venerdì 28 aprile 2017

“Sull'attualità del pensiero economico di Marx”*- M.Beccari - M.Paciotti

*I due articoli che presentiamo, pubblicati sulla rivista  https://www.lacittafutura.it/, sono frutto di una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull'attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l'UniGramsci (universit-popolare-antonio-gramsci), nell'anno accademico 2016-2017.  
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/bio-economia-e-il-mito-della-decrescita.html



Il mito della “fine del lavoro” - Marco Beccari 

Lo sviluppo tecnologico ha provocato un aumento del numero di disoccupati in Occidente, a ciò però si oppone una crescita dell’occupazione su scala internazionale, anche nel comparto industriale.

In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.

I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il il modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.

Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della fine del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.

mercoledì 26 aprile 2017

Etica Nicomachea Libro II (Giusto mezzo)*- Aristotele

*Da:    http://www.ilgiardinoedipensieri.eu/ 
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/aristotele-etica-nicomachea-francesco.html 


1. Da dove nasce la virtù?

1.1. La virtù morale è il frutto dell’abitudine, non dell’insegnamento
La virtù ha dunque due forme: una intellettuale, l’altra etica.
Se è intellettuale, è in gran parte all’insegnamento che deve la sua nascita e la sua crescita. Proprio per questo ha bisogno di esperienza e di tempo. Se invece è etica, è frutto dell’abitudine. Da qui deriva il suo nome, come piccola modificazione del termine ethos (1).

2. La virtù morale non è data per natura
È quindi chiaro che nessuna delle virtù morali ci è data per natura.

2.1. Primo argomento
Infatti nulla di ciò che è ci è dato per natura si modifica con l’abitudine. Così la pietra che cade per natura verso il basso non può prendere l’abitudine di andare verso l’alto, neppure se la si volesse abituare gettandola diecimila volte per aria. Non più di quanto il fuoco possa abituarsi ad andare verso il basso, perché nessun comportamento naturale può essere modificato con l’abitudine.
Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che ci sono date le virtù. Al contrario, la natura ci ha fatti in modo da poterle ricevere, ma è seguendo i nostri fini che le acquisiamo, attraverso l’abitudine.

2.2. Secondo argomento
Di più, tutto quanto la natura mette a nostra disposizione, l’acquisiamo all’inizio sotto forma di capacità e solo dopo diventa per noi in atto, come si vede bene osservando i sensi. Infatti non è che le nostre facoltà sensibili nascano dall’atto frequente di vedere o dall’atto frequente di intendere: è l’inverso, perché possiamo usare i sensi perché li abbiamo e non è affatto l’uso che ce ne dà il possesso.
Ora, le virtù nascono da atti precedenti, come avviene per il possesso delle tecniche. Infatti, quando dobbiamo apprendere come fare qualcosa, è attraverso il fare che l’apprendiamo. Così è costruendo che si impara a costruire, e suonando la citara si diviene citaristi. Nello stesso modo, è così che esercitandoci a fare azioni giuste che diventiamo giusti, e agendo con moderazione che diventiamo moderati, o con coraggio coraggiosi.

2.1. Conferma
Ne è testimonianza quanto accade nelle città. I legislatori infatti cercano di creare nei loro concittadini le abitudini che li rendano buoni cittadini: è proprio questo l’obiettivo di qualsiasi legislatore. Chi non si pone questo obiettivo, va incontro a fallimenti. Ed è proprio questo che differenzia un buon regime politico da uno che non lo è.

martedì 25 aprile 2017

La crisi finanziaria e la grande recessione: origini e politiche economiche adottate - Fabio Sdogati

Dice Aristotele che si conosce qualcosa quando se ne conoscono le cause. Da parte sua Marx ribadisce, nel Capitale, che "ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero". Nel seguire questa lezione di "capitalismo realmente esistente" è bene aver presenti queste affermazioni per evitare di cadere nell'equivoco di credere che la spiegazione della crisi proposta da Sdogati sia più di quel che è, vale a dire una rassegna di fenomeni promossi a cause. È vero che, ad esempio, la speculazione sui "derivati" o la restrizione del credito bancario hanno a che vedere con quanto sta accadendo a livello planetario: ma sono a loro volta espressione e conseguenza di quella tendenza all'infinito accrescimento del valore (non necessariamente della ricchezza effettiva) che costituisce l'essenza del capitalismo ( e che viene accuratamente occultato, o peggio, naturalizzato dall'ideologia dominante). Tutto ciò Marx lo sapeva già e lo espone, sia pure in forma non compiuta, nella sua opera principale e, in particolare, nel terzo libro. Detto ciò, è sempre utile e istruttivo, per chi non è un addetto ai lavori, prendere atto di come un economista borghese vede il mondo che la sua stessa classe ha costruito e, nello stesso momento, se lo nasconde dietro a un velo di pseudo-razionalità. (il collettivo)  

domenica 23 aprile 2017

L’indipendenza nazionale, unica via d’uscita possibile*- Frantz Fanon**

*Da:   Giornale El Moudjahid (Il Partigiano), organo ufficiale del FLN, n°10, settembre 1957 
http://www.marx21.it/                http://zecchinellistefano.blogspot.it/
**https://annaseghers.wordpress.com/2017/01/19/ibrahim-omar-fanon/



“Quest’opulenza europea è letteralmente scandalosa perché è stata edificata sulle spalle degli schiavi, viene in linea retta dal suolo e dal sottosuolo di quel mondo sottosviluppato. Il benessere e il progresso dell’Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei neri, degli arabi, dei nativi americani e degli asiatici.. … Quel che conta oggi, il problema che sbarra l’orizzonte, è la necessità di una ridistribuzione delle ricchezze. L’umanità, sotto pena di esserne sconvolta, dovrà rispondere a questa domanda.”


