CAPITOLO 17
Alla
superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare quale
prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che viene pagata per
una determinata quantità di lavoro. Qui si parla del valore del lavoro e
si chiama l’espressione monetaria di quest’ultimo prezzo necessario o
naturale del lavoro. D’altra parte si parla di prezzi di mercato del
lavoro ossia di prezzi oscillanti al di sopra o al di sotto del suo prezzo
necessario.
Ma
che cos’è il valore di una merce? È la forma oggettiva del lavoro sociale speso
per la sua produzione. E mediante che cosa misuriamo la grandezza del
suo valore? Mediante la grandezza del lavoro in essa contenuto. Da che cosa
sarebbe dunque determinato per esempio il valore di una giornata lavorativa di
dodici ore? Dalle dodici ore lavorative contenute nella giornata lavorativa di
dodici ore; il che non è che un’insulsa tautologia[21].
Per
essere venduto sul mercato come merce, il lavoro dovrebbe comunque esistere
prima di essere venduto. Ma se l’operaio potesse dargli un’esistenza autonoma,
venderebbe merce e non lavoro[22].
Fatta
astrazione da queste contraddizioni, uno scambio diretto di denaro ossia di
lavoro oggettivato con lavoro vivente, abolirebbe o la legge del valore che
comincia a svilupparsi liberamente proprio e soltanto sulla base della
produzione capitalistica, oppure la stessa produzione capitalistica, la quale
si basa per l’appunto sul lavoro salariato. La giornata lavorativa di 12 ore si
presenta per esempio in un valore di denaro di 72 €. O si ha uno scambio di
equivalenti e in tal caso l’operaio riceve per il suo lavoro di 12 ore 72 €. Il
prezzo del suo lavoro eguaglierebbe il prezzo del suo prodotto. In questo caso
egli non produrrebbe alcun plusvalore per il compratore del suo lavoro, i 72 €
non si trasformerebbero in capitale, la base della produzione capitalistica
scomparirebbe: ma è precisamente su questa base che egli vende il suo
lavoro e che il suo lavoro costituisce lavoro salariato. Oppure egli riceve in
cambio delle sue 12 ore di lavoro meno di 72 € ossia meno di 12 ore di lavoro.
Dodici
ore di lavoro vengono scambiate con dieci, sei, ecc. ore di lavoro.
Ponendo
così come eguali grandezze ineguali non si elimina soltanto la determinazione
del valore. Una contraddizione di questo genere che si elimina da sola non
può nemmeno esser pronunciata né formulata come legge[23].
A
nulla giova derivare lo scambio di più lavoro con meno lavoro dalla differenza
delle forme, perchè il lavoro è in un caso oggettivato, nell’altro vivente[24]. È cosa tanto più insulsa in quanto il
valore di una merce è determinato non dalla quantità di vivente lavoro in
essa realmente oggettivato, ma dalla quantità di lavoro vivente necessaria per
la sua produzione. Rappresenti una merce 6 ore lavorative. Subentrando
invenzioni per cui essa possa essere prodotta in 3 ore, scenderà della metà
anche il valore della merce già prodotta. Essa rappresenta ora 3 ore invece
delle 6 ore di lavoro sociale prima necessarie. È quindi la quantità di
lavoro richiesta per la sua produzione, non la forma oggettiva del
lavoro, che determina la grandezza di valore della merce.
In
realtà, sul mercato delle merci si presenta direttamente al possessore di
denaro non il lavoro, ma il lavoratore. Ciò che vende quest’ultimo.è la propria
forza-lavoro. Appena il suo lavoro comincia realmente, esso ha già cessato di
appartenergli, e quindi non può più essere venduto da lui. Il lavoro è la
sostanza e la misura immanente dei valori, ma esso stesso non ha valore[25].
Nell’espressione
« valore del lavoro » il concetto di valore non solo è del tutto obliterato, ma
è rovesciato nel suo opposto. È un’espressione immaginaria come ad esempio
valore della terra. Tuttavia queste espressioni immaginarie derivano dagli
stessi rapporti di produzione. Sono categorie di forme fenomeniche di rapporti
sostanziali.
È
cosa abbastanza nota in tutte le scienze, tranne nell’economia politica, che
nella loro apparenza le cose spesso si presentano invertite[26].
