*I due articoli che presentiamo, pubblicati sulla rivista https://www.lacittafutura.it/, sono frutto di una riflessione che trae spunto dal materiale didattico preparato dal compagno Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma e presentato ad un seminario “Sull'attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l'UniGramsci (universit-popolare-antonio-gramsci), nell'anno accademico 2016-2017.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/bio-economia-e-il-mito-della-decrescita.html
Il mito della “fine del lavoro” - Marco Beccari
Lo sviluppo tecnologico ha provocato un aumento del numero di disoccupati in Occidente, a ciò però si oppone una crescita dell’occupazione su scala internazionale, anche nel comparto industriale.
In una recente inchiesta, il settimanale l'Espresso [1] documenta il calo del numero dei dipendenti nelle principali aziende italiane negli ultimi 25 anni. L’idea di fondo dell’inchiesta è che l’introduzione delle tecnologie, come la robotica e l’intelligenza artificiale, nel mondo del lavoro, provoca disoccupazione strutturale. Si osserva, in Italia, una riduzione dell’occupazione, che colpisce sia l’industria che il settore dei servizi. Ne conseguirebbe che a lungo termine il lavoro non ci sarà più. Saremmo quindi di fronte alla “morte del lavoro”. In un futuro, più o meno lontano, i robot, sempre più evoluti, potranno rimpiazzare l’uomo in tutti i lavori, compresi quelli che richiedono intelligenza, come ad esempio l’educazione.
I fatti, tuttavia, mettono in evidenza un calo dell'occupazione e non la fine del lavoro, mostrano, cioè, che il lavoro tendenzialmente si riduce, ma non muore. Il motivo di questa improbabile “morte” lo si può cogliere riflettendo sulle vicende del settore dell'auto negli ultimi decenni. Un esempio emblematico è offerto dagli esperimenti della Fiat. Il tentativo negli anni ’80 di realizzare a Termoli una fabbrica senza uomini e senza scioperi, la Fabbrica ad Alta Automazione (FAA), è stato un colossale insuccesso. I macchinari erano inadeguati a gestire le frequenti variazioni dei prodotti e gli intoppi nel processo produttivo. Un piccolo inceppamento era sufficiente per fermare l’intera linea. Non a caso nell’industria dell'auto si afferma il il
modello toyotista della Fabbrica Integrata (FI), nel quale si riconosce che è il lavoro umano a produrre valore aggiunto e nel quale convivono robots e lavoratori umani. Lo stesso Taiichi Ohno, padre di quel modello, basato sulla “lean production”, osserva che le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare in modo creativo [2]. Infatti il robot non è in grado di risolvere problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo.
Secondo Martin Ford, intervistato dall’Espresso, alla base di questo fenomeno, chiamato “disoccupazione tecnologica”, ci sono le macchine e il progresso tecnico. Purtroppo anche molti “marxisti” hanno fatto proprio il mito della fine del lavoro vivo, attribuendolo, alcuni, ad un passo dello stesso Marx pubblicato sui Grundrisse [3]. Per i sostenitori della “fine
del lavoro” il capitalismo non è più quello studiato da Marx dunque la teoria di Marx è ormai un “ferro vecchio”, vale a dire una teoria obsoleta. La fine del lavoro, poi, implica la fine della teoria del valore con la conseguenza che il plusvalore non è più interpretabile scientificamente come sfruttamento del lavoro umano. Lo sfruttamento, dunque, diviene spiegabile solo in termini etici e morali, come ingiustizia retributiva. Evidentemente, se il marxismo è inattuale, allora non hanno più senso nemmeno i partiti che ad esso si ispirano. Con la fine del lavoro sarebbero finite anche le classi sociali e la lotta di classe e di conseguenza anche la storia [4] e non avrebbe più senso combattere il modo di produzione capitalistico, rimanendo l’ingiusta distribuzione di ricchezza l’unico terreno di lotta.
Oggi, questa antica tesi dei “socialisti ricardiani” è riproposta da Thomas Piketty [5]. Sono quindi richieste delle misure di ridistribuzione del reddito, di carattere assistenziale come il reddito minimo garantito o il reddito di cittadinanza. Queste misure, come è noto, non alterano il “salario sociale” della classe lavoratrice, formata dagli occupati, dai disoccupati e dai pensionati, ma piuttosto lo trasferiscono dai primi ai secondi, mediante la riduzione del salario diretto, con l’aumento del carico fiscale, di quello indiretto e differito [6].