Il termine di indipendenza da solo è sufficiente per aizzare contro di noi l’unanimità dei Francesi. Se ha il dono di far arrabbiare gravemente gli imperialisti accaniti, non manca anche di suscitare la furia degli uomini di sinistra le cui reazioni scioviniste sono diventate incontrollabili. L’opinione francese non ci perdona di rivendicare con tanta convinzione la sovranità piena ed intera del nostro paese. Ci accusa di infantilismo e ci rimprovera di avere questa passione idolatra che ci renderebbe schiavi di una parola.

Confrontata con una spinta nazionalista, questa stessa opinione non esita a mettere in questione l’idea di indipendenza nazionale in generale. Il concetto sarebbe antiquato e non corrisponderebbe più alle esigenze della nostra epoca in cui prevalgono i grandi blocchi politici, a scapito delle piccole potenze. Non coglie l’opportunità dell’indipendenza, che non sarebbe più una promozione, ma una regressione per l’Algeria situata alle porte dell’Europa e avendo tutto da beneficiare restando nelle mani della Francia.

Un obiettivo fondamentale e non una rivendicazione tattica

Ci si è impadroniti in Francia del problema algerino per oscurarne i dati e presentarlo in termini inintelligibili. Una moltiplicazione di soluzioni spesso contraddittorie, sempre illusorie, sono state presentate. In questo flusso di progetti, la soluzione valida, l’unica che importi per la pace, ovvero l’indipendenza dell’Algeria, è prevista soltanto per essere sistematicamente disapplicata. Ne conseguono tutte le controversie e discussioni che si sono instaurate tra i responsabili francesi, che è una soluzione ingiustificata e dopotutto arbitraria.

sabato 22 aprile 2017

Marx, Engels ed il “chimico rosso”*- Ian Angus



Avere una base per la vita e un’altra per la scienza è une falsità a priori (Karl Marx)

L’eredità dimenticata di Carl Schorlemmer

Negli ultimi decenni del XX secolo una singolare idea ha preso piede in alcuni settori del mondo accademico. Con essa si è voluto sostenere che, lungi dall’essere i più stretti compagni e collaboratori, intenti a lavorare in armonia per quarant’anni, Karl Marx e Friedrich Engels di fatto erano in disaccordo riguardo a questioni fondamentali, sia teoriche che pratiche.

I presunti disaccordi tra i due avrebbero riguardato la natura e le scienze naturali. Ad esempio, Paul Thomas contrappone “il ben noto interesse di Engels per le scienze naturali” alla “mancanza di interesse da parte di Marx”, suggerendo che “Marx ed Engels erano divisi da un abisso concettuale che avrebbe resistito ad ogni tentativo d’insabbiamento”(1). Terrence Ball, analogamente, sostiene che “l’idea (successivamente abbracciata da Engels) secondo la quale la natura esiste indipendentemente, e prima, di ogni sforzo da parte dell’uomo di trasformarla, è del tutto estranea all’umanesimo di Marx”(2). Dal punto di vista di Ball, alla distorsione della filosofia di Marx compiuta da Engels  vanno addebitate “alcune delle più repressive caratteristiche dell’esperienza sovietica”(3). In una versione ancor più estrema di tale tendenza, Terrel Carver, insieme ad altri, insiste sul punto per il quale Marx non sarebbe stato un marxista – essendo il marxismo una dottrina inventata da Engels, il materialismo scientifico del quale sarebbe stato in contrasto coll’umanesimo liberale di Marx.

Da una prospettiva alquanto diversa, Theodor Adorno, Alfred Scmidt ed altri vicini alla Scuola di Francoforte ed al marxismo occidentale, hanno sostenuto che il materialismo scientifico si applica esclusivamente alla società umana, dunque gli sforzi di Engels al fine di adattarlo alle scienze naturali, nella sua incompiuta Dialettica della natura, costituivano una distorsione intellettuale contraria al metodo marxista.

I difensori di Engels hanno replicato che tra Marx ed Engels vigeva una divisione del lavoro, in base alla quale Engels si occupava della scienza, tuttavia, un numero sempre crescente di ricerche dimostra come una simile obiezione conceda troppo agli argomenti anti-engelsiani. Come scrive Kohei Saito, tale divisione del lavoro è un’illusione: “sebben Engels sia più noto per i suoi scritti circa le scienze naturali… Marx è stato uno studioso altrettanto acuto di molti degli stessi soggetti”(4).

Nuovi studi sui quaderni di appunti di Marx, per lungo tempo non disponibili, ora in corso di pubblicazione nella monumentale Marx-Engels-Gesamtausgabe (Opere complete di Marx ed Engels), confutano decisamente le affermazioni secondo le quali Marx era disinteressato alle scienze naturali, o le riteneva politicamente irrilevanti. 

giovedì 20 aprile 2017

Una stabile crescita interna è l'obiettivo della Cina per il 2017*- Walter Ceccotti

*Da:  https://www.lacittafutura.it/


L'economia cinese continua a crescere e a costituire il traino dell'ecomia mondiale. Gli obiettivi della pianificazione e le misure di politica economica. 