L’economia
politica classica ha mutuato dalla vita di tutti i giorni, senza sottoporla a
nessuna critica, la categoria « prezzo del lavoro »; a cose fatte poi, ha
dovuto domandarsi: « come viene determinato questo prezzo? ». E ha riconosciuto
ben presto che la variazione del rapporto fra domanda e offerta non spiega
nulla per il prezzo del lavoro, come per quello di ogni altra merce,
all’infuori del suo variare, vale a dire dell’oscillazione dei prezzi di
mercato al di sotto o al di sopra di una certa grandezza. Se domanda e
offerta coincidono, l’oscillazione del prezzo, a circostanze altrimenti
invariate, cessa. Ma in tal caso anche la domanda e l’offerta cessano di
spiegare qualche cosa. Quando la domanda e l’offerta coincidono, il prezzo
del lavoro è il suo prezzo naturale, determinato indipendentemente dal rapporto
fra domanda e offerta, il quale risultava così come il vero e proprio oggetto
da analizzare. Oppure, si considerava un periodo piuttosto lungo di
oscillazioni del prezzo di mercato, per esempio un anno, e allora si trovava
che il suo su e giù si livella a una grandezza media, cioè a una grandezza
costante. Quest’ultima doveva naturalmente essere determinata in modo
diverso che non le deviazioni da essa compensantisi a vicenda. Questo prezzo
che sta al di sopra dei prezzi casuali di mercato e che li regola, il «
prezzo necessario » (fisiocratici) o «prezzo naturale » del lavoro
(Adam Smith), può essere soltanto, come per le altri merci, il suo valore
espresso in denaro. In questo modo l’economia politica credeva di arrivare
attraverso i prezzi casuali del lavoro al valore di questo. Come per le altre
merci questo valore veniva poi ulteriormente determinato dai costi di
produzione. Ma che cosa sono i costi di produzione — del lavoratore,
ossia i costi per produrre o riprodurre il lavoratore stesso? Questa
domanda si interpolò nell’economia politica al posto di quella originaria,
senza che l’economia ne avesse coscienza, poichè, con i costi di
produzione del lavoro come tale, essa si muoveva in un circolo vizioso,
e non riusciva a fare un passo avanti. Quindi quel che essa chiama valore
del lavoro (value of labour), è in realtà il valore della
forza-lavoro, la quale esiste nella personalità del lavoratore ed è
differente dalla sua funzione, il lavoro, quanto è differente dalle proprie
operazioni una macchina. Presi dalla distinzione fra i prezzi di mercato del
lavoro e il suo cosiddetto valore, dal rapporto fra questo valore e il saggio
del profitto e i valori di merci prodotti mediante il lavoro, ecc., non
scoprirono mai che l’andamento dell’analisi non soltanto aveva condotto dai
prezzi di mercato del lavoro al presunto valore di quest’ultimo, ma aveva
condotto a risolvere a sua volta questo valore del lavoro nel valore della
forza-lavoro. L’inconsapevolezza di questo risultato della propria analisi,
l’accettazione senza alcuna critica delle categorie « valore del lavoro»,
« prezzo naturale del lavoro» ecc., come espressioni definitive e
adeguate del rapporto di valore che si trattava, ha avvolto l’economia politica
classica, come vedremo più avanti, in confusioni e contraddizioni insolubili,
mentre ha offerto all’economia volgare una sicura base operativa per la sua
superficialità, che per principio s’inchina solo all’apparenza.
Vediamo
ora in primo luogo in che modo il valore e i prezzi della forza-lavoro si
presentino nella loro forma trasmutata di salario.
È
noto che il valore giornaliero della forza-lavoro è calcolato su una certa
durata della vita del lavoratore, alla quale corrisponde una certa lunghezza
della giornata lavorativa. Supponiamo che la giornata
lavorativa usuale sia di 12 ore e che il valore giornaliero della forza-lavoro
sia di 36 €, espressione monetaria di un valore nel quale sono rappresentate 6
ore lavorative. Se il lavoratore riceve 36 €, riceve il valore del
funzionamento della sua forza-lavoro per 12 ore. Ora se questo valore
giornaliero della forza-lavoro viene espresso come valore del lavoro
giornaliero, risulterà la formula: il lavoro di 12 ore ha un valore di 36 €. Il
valore della forza-lavoro determina in questa maniera il valore del lavoro
ossia, espresso in denaro, determina il suo prezzo necessario. Se invece il
prezzo della forza-lavoro differisce dal suo valore, anche il prezzo del lavoro
differirà dal cosiddetto valore di quest’ultimo.
