martedì 22 gennaio 2013

IL CAPITALE - LIBRO I SEZIONE VI IL SALARIO



CAPITOLO 17

TRASFORMAZIONE IN SALARIO DEL VALORE
E RISPETTIVAMENTE DEL PREZZO DELLA FORZA LAVORO
Alla superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare quale prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che viene pagata per una determinata quantità di lavoro. Qui si parla del valore del lavoro e si chiama l’espressione monetaria di quest’ultimo prezzo necessario o naturale del lavoro. D’altra parte si parla di prezzi di mercato del lavoro ossia di prezzi oscillanti al di sopra o al di sotto del suo prezzo necessario.
Ma che cos’è il valore di una merce? È la forma oggettiva del lavoro sociale speso per la sua produzione. E mediante che cosa misuriamo la grandezza del suo valore? Mediante la grandezza del lavoro in essa contenuto. Da che cosa sarebbe dunque determinato per esempio il valore di una giornata lavorativa di dodici ore? Dalle dodici ore lavorative contenute nella giornata lavorativa di dodici ore; il che non è che un’insulsa tautologia[21].
Per essere venduto sul mercato come merce, il lavoro dovrebbe comunque esistere prima di essere venduto. Ma se l’operaio potesse dargli un’esistenza autonoma, venderebbe merce e non lavoro[22].
Fatta astrazione da queste contraddizioni, uno scambio diretto di denaro ossia di lavoro oggettivato con lavoro vivente, abolirebbe o la legge del valore che comincia a svilupparsi liberamente proprio e soltanto sulla base della produzione capitalistica, oppure la stessa produzione capitalistica, la quale si basa per l’appunto sul lavoro salariato. La giornata lavorativa di 12 ore si presenta per esempio in un valore di denaro di 72 €. O si ha uno scambio di equivalenti e in tal caso l’operaio riceve per il suo lavoro di 12 ore 72 €. Il prezzo del suo lavoro eguaglierebbe il prezzo del suo prodotto. In questo caso egli non produrrebbe alcun plusvalore per il compratore del suo lavoro, i 72 € non si trasformerebbero in capitale, la base della produzione capitalistica scomparirebbe: ma è precisamente su questa base che egli vende il suo lavoro e che il suo lavoro costituisce lavoro salariato. Oppure egli riceve in cambio delle sue 12 ore di lavoro meno di 72 € ossia meno di 12 ore di lavoro.
Dodici ore di lavoro vengono scambiate con dieci, sei, ecc. ore di lavoro.

Ponendo così come eguali grandezze ineguali non si elimina soltanto la determinazione del valore. Una contraddizione di questo genere che si elimina da sola non può nemmeno esser pronunciata né formulata come legge[23].
A nulla giova derivare lo scambio di più lavoro con meno lavoro dalla differenza delle forme, perchè il lavoro è in un caso oggettivato, nell’altro vivente[24]. È cosa tanto più insulsa in quanto il valore di una merce è determinato non dalla quantità di vivente lavoro in essa realmente oggettivato, ma dalla quantità di lavoro vivente necessaria per la sua produzione. Rappresenti una merce 6 ore lavorative. Subentrando invenzioni per cui essa possa essere prodotta in 3 ore, scenderà della metà anche il valore della merce già prodotta. Essa rappresenta ora 3 ore invece delle 6 ore di lavoro sociale prima necessarie. È quindi la quantità di lavoro richiesta per la sua produzione, non la forma oggettiva del lavoro, che determina la grandezza di valore della merce.
In realtà, sul mercato delle merci si presenta direttamente al possessore di denaro non il lavoro, ma il lavoratore. Ciò che vende quest’ultimo.è la propria forza-lavoro. Appena il suo lavoro comincia realmente, esso ha già cessato di appartenergli, e quindi non può più essere venduto da lui. Il lavoro è la sostanza e la misura immanente dei valori, ma esso stesso non ha valore[25].
Nell’espressione « valore del lavoro » il concetto di valore non solo è del tutto obliterato, ma è rovesciato nel suo opposto. È un’espressione immaginaria come ad esempio valore della terra. Tuttavia queste espressioni immaginarie derivano dagli stessi rapporti di produzione. Sono categorie di forme fenomeniche di rapporti sostanziali.
