*Da: La contraddizione. 145 – ott.dic.13
Questo
articolo è stato pubblicato nel 1999 sul no. 73 della rivista. In
questa occasione, per ragioni editoriali, pur riproponendo
integralmente il corpo del testo, abbiamo ridotto il numero delle
note a margine, escludendo quelle di carattere bibliografico per cui
rimandiamo alla precedente versione presente anche sul sito web della
rivista.
L’idea dello stato:
un’analisi del potere presente
1. Perfino un liberale
come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’attacco
neoliberale ad ogni forma di socialismo è ormai, e sostanzialmente,
un attacco alla democrazia tout court. Ma per chi ritiene
che gli ideologemi neoliberali siano piuttosto figure di
superficie di un processo, in cui il capitalismo transnazionale
tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di
democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli
Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il
nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante quattro
generazioni) – conviene riprendere la questione alla radice.
Si tratta di domandarsi a
quali condizioni sia pensabile, nel mondo attuale,
democrazia, cioè autogoverno di una comunità umana, in cui
gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche
attraverso regole e istituzioni, il miglior sviluppo
dei suoi membri. E si vede allora che la questione della democrazia
è più ampia di quella delle istituzioni, o anche della
configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi istituzionali
di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei
fini dello Stato, innanzitutto dei “fini” tout court
(“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in
apertura dell’Etica Nicomachea), e di come questi fini
possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma
dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale.
Questo, naturalmente, è il problema della politica da
Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui
anche quella liberale è, certo, un elemento – ma è solo per
strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto,
decretando che prima di Locke e Hobbes c’è il buio, che la nozione
di comunità umana e del suo rapporto con la natura
(cioè con la non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra
le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni,
“individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula
sæculorum.
Chiamo Corpus collectivum
hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione
(astratta!) di una qualsiasi comunità umana, capace di riprodursi
bioticamente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè
dotata di un suo rapporto biotopico tipico con l’ambiente
naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha,
innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le
modalità o forme di moto della produzione e riproduzione della
comunità stessa, che variano nel tempo, e che – oggi – tendono a
inglobare non solo la produzione e riproduzione di individui
umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di
modalità d’azione storicamente definite) – ma le determinanti
biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto
dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le
forme di vita della comunità, ma solo nella misura in cui la
comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa,
ossia – al limite – non ha niente fuori di sé.1
Ma – si dirà giustamente – quante cose una comunità umana
ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare, inclusa la
sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo
“materia” dell’autogoverno, e abbiamo che materia
dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei
fini, che gli uomini si pongono, come materia, ossia
non-volontà, non-ragione, non-posizione e realizzazione di
fini, ma appunto materia e condizione di quelle. La “materia”
non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini
2,
perché senza questi fini non ci sarebbero né condizioni né
mezzi della loro realizzazione, e anzi la comunità
sarebbe un insieme di automi.3
Questa definizione
dell’autogoverno non parrà “troppo larga” a chi riflette
a due aspetti. Uno, per così dire, comune a tutte le epoche: non
posso “volere” allevare dei figli se non ne ho le condizioni
soggettive (capacità, preveggenza...) e oggettive (mezzi “naturali”
e “sociali” sempre, anche in una società primitiva). Il
secondo aspetto, invece, proprio del nostro mondo di oggi: se è
vero, come è vero, che “il pane non è prodotto dal lavoro
dei soli panettieri, ma è l’anello finale di un processo
complessivo”, se insomma sempre di più, man mano che progredisce
la divisione sociale del lavoro, e la riproduzione sociale
complessiva [rsc] è sempre più risultato
dell’interazione di tutti gli elementi del cchr, allora
“governo” e “autogoverno” non può che significare:
gestione razionale e libera di sfere sempre più ampie della
riproduzione sociale degli uomini nella natura. Ora: il procedere
e globalizzarsi dell’interazione, in cui la rsc ha luogo, ha
una forma di movimento, e un nome: esso si chiama modo di
produzione capitalistico [d’ora in poi, mpc]. E il
problema dell’autogoverno della comunità, allora, diventa problema
del rapporto tra lei medesima e la sua materia – che son poi
le forme del mpc in quanto diventate non-volontà,
non-ragione (cosiddetta mera “razionalità strumentale”),
“cose” che gli uomini hanno fatto e si ergono di fronte a loro,
ecc.