La Conferenza Economica Centrale di Lavoro cinese tenutasi nel dicembre del 2016 ha delineato un progetto che è stato ripreso dalla sessione dell'Assemblea Popolare Nazionale tenutasi a Marzo 2017.
Presentando il rapporto sul lavoro del governo, il Primo Ministro Li Keqiang ha fissato un tasso di crescita del 6,5% per il 2017 (6,7 nel 2016) e ha aumentato di un milione il target per la creazione di nuovi posti di lavoro, da 10 milioni ad 11, per quest'anno.
Tutti i dati macroeconomici andranno inquadrati nell'ambito del Tredicesimo Piano Quinquiennale (2016-2020) e nel progetto del raddoppio del Pil e del reddito pro capite dal 2010 all'anno 2020.
Il piano quinquennale è a sua volta inserito nel progetto del cambiamento del paradigma di sviluppo che ormai la Cina da qualche anno sta perseguendo (per un'approccio approfondito, consigliamo caldamente la lettura del libro di Xi Jinping, "The Governance of China", Foreign Language Press, 2014, recentemente tradotto anche in italiano da M. CastorinaT. Zappone, "Governare la Cina", Giunti Editore, 2016).
Ma andiamo con ordine, con il criterio dei quattro classici strumenti della politica economica: 

mercoledì 19 aprile 2017

Bio-economia e il mito della decrescita felice*- Domenico Laise**

*Quarto incontro del seminario UniGramsci: "FORZA-LAVORO, MACCHINE, E PROGRAMMA MINIMO"   https://www.unigramsci.it/
**Professore associato Dipartimento di Informatica e Sistemistica - Facoltà Ingegneria - Università "La Sapienza" - Roma
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/cinque-risposte-su-marxismo-ed-ecologia.html

(Cliccando con il mouse sulla singola foto sarà possibile una migliore visione.)



Con rammarico, non avendo la possibilità di mostrare in video l'interessantissimo lavoro del Prof. Laise ci limitiamo a condividere le slides d'accompagnamento al seminario. 

Pur non rendendo, in tal modo, la completezza dell'ottima lezione tenuta, la "traccia" seguita nelle slides è di per se molto chiara e esplicativa. Buona lettura... 
(il collettivo)




martedì 18 aprile 2017

Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale*- Vladimir Lenin (1917)


*Scritto il 4 e 5 (17 e 18) aprile 1917, pubblicato il 7 (20) aprile 1917 nella Pravda n° 26.   https://www.marxists.org/ 

Questo articolo, pubblicato il 7 aprile 1917 sulla Pravda, contiene le celebri Tesi di aprile di Lenin, che evidentemente furono redatte da lui durante il viaggio alla vigilia del suo rientro a Pietrogrado.
Lenin presentò le tesi il 4 (17) aprile in due riunioni: in un'assemblea di bolscevichi e in un'assemblea comune di bolscevichi e menscevichi delegati alla Conferenza dei Soviet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia al Palazzo di Tauride. 


     Giunto a Pietrogrado nella notte del 3 aprile, naturalmente solo a mio nome e con le riserve dovute alla mia insufficiente preparazione, potevo presentare alla riunione del 4 aprile un rapporto sui compiti del proletariato rivoluzionario.
Il solo mezzo che avevo per agevolare il mio lavoro - e quello degli oppositori in buona fede - era quello di preparare delle tesi scritte. Ne ho dato lettura e ne ho trasmesso il testo al compagno Tsereteli. Le ho lette molto lentamente due volte: prima alla riunione dei bolscevichi e poi a quella dei bolscevichi e dei menscevichi.
Pubblico ora queste mie tesi personali, corredate soltanto con brevissime note esplicative, che ho esplicato                                                                                                               assai più minuziosamente nel mio rapporto.

TESI


1. Nel nostro atteggiamento verso la guerra, che, da parte della Russia, anche sotto il nuovo governo di Lvov e soci, rimane incontestabilmente una guerra imperialistica di brigantaggio, in forza del carattere capitalistico di questo governo, non è ammissibile la benché minima concessione al "difensismo rivoluzionario".
Il proletariato cosciente può dare il suo consenso ad una guerra rivoluzionaria che giustifichi realmente il difensismo rivoluzionario solo alle seguenti condizioni: a) passaggio del potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini che si schierano dalla sua parte; b) rinuncia effettiva, e non verbale, a qualsiasi annessione; c) rottura completa ed effettiva con tutti gli interessi del capitale.
Data l'innegabile buona fede di larghi strati dei rappresentanti delle masse favorevoli al difensismo rivoluzionario, che accettano la guerra come una necessità e non per spirito di conquista, e poiché essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, ostinazione e pazienza, l'errore in cui cadono, svelando il capitale insolubile fra il capitale e la guerra imperialistica, dimostrando che è impossibile metter fine alla guerra con una pace veramente democratica, e non imposta con la forza, senza abbattere il capitale.
Organizzare la propaganda più ampia di questa posizione nell'esercito combattente.
Fraternizzare.