La tesi della “fine del lavoro” non ha, tuttavia, basi solide. Dal punto di vista empirico non è affatto vero che il lavoro sia finito. Dal punto di vista teorico, come afferma Marx, non è il robot la causa della disoccupazione, ma il suo uso capitalistico [7]. Il problema, in altri termini, è il capitalismo, non i robot. I giornali, invece, fanno dipendere la disoccupazione dall'uso della tecnologia e non dall'uso capitalistico della tecnologia.
I dati dell’Espresso indicano che in Italia in 25 anni l’occupazione nelle principali 10 imprese si è ridotta ad un terzo. Se le più grandi imprese del paese nel 1990 contavano quasi ottocentocinquanta mila addetti, nel 2015 ne hanno solo duecentocinquanta mila. Ma, questo indica una riduzione del numero dei lavoratori, non la “fine del lavoro”. A lungo termine l’occupazione diventa sempre più piccola, ma non si può annullare. Questo è il significato scientifico di “tendenza” [8], espressa anche da Marx nel celebre “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse. Lo sviluppo tecnologico riduce l’occupazione e causa il “deperimento” della legge del valore. Ma il “deperimento” non è la scomparsa della teoria del valore-lavoro. Il lavoro umano, pur se rattrappito nelle pieghe del macchinismo, resta sempre l’elemento attivo del processo produttivo e la macchina l’elemento passivo, che non crea plusvalore. Tesi ben sintetizzata dalla lettera di Marx a Kugelmann [9], nella quale si sostiene che senza il lavoro umano la società non può riprodursi.
Sul piano più strettamente empirico c'è un fatto che, a conclusione, merita di essere segnalato al lettore. Se si analizzano i dati ILO (International Labour Office) sulla disoccupazione
mondiale si nota un trend di crescita a partire dal 2007, anno di minima disoccupazione. Il numero di disoccupati è passato da 170 milioni del 2007 a 197 milioni del 2012, e per il 2018 è stato stimato un numero pari a 215 milioni. La crescita dei disoccupati è localizzata prevalentemente in Occidente [10], dove il capitalismo è più sviluppato. Ciò, tuttavia, non indica una diminuzione dell’occupazione mondiale. Si osserva, infatti, una parallela crescita dell'occupazione, che passa da 2,6 miliardi di occupati del 2000 a 3,1 miliardi del 2012 [10] e l'aumento riguarda prevalentemente l'industria e i servizi [11]. Il calo degli occupati nel settore industriale dei paesi Occidentali, dunque, è compensato dall'aumento in altre zone del mondo [12].
Non ha senso parlare, perciò, di “fine del lavoro”, in particolare nell'industria. La diminuzione si osserva semmai solo nelle economie dei paesi sviluppati, a capitalismo più maturo. Tuttavia questa decrescita è ampiamente compensata dalla crescita nelle economie emergenti come Cina, India e Brasile. In definitiva, quindi, il lavoro umano nelle fabbriche e negli uffici non è finito, anche se l’automazione è in aumento. Il modo di produzione contemporaneo ha ancora le caratteristiche capitalistiche e l'analisi di Marx è più che mai attuale.
Note:
[1] L’espresso,Chiuso per fine industria, 16/10/2016.
[2] Taiichi Ohno, Lo spirito Toyota, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 152
[3] Domenico Laise, La natura dell’impresa capitalistica, EGEA, Milano, 2015.
[4] Francis Fukuyama, The end of history and the last man (La fine della storia e dell’uomo), 1992.
[5] Thomas Piketty, Le Capital au XXIe siècle (Il capitale nel XXI secolo), 2013.
[6] La scuola e la sanità pubblica sono esempi di salario indiretto, le pensioni di salario differito.
[7] Karl Marx, Il Capitale, Libro I Capitolo 13, macchine e grande industria.
[8] L’andamento del numero di occupati nel tempo può essere espresso con la funzione matematica esponenziale decrescente, la quale, nella sua rappresentazione grafica, evidenzia come al crescere del tempo il numero di occupati si riduce, assumendo un valore pari a zero per un tempo infinito.