Siccome
il valore del lavoro non è che un’espressione irrazionale per valore della
forza-lavoro, risulta ovviamente che il valore del lavoro deve essere sempre
minore della sua produzione di valore, giacchè il capitalista fa funzionare
la forza-lavoro sempre per un tempo maggiore di quello necessario alla
riproduzione del valore della forza-lavoro. Nell’esempio dato sopra, il valore del funzionamento della
forza-lavoro per 12 ore è di 36 €, valore per la cui riproduzione la
forza-lavoro necessita di 6 ore. Il suo prodotto di valore è invece di 72 €,
perchè in realtà essa funziona durante 12 ore, e perchè la sua produzione di
valore non dipende dal valore della forza-lavoro, ma dalla durata della sua
funzione. Si ha quindi il risultato, a prima vista assurdo, che un lavoro che
crea un valore di 72 € ha un valore di 36 € [27].
È evidente inoltre che il valore di 36 €, in cui si rappresenta la
parte retribuita della giornata lavorativa ossia il lavoro di 6 ore, appare
come valore o prezzo della giornata lavorativa complessiva di 12 ore
che contiene 6 ore non retribuite.
La
forma del salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata
lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non
retribuito. Tutto il lavoro appare come lavoro retribuito.
Nelle
prestazioni di lavoro feudali il lavoro del servo feudale per se stesso
è distinto nello spazio e nel tempo, in maniera tangibile e sensibile, dal
lavoro coatto per il signore del fondo.
Nel
lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui
lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in
cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo
padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito[28]. Nel lavoro salariato
all’incontro persino il pluslavoro ossia il lavoro non retribuito appare come
lavoro retribuito. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo
schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro
che l’operaio salariato compie senza alcuna retribuzione.
Si
comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del
prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del
lavoro stesso.
Su
questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra
precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e
del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico,
tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche
dell’economia volgare.
Se
la storia universale abbisogna di molto tempo per penetrare l’arcano del
salario, non c’è invece niente di più facile a capire che la necessità, le
raisons d’étre di questa forma fenomenica.
Lo
scambio fra capitale e lavoro si presenta in un primo momento alla percezione
proprio allo stesso modo della compera e della vendita di tutte le altri merci.
Il compratore dà una certa somma di denaro, il venditore un articolo diverso
dal denaro. La coscienza giuridica riconosce in questo caso tutt’al più una
differenza di materia che trova la sua espressione nelle formule giuridicamente
equivalenti: do ut des, do ut facias, facio ut des e facio ut facias.
Inoltre:
essendo valore di scambio e valore d’uso in sè e per sè grandezze
incommensurabili, le espressioni «valore del lavoro», «prezzo del lavoro»
non appaiono più irrazionali della espressione «valore del cotone», «prezzo del
cotone». Vi si aggiunge il fatto che l’operaio viene pagato dopo che egli ha
fornito il suo lavoro. Ma nella sua funzione di mezzo di pagamento il
denaro realizza a cose fatte il valore ossia il prezzo dell’articolo fornito,
che dunque nel nostro caso è il valore ossia il prezzo del lavoro fornito.
Infine, il «valore d’uso» fornito dall’operaio al capitalista, in realtà
non è la sua forza-lavoro, ma la funzione di quest’ultima, un determinato
lavoro utile, sartoria, calzoleria, filatura, ecc. Il fatto che questo
stesso lavoro sia per altro lato elemento generale creatore di
valore, qualità per cui il lavoro si distingue da tutte le altre merci,
esula dal campo della coscienza comune.
Se ci poniamo ora dal punto di vista dell’operaio il quale riceve
per il suo lavoro di 12 ore per esempio il prodotto di valore di un lavoro di 6
ore, diciamo 36 €, il suo lavoro di 12 ore è per lui in realtà il
mezzo d’acquisto di 36 €. Il valore della sua forza-lavoro potrà variare
col variare del valore dei suoi abituali mezzi di sussistenza, da 36 a 48 € o da 36 a 24 €, oppure, costante
rimanendo il valore della sua forza-lavoro, il prezzo di quest’ultima potrà
salire a 48 € o scendere a 24 € in seguito a un mutamento del rapporto fra
domanda e offerta: l’operaio darà sempre 12 ore lavorative. Ogni
mutamento nella grandezza dell’equivalente che egli riceve gli apparirà quindi
necessariamente come mutamento nel valore o prezzo delle sue 12 ore lavorative.