lunedì 17 aprile 2017

Machiavelli 2017. Tra partito connettivo e partito strategico*- Mimmo Porcaro

*Da:   http://www.retedeicomunisti.org/  



Ho tenuto a lungo nel cassetto questo breve articolo, pensato per lettori non italiani – e già pubblicato in versione tedesca (in cooperazione con la rivista Jacobin) su LuXemburg (periodico della fondazione omonima), n. 2, 2016 – perché temevo che la concezione “stretta” di partito che qui propongo potesse influenzare negativamente il processo di costruzione di una vera forza socialista nel nostro paese.
Se è infatti vero che abbiamo bisogno anche di un partito fatto di elementi molto selezionati, è altrettanto vero, però, che tale selezione deve avvenire su una platea molto più vasta di quella che abbiamo a disposizione oggi. Oggi servono organismi politici capaci di avviare la crescita di una prospettiva socialista attraendo forze di buona consistenza numerica e di diversa estrazione sociale e culturale: solo sulla base di questa prima crescita si potrà operare, o verrà operata dai fatti, una selezione che estragga gli elementi più consapevoli e determinati. Considerato che organismi del genere stanno per fortuna iniziando a nascere, e con il passo giusto (penso alle pur diverse esperienze di Eurostop e della Confederazione di Liberazione Nazionale), mi sembra adesso che questo scritto posa avere una qualche utilità anche per la discussione italiana: per questo lo rendo pubblico, con minime modifiche rispetto alla precedente versione. Il suo titolo originale era “Machiavelli 2016” (anche se, per scelta redazionale, l’edizione tedesca reca un titolo diverso): il passaggio al 2017 non deriva solo da pedanteria cronologica ma anche dal fatto che, a leggere bene, oltre a parlarci della contemporaneità Machiavelli ha molto da dirci sugli indimenticabili eventi di 100 anni fa.

1. Il partito connettivo: perché?

Negli ultimi anni del ‘900 era ormai evidente a tutti la crisi del partito di massa come forma di organizzazione politica delle classi subalterne: una crisi che era irreversibile proprio perché era un frutto del successo di quel tipo di partito. Il partito di massa era infatti cresciuto inglobando efficacemente il maggior numero possibile di individui e di associazioni: ma la gestione dell’eterogeneità di questa folla di soggetti creava crescenti problemi di egemonia interna. Il partito di massa aveva raggiunto l’obiettivo di “portare le masse nello stato”, ma per farlo molti dei militanti si erano trasformati in amministratori ed i gruppi dirigenti erano divenuti parte dell’élite dello stato capitalistico, ceto di governo. Da qui la trasformazione da partito di integrazione di massa a partito professionale, e da questo a catch-all-party, partito “pigliatutto” o comunque interclassista: il risultato del parziale successo del partito delle classi subalterne era che le classi subalterne non avevano più un partito.

domenica 16 aprile 2017

SUL PARTITO* - Stefano Garroni

*passaggi tratti dalla discussione sul: DOCUMENTO DI S. GARRONI: ‘LENIN, LA RIFLESSIONE SUL PARTITO’. 12/99 - Qui l'audio dell'incontro:    https://www.youtube.com/playlist?list=PLAA23B4D87D6C9F26                    

[...] la méra registrazione del tipo di figure proletarie, è vista prevalentemente a fini sindacali, non politici, perché ovviamente il problema del partito – e questo lo vediamo appunto in Lenin in modo chiarissimo -, è fondamentalmente il problema di uno strumento per realizzare certi fini, e allora il problema di fondo è stabilire quali sono i fini, quindi andare oltre la questione del partito
[...]la problematica del partito, nascendo all’interno di una problematica più vasta - che è l’analisi della situazione, le finalità del partito, il modo di concepire la teoria marxista -, inevitabilmente coinvolge la totalità del movimento marxista pensante, e quindi è immediatamente – anche la posizione di Lenin -, il risultato di un confronto critico, di uno scontro, di una pluralità di voci.
[...]E’ estremamente bello mi pare, come i grandi protagonisti del movimento comunista usino l’uno verso l’altro un linguaggio estremamente vigoroso, con accuse pesantissime. Lenin è – sappiamo – una figura enorme e sacramentale per tutto il movimento comunista, ed esistono documenti enormi di Trotskij, Bucharin, di Stalin stesso, che dicono cose terribili contro Lenin e viceversa, proprio perché c’è questo costume molto vigoroso e molto con i piedi per terra, per cui l’analisi non si ricava deduttivamente e dogmaticamente dalla teoria, ma si ricava dal confronto reale con i problemi e con tutta la molteplicità dei problemi che al movimento effettivamente si pongono.
[...]Ovviamente, questo sottolineare che Lenin filosofo lo si ricava ragionando sul suo far politica, come dire, è anche una presa di posizione sull’attuale. Voi lo sapete che verso la filosofia c’è un atteggiamento diffuso molto ambiguo. Solitamente si riserva un grande rispetto alla filosofia, nel senso che tutti se ne fregano: “Il filosofo è persona nobile che si occupa dei problemi dello spirito”, cioè è uno stronzo. Se invece andiamo a vedere in concreto, allora ci rendiamo conto che per esempio l’uomo politico Lenin, intanto fa l’uomo politico, in quanto non solo interviene su situazioni determinate proponendo soluzioni determinate, ma in quanto implica in questo una certa teoria, una filosofia, e allora scopriamo come l’intreccio filosofia-politica, stia nell’agire politico stesso. Donde l’indicazione che noi dobbiamo fare molta attenzione a noi stessi quando facciamo politica, nel senso che nel far politica, volendo o non volendo, portiamo avanti una teoria, e quando portiamo avanti una teoria non sapendolo, o non volendolo, stiamo sicuramente portando avanti la teoria peggiore, cioè quella non critica, non consapevole, non ragionata, e quindi vale la pena di nobilitare fino in fondo l’azione politica rendendoci conto che è l’applicazione di una teoria di cui dobbiamo prendere coscienza. Il che ovviamente non significa – come dire – né riproporre il mito del filosofo che fa politica o del politico che è ipso facto del filosofo. Ovviamente il filosofo professionale sarà una cosa diversa dal politico, però rendiamoci conto che né il filosofo professionale può esser sé stesso senza fare anche lui le ricerche politiche di cui deve essere consapevole, né il politico può esser sé stesso senza fare delle scelte teoriche di cui è bene che sia consapevole. 