La classica discussione
marxista del rapporto tra classi e Stato si iscrive, a
ben guardare, in questo orizzonte. Al livello della teoria del modo
di produzione le classi sono forme di esistenza delle
forze produttive (che sarebbero infatti mera astrazione senza i
rapporti di produzione in cui operano e si muovono!)4.
Ma il mpc, per sua natura propria, tende a inglobare ogni
forma di vita, secondo una dinamica conoscibile, e riconoscibile nei
processi empirici. Ne consegue che il rapporto di produzione (di
classi) è il luogo in cui figure di relazione determinate
vengono poste e diventano possibili. Con loro divengono via via
possibili modi d’essere di individui e gruppi (che sono
secondi concettualmente e ontologicamente rispetto alle
classi); e queste figure di relazione e modi d’essere
vengono attuate e regolate. Ma questo “attuare” e “regolare”,
in quanto è posizione di fini, è autogoverno del Corpus
collectivum hominum et rerum. Esso è soggetto e
oggetto a sé medesimo, (ossia libero): ma lo è nella
misura in cui governa razionalmente la sua materia, e non
ne è dominato. Ovvero: nella misura in cui fa di lei condizione e
mezzo dei suoi fini di “libero sviluppo di ciascuno”
(secondo l’espressione del Manifesto ), divenuti possibili,
e poi razionalmente posti e perseguiti.
La domanda “come è
possibile governare l’economia” è priva di senso, finché
“economia” è intesa e fissata appunto come meccanismo autonomo!
Ma questa rappresentazione ideologica è fuori campo
concettualmente da più di un secolo, grazie in primo luogo (ma non
solo) a Marx; e non ha nulla a che fare né con l’analisi di ben
determinati e istituzionalmente configurati mercati reali, né,
a maggior ragione, con il discorso teorico rigoroso.
La domanda di principio è
invece: come è pensabile, in un certo grado di sviluppo della rsc
in forma capitalistica, l’autogoverno del cchr, ossia la
sfera della posizione di fini (nel linguaggio di Hegel:
“Spirito”, o “seconda natura”), rispetto a ciò che non
sempre è stato, ma è ormai diventato , “materia”, mezzo
e condizione di realizzazione di fini umani (nel linguaggio di Hegel,
“Natura”, o “prima natura”). In Marx, come in Hegel, hai una
filosofia della libertà, cioè dell’autogoverno del Corpus
collectivum. In entrambi, beninteso, l’individuo resta sempre
il luogo dell’azione (non, invece, il cosiddetto singolo: non si
nasce singoli se non in quando esseri biologici,
individui di specie; e si diventa singoli nella vita sociale,
tanto più se ne fa propria, attivamente, e tanto più ci si
“singolarizza”). Le differenze sono altre, e le vedremo
brevemente.