Questa circostanza, viceversa, indusse Adam Smith, che tratta la
giornata lavorativa come grandezza costante[29],
all’errata affermazione che il valore del lavoro è costante, benchè vari
il valore dei mezzi di sussistenza e benchè quindi la stessa giornata lavorativa si rappresenti in
più o meno denaro per il lavoratore.
D’altra
parte, se ci volgiamo al capitalista, questi vuole precisamente ottenere la
maggiore quantità possibile di lavoro per la minore quantità possibile di
denaro. In pratica quindi gli interessa solo la differenza fra il prezzo della
forza-lavoro e il valore creato dal suo funzionamento. Ma. egli cerca di comperare
ogni merce il più a buon mercato possibile e si spiega il suo profitto
sempre con quel semplice trucco che è la compera al di sotto e la vendita
al di sopra del valore. Non riesce perciò a capire che, se esistesse realmente
una cosa come il valore del lavoro, e se egli realmente pagasse questo
valore, non esisterebbe alcun capitale e il suo denaro non si trasformerebbe in
capitale.
Per
di più il movimento reale del salario mostra fenomeni i quali sembrano
dimostrare che non il valore della forza-lavoro viene pagato, bensì il
valore della sua funzione, il valore del lavoro stesso. Questi fenomeni si
possono ricondurre a due grandi classi.
Primo: variare del salario con il variare
della lunghezza della giornata lavorativa. Alla stessa maniera si potrebbe
concludere che non è il valore della macchina che viene pagato ma quello della
sua operazione, per il fatto che costa di più affittare una macchina per una
settimana che non per un giorno.
Secondo: la differenza individuale fra i
salari di operai diversi i quali compiono la medesima funzione. Questa
differenza individuale si trova anche, ma senza dare occasione ad illusioni,
nel sistema schiavistico dove si vende francamente la forza-lavoro stessa,
senza ambagi e senza fronzoli. Solo che nel sistema della schiavitù il
vantaggio di una forza-lavoro al di sopra della media o lo svantaggio di una
forza-lavoro al di sotto della media tocca al proprietario degli schiavi, e nel
sistema del lavoro salariato tocca all’operaio stesso, perchè in un caso la sua
forza-lavoro viene venduta da lui stesso, nell’altro da una terza persona.
Del
resto per la forma fenomenica « valore e prezzo del lavoro » o « salario
», a differenza del rapporto sostanziale che in essa si manifesta, cioè il
valore e il prezzo della forza-lavoro, vale quel che vale per tutte le forme
fenomeniche e per il loro sfondo nascosto. Le forme fenomeniche si riproducono
con immediata spontaneità, come forme correnti del pensiero, il rapporto
sostanziale deve essere scoperto dalla scienza. L’economia politica classica
tocca in via approssimativa il vero stato delle cose, senza per altro
formularlo in modo consapevole. Essa non può farlo finchè è chiusa nella sua
pelle borghese.
NOTE
[21] « Il Ricardo evita
abbastanza ingegnosamente una difficoltà che sembra opporsi a prima vista alla
sua teoria secondo la quale il valore dipende dalla quantità di lavoro
impiegata nella produzione. Se questo principio è rigidamente tenuto fermo, ne
consegue che il valore del lavoro dipende dalla quantità di lavoro impiegata
per produrlo — il che è evidentemente assurdo. Perciò, con un’abile mossa, il
Ricardo fa dipendere il valore del lavoro dalla quantità di lavoro necessaria
per la produzione del salario; o, per dirla con le sue parole, sostiene che il
valore del lavoro dev’essere stimato mediante la quantità di lavoro richiesta
per la produzione del salario, con il che egli intende la quantità di lavoro
richiesta per produrre il denaro o la merce dati al lavoratore. Questo è come
dire che il valore di una stoffa è stimato non mediante la quantità di lavoro
impiegata per la sua produzione, ma mediante la quantità di lavoro impiegata nella
produzione dell’argento con il quale la stoffa viene scambiata » (A Critical
Dissertation on the Nature ecc. of Value, pp. 50, 51).
