chiarezza è anche il testo di Marx, che la stessa Pennavaja cita a p. 24 del suo libro: “Lavoro umano senz’altro, erogazione di forza-lavoro umana, è, sì, capace di ogni determinazione, ma è in sé e per sé indeterminato.”

[22] - Si potrebbe dire, utilizzando una terminologia cara al filosofo H.H. Holz, che si tratta di un lavoro, die greift alle die andere besondere und konkrete Arbeiten über – in tedesco, infatti, übergreifen ha, appunto, questo significato di contenere le proprie parti, ma di non esaurirsi in esse.

[23] - Inteso in questo modo, infatti, il ‘lavoro astratto’ –ovvero sottoponibile a misurazione matematica- è possibile solo in un contesto socio-economico, caratterizzato da una determinata organizzazione del lavoro e da un certo livello di sviluppo tecnologico.

[24] - S. de Brunhoff, La politiqe monétaire. Un essai d’interpretation marxiste., Paris 1970.