[9] Karl Marx, Lettera a Ludwig Kugelmann, 11 luglio 1868.
[10] Dal 2007 al 2012 i disoccupati nelle economie sviluppate ed in Unione Europea sono cresciuti da 29,4 a 44,5 milioni. Altre crescite, ma più contenute, sono avvenute in Asia orientale, con una variazione da 31,4 a 38,1 milioni, in America latina, da 18,4 a 19,3 milioni, Medioriente, da 6,4 a 8,1 milioni, e in Africa, dove in Nord Africa si è passati da 6,8 a 8,4 milioni e nella zona subsariana da 22,4 a 26,3 milioni.
[11] Su scala mondiale il numero degli occupati in agricoltura è in diminuzione, riducendosi dai 1056,5 milioni del 2000 ai 990,9 milioni del 2012. Tuttavia gli impiegati nel settore industriale e dei servizi sono in crescita. I primi aumentano dai 536,3 milioni del 2000 ai 714,7 milioni del 2012. I secondi passano dai 1020,6 milioni del 2000 ai 1396,9 milioni del 2012.
[12] Gli occupati industriali, nelle economie sviluppate ed in Unione Europea, sono diminuiti dai 122,1 milioni del 2000 ai 106,5 milioni del 2012. Contemporaneamente negli stessi paesi sono aumentati gli occupati nei servizi da 301,5 a 349,5 milioni. In Asia orientale gli occupati nell'industria sono passati dai 177,4 milioni del 2000 ai 254,4 milioni del 2012. Nello stesso arco di tempo, in Asia del sud sono passati da 79,3 a 137,2 milioni; nel Sud-est asiatico e nella zona pacifica sono cresciuti da 39,6 a 59,9 milioni; in America latina sono variati da 44,2 a 57,7 milioni; in Medioriente sono cresciuti da 9,9 a 18 milioni; in Africa sono aumentati da 27,3 a 41,5 milioni; in Europa centro-orientale e negli ex-stati dell'URSS sono variati da 36,5 a 39,5 milioni.
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L’uso della robotica e le sue contraddizioni - Marco Paciotti
In regime capitalistico, l’utilizzo delle macchine causa, oltre al calo dell’occupazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto.
Vari studiosi del modo di produzione capitalistico hanno teorizzato la “fine del lavoro”. Essi sostengono che la disoccupazione sia il risultato dell’innovazione tecnologica e dell’introduzione di macchine sempre più avanzate (automazione). In questa narrazione il macchinario assolve la funzione di capro espiatorio su cui spostare l’attenzione delle classi subalterne, in modo tale che esse guardino al robot come il colpevole della miseria in cui esse sono in realtà gettate dai meccanismi di funzionamento immanenti al sistema di produzione capitalistico. Al contrario, la teoria elaborata da Marx ci aiuta a capire che non è il robot a determinare la crescente disoccupazione, ma il suo uso capitalistico. Anzi, attraverso le contraddizioni insiste nell’uso capitalistico delle macchine, che saranno approfondite in seguito, il robot contribuisce alla dissoluzione del modo di produzione capitalistico. “Il capitale lavora così alla propria dissoluzione”, afferma Marx in un passo dei Grundrisse. La disoccupazione non è, quindi, causata dalla innovazione tecnologica in quanto tale, ma dal suo uso capitalistico.
La tesi della fine del lavoro ha come uno dei suoi massimi rappresentanti Martin Ford, autore di “Rise of the Robots: Technology and the Threat of a Jobless Future”. Nel suo libro Ford sostiene che l’uso delle macchine sia la causa della crescente disoccupazione del lavoro umano. Egli sostiene, inoltre, che, a lungo andare, la disoccupazione crescente causi la “fine del lavoro”. Questa seconda tesi è, tuttavia, opinabile. Dall’affermare che una certa grandezza (l’occupazione) si riduce non si può dedurre che tale grandezza si annulli. Difatti, il lavoro si riduce, ma non si annulla. Anche se rattrappito e nascosto nelle pieghe del macchinismo, il lavoro umano rimane sempre l’elemento attivo della produzione delle merci. Senza lavoro umano la società umana non è in grado di riprodursi.
