domenica 16 aprile 2017

SUL PARTITO* - Stefano Garroni

*passaggi tratti dalla discussione sul: DOCUMENTO DI S. GARRONI: ‘LENIN, LA RIFLESSIONE SUL PARTITO’. 12/99 - Qui l'audio dell'incontro:    https://www.youtube.com/playlist?list=PLAA23B4D87D6C9F26                    

[...] la méra registrazione del tipo di figure proletarie, è vista prevalentemente a fini sindacali, non politici, perché ovviamente il problema del partito – e questo lo vediamo appunto in Lenin in modo chiarissimo -, è fondamentalmente il problema di uno strumento per realizzare certi fini, e allora il problema di fondo è stabilire quali sono i fini, quindi andare oltre la questione del partito
[...]la problematica del partito, nascendo all’interno di una problematica più vasta - che è l’analisi della situazione, le finalità del partito, il modo di concepire la teoria marxista -, inevitabilmente coinvolge la totalità del movimento marxista pensante, e quindi è immediatamente – anche la posizione di Lenin -, il risultato di un confronto critico, di uno scontro, di una pluralità di voci.
[...]E’ estremamente bello mi pare, come i grandi protagonisti del movimento comunista usino l’uno verso l’altro un linguaggio estremamente vigoroso, con accuse pesantissime. Lenin è – sappiamo – una figura enorme e sacramentale per tutto il movimento comunista, ed esistono documenti enormi di Trotskij, Bucharin, di Stalin stesso, che dicono cose terribili contro Lenin e viceversa, proprio perché c’è questo costume molto vigoroso e molto con i piedi per terra, per cui l’analisi non si ricava deduttivamente e dogmaticamente dalla teoria, ma si ricava dal confronto reale con i problemi e con tutta la molteplicità dei problemi che al movimento effettivamente si pongono.
[...]Ovviamente, questo sottolineare che Lenin filosofo lo si ricava ragionando sul suo far politica, come dire, è anche una presa di posizione sull’attuale. Voi lo sapete che verso la filosofia c’è un atteggiamento diffuso molto ambiguo. Solitamente si riserva un grande rispetto alla filosofia, nel senso che tutti se ne fregano: “Il filosofo è persona nobile che si occupa dei problemi dello spirito”, cioè è uno stronzo. Se invece andiamo a vedere in concreto, allora ci rendiamo conto che per esempio l’uomo politico Lenin, intanto fa l’uomo politico, in quanto non solo interviene su situazioni determinate proponendo soluzioni determinate, ma in quanto implica in questo una certa teoria, una filosofia, e allora scopriamo come l’intreccio filosofia-politica, stia nell’agire politico stesso. Donde l’indicazione che noi dobbiamo fare molta attenzione a noi stessi quando facciamo politica, nel senso che nel far politica, volendo o non volendo, portiamo avanti una teoria, e quando portiamo avanti una teoria non sapendolo, o non volendolo, stiamo sicuramente portando avanti la teoria peggiore, cioè quella non critica, non consapevole, non ragionata, e quindi vale la pena di nobilitare fino in fondo l’azione politica rendendoci conto che è l’applicazione di una teoria di cui dobbiamo prendere coscienza. Il che ovviamente non significa – come dire – né riproporre il mito del filosofo che fa politica o del politico che è ipso facto del filosofo. Ovviamente il filosofo professionale sarà una cosa diversa dal politico, però rendiamoci conto che né il filosofo professionale può esser sé stesso senza fare anche lui le ricerche politiche di cui deve essere consapevole, né il politico può esser sé stesso senza fare delle scelte teoriche di cui è bene che sia consapevole. 

[...]“La dialettica – scrive Lenin – come conoscenza viva, multilaterale, con una molteplicità di aspetti sempre in aumento, con un’infinità di sfumature in ogni modo di affrontare, avvicinarsi alla realtà, con un sistema filosofico che si sviluppa in un tutto partendo da ogni sfumatura, ecco il contenuto incommensurabilmente ricco della dialettica, in confronto al materialismo metafisico, il cui difetto fondamentale è l’incapacità di applicare la dialettica al processo e allo sviluppo della conoscenza”.