sabato 15 aprile 2017

ORDOLIBERISMO E EURO: LA LUNGA MARCIA DELLA RESTAURAZIONE*- Luciano Barra Caracciolo

*Da:   https://scenarieconomici.it/ 

1) ORDOLIBERISMO 


Per parlare dell’ordoliberismo (o “ordoliberalismo”: la distinzione, fatta in italiano, deriva dalla non conoscenza della lingua inglese, dove non esiste la parola liberism, ma solo quella “liberalism”, che indica indistintamente una dottrina economica e la sua inscindibile ideologia politica) prendiamo spunto da questa citazione di una frase di Giuliano Amato in un’intervista rilasciata in inglese. 

La traduciamo così non ci sono equivoci: “Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace – che solleva gli Stati nazionali dall’ansia mentre vengono privati del potere– con grandi balzi istituzionali…Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee...”.
Ordoliberismo: veste €uro-attuale del neo-liberismo che, imperniata sull’obiettivo del lavoro-merce, prende atto dell’ostacolo delle Costituzioni sociali contemporanee (fondate sul lavoro), ed agisce divenendo “ordinamentale”, cioè impadronendosi delle istituzioni democratiche per portarle gradualmente ad agire in senso invertito rispetto alle previsioni costituzionali.”
Questa vicenda di gradualità nell’impossessamento delle istituzioni democratiche, per invertirne la direzione di intervento, cioè per portarle a tutelare e realizzare interessi di segno opposto a quello per cui vennero concepite dalle Costituzioni nate dalla Resistena al nazifascimo, ha una avuto una fase operativa che ne ha consentito l’attuazione tecnocratica, secondo una precisa ideologia economica di tipo restaurativo, come fine ultimo.
 2) LE RADICI RESTAURATRICI

venerdì 14 aprile 2017

60 anni di UE, niente da festeggiare*- Luciano Vasapollo**

*Da:  noirestiamo.org   
**Professore di Politica economica internazionale alla Sapienza di Roma e dirigente della Rete dei Comunisti.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/autogoverno-e-tirannide-alessandro_12.html



Per Vasapollo, già la crisi del 1929 è una grossa crisi di accumulazione da cui il capitalismo esce da un lato con un nuovo modello produttivo – il fordismo – dall’altro ridefinendo il ruolo dello Stato, conferendogli una presenza molto più attiva in termini di spesa pubblica che, come Vasapollo ha sottolineato, di per sé non significa necessariamente spesa sociale, e anzi ha assunto la dimensione prevalente di spesa in armamenti. In effetti, l’uscita da quella crisi è stata storicamente possibile solo con la seconda guerra mondiale e ha visto a quel punto gli Stati Uniti, il cui territorio è rimasto intatto da bombardamenti e distruzioni, imporsi come potenza imperialistica egemone a livello globale, seppur in coesistenza con il blocco socialista a guida sovietica. In questa fase gli USA, tramite ingenti finanziamenti economici, hanno di fatto legato a sé la ricostruzione economica e i destini dell’Europa e del Giappone.

Germania e Giappone hanno sviluppato successivamente una forma particolare di capitalismo, ciò che Vasapollo definisce modello renano-nipponico: alti salari, alta produttività e buon livello di stato sociale in cambio di un livello molto basso di conflittualità. Gradualmente – mentre l’egemonia economica globale statunitense iniziava a incrinarsi, e il 1971 sanciva la fine degli accordi di Bretton Woods e della convertibilità diretta oro-dollaro – questi paesi sono stati in grado di sviluppare un proprio modello di accumulazione, rendendosi gradualmente indipendenti dagli Stati Uniti e anzi diventando suoi competitori.

L’Unione Europea nasce poco dopo la fine della seconda guerra mondiale – i primi passi vanno rintracciati nella Comunità del carbone e dell’acciaio – e da subito rappresenta un progetto di costruzione di un fronte europeo in funzione antisovietica. Vasapollo ha illustrato come ogni passaggio di questo processo di integrazione abbia seguito un importante avvenimento a livello di politica internazionale: il trattato di Roma del 1957 segue i fatti di Ungheria, l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna è del 1973 e segue la fine di Bretton Woods.

Gradualmente, la Germania imprime la sua impronta indelebile sul processo di integrazione europeo: in particolare, data la dimensione fortemente esportatrice della sua economia, essa incoraggia la deindustrializzazione progressiva dei paesi del Sud e dell’Est Europa, in un processo che naturalmente manifesta un fondamentale salto di qualità con la fine del socialismo reale e la riunificazione della Germania, fatti preceduti dall’importante Atto unico europeo del 1986, con cui si sancisce la nascita del mercato unico.