Il motivo di questa improbabile fine del Lavoro è spiegato da un autore “insospettabile” come Taiichi Ohno, ideatore
del Toyotismo. Egli sostiene che “Le macchine presentano l’inconveniente di non essere capaci di pensare” in modo creativo. Esse non sono in grado, in particolare, di affrontare problemi inattesi che sorgono nel processo produttivo [1]. Non è un caso che tutti i tentativi, effettuati fino ad oggi, di creare fabbriche senza lavoro umano siano falliti. Il robot affianca l’uomo, ne potenzia la forza produttiva, ma non lo elimina dal processo produttivo.
Ritenendo che il robot sia, di per sé, la causa della disoccupazione, Ford ripete più o meno consapevolmente gli errori dei luddisti [2], attaccando il robot in quanto tale e non il suo uso capitalistico, che è invece la vera causa della disoccupazione crescente. Già Marx aveva mostrato i profondi errori e limiti dei luddisti, i quali non capirono che il problema della disoccupazione risiedeva nella finalizzazione della macchina alla produzione di plusvalore (attraverso lo sfruttamento del pluslavoro) e non nella macchina in quanto tale. “Ci vuole tempo – scrive Marx nel Capitale – affinchè l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi, a trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso (macchina) alla forma sociale di sfruttamento di esso” [3]. L’innovazione tecnologica porterebbe con sé potenzialità enormi se fosse utilizzata per alleviare la fatica del lavoratore, per ridurre
la giornata lavorativa, arricchendo così in termini di tempo libero il lavoratore-produttore. E invece la macchina, impiegata come la parte fissa del capitale costante, finalizzata alla creazione di plusvalore, aumenta lo sfruttamento del lavoro, riduce occupazione e salario, ed aumenta la ricchezza della classe capitalista ai danni della classe dei produttori-lavoratori. La disoccupazione, ovvero la presenza di un nutrito esercito industriale di riserva, è condizione necessaria per la sopravvivenza del capitalismo, perché pone la classe lavoratrice in un latente stato di ricatto. “L’uso capitalistico del macchinario produce una popolazione operaia sovrabbondante, la quale è costretta a lasciarsi dettare legge dal capitale” [4]. In che modo si concretizzano tali meccanismi? La migliore spiegazione può essere trovata nei fondamenti teorico-pratici posti dal Capitale di Marx.
Innanzi tutto, bisogna ricordare che la giornata lavorativa si compone di una quota oraria di lavoro pagato - che coincide con il salario necessario al lavoratore per la sua propria riproduzione in quanto proletario - e una quota di lavoro gratuito, o pluslavoro, che il capitalista sfrutta senza dare nulla in cambio, traendone plusvalore. Il compito della macchina, in regime capitalistico, è quello di accrescere il plusvalore, ossia, mantenendo costante la durata della giornata lavorativa, ridurre il tempo di lavoro contenuto nelle merci, ivi comprese quelle contenute nel salario, necessarie alla riproduzione del proletario. Sul monte ore di lavoro giornaliero, quanto più diminuisce la componente legata alla riproduzione del salario, tanto più aumentano le ore di lavoro regalate al capitalista (plusvalore). Quest’ultimo gode di un ingrandimento del plusvalore derivante dall’accorciamento del lavoro necessario, ovvero del plusvalore relativo [5]. In questo senso il saggio di plusvalore relativo indica il tasso di sfruttamento del lavoratore.
Lo sviluppo tecnologico, come si è detto, accresce la forza produttiva del lavoro sociale. L’aumento della forza produttiva del lavoro determina una diminuzione del tempo di lavoro necessario per la produzione delle merci. Ma la crescita della forza produttiva del lavoro riduce anche il fabbisogno di lavoro. Infatti se prendiamo un dato volume di produzione, che è determinato dalla produttività oraria moltiplicata per il monte-ore giornaliero, e se presupponiamo che la produttività del lavoro si raddoppi per effetto dell’introduzione del robot, tenendo costante il volume di produzione, allora otteniamo per risultato un dimezzamento del fabbisogno di lavoro. A titolo di esempio, se a un determinato grado di sviluppo tecnologico è possibile produrre 1 pezzo per ogni ora, per produrre 100 pezzi in un giorno è necessaria una quota oraria di lavoro pari a 100 ore. Se con l’introduzione del robot diventa possibile produrre 2 pezzi ogni ora, per produrre gli stessi 100 pezzi divengono necessarie 50 ore di lavoro vivo. Il tempo di lavoro contenuto nelle merci viene così dimezzato. Tale riduzione del monte ore, in regime capitalistico, produce una riduzione dell’occupazione. Al contrario, per mantenere l’occupazione stabile, bisognerebbe ridurre la giornata lavorativa. Il robot è potenzialmente lo strumento che può alleviare la fatica del lavoratore, ridurre la giornata lavorativa e aumentare il tempo libero, ma, ovviamente, non nel capitalismo.
