*passaggi
tratti dalla discussione sul: DOCUMENTO DI S. GARRONI: ‘LENIN, LA
RIFLESSIONE SUL PARTITO’. 12/99 - Qui l'audio dell'incontro: https://www.youtube.com/playlist?list=PLAA23B4D87D6C9F26
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/03/partito-e-teoria-stefano garroni - https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/prefazione-di-stefano-garroni.html - https://ilcomunista23.blogspot.it/2010/09/sul-partito.html -
[...]
la méra registrazione del tipo di figure proletarie, è vista
prevalentemente a fini sindacali, non politici, perché ovviamente il
problema del partito – e questo lo vediamo appunto in Lenin in modo
chiarissimo -, è fondamentalmente il problema di uno strumento per
realizzare certi fini, e allora il problema di fondo è stabilire
quali sono i fini, quindi andare oltre la questione del partito
[...]la
problematica del partito, nascendo all’interno di una problematica
più vasta - che è l’analisi della situazione, le finalità del
partito, il modo di concepire la teoria marxista -, inevitabilmente
coinvolge la totalità del movimento marxista pensante, e quindi è
immediatamente – anche la posizione di Lenin -, il risultato di un
confronto critico, di uno scontro, di una pluralità di voci.
[...]E’
estremamente bello mi pare, come i grandi protagonisti del movimento
comunista usino l’uno verso l’altro un linguaggio estremamente
vigoroso, con accuse pesantissime. Lenin è – sappiamo – una
figura enorme e sacramentale per tutto il movimento comunista, ed
esistono documenti enormi di Trotskij, Bucharin, di Stalin stesso,
che dicono cose terribili contro Lenin e viceversa, proprio perché
c’è questo costume molto vigoroso e molto con i piedi per terra,
per cui l’analisi non si ricava deduttivamente e dogmaticamente
dalla teoria, ma si ricava dal confronto reale con i problemi e con
tutta la molteplicità dei problemi che al movimento effettivamente
si pongono.
[...]Ovviamente,
questo sottolineare che Lenin filosofo lo si ricava ragionando sul
suo far politica, come dire, è anche una presa di posizione
sull’attuale. Voi lo sapete che verso la filosofia c’è un
atteggiamento diffuso molto ambiguo. Solitamente si riserva un grande
rispetto alla filosofia, nel senso che tutti se ne fregano: “Il
filosofo è persona nobile che si occupa dei problemi dello spirito”,
cioè è uno stronzo. Se invece andiamo a vedere in concreto, allora
ci rendiamo conto che per esempio l’uomo politico Lenin, intanto fa
l’uomo politico, in quanto non solo interviene su situazioni
determinate proponendo soluzioni determinate, ma in quanto implica in
questo una certa teoria, una filosofia, e allora scopriamo come
l’intreccio filosofia-politica, stia nell’agire politico stesso.
Donde l’indicazione che noi dobbiamo fare molta attenzione a noi
stessi quando facciamo politica, nel senso che nel far politica,
volendo o non volendo, portiamo avanti una teoria, e quando portiamo
avanti una teoria non sapendolo, o non volendolo, stiamo sicuramente
portando avanti la teoria peggiore, cioè quella non critica, non
consapevole, non ragionata, e quindi vale la pena di nobilitare fino
in fondo l’azione politica rendendoci conto che è l’applicazione
di una teoria di cui dobbiamo prendere coscienza. Il che ovviamente
non significa – come dire – né riproporre il mito del filosofo
che fa politica o del politico che è ipso facto del filosofo.
Ovviamente il filosofo professionale sarà una cosa diversa dal
politico, però rendiamoci conto che né il filosofo professionale
può esser sé stesso senza fare anche lui le ricerche politiche di
cui deve essere consapevole, né il politico può esser sé stesso
senza fare delle scelte teoriche di cui è bene che sia consapevole.
[...]“La
dialettica – scrive Lenin – come conoscenza viva, multilaterale,
con una molteplicità di aspetti sempre in aumento, con un’infinità
di sfumature in ogni modo di affrontare, avvicinarsi alla realtà,
con un sistema filosofico che si sviluppa in un tutto partendo da
ogni sfumatura, ecco il contenuto incommensurabilmente ricco della
dialettica, in confronto al materialismo metafisico, il cui difetto
fondamentale è l’incapacità di applicare la dialettica al
processo e allo sviluppo della conoscenza”.
Mi
pare un testo estremamente bello, in cui si dice molto bene come
esista un’opposizione radicale tra dialettica e dogmatizzazione.
Una volta che si pretenda di fissare la dialettica in alcune forme
determinate, la dialettica è finita. La dialettica è proprio questa
coscienza del continuo mutamento e moltiplicarsi degli aspetti, dei
problemi, dei nessi, delle relazioni, e quindi questa continua
trasformazione – appunto: le note che devono complicare. Ecco, io
penso che sia importante sottolineare questo, perché è estremamente
vero che noi dovremmo riassumere il coraggio di essere marxisti, nel
senso che una volta che noi liberiamo Marx dalla dogmatizzazione –
e sarebbe il caso dato i crolli -, il marxismo è esattamente, fino
in fondo, questo spirito dialettico qui. Ed è questo spirito
dialettico qui che manca totalmente oggi all’universo culturale e
politico – dell’avversario ma anche nostro. Questo tipo di
impostazione, è quella che consentirebbe a noi comunisti non solo di
essere in condizioni di produrre analisi adeguata a livello politico,
ma di essere una presenza culturale importante. E, se vale il
discorso di prima, non sono separati questi due elementi (la presenza
politica e la presenza culturale), laddove la presenza culturale è
esattamente la presenza culturale.
Lenin
cita Bucharin, quando Bucharin sottolinea che ogni scelta politica ha
radici teoriche. Voi ricordate che quando Lenin è impegnato nella
polemica con una corrente del suo partito – la corrente
rappresentata da Bogdanov, da Lunacarskij ecc. -, per polemizzare
contro questa corrente interna al partito, che quindi ha un programma
politico diverso dal suo, Lenin si va a studiare la letteratura a lui
contemporanea o quasi contemporanea, intorno alla crisi dei
fondamenti della matematica e della fisica, perché è convinto che
una posizione politica vien fuori anche da un humus culturale
profondo.
[...]Lui studia questioni come le conseguenze filosofiche della
molteplicità della matematica o della teoria della relatività ecc.,
per capire qual è l’ambiente da cui nasce una posizione politica.
Ecco, esser marxisti è una cosa di questo genere.
Ultimo
punto, come introduzione ovviamente: va da sé che - a mio giudizio –
le singole determinate soluzioni che Lenin può proporre, quando ha
di fronte il problema di come, qui e ora, costruire il partito, credo
che per noi possano essere prevalentemente di interesse storico,
cioè: Lenin proponeva questo. Non c’è nessuna ragione in linea di
principio che [le soluzioni di Lenin] siano valide per noi, nel senso
che se sono valide lo sono perché l’analisi della situazione
attuale mostra la loro validità, non perché l’abbia detto Lenin.
Non sto facendo una semplice ed ovvia polemica contro il dogmatismo,
ma sto dicendo che intanto noi possiamo elaborare intorno al partito
in quanto ci radichiamo nel nostro tempo, e il nostro tempo non è
solo, ovviamente, la situazione economica, la situazione sociale, ma
anche la situazione culturale, morale, psicologica dell’epoca.
Un
punto invece, a me sembra, del tutto irrinunciabile, nel senso che
viene largamente ridimostrato dall’oggi: certo, la Luxemburg ha
qualche ragione, anche contro Lenin, quando sottolinea il fatto che
lui opera in Russia, cioè in un territorio largamente arretrato
rispetto alla moderna società industriale, e che quindi questa
realtà russa pesa nell’elaborazione di Lenin. Però su un altro
punto ha ragione Lenin: è certo che esiste la barbarie asiatica, ma
è certo che esiste la barbarie occidentale, cioè che la moderna
società capitalistica, non provoca un elevamento del livello
culturale di massa. Se per livello culturale di massa si intende
imparare a saper fare delle cose, certo, io oggi ho imparato
finalmente a battere sulla tastiera del computer. L’asiatico
contemporaneo a Lenin non lo sapeva fare, neanche l’occidentale, ma
insomma non lo sapeva fare. Però io non capisco nulla di come è
fatto il computer, e allora in realtà io ho sviluppato unicamente
una capacità meccanica, senza mettermi in condizione di capire come
funziona il computer. L’evoluzione morale, culturale, politica, di
un gruppo umano, sta invece non nell’imparare come si fa, ma nel
sapere perché si fanno quelle cose. L’abilità pratica è un
diretto e semplice risultato di questa consapevolezza. Ora, questa
barbarie occidentale, quest’appiattimento sempre maggiore della
personalità, questo svuotamento della personalità – quando noi
faremo il seminario sui Grundrisse sarà un momento molto bello, in
cui discuteremo sulle pagine di Marx intorno alle forme
precapitalistiche di produzione, perché lì risulta molto bene, con
enorme anticipo, l’effetto di appiattimento della personalità
provocata dal capitalismo, proprio per la frantumazione di tutte le
relazioni e quindi il consegnar la gente nell’isolamento della
propria separazione.Bene, a questo imbarbarimento moderno, che è
l’altra faccia dello sviluppo tecnologico e scientifico, dentro i
limiti del capitalismo, corrisponde la necessità di comprendere che
il partito è un anello fondamentale per la trasformazione del
proletariato in classe dirigente. Il proletariato è sempre stato
diviso, frantumato dal padrone