Mi pare un testo estremamente bello, in cui si dice molto bene come esista un’opposizione radicale tra dialettica e dogmatizzazione. Una volta che si pretenda di fissare la dialettica in alcune forme determinate, la dialettica è finita. La dialettica è proprio questa coscienza del continuo mutamento e moltiplicarsi degli aspetti, dei problemi, dei nessi, delle relazioni, e quindi questa continua trasformazione – appunto: le note che devono complicare. Ecco, io penso che sia importante sottolineare questo, perché è estremamente vero che noi dovremmo riassumere il coraggio di essere marxisti, nel senso che una volta che noi liberiamo Marx dalla dogmatizzazione – e sarebbe il caso dato i crolli -, il marxismo è esattamente, fino in fondo, questo spirito dialettico qui. Ed è questo spirito dialettico qui che manca totalmente oggi all’universo culturale e politico – dell’avversario ma anche nostro. Questo tipo di impostazione, è quella che consentirebbe a noi comunisti non solo di essere in condizioni di produrre analisi adeguata a livello politico, ma di essere una presenza culturale importante. E, se vale il discorso di prima, non sono separati questi due elementi (la presenza politica e la presenza culturale), laddove la presenza culturale è esattamente la presenza culturale.
Lenin cita Bucharin, quando Bucharin sottolinea che ogni scelta politica ha radici teoriche. Voi ricordate che quando Lenin è impegnato nella polemica con una corrente del suo partito – la corrente rappresentata da Bogdanov, da Lunacarskij ecc. -, per polemizzare contro questa corrente interna al partito, che quindi ha un programma politico diverso dal suo, Lenin si va a studiare la letteratura a lui contemporanea o quasi contemporanea, intorno alla crisi dei fondamenti della matematica e della fisica, perché è convinto che una posizione politica vien fuori anche da un humus culturale profondo.
[...]Lui studia questioni come le conseguenze filosofiche della molteplicità della matematica o della teoria della relatività ecc., per capire qual è l’ambiente da cui nasce una posizione politica. Ecco, esser marxisti è una cosa di questo genere.
Ultimo punto, come introduzione ovviamente: va da sé che - a mio giudizio – le singole determinate soluzioni che Lenin può proporre, quando ha di fronte il problema di come, qui e ora, costruire il partito, credo che per noi possano essere prevalentemente di interesse storico, cioè: Lenin proponeva questo. Non c’è nessuna ragione in linea di principio che [le soluzioni di Lenin] siano valide per noi, nel senso che se sono valide lo sono perché l’analisi della situazione attuale mostra la loro validità, non perché l’abbia detto Lenin. Non sto facendo una semplice ed ovvia polemica contro il dogmatismo, ma sto dicendo che intanto noi possiamo elaborare intorno al partito in quanto ci radichiamo nel nostro tempo, e il nostro tempo non è solo, ovviamente, la situazione economica, la situazione sociale, ma anche la situazione culturale, morale, psicologica dell’epoca.