Marx spiega anche che l’uso capitalistico delle macchine crea i presupposti per la crisi del sistema capitalistico stesso e per il suo superamento. Il filosofo ed economista tedesco mette inequivocabilmente in mostra la contraddizione immanente nell’uso del macchinario, valutandone gli effetti mediante la formula del plusvalore totale, che è data dal plusvalore per occupato moltiplicato per il numero degli occupati. Come si è visto, l’introduzione del robot aumenta il plusvalore per occupato, ovvero il tasso di sfruttamento. Allo stesso tempo, però, diminuendo il numero degli occupati, diminuisce il “materiale sfruttabile”. In questo modo, le due tendenze partecipanti alla formazione del plusvalore totale si trovano in uno stato di contraddizione insanabile.
La prima tendenza, ovvero il plusvalore unitario per occupato, aumenta in virtù della riduzione del salario unitario. L’aumento del plusvalore, d’altra parte, non può andare all’infinito, in quanto il salario non può essere ridotto oltre la soglia sotto la quale il lavoratore muore di fame. C’è quindi un limite oltre cui la prima tendenza non può compensare la seconda. Quest’ultima tendenza finisce quindi per prevalere sulla prima, cosicché la crescita del plusvalore totale si arresta. Tale arresto avviene dal momento in cui la possibilità di compensare mediante un aumento del plusvalore unitario la riduzione del plusvalore totale - dovuta alla riduzione degli occupati, ovvero del “materiale sfruttabile” - ha, come afferma Marx nel terzo libro del Capitale, dei limiti insuperabili [6].
Tale arresto nell’aumento del plusvalore si ripercuote sul saggio di profitto, dando il via alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Ricordiamo infatti che la formula del saggio di profitto in Marx è data dal plusvalore diviso per il capitale totale investito, ossia capitale costante (investimenti in macchine) e capitale variabile (investimenti in salari). Se al numeratore il plusvalore, a un certo grado di sviluppo, si arresta, mentre il denominatore cresce per effetto dell’aumento degli investimenti in robotica, ciò significa che il profitto comincia inevitabilmente a decadere. L’accumulazione si arresta e ha inizio un periodo di crisi.
Perciò, ben lungi dal provocare la fine del lavoro, il robot collabora alla dissoluzione del modo di produzione capitalistico. Ma questo è un effetto della robotica che, per ovvi motivi, è occultato dai sostenitori della tesi della fine del lavoro [7].
Note:
[1] T. Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, 2004.
[2] Il Luddismo fu un movimento operaio il cui nome deriva da Ned Ludd, lavoratore che nel 1779 aveva distrutto un telaio per protesta. All’inizio del 19° sec., in Inghilterra, il luddismo reagì con violenza all’introduzione delle macchine nell’industria, ritenute causa di disoccupazione e di bassi salari. La forma di lotta da esso utilizzata era infatti caratterizzata dalla distruzione e dal sabotaggio di macchinari.
[3] K. Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione IV, Capitolo 13, Paragrafo 5 “Lotta fra operaio e macchina”
[4] K. Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione IV, Capitolo 13, Paragrafo 3 “Effetti immediati dell’industria meccanica sull’operaio”.
[5] “Chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall’accorciamento del lavoro necessario”, K. Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione IV, Capitolo 10 “Concetto di plusvalore relativo”.
[6] K. Marx, Il Capitale, Libro III, Sezione III, Capitolo 15, Paragrafo 2, “Conflitto fra l’estensione della produzione e la valorizzazione”.
[7] Per un approfondimento teorico sulla questione della “Fine del Lavoro” vedere: D. Laise, La natura dell’impresa capitalistica, Egea, Milano, 2015.
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