2. Hegel sa che
“volontà” è essenzialmente “pensiero”, e, nello
svolgimento sistematico, “ragione”. Nella Filosofia del
diritto e, in genere, nello Spirito obiettivo, questa
volontà-pensiero-ragione è la sfera dell’autogoverno del Corpus
collectivum secondo fini comuni. Questi sono universali
per la forma (come già in Kant): ma la loro “materia”
(determinazione dell’individuo che è volizione, e per cui esso si
fa “singolo”, universale riflesso in sé), è ora
assunzione-negazione (infinita) di contenuti storici. Questi
contenuti non hanno esistenza “fuori” dell’agire: così,
p. es. una legge positiva non conosciuta e riconosciuta nelle
coscienze non è una legge. L’individuo è il luogo
dell’agire, ma nella forma universale. É ormai riconosciuto
il debito di Hegel verso Rousseau; ma va detto anche che la teoria
hegeliana dello Stato, e della possibilità e realtà soltanto
processuale di fini comuni non si riduce alla mera critica del
dover-essere kantiano, ma attraverso questa (e proprio nelle
affermazioni più “scandalose”: lo Stato “realtà effettuale
dell’Idea etica” [FD, § 257], etc.) – la teoria hegeliana
offre una soluzione del problema rousseauiano: come è possibile
la volonté générale, che non può essere sommatoria di
diversi, mera volonté de tous? Lo “Stato” è
assunzione-negazione, superamento della determinazione
naturalistica, che è di per sé pre-razionale e solo può
esser fatta immagine e somiglianza della ragione [FD, § 18 et al.].
E noi, va detto subito, ritroviamo questa dialettica nella
nozione di naturwüchsig [naturalmente cresciuto], e
del suo superamento, nel Capitale.
Hegel rifiuta anche ogni
identificazione dello Stato con la società civile,
mero “Stato dell’intelletto e della necessità” – non della
libertà. Non solo: come meglio intendiamo oggi (dopo il lavoro di
Ilting, Henrich, Losurdo etc.): la società civile è
incapace di autoregolazione, produce gli estremi della ricchezza e
del pauperismo, la “plebe”, che non è solo privata della
sussistenza, ma anche di dignità e cittadinanza (mentre “essere
cittadino” è il “supremo dovere” - FD § 258). C’è
di più: questa incapacità di autoregolazione, proprio perché (come
notò Marx) “Hegel è all’altezza dell’economia politica
moderna”, cioè di Smith se non di Ricardo, importa che la
autoattuazione del Corpus collectivum (della “seconda
natura” che si instaura sulla prima e la plasma secondo la sua
forma, quella della libertà-pensiero-ragione) non possa aversi
nella logica del “sistema dei bisogni” e della società
civile in genere. Con i suoi mezzi e nel suo linguaggio, il
filosofo aveva visto lontano: i “limiti della competitività”
[cfr. Gruppo di Lisbona, 1995] stanno nel suo esser “natura”,
“spiriti animali del capitalismo”. Il carattere feticistico delle
“leggi dell’economia politica borghese” consiste (per Marx)
nella loro pretesa “eternità” – cioè nel presentarsi appunto
come “natura” – obliterando la dimensione di produzione
umana (sociale, scilicet) di una “seconda natura”, che ha
un suo decorso e un suo limite, oltre il quale essa diventa
irrazionalità.
3. Anche la pluralità
“naturalistica” degli Stati (in lotta tra loro come individui
naturali, cioè in guerra), realisticamente vista da Hegel, è
strettamente collegata al “punto di vista dell’economia politica
moderna”, della Ricchezza di Nazioni individue. Il “sistema
dei bisogni” è infatti affinamento/moltiplicazione dei lavori e
dei bisogni, divisione del lavoro, mediazione del lavoro diviso nello
scambio [FD, § 60 s.: “valore”]. Ma la società civile
è perciò stesso concettualmente intermedia tra famiglia
e Stato vero e proprio: è un “infinito” bensì, in quanto
attraverso il suo momento negativo si attuano le capacità potenziali
degli individui umani, il principio moderno dell’infinito
valore dell’individuo. Non è, e non può essere, fine ultimo,
cioè autosufficiente e autofondante.
Per intendere questa posizione
della società civile hegeliana nell’architettura dello
“spirito obiettivo” non è adeguato, il richiamo (che pur
si è fatto), alla fase manifatturiera della Rivoluzione
industriale, presente in Smith e, certo, anche in Hegel. Il problema
è ben altro: il rapporto della “seconda natura” cioè della
libertà-pensiero-ragione alla determinazione naturalistica e
violenta è pensato da Hegel come superamento parziale e
non-concluso della “natura” nello “spirito”. (Perciò poi
anche il passaggio necessario, riguardo all’unità dello
svolgimento filosofico, e dunque coerente, alla dimensione
quasi-intemporale dello Spirito Assoluto).