I trattati europei firmati a partire da quello di Maastricht rappresentano la cornice che dà forma al progetto a guida franco-tedesca (dove la Francia è particolarmente importante in quanto braccio militare, mentre la Germania è la potenza economica preponderante), progetto incentrato fin da subito – e non potrebbe essere altrimenti – sulla costruzione di un ruolo da protagonista nella competizione globale, in crescente divaricazione con gli Stati Uniti. Da qui inizia la costruzione di quella borghesia transnazionale europea, di cui la borghesia tedesca rappresenta la parte più avanzata ma certo non l’unica, si pensi ai settori di borghesia italiana che hanno interesse alla costruzione di un polo europeo forte e autonomo e che fanno riferimento al Partito democratico.

giovedì 13 aprile 2017

LOCKE E DINTORNI - Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione: Risposta a un testo di Eugenio Di Rienzo, Dal filosofo allintellettuale politico (11/99)
Qui l'audio dell'incontro:  https://www.youtube.com/watch?v=nCSYIPwWd9s&list=PL2FEDB228D4F2E69B&index=1



[...]buona parte della tematica di Locke è tematica in realtà pre-borghese.

[...]Questo senso del valore che è dato dal lavoro che io ho impiegato nel trasformare la materia, questo è un motivo medievale, è un motivo che trovi in Tommaso d’Aquino per esempio, e di cui Tommaso d’Aquino si serve quando scrive contro l’usura. Cioè, il giusto profitto, è quello che io ricavo dal lavoro che esercito su una materia. Ovviamente questo è in un quadro in cui la dimensione economica è ancora vista dentro una dimensione morale: non è ancora avvenuto quel fenomeno capitalistico di emancipazione dell’economico, e allora da questo punto di vista c’è un altro collegamento con il testo di Marx, proprio quando Marx sottolinea questo emergere dell’economico nella sua autonomia, nel volgersi della società capitalistica.

[...]Ma dal testo viene fuori anche un altro elemento a cui accennavamo in un’altra occasione, e cioè che succede qualche cosa di importante quando il capitalismo, da prevalentemente commerciale, diventa prevalentemente industriale, qualcosa di importante sia a livello della teoria, sia a livello, ovviamente, della vita economica quotidiana, cioè l’emergere sempre di più dell’interesse privato e la rottura della comunità. Questo ha ripercussioni a livello teorico,  come anche per esempio ha ripercussioni importanti a livello religioso, cioè processi interni in particolare al cristianesimo protestante, in cui viene più o meno accentuato l’elemento comunitario individuale del rapporto con il testo sacro. Questo pone anche una relazione importantissima con un fenomeno che Marx chiama il feticismo della merce.

[...]Chiamiamo feticismo quella situazione per cui io attribuisco un potere alla cosa, la cosa è dotata di una sorta di potere magico che agisce su di me. Per esempio gli economisti del '700 affrontano sotto questo aspetto il problema del valore: nell’opinione comune si dice che le cose hanno valore, ma questa è, in sostanza, una mentalità feticistica, è quella mentalità magica che attribuisce valore, potere, alle cose.

[...]In realtà, la lotta contro questo mondo magico, incantato, deve portarci, a livello economico, per esempio a concepire, a renderci conto che il valore delle cose è una decisione dell’uomo, il valore delle cose è l’apprezzamento che l’uomo da alla cosa, quindi tu vedi proprio il meccanismo analogo alla lotta del protestante contro il cattolico: cioè non ha valore in sé il detto del dio. Il problema è quello di cogliere invece la consonanza con il soggetto, quindi emerge il soggetto come elemento giudicante: la fonte del valore è il soggetto, anche del valore economico. E’ interessante che la critica al feticismo in questo senso la trovi in Marx, con un esito diverso da questa soggettivizzazione.

mercoledì 12 aprile 2017

AUTOGOVERNO E TIRANNIDE*- Alessandro Mazzone


*Da:  La contraddizione.   145 – ott.dic.13
Questo articolo è stato pubblicato nel 1999 sul no. 73 della rivista. In questa occasione, per ragioni editoriali, pur riproponendo integralmente il corpo del testo, abbiamo ridotto il numero delle note a margine, escludendo quelle di carattere bibliografico per cui rimandiamo alla precedente versione presente anche sul sito web della rivista.


Lidea dello stato: un’analisi del potere presente


1. Perfino un liberale come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’at­tacco neoliberale ad ogni forma di socialismo è ormai, e sostanzialmente, un at­tacco alla democrazia tout court. Ma per chi ritiene che gli ideologemi neolibe­rali siano piuttosto figure di superficie di un processo, in cui il capitalismo tran­snazionale tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante quattro genera­zioni) – conviene riprendere la questione alla radice.

Si tratta di domandarsi a quali condizioni sia pensabile, nel mondo attua­le, democrazia, cioè autogoverno di una comunità umana, in cui gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche attraverso regole e istituzioni, il miglior sviluppo dei suoi membri. E si vede allora che la questione della de­mocrazia è più ampia di quella delle istituzioni, o anche della configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi istituzionali di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei fini dello Stato, innanzitutto dei “fini” tout court (“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in apertura dell’Etica Nicomachea), e di come questi fini possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale. Questo, naturalmente, è il problema della politica da Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui anche quella liberale è, certo, un elemento – ma è solo per strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto, decretando che prima di Locke e Hobbes c’è il buio, che la nozione di comunità umana e del suo rapporto con la natura (cioè con la non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni, “individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula sæculorum.