[22] « Se voi
chiamate il lavoro una merce, esso non è però eguale a una merce, prima
prodotta per lo scambio e poi portata al mercato, dove dev’essere scambiata con
altre merci che si trovano sul mercato e con le rispettive quantità di ciascuna;
il lavoro è creato nel momento in cui è portato al mercato, anzi, viene portato
al mercato, prima di essere creato » (Observations on some verbal Dispute:
ecc., pp. 75, 76).
[23] « Trattando il
lavoro come una merce e il capitale, prodotto del lavoro, come un’altra merce,
allora, se i valori di queste due merci fossero regolati da quantità eguali di
lavoro, una quantità data di lavoro.., si scambierebbe con quella quantità di
capitale che era stata prodotta dalla medesima quantità di lavoro; un lavoro
precedente si scambierebbe... con la medesima quantità con cui si scambia un
lavoro presente. Ma il valore del lavoro, rispetto ad altre merci.., non è
determinato da quantità eguali di lavoro » (E. G. Wakefield nella sua edizione
di A. SMITH, Wealth of Nations, Londra, 1835, vol. I, pp. 230, 231,
nota).
[24] « È stato necessario
convenire (un’altra edizione del contrat social !) che ogni volta che egli
scambia lavoro fatto con lavoro da farsi, quest’ultimo (il capitalista) avrebbe
un valore superiore al primo (operaio) » (SIMONDE DE SISMONDI, De la Richesse
Commerciale, Ginevra, 1803, voI. I, p. 37).
[25] « Il lavoro, scala
di misura esclusiva del valore.., creatore di ogni ricchezza, non è merce
» (Th. HODGSKIN, Popular Political Economy, p. 186).
[26] Dichiarare che
simili espressioni non sono che licentia poetica dimostra soltanto
l’impotenza dell’analisi. Contro la frase di Proudhon: « Il lavoro è chiamato
valore, non tanto in quanto è esso stesso merce, ma in vista dei valori che si
suppongono racchiusi in esso in potenza. Il valore del lavoro è
un’espressione figurata, ecc. », io osservo quindi: «Nel lavoro-merce che è
una tremenda realtà, egli non vede che un’ellissi grammaticale. Dunque, tutta
la società attuale, fondata sul lavoro- merce, è ormai fondata su una licenza
poetica, su un’espressione figurata. Vuole la società “eliminare tutti gli
inconvenienti “ che la travagliano? Ebbene, elimini i termini impropri, muti di
linguaggio, e si rivolga per questo all’Accademia chiedendo una nuova edizione
del suo dizionario» (K. Marx Misère de la Philosophie. pp. 34, 35 ).
Naturalmente è ancora più comodo non intendere assolutamente niente per valore.
In tal caso si può far rientrare tutto in questa categoria. Così per esempio J.
B. Say. «Che cos’è valore »? Risposta: « Ove! che una cosa vale », e che cos’è
« prezzo »? Risposta: « Il valore di una cosa espresso in denaro ». E perché «il
lavoro della terra ha... un valore? » Perché le si riconosce un
prezzo». Il valore è quindi quello che una cosa vale, e la terra ha un «valore
», perché il suo valore viene «espresso in denaro ». Certo, questo è un metodo
ben semplice per accordarsi sul perchè e per come delle cose.
[27] Cfr. Zur
Kritik dei politischen Okonomie, p. 40, dove annuncio che nella trattazione
del capitale dovrà essere risolto il problema: « In che maniera la produzione
in base al valore di scambio determinato dal solo tempo di lavoro conduce al
risultato che il valore di scambio del lavoro è minore del valore di scambio
del suo prodotto? ».
[28] Il Morning Star,
organo londinese dei liberoscambisti, ingenuo fino alla stupidità, durante la
guerra civile americana tornava sempre ad assicurare, con tutta l’indignazione
morale umanamente possibile, che i negri nei Confederate Stàtes [ Stati del
Sud] lavoravano del tutto gratuitamente. Avrebbe dovuto compiacersi di
confrontare i costi giornalieri di uno di quei negri con quelli per esempio del
libero operaio dell’East End di Londra.
[29] A. Smith allude solo
casualmente alla variazione della giornata lavorativa in occasione del salario
a cottimo.
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