È cosa abbastanza nota in tutte le scienze, tranne nell’economia politica, che nella loro apparenza le cose spesso si presentano invertite[26].
L’economia politica classica ha mutuato dalla vita di tutti i giorni, senza sottoporla a nessuna critica, la categoria « prezzo del lavoro »; a cose fatte poi, ha dovuto domandarsi: « come viene determinato questo prezzo? ». E ha riconosciuto ben presto che la variazione del rapporto fra domanda e offerta non spiega nulla per il prezzo del lavoro, come per quello di ogni altra merce, all’infuori del suo variare, vale a dire dell’oscillazione dei prezzi di mercato al di sotto o al di sopra di una certa grandezza. Se domanda e offerta coincidono, l’oscillazione del prezzo, a circostanze altrimenti invariate, cessa. Ma in tal caso anche la domanda e l’offerta cessano di spiegare qualche cosa. Quando la domanda e l’offerta coincidono, il prezzo del lavoro è il suo prezzo naturale, determinato indipendentemente dal rapporto fra domanda e offerta, il quale risultava così come il vero e proprio oggetto da analizzare. Oppure, si considerava un periodo piuttosto lungo di oscillazioni del prezzo di mercato, per esempio un anno, e allora si trovava che il suo su e giù si livella a una grandezza media, cioè a una grandezza costante. Quest’ultima doveva naturalmente essere determinata in modo diverso che non le deviazioni da essa compensantisi a vicenda. Questo prezzo che sta al di sopra dei prezzi casuali di mercato e che li regola, il « prezzo necessario » (fisiocratici) o «prezzo naturale » del lavoro (Adam Smith), può essere soltanto, come per le altri merci, il suo valore espresso in denaro. In questo modo l’economia politica credeva di arrivare attraverso i prezzi casuali del lavoro al valore di questo. Come per le altre merci questo valore veniva poi ulteriormente determinato dai costi di produzione. Ma che cosa sono i costi di produzione — del lavoratore, ossia i costi per produrre o riprodurre il lavoratore stesso? Questa domanda si interpolò nell’economia politica al posto di quella originaria, senza che l’economia ne avesse coscienza, poichè, con i costi di produzione del lavoro come tale, essa si muoveva in un circolo vizioso, e non riusciva a fare un passo avanti. Quindi quel che essa chiama valore del lavoro (value of labour), è in realtà il valore della forza-lavoro, la quale esiste nella personalità del lavoratore ed è differente dalla sua funzione, il lavoro, quanto è differente dalle proprie operazioni una macchina. Presi dalla distinzione fra i prezzi di mercato del lavoro e il suo cosiddetto valore, dal rapporto fra questo valore e il saggio del profitto e i valori di merci prodotti mediante il lavoro, ecc., non scoprirono mai che l’andamento dell’analisi non soltanto aveva condotto dai prezzi di mercato del lavoro al presunto valore di quest’ultimo, ma aveva condotto a risolvere a sua volta questo valore del lavoro nel valore della forza-lavoro. L’inconsapevolezza di questo risultato della propria analisi, l’accettazione senza alcuna critica delle categorie « valore del lavoro», « prezzo naturale del lavoro» ecc., come espressioni definitive e adeguate del rapporto di valore che si trattava, ha avvolto l’economia politica classica, come vedremo più avanti, in confusioni e contraddizioni insolubili, mentre ha offerto all’economia volgare una sicura base operativa per la sua superficialità, che per principio s’inchina solo all’apparenza.
Vediamo ora in primo luogo in che modo il valore e i prezzi della forza-lavoro si presentino nella loro forma trasmutata di salario.
È noto che il valore giornaliero della forza-lavoro è calcolato su una certa durata della vita del lavoratore, alla quale corrisponde una certa lunghezza della giornata lavorativa. Supponiamo che la giornata lavorativa usuale sia di 12 ore e che il valore giornaliero della forza-lavoro sia di 36 €, espressione monetaria di un valore nel quale sono rappresentate 6 ore lavorative. Se il lavoratore riceve 36 €, riceve il valore del funzionamento della sua forza-lavoro per 12 ore. Ora se questo valore giornaliero della forza-lavoro viene espresso come valore del lavoro giornaliero, risulterà la formula: il lavoro di 12 ore ha un valore di 36 €. Il valore della forza-lavoro determina in questa maniera il valore del lavoro ossia, espresso in denaro, determina il suo prezzo necessario. Se invece il prezzo della forza-lavoro differisce dal suo valore, anche il prezzo del lavoro differirà dal cosiddetto valore di quest’ultimo.