Un punto invece, a me sembra, del tutto irrinunciabile, nel senso che viene largamente ridimostrato dall’oggi: certo, la Luxemburg ha qualche ragione, anche contro Lenin, quando sottolinea il fatto che lui opera in Russia, cioè in un territorio largamente arretrato rispetto alla moderna società industriale, e che quindi questa realtà russa pesa nell’elaborazione di Lenin. Però su un altro punto ha ragione Lenin: è certo che esiste la barbarie asiatica, ma è certo che esiste la barbarie occidentale, cioè che la moderna società capitalistica, non provoca un elevamento del livello culturale di massa. Se per livello culturale di massa si intende imparare a saper fare delle cose, certo, io oggi ho imparato finalmente a battere sulla tastiera del computer. L’asiatico contemporaneo a Lenin non lo sapeva fare, neanche l’occidentale, ma insomma non lo sapeva fare. Però io non capisco nulla di come è fatto il computer, e allora in realtà io ho sviluppato unicamente una capacità meccanica, senza mettermi in condizione di capire come funziona il computer. L’evoluzione morale, culturale, politica, di un gruppo umano, sta invece non nell’imparare come si fa, ma nel sapere perché si fanno quelle cose. L’abilità pratica è un diretto e semplice risultato di questa consapevolezza. Ora, questa barbarie occidentale, quest’appiattimento sempre maggiore della personalità, questo svuotamento della personalità – quando noi faremo il seminario sui Grundrisse sarà un momento molto bello, in cui discuteremo sulle pagine di Marx intorno alle forme precapitalistiche di produzione, perché lì risulta molto bene, con enorme anticipo, l’effetto di appiattimento della personalità provocata dal capitalismo, proprio per la frantumazione di tutte le relazioni e quindi il consegnar la gente nell’isolamento della propria separazione.Bene, a questo imbarbarimento moderno, che è l’altra faccia dello sviluppo tecnologico e scientifico, dentro i limiti del capitalismo, corrisponde la necessità di comprendere che il partito è un anello fondamentale per la trasformazione del proletariato in classe dirigente. Il proletariato è sempre stato diviso, frantumato dal padrone, in mille modi, con mille tecniche, e appiattito da una ideologia diffusa che tende a imbarbarire – in modo moderno, casomai con il telefonino, ma barbarico. Il partito ha la funzione opposta: che vuol dire l’unificazione della classe? Vuol dire far sorgere quella consapevolezza che lo stesso processo di frantumazione del proletariato non è altro che un modo per rafforzare su tutti il potere centrale del lavoro. Ma allora vuol dire salire alla capacità di una visione complessiva, cioè salire a livello della presa di coscienza, della trasformazione di sé da barbaro in soggetto. Un momento fondamentale di questo è il partito. Allora credo che la centralità del tema partito, proprio come uno degli strumenti fondamentali della trasformazione del proletariato in classe.
[...]E allora da questo punto di vista, come dire, sostituire il termine “partito” con “organizzazione” - facciamo finta che sia una proposta precisa -, non sarebbe corretto perché l’organizzazione perde, non mi fa capire questa funzione di salto di qualità che spetta al partito.
[...]Quindi, direi che non si tratta di cambiare il nome del partito in “organizzazione”, ma di rivendicare invece fino in fondo il valore del partito, capendo che il partito è esattamente l’opposto della dogmatizzazione, e che quando è stato dogmatizzato ci si è allontanati dal partito, si è fatta un’altra cosa, si è veramente fatto del partito un’organizzazione, qualcosa cioè di funzionale a dei risultati, ma non qualcosa che serviva a produrre nuova coscienza di classe, a estendere la capacità del popolo di autogovernarsi.
[...]E qui c’è in ballo anche il problema del rapporto tra il partito di Stalin e il partito di Lenin: sono diverse le situazioni, e forse è vero che la situazione in cui Stalin ha operato non rendeva possibile, o rendeva estremamente difficile organizzare il partito nel senso di Lenin. Probabilmente la condizione poneva quella trasformazione del partito in un gruppo rigido e dall’alto riusciva a mobilitare, ma l’elevamento della coscienza di classe forse non era più possibile.
[...]quel libro di Losurdo ‘Democrazia o bonapartismo’, è un libro molto importante, perché lì si dimostra come nella società borghese, più si espandono i confini della democrazia borghese, e più si restringe il potere degli istituti democratici: più il parlamento, appunto, è il luogo in cui tutti vanno a votare e meno il parlamento conta.