Il rinvio alla fase
manifatturiera è, anzi, fuorviante. Si tratterà piuttosto degli
elementi fisiocratici, presenti pure nella Ricchezza delle
Nazioni: in Hegel, il lavoro del “ceto sostanziale” [FD,
§ 203], è bensì nel “terreno naturale” e pone scopi: ma senza
infinità positiva del produrre – quindi non è pensabile qui
scienza come forza produttiva, né le scienze della natura
compaiono come momento specifico dello Spirito oggettivo.
Analogamente, e non per caso, è fuorviante la lettura del
capitolo XII del Capitale come descrizione cronologica,
dimenticando che la negazione della piccola produzione contadina e
artigiana è fenomenica rispetto all’infinitazione del produrre che
si ha con il “modo di produzione capitalistico vero e
proprio”. (Mi limito a questo cenno: la polemica contro lo
“storicismo invertebrato” nella lettura di Marx è stata fatta
adeguatamente, anche in Italia).
4. Se rileggiamo la
teoria hegeliana dell’autogoverno razionale e libero della “seconda
natura” in rapporto alla “prima”, ma ora a partire dal
Capitale, ci rendiamo conto di come il concetto di una forma
di movimento forze produttive-classi sconvolga da cima a fondo
l’architettura della Filosofia del diritto – senza che
l’idea dell’autogoverno venga per questo abbandonata. È
modificato infatti tutto lo sviluppo da “individuo” (vivente
naturale, solo in sé, o potenzialmente, “uomo”) a
“singolo” (“persona”, “soggetto morale”, “cittadino”),
e dunque anche tutta la configurazione della realtà storica-sociale
ovvero (sola) propriamente umana, ovvero ancora Spirito.
Il “potenzialmente umano” si allontana nelle “età
primeve” [Capitale, I, cap. V,1]: e il lavoro è il luogo
della mediazione di finalità e datità oggettiva in genere (cioè
delle determinazioni via via acquisite e trasformate di una “natura”
e un “mondo”). Perciò il lavoro in abstracto non è
“produzione” [ivi]: ma nella storia reale del lavoro,
nelle sue figure sociali, hai la mediazione di teleologia e mezzo,
ragione e natura in genere. Con ciò è travalicata
anche la pluralità degli Stati come corpi politici, luoghi e realtà
dell’autogoverno, sia pur parziale, del Corpus collectivum.
L’autogoverno (o libertà, o comunismo) resta parziale:
ma il suo limite muta statuto categoriale: è la “linea di
scorrimento” (infinita) del fondamento che congiunge necessità
e libertà [secondo un luogo ben noto di Capitale III,
cap. 48, su cui torneremo]. Le “leggi” quasi-naturali della rsc
in forma capitalistica, proprio perché non-atemporali, si
presentano come “natura” (e sono percepite e rappresentate
come “natura umana” etc.): ma in due aspetti diversi, e
idealmente successivi. In quanto sono state e sono rapporti di
produzione in cui la finalità, ineliminabilmente inerente a
lavoro umano, si attua e si espande. E, però, in quanto
diventano “prima natura”, – ossia vengono ormai a
costituire ciò che non da sempre poté, ma grazie allo sviluppo
soggettivo e oggettivo ora può esser superato nello
“spirito”, hegelianamente parlando. In altre parole, l’elemento
quasi-naturale della “seconda natura”, il processo di
riproduzione in quanto obiettivo, può esser fatto, a un certo
punto, momento interno dell’autoattuazione razionale del Corpus
collectivum – e dunque, della sua libertà.