Chiamo Corpus collectivum hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione (astratta!) di una qualsiasi comunità umana, capace di riprodursi bioti­camente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè dotata di un suo rap­porto biotopico tipico con l’ambiente naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha, innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le modalità o for­me di moto della produzione e riproduzione della comunità stessa, che variano nel tempo, e che – oggi – tendono a inglobare non solo la produzione e riprodu­zione di individui umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di modalità d’azione storicamente definite) – ma le determinanti biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le forme di vita della comunità, ma solo nella misura in cui la comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa, ossia al limite non ha niente fuori di sé.1 Ma – si dirà giustamente – quante cose una comunità umana ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare, inclusa la sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo “materia” dell’autogoverno, e abbiamo che materia dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei fini, che gli uomini si pongono, come materia, ossia non-volontà, non-ragione, non-posizio­ne e realizzazione di fini, ma appunto materia e condizione di quelle. La “materia” non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini 2, perché senza questi fini non ci sarebbero né condizioni né mezzi della loro realizzazio­ne, e anzi la comunità sarebbe un insieme di automi.3

martedì 11 aprile 2017

Intelligenza artificiale: Frankestein o macchina da soldi del capitalismo*- James Petras

* petras.lahaine.org   -  Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare 
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/il-ruolo-del-progresso-tecnologico-in.html 

Introduzione

Lo Special Report del Financial Times (16/02/2017) ha pubblicato un inserto di quattro pagine sugli usi e possibili pericoli dell'intelligenza artificiale (AI). Diversamente da quelli dei consueti giornalisti spazzatura che servono come megafoni di Washington negli editoriali e nei pezzi sulla politica, quello dello Special Report è un saggio ponderato che solleva questioni importanti, anche se in modo fondamentalmente errato.

L'autore, Richard Walters, passa in rassegna i diversi e maggiori problemi che accompagnano la questione dell'intelligenza artificiale: dalle ansie del pubblico alle diseguaglianze ed alla precarietà del lavoro. Walters supplica quelli che lui chiama i "controllori dei sistemi indipendenti" di prestare attenzione alle frizioni politiche o di confrontarsi con la disgregazione sociale. Gli esperti ed i giornalisti che dissertano sulla distruzione a lungo termine e su larga scala della classe lavoratrice e del pubblico impiego affermano che l'intelligenza artificiale può essere perfezionata attraverso l'amministrazione e l'ingegneria sociale.

Questo saggio procederà a sollevare argomenti fondamentali, questioni che conducono ad un approccio alternativo all'intelligenza artificiale che riposa sull'analisi di classe. Rifiuteremo lo spettro di un'intelligenza artificiale come sorta di Frankenstein, identificando le forze sociali che finanziano progettano e dirigono l'intelligenza artificiale e che traggono beneficio dal suo negativo impatto sociale. 


Questioni fondamentali: demistificare l'intelligenza artificiale 


lunedì 10 aprile 2017

Avanti! Avanti!*- Karl Marx

*Da: Lavoro salariato e capitale, 1847. Pubblicato per la prima volta sulla Neue Rheinische Zeitung, a partire dal 4 aprile 1849. 
(qui tutto il testo:   https://www.marxists.org/italiano/

Colonia, 10 aprile. 

L’accrescimento del capitale produttivo e l’aumento del salario sono però davvero così inseparabilmente uniti come pretendono gli economisti borghesi? Non dobbiamo creder loro sulla parola. Non dobbiamo nemmeno creder loro che, quanto più florido è il capitale, tanto meglio viene ingrassato il suo schiavo. La borghesia è troppo intelligente, essa sa fare i conti troppo bene, per condividere i pregiudizi dei signori feudali, i quali si vantavano dello sfarzo della loro servitù. Le condizioni di esistenza della borghesia la costringono a calcolare.

Dobbiamo quindi esaminare più da vicino la questione seguente:

Quale influenza esercita sul salario l’accrescimento del capitale produttivo?

Se il capitale produttivo della società borghese si accresce nel suo insieme, ha luogo una accumulazione di lavoro più vasta. I capitalisti crescono di numero, i loro capitali crescono di dimensione. L’aumento del numero dei capitali aumenta la concorrenza fra i capitalisti. La crescente dimensione dei capitali fornisce i mezzi per portare sul campo di battaglia dell’industria eserciti sempre più potenti di operai, con strumenti di guerra sempre più giganteschi.

Un capitalista può cacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale solamente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più a buon mercato senza rovinarsi, deve produrre più a buon mercato, cioè aumentare quanto più è possibile la forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro viene però aumentata, innanzi tutto, con una maggiore divisione del lavoro, con un’introduzione generale e un perfezionamento costante del macchinario. Quanto più grande è l’esercito degli operai fra i quali il lavoro viene diviso, quanto più gigantesca è la scala in cui vengono introdotte le macchine, tanto più diminuiscono proporzionalmente i costi di produzione, tanto più fruttuoso diventa il lavoro. Sorge quindi una gara generale fra i capitalisti per accrescere la divisione del lavoro e il macchinario e per sfruttarli sulla scala più grande che sia possibile [78].

sabato 8 aprile 2017

Cinque risposte su marxismo ed ecologia*- John Bellamy Foster**,

*Da:  http://climateandcapitalism.    https://traduzionimarxiste.wordpress.com/
**John Bellamy Foster è direttore della monthlyreview. e docente di sociologia presso l’Università dell’Oregon.



Il marxismo può rafforzare la nostra comprensione della crisi ecologica? L’autore di Marx’s Ecology, John Bellamy Foster, replica alle critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo.