Allora, in sostanza, è molto bello – molto bello perché rappresentativo -, che oggi tu hai addirittura, come dire, plebiscitariamente la gente che chiede il maggioritario cioè la negazione del potere legislativo. I comitati di base per sostenere il diritto di ognuno a scegliersi la cura per il cancro. Questo è bellissimo perché è l’esaltazione della presenza diretta delle masse, ma contro le masse. Ecco, questo mi pare che sia caratteristico oggi: il fatto che l’evoluzione della democrazia borghese introduce direttamente nell’autoritarismo. Questa è una situazione appena intravista agli inizi del ‘900, e che oggi è la situazione dominante. Questo certamente comporta una modifica della funzione del partito, nel senso che si accentua la funzione formativa del partito.
[...]Ancora, un tema fondamentale che poneva Sergio mi pare che è questo dell’Europa e quindi lo Stato transnazionale e localismo. Ovviamente Sergio ce lo insegna: sono i due rovesci di una stessa medaglia, esattamente nel senso che la disgregazione localistica è proprio il modo per consentire meglio al potere lontano, di tutto prendere. E’ come le multinazionali che hanno interesse a spezzare i vari Stati perché così ogni pezzetto se lo fregano come vogliono loro. Però questo, immediatamente, può produrre una espansione di una coscienza localistica. Di nuovo la funzione del partito, che in questo senso non è solo organizzazione, ma di far capire come questa frantumazione è funzionale alla centralizzazione più netta e più forte, quindi, come nel localismo io vado a giocare la partita dell’Europa. E’ chiaro che poi c’è anche un altro elemento fondamentale, è una faccenda anche di nome: spesso noi diciamo sviluppo tecnologico come sviluppo scientifico, vogliamo intendere lo sviluppo tecnologico e parliamo di sviluppo scientifico, e invece le cose sono nettamente diverse, e non cadiamo nell’imbroglio di immaginare che la storia della tecnologia - cioè il tipo concreto di sviluppo che la tecnologia ha sia l’unico possibile, ma è quello imposto da un fattore intermedio tra scienza e tecnologia, che è il potere politico. Quindi in realtà il problema non è né della polemica in sé contro la tecnologia, né tanto meno contro la scienza, ma contro il potere politico e la struttura sociale, che impongono un uso della tecnologia, e quindi anche la polemica contro la tecnologia in realtà va chiarita come polemica contro un sistema di potere, di potere sociale e politico. In questo senso a me sembra, appunto, che si debba dire: “No alla glorificazione del partito, no alla negazione del partito, si all’importanza centrale del partito, una volta che sia legato ad una coscienza dialettica reale”. Il punto di fondo è capire che il marxismo in quanto dialettico, è radicalmente antidogmatico, e che il partito è l’espressione organizzata di questa coscienza critica, non dogmatica, e quindi anche l’impegno forte del partito.
Voi lo capite bene che quando i sovietici hanno cominciato a scrivere i manuali, ovviamente avevano di fronte un problema politico molto preciso: quello di centinaia di milioni di persone disgregate dal punto di vista della coscienza - o peggio, aggregate da un punto di vista religioso -, e quindi la necessità di sostituire quest’ideologia diffusa o disaggregata o religiosa, con una nuova ideologia unificante. E’ qui la radice della semplificazione, e in questo ha ragione Sergio: era un’operazione politica necessaria. Il compagno Holz, in un suo scritto dice: “Non è colpa dei manuali se gli scienziati sovietici hanno finito per prendere quello che c’era scritto nei manuali per principi”. Non è il manuale di per sé il nemico. Il nemico è l’uso che ne fai: se tu sostituisci i principi con il manuale, allora hai fatto il casino, ma il manuale in quanto forma comunque di diffusione e di unificazione delle coscienze, può avere un ruolo positivo.
[...]Il partito di quadri vuol dire che il partito diventa fatto da tutta una serie di persone che possono sostituire Mauro. Tutti hanno una qualità tale per cui Mauro non è indispensabile, ma può essere sostituito da altri. 


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