Questa “natura”
non-governata , però, non sta, architettonicamente, “alla fine”,
come nella Filosofia del diritto – la “naturalità”
degli Individui-Stati, dunque la guerra tra di loro (al di là
della quale ci può esser solo la storia come “giudizio
cosmico-mondiale”, e la dimensione sovraetica dello Spirito
Assoluto, perciò stesso atemporalmente “presente”).
La sfera di ciò che non è
sussunto nella ragione-libertà sta invece, dopo il Capitale
di Marx, all’inizio. É un inizio sempre rinnovato, il
presupposto-posto dell’azione razionale e libera – almeno per
tutto l’arco ideale della temporalità del Modo di
produzione capitalistico. Ma è un inizio, un terminus a quo.
(Questo, del resto, può essere il solo senso non metaforico di base
e sovrastruttura nel capitalismo). Lo svolgimento epocale
del mpc rende possibile che “i produttori associati
... regolino razionalmente il ricambio organico con la natura con il
minor impiego [via via] possibile di energia e in condizioni più
adeguata alla loro umana natura e più degne di essa”.
Alla fine del XX secolo,
“naturale” vuol dire più che mai, e molto più di quando Marx
scriveva: non-razionale, non-governato, limite all’autogoverno
(ovvero alla libertà, allo “sviluppo di ciascuno come condizione
dello sviluppo di tutti”, etc.). E vuol dire insieme, e pure grazie
allo sviluppo epocale del mpc, sconvolgimento tanto della vita
sociale globale che dell’intera biocenosi in cui lo Homo sapiens
sapiens è venuto a prodursi ed operare (ossia, in termini
biologici, nel modestissimo arco di tempo di poche decine di
migliaia di anni).
L’autogoverno è urgente. Ed
è possibile, in sé. Non per sé, evidentemente. Ma per
pensare questo per sé occorre passare attraverso un’altra
conseguenza concettuale dello “sconvolgimento” che la
nozione di forze produttive-classi portava nell’architettonica
della Filosofia del diritto. Ed è necessario farlo, perché
attraverso la nozione di autogoverno del Corpus collectivum,
la nozione di “seconda natura” come superamento della prima, la
nozione di razionalità e diritto come libertà, è tutta la
lezione hegeliana che passa in Marx (o almeno, nel Marx autore del
Capitale); e attraverso di lei, quella di Rousseau e di Kant.
É la concezione della libertà come posizione e attuazione di
finalità. La concezione della volontà generale come
attuazione processuale di un pensiero-ragione che è per sua natura,
come il Denken hegeliano, d’emblée
transindividuale, forma di moto generale, forma dunque anche
degli scopi comuni, che diventano possibili per gradi e
in configurazioni definite, pur restando sempre l’individuo luogo
dell’agire.
5. L’eticità, scrive
Hegel [Enciclopedia, § 513]), è il concreto, la “verità
dello spirito soggettivo e oggettivo” – e dunque di tutte le
figure pregresse; compresa la “persona” e il “soggetto”
o coscienza morale. Ma se ricordiamo che la nozione (marxiana) di
“classi” non è un descrittore sociologico, e non ha nulla
a che fare con “gruppo” etc., vediamo subito anche che la
“divisione in classi” è ben altro che un limite
all’eguaglianza e alla libertà rousseauiane (o anche delle
Rivoluzioni borghesi); ben altro che un’antitesi esterna a quelle
libertà ed eguaglianza, che ne sbugiardi la parzialità o anche
ne sanzioni la limitatezza cosiddetta “storica” (?!).
La divisione in classi
(e nelle due classi fondamentali del mp moderno) è inerente
alla determinazione lavorale (e qui: valorale) tanto del modo di
produzione immediato, che della Riproduzione sociale
complessiva, di cui il primo è “momento dileguante” sì
[Grundrisse, p. 600], ma ineliminabile realmente e
concettualmente. Allora: senza “classi” non può essere
pensata (in senso stretto: non può essere concepita,
modellizzata, conosciuta razionalmente) la riproduzione
complessiva del Corpus hominum et rerum, in tutte le
sue dimensioni. (Se il medium concettuale di “natura” e
“storia” è lavoro, il luogo concettuale del “processo
storico-naturale” è la “rsc”).