Introduzione:
Il sito indiano Ecologize ha recentemente pubblicato la prefazione scritta da John Bellamy Foster al libro di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Nel commentare l’articolo di Foster, il giornalista ed attivista Saral Sarkar, il quale definisce il proprio punto di vista come eco-socialista, solleva alcuni interrogativi che sfidano l’utilità dell’analisi marxista ai fini della comprensione della crisi ecologica globale. La replica di Foster è stata pubblicata da Ecologize il 26 marzo.

Lo scambio, qui riproposto, affronta importanti questioni circa le prospettive marxiste sulla crisi ecologica globale.

ALCUNE DOMANDE PER JOHN BELLAMY FOSTER
di Saral Sarkar

Il professor Bellamy Foster è un rinomato studioso. E se il suo lavoro ha anche lo scopo di servire le cause nelle quali è impegnato, di certo vorrà rispondere alle seguenti domande/commenti di un lettore di quest’articolo:

Quale utilità può avere sostituire la nozione comunemente usata e ben comprensibile di “grande crisi ecologica” con quella marxiana, poco conosciuta e di difficile comprensione, di “frattura metabolica nel rapporto tra l’uomo e la terra”?

venerdì 7 aprile 2017

Esiste in Marx una teoria generale e unitaria della crisi?*- Ascanio Bernardeschi

*Da:  http://dialetticaefilosofia.it/



2. La possibilità astratta della crisi

Ai tempi di Marx, secondo l’ortodossia degli economisti borghesi la crisi non doveva esistere. Non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi, grandi economisti classici. 

Secondo Adam Smith, per esempio, i meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale l’istruzione, la difesa ecc. astenendosi dall’interferire nell’economia. 

David Ricardo, da parte sua, aderì alla cosiddetta legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta7 . 

Certamente anche a quei tempi non mancarono gli eretici più dubbiosi, quali Sismondi e Malthus. Ma si trattò appunto di eresie contro l’egemonia schiacciante dei negazionisti. Figuriamoci poi cosa poterono dire gli apologeti. Qualcuno ebbe modo perfino di studiare le macchie solari8 , tanto per escludere che le crisi potessero essere causate da contraddizioni insite al modo di produzione capitalistico. 

Insomma la crisi o non esiste, o è il prodotto di cause “esogene”, o frutto di comportamenti di operatori irrazionali, o troppo egoisti (capita a volte di esagerare), oppure è il risultato di politiche sbagliate. Comunque si tratta di uno spiacevole inconveniente, di un evento patologico estraneo alla fisiologia del capitalismo.

Marx ha confutato la legge degli sbocchi, partendo dall’incipit del Capitale: il duplice carattere della merce9 . Questa «cellula elementare» del capitalismo è già in sé una contraddizione in quanto è sia un bene utile a soddisfare bisogni umani che una depositaria di ricchezza sociale astratta, di lavoro umano sociale astratto occorrente per la sua produzione. Per il produttore la sua utilità è solo quella di essere un potenziale involucro di ricchezza sociale ma non ha un valore d’uso immediato, altrimenti non la scambierebbe; è un valore di scambio potenziale che per realizzarsi come effettivo valore di scambio deve incontrare nel mercato qualcuno che le consideri un buon valore d’uso.

Con l’introduzione del denaro il valore si polarizza in quest’ultimo, più appropriato, contenitore, la cui utilità sta solo nel conferire al possessore il potere di acquistare merci utili, mentre al polo opposto, specularmente, le merci sono valori d’uso che possono realizzare il loro valore solo scambiandosi con denaro.

Il denaro separa in due atti distinti la metamorfosi della merce (M-D-M’) a differenza di quanto avviene con lo scambio immediato o baratto (M-M’). Nel baratto colui che vende è nello stesso istante colui che acquista l’altra merce e viceversa, vendita e acquisto coincidono, per cui in questo contesto vale la legge degli sbocchi. Se invece lo scambio viene spezzato in due fasi (vendita e acquisto) esiste la possibilità che, dopo la prima, il venditore preferisca non spendere subito il suo denaro, ma tesaurizzarlo o spenderlo in altri mercati, togliendolo quindi dalla circolazione senza mettere in atto la domanda corrispondente. In tal modo ci sarà da qualche parte un potenziale venditore che non troverà il suo acquirente, che non riuscirà a trasformare la sua merce in denaro10.

lunedì 3 aprile 2017

POTENZIALITÀ E LIMITI DEL REDDITO DI BASE*- Giovanna Vertova**

*Etica & Politica / Ethics & Politics, XIX, 2017, 1.   http://www2.units.it/etica/
**Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi Università di Bergamo.
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/un-reddito-garantito-ci-vuole-ma-quale.html
                            https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/salario-minimo-garantito-reddito-di.html

                                                                                                     Quesito 1.
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignitàpugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni? 

G. Vertova:
Trovo abbastanza bizzarro che la prima domanda di un dibattito sul reddito di base (RdB) non riguardi la validità della proposta, quanto il ritardo nella discussione teorica e nella pratica politica italiana. Lo trovo ancora più bizzarro quando si invita al dibatto una persona che, in più di una occasione, ha sollevato critiche, sia teoriche che politiche, al RdB1 . Forse sarebbe stato intellettualmente più stimolante chiedere ai partecipanti una analisi di tale proposta. Mi prendo, quindi, la libertà di riassumere, molto velocemente, le mie perplessità, prima di rispondere.

Prima di tutto è necessario chiarire di cosa si sta parlando, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato a un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro)2 . Questa nuova forma di welfare viene presentata dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.