Siccome il valore del lavoro non è che un’espressione irrazionale per valore della forza-lavoro, risulta ovviamente che il valore del lavoro deve essere sempre minore della sua produzione di valore, giacchè il capitalista fa funzionare la forza-lavoro sempre per un tempo maggiore di quello necessario alla riproduzione del valore della forza-lavoro. Nell’esempio dato sopra, il valore del funzionamento della forza-lavoro per 12 ore è di 36 €, valore per la cui riproduzione la forza-lavoro necessita di 6 ore. Il suo prodotto di valore è invece di 72 €, perchè in realtà essa funziona durante 12 ore, e perchè la sua produzione di valore non dipende dal valore della forza-lavoro, ma dalla durata della sua funzione. Si ha quindi il risultato, a prima vista assurdo, che un lavoro che crea un valore di 72 € ha un valore di 36 € [27].
È evidente inoltre che il valore di 36 €, in cui si rappresenta la parte retribuita della giornata lavorativa ossia il lavoro di 6 ore, appare come valore o prezzo della giornata lavorativa complessiva di 12 ore che contiene 6 ore non retribuite.
La forma del salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito. Tutto il lavoro appare come lavoro retribuito.
Nelle prestazioni di lavoro feudali il lavoro del servo feudale per se stesso è distinto nello spazio e nel tempo, in maniera tangibile e sensibile, dal lavoro coatto per il signore del fondo.
Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito[28]. Nel lavoro salariato all’incontro persino il pluslavoro ossia il lavoro non retribuito appare come lavoro retribuito. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che l’operaio salariato compie senza alcuna retribuzione.
Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso.
Su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare.
Se la storia universale abbisogna di molto tempo per penetrare l’arcano del salario, non c’è invece niente di più facile a capire che la necessità, le raisons d’étre di questa forma fenomenica.
Lo scambio fra capitale e lavoro si presenta in un primo momento alla percezione proprio allo stesso modo della compera e della vendita di tutte le altri merci. Il compratore dà una certa somma di denaro, il venditore un articolo diverso dal denaro. La coscienza giuridica riconosce in questo caso tutt’al più una differenza di materia che trova la sua espressione nelle formule giuridicamente equivalenti: do ut des, do ut facias, facio ut des e facio ut facias.
Inoltre: essendo valore di scambio e valore d’uso in sè e per sè grandezze incommensurabili, le espressioni «valore del lavoro», «prezzo del lavoro» non appaiono più irrazionali della espressione «valore del cotone», «prezzo del cotone». Vi si aggiunge il fatto che l’operaio viene pagato dopo che egli ha fornito il suo lavoro. Ma nella sua funzione di mezzo di pagamento il denaro realizza a cose fatte il valore ossia il prezzo dell’articolo fornito, che dunque nel nostro caso è il valore ossia il prezzo del lavoro fornito. Infine, il «valore d’uso» fornito dall’operaio al capitalista, in realtà non è la sua forza-lavoro, ma la funzione di quest’ultima, un determinato lavoro utile, sartoria, calzoleria, filatura, ecc. Il fatto che questo stesso lavoro sia per altro lato elemento generale creatore di valore, qualità per cui il lavoro si distingue da tutte le altre merci, esula dal campo della coscienza comune.
Se ci poniamo ora dal punto di vista dell’operaio il quale riceve per il suo lavoro di 12 ore per esempio il prodotto di valore di un lavoro di 6 ore, diciamo 36 €, il suo lavoro di 12 ore è per lui in realtà il mezzo d’acquisto di 36 €. Il valore della sua forza-lavoro potrà variare col variare del valore dei suoi abituali mezzi di sussistenza, da 36 a 48 € o da 36 a 24 €, oppure, costante rimanendo il valore della sua forza-lavoro, il prezzo di quest’ultima potrà salire a 48 € o scendere a 24 € in seguito a un mutamento del rapporto fra domanda e offerta: l’operaio darà sempre 12 ore lavorative. Ogni mutamento nella grandezza dell’equivalente che egli riceve gli apparirà quindi necessariamente come mutamento nel valore o prezzo delle sue 12 ore lavorative. Questa circostanza, viceversa, indusse Adam Smith, che tratta la giornata lavorativa come grandezza costante[29], all’errata affermazione che il valore del lavoro è costante, benchè vari il valore dei mezzi di sussistenza e benchè quindi la stessa giornata lavorativa si rappresenti in più o meno denaro per il lavoratore.
D’altra parte, se ci volgiamo al capitalista, questi vuole precisamente ottenere la maggiore quantità possibile di lavoro per la minore quantità possibile di denaro. In pratica quindi gli interessa solo la differenza fra il prezzo della forza-lavoro e il valore creato dal suo funzionamento. Ma. egli cerca di comperare ogni merce il più a buon mercato possibile e si spiega il suo profitto sempre con quel semplice trucco che è la compera al di sotto e la vendita al di sopra del valore. Non riesce perciò a capire che, se esistesse realmente una cosa come il valore del lavoro, e se egli realmente pagasse questo valore, non esisterebbe alcun capitale e il suo denaro non si trasformerebbe in capitale.
Per di più il movimento reale del salario mostra fenomeni i quali sembrano dimostrare che non il valore della forza-lavoro viene pagato, bensì il valore della sua funzione, il valore del lavoro stesso. Questi fenomeni si possono ricondurre a due grandi classi.
Primo: variare del salario con il variare della lunghezza della giornata lavorativa. Alla stessa maniera si potrebbe concludere che non è il valore della macchina che viene pagato ma quello della sua operazione, per il fatto che costa di più affittare una macchina per una settimana che non per un giorno.
Secondo: la differenza individuale fra i salari di operai diversi i quali compiono la medesima funzione. Questa differenza individuale si trova anche, ma senza dare occasione ad illusioni, nel sistema schiavistico dove si vende francamente la forza-lavoro stessa, senza ambagi e senza fronzoli. Solo che nel sistema della schiavitù il vantaggio di una forza-lavoro al di sopra della media o lo svantaggio di una forza-lavoro al di sotto della media tocca al proprietario degli schiavi, e nel sistema del lavoro salariato tocca all’operaio stesso, perchè in un caso la sua forza-lavoro viene venduta da lui stesso, nell’altro da una terza persona.
Del resto per la forma fenomenica « valore e prezzo del lavoro » o « salario », a differenza del rapporto sostanziale che in essa si manifesta, cioè il valore e il prezzo della forza-lavoro, vale quel che vale per tutte le forme fenomeniche e per il loro sfondo nascosto. Le forme fenomeniche si riproducono con immediata spontaneità, come forme correnti del pensiero, il rapporto sostanziale deve essere scoperto dalla scienza. L’economia politica classica tocca in via approssimativa il vero stato delle cose, senza per altro formularlo in modo consapevole. Essa non può farlo finchè è chiusa nella sua pelle borghese.
NOTE

[21] « Il Ricardo evita abbastanza ingegnosamente una difficoltà che sembra opporsi a prima vista alla sua teoria secondo la quale il valore dipende dalla quantità di lavoro impiegata nella produzione. Se questo principio è rigidamente tenuto fermo, ne consegue che il valore del lavoro dipende dalla quantità di lavoro impiegata per produrlo — il che è evidentemente assurdo. Perciò, con un’abile mossa, il Ricardo fa dipendere il valore del lavoro dalla quantità di lavoro necessaria per la produzione del salario; o, per dirla con le sue parole, sostiene che il valore del lavoro dev’essere stimato mediante la quantità di lavoro richiesta per la produzione del salario, con il che egli intende la quantità di lavoro richiesta per produrre il denaro o la merce dati al lavoratore. Questo è come dire che il valore di una stoffa è stimato non mediante la quantità di lavoro impiegata per la sua produzione, ma mediante la quantità di lavoro impiegata nella produzione dell’argento con il quale la stoffa viene scambiata » (A Critical Dissertation on the Nature ecc. of Value, pp. 50, 51).
[22]  « Se voi chiamate il lavoro una merce, esso non è però eguale a una merce, prima prodotta per lo scambio e poi portata al mercato, dove dev’essere scambiata con altre merci che si trovano sul mercato e con le rispettive quantità di ciascuna; il lavoro è creato nel momento in cui è portato al mercato, anzi, viene portato al mercato, prima di essere creato » (Observations on some verbal Dispute: ecc., pp. 75, 76).
[23] « Trattando il lavoro come una merce e il capitale, prodotto del lavoro, come un’altra merce, allora, se i valori di queste due merci fossero regolati da quantità eguali di lavoro, una quantità data di lavoro.., si scambierebbe con quella quantità di capitale che era stata prodotta dalla medesima quantità di lavoro; un lavoro precedente si scambierebbe... con la medesima quantità con cui si scambia un lavoro presente. Ma il valore del lavoro, rispetto ad altre merci.., non è determinato da quantità eguali di lavoro » (E. G. Wakefield nella sua edizione di A. SMITH, Wealth of Nations, Londra, 1835, vol. I, pp. 230, 231, nota).
[24] « È stato necessario convenire (un’altra edizione del contrat social !) che ogni volta che egli scambia lavoro fatto con lavoro da farsi, quest’ultimo (il capitalista) avrebbe un valore superiore al primo (operaio) » (SIMONDE DE SISMONDI, De la Richesse Commerciale, Ginevra, 1803, voI. I, p. 37).
[25] « Il lavoro, scala di misura esclusiva del valore.., creatore di ogni ricchezza, non è merce »  (Th. HODGSKIN, Popular Political Economy, p. 186).
[26] Dichiarare che simili espressioni non sono che licentia poetica dimostra soltanto l’impotenza dell’analisi. Contro la frase di Proudhon: « Il lavoro è chiamato valore, non tanto in quanto è esso stesso merce, ma in vista dei valori che si suppongono racchiusi in esso in potenza. Il valore del lavoro è un’espressione figurata, ecc. », io osservo quindi: «Nel lavoro-merce che è una tremenda realtà, egli non vede che un’ellissi grammaticale. Dunque, tutta la società attuale, fondata sul lavoro- merce, è ormai fondata su una licenza poetica, su un’espressione figurata. Vuole la società “eliminare tutti gli inconvenienti “ che la travagliano? Ebbene, elimini i termini impropri, muti di linguaggio, e si rivolga per questo all’Accademia chiedendo una nuova edizione del suo dizionario» (K. Marx Misère de la Philosophie. pp. 34, 35 ). Naturalmente è ancora più comodo non intendere assolutamente niente per valore. In tal caso si può far rientrare tutto in questa categoria. Così per esempio J. B. Say. «Che cos’è valore »? Risposta: « Ove! che una cosa vale », e che cos’è « prezzo »? Risposta: « Il valore di una cosa espresso in denaro ». E perché «il lavoro della terra ha... un valore? » Perché le si riconosce un prezzo». Il valore è quindi quello che una cosa vale, e la terra ha un «valore », perché il suo valore viene «espresso in denaro ». Certo, questo è un metodo ben semplice per accordarsi sul perchè e per come delle cose.
[27]  Cfr. Zur Kritik dei politischen Okonomie, p. 40, dove annuncio che nella trattazione del capitale dovrà essere risolto il problema: « In che maniera la produzione in base al valore di scambio determinato dal solo tempo di lavoro conduce al risultato che il valore di scambio del lavoro è minore del valore di scambio del suo prodotto? ».
[28] Il Morning Star, organo londinese dei liberoscambisti, ingenuo fino alla stupidità, durante la guerra civile americana tornava sempre ad assicurare, con tutta l’indignazione morale umanamente possibile, che i negri nei Confederate Stàtes [ Stati del Sud] lavoravano del tutto gratuitamente. Avrebbe dovuto compiacersi di confrontare i costi giornalieri di uno di quei negri con quelli per esempio del libero operaio dell’East End di Londra.
[29] A. Smith allude solo casualmente alla variazione della giornata lavorativa in occasione del salario a cottimo.

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