“Verità dello spirito
soggettivo e oggettivo” voleva dire in Hegel: l’eticità è
la sfera in cui tutte le determinazioni pregresse hanno il loro
svolgimento effettivo: dunque tanto la “natura” che lo “spirito
soggettivo” – cioè lo esser-diventato-umano – che deve
esser pensato come lo in sé di quello in sé e per sé,
cioè dell’azione sociale-umana libera, e dei suoi gradi e
avanzamenti sulla non-libertà “naturale”.
Proviamo a riformulare. Tutto
il processo attraverso cui costantemente, nel cchr, si
producono “individui umani con i loro rapporti” [Grundrisse,
l. cit.]; ossia, ancora, il processo della rsc nei suoi
momenti, compreso il processo di produzione immediato etc. –
questo processo tutt’intero è in ogni istante luogo dell’egemonia
di classe nella rsc in forma di moto determinata (quella del
mpc in primo luogo). Egemonia come rapporto di classi vuol
dire innanzitutto: sono le classi che “si dànno” Stati,
istituzioni, forme di organizzazione della produzione di
“individui e rapporti tra loro” – poi anche, per es., scuole, o
partiti, o movimenti etc. etc.
Ancora: se l’egemonia è
rapporto di classi, essa è modalità dello svolgimento totale
delle forze produttive, e dunque anche della produzione e
riproduzione della forza produttiva principale – gli
uomini stessi. Ma allora: questa riproduzione va intesa e
riconosciuta in configurazioni e secondo stadi definiti (come
anche la riproduzione economica, del resto). Ed è a questo
livello che si pone – a mio giudizio – il problema.
Tanto il problema analitico
delle forme e trasformazioni e gerarchizzazione degli Stati, del
loro relativo assoggettamento e trasformazione in “agenzie
regionali” nel capitalismo internazionalizzato e mondializzantesi;
quanto anche il problema dell’esplorazione delle contraddizioni
attuali (cioè poi effettive, non disegnate a tavolino) del processo
di riproduzione complessiva, in forma, non solo di mpc in
generale, ma poi di corpi particolari, Stati e subStati
capitalistici. Per questa via, se sapremo farlo, si arriverà anche a
determinare luoghi possibili di opposizione alla tirannide.
6. Di “tirannide”
di deve parlare, almeno per sei motivi.
Primo. Il bisogno è
tendenzialmente superato su scala mondiale, la produzione è
sovrabbondante (non, naturalmente, la domanda solvente di merci!)
Secondo. La attuale
“borghesia transnazionale” non può sensatamente esser anche solo
paragonata alle borghesie storiche come enti sociali corposi,
forme di vita, espansività sociale, universalizzazione relativa.
Essa è dominante, ma non può chiamarsi “dirigente”,
secondo questi criteri, che (come Gramsci mostrò) sono appunto
criteri storici, non meramente sociologico-politici, cioè
criteri di egemonia.
Terzo. Il superamento
relativo degli Stati nazionali si accompagna a uno smantellamento
della citoyenneté , cioè dell’universalità politica in
senso proprio (con e senza limiti formali!). Ciò tanto
per il lato istituzionale, quanto per quello della coscienza
(manipolazione).
Quarto. La produzione
immediata di uomini (allevamento; acculturamento sia
familiare che scolastico diventa (soprattutto nelle
metropoli) elemento della valorizzazione del capitale
(merci di massa, ma anche “produzione immateriale”). Ma
contemporaneamente tendono a diventare “superflue” intere
masse di potenze sociali (cultura; lingua nazionale; coscienza
civica nelle sue forme storicamente progressive). La valorizzazione
richiede “teste d’opera”, non “cittadini medi”.
Oltre alla cittadinanza politica, si smantella così quella
socioculturale. La “plebe” hegeliana viene riprodotta in
massa e secondo finalità precise, in tutto o in parte
obiettivamente inerenti a questa figura di rsc.
Quinto. La
segmentazione della classe operaia non ha luogo soltanto nella
dimensione geografica e territoriale, ma anche nelle forme del
localismo neocorporativo, con corrispondenti forme di regressione
della coscienza (etnicismo, etc.).
Sesto. Lo squilibrio
tra cittadinanza politica “svuotata” (manipolazione, “dialettica
della notizia”5;
abolizione de facto della trasparenza dei processi, quindi
della citoyenneté repubblicana; ossia, “abolizione del
popolo”, e invece “gente”, cioè in realtà “neoplebe”) da
una parte, e percezione possibile dei fenomeni translocali (e
comunque di fenomeni del processo complessivo, e non di
frammenti sconnessi ossia parvenza “scandalosa”, “sensazionale”,
“emozionante” etc.) – questo squilibrio è
sistematicamente promosso e imposto, non solo nella mediatica di
servizio, ma nelle istituzioni della società (sindacati, partiti,
associazioni), nella cultura (cinema, etc.), nell’insegnamento
(riforme funzionali alla “religione del mercato” nella
scuola e Università, etc.).
Questi sono, pare a me,
fenomeni diversamente pronunciati in Paesi diversi, ma
indicativi di una tendenza complessiva. (Rispetto alla quale,
beninteso, il neoliberalismo è mero epifenomeno: e
infatti, la sciocca e ignobile parola d’ordine della “fine delle
ideologie” ha proprio qui un suo nocciolo di verità.
“Neoliberalismo” non designa affatto una ideologia di
massa in sé coerente, ma un coacervo di frasi, di idées reçues
utilizzabili caso per caso. É esso stesso un aspetto della
disgregazione indotta della coscienza civile e politica).
7. Se la tirannide
moderna è praticabile, si può dire, avrà avuto paradossalmente
“ragione” il vate della “Radura dell’Essere” nelle dolci
colline, vicine ai tesori barocchi della Svevia e del Baden, là
nella Foresta Nera. Almeno nel senso che, sì, la tecnica si
rivela ingovernabile, la ragione è sconfitta, e “solo un dio potrà
salvarci”. Martin Heidegger, come si sa, non manca di imitatori,
seguaci, nipoti e nipotini. I quali sembrano ignorare in genere
la posta in gioco – come il loro maestro, peraltro, quando credette
di formulare la sua protesta contro il “malo invio
dell’Essere”, “metafisica” e “tecnica” conseguente,
radicalizzando in senso irrazionale la Kulturphilosophie
dell’altra svolta di secolo: e privandosi così della
possibilità di scorgere, in termini filosofici, la dimensione
processuale di cui il nichilismo era la concettualizzazione
fenomenica al livello astratto dell’autocoscienza e del suo
fondamento.
Ma la concettualizzazione
astratta tende per sua natura a estrapolare il fenomeno dal moto
processuale. “Tecnica” e “uso capitalistico della tecnica”
son due cose diverse. E inoltre, anche la tecnica del dominio
tirannico può essere studiata e intesa.
La tirannide del capitale
“globale” non può riprodurre borghesie “organiche” né
nelle metropoli, dove esse anzi s’assottigliano, né tanto meno nei
Paesi della periferia, o in quelli in cui è stato abbattuto il
protosocialismo “reale”. Le forme del dominio – dalla
manipolazione alla violenza bellica – possono perpetuare il
dominio, bloccare la vita associata, forzarla alla decadenza anche
prolungata. In ciò, nihil novi sub sole. Sarebbe strano,
e veramente “nuovo”, che il dominio di per sé si facesse piena e
progressiva egemonia, forma almeno relativamente progressiva di
svolgimento del corpus collectivum nelle sue configurazioni
e istituzioni, sviluppo degli individui e delle società sulla base
di ciò che è diventato possibilità reale, e perciò
attuazione e ampliamento di potenzialità sociali-umane.
Il compito, per noi, mi pare
esser piuttosto quello di riprodurre, all’altezza del tempo
attuale, l’analisi dell’intero spettro della riproduzione
sociale complessiva, e delle forme di egemonia. Dobbiamo
indagare come è fatta la catena – e molto qui è il lavoro da fare
– prima di poter forse individuare un’altra volta, se c’è, un
qualche anello su cui far presa davvero – al di là di ogni
pur giustificata denuncia e deprecazione.
La tirannia moderna può
dominare, manipolare, bombardare, sterminare. Ma non può “risolvere
praticamente” il problema posto da Rousseau, diversamente
risolto da Hegel e poi da Marx, e divenuto frattanto tanto più
maturo nelle cose: l’autogoverno razionale della comunità
umana. Per questo, mi sembra, tutto quel che è “ragione”,
“dignità umana”, “cultura”, e (ovviamente) “democrazia”,
è oggi sotto attacco, e si trova obiettivamente dalla stessa parte.
Anche il mostrare questo sarà un lungo lavoro. Ma non inutile, e non
vano.
Note
1
Qui va tenuto fermo (con Marx ed Engels, Ideologia
tedesca,
in Opere
complete
, vol. V, p. 37, che "la storia" non fa nulla, ma "gli
uomini" fanno, etc. - ossia, filosoficamente: che l'individuo è
il luogo dell'azione, anche se l'azione ha forme transindividuali
(p. es. linguaggio, pensiero ...). Questo principio è secondo me
sufficiente a fondare filosoficamente le "garanzie" e le
cosiddette "libertà positive" e "negative"
di cui discorrono i teorici liberali, spesso postulandole come
"valori" trascendenti e/o arbitrariamente convenuti. Cfr.
anche la Bibliografia
in calce al saggio cit. di L. Sichirollo.
2
Ciò si vede, in Hegel, già nella teoria dell'"intenzione",
che specifica il "proposito" sia rispetto
all'autodeterminazione del volere razionale, sia rispetto alle sue
condizioni, mezzi e conseguenze, che il "soggetto morale"
(individuale), deve
conoscere
e dominare - ma può sempre farlo solo parzialmente, mai nella
totalità della loro connessione obiettiva. V.
Filosofia del diritto,
§§ 115-128; Enciclopedia
, § 504 ss.
3
La continuità tra Kant e Hegel è qui palese. Cfr. Kant, Fondazione
della metafisica dei costumi,
[ed. Weischedel, IV, 41], definizione del "volere" come
"facoltà di agire secondo la rappresentazione di leggi",
e Hegel, Filosofia
del diritto
§ 11, il "volere immediato o naturale": entrambi sono
gradi ontologici al di là della legalità meccanica ("naturale").
D'altra parte, se Hegel conosce l' "istinto" come
"relazione di scopo inconsapevole" (Enciclopedia,
§ 360 A), già Kant polemizza contro la riduzione cartesiana
degli animali a "macchine" in Critica
del giudizio,
§ 90, nota, sebbene, ovviamente, entro i limiti di una
semplice "analogia".
4
Il livello delle configurazioni ("storiche"), cioè dei
singoli e diversi capitalismi,
p. es. nazionali, ecc., è secondo
, rispetto
a quello della teoria del mpc:
infatti è solo grazie a questa teoria, o modello di processo, che
quei capitalismi
diventano modellizzabili, analizzabili etc. - e la loro conoscenza
effettiva può anche portare a modificare il modello "puro",
come in ogni indagine scientifica.
5
Il termine è di U. Sonnemann, e indica la tecnica manipolatoria
delle “notizie” pseudopolitiche e pseudosociali offerte senza
contesto e nesso con i processi, come "eventi": per cui il
lettore (uditore, spettatore) “è informato di tutto, e non sa
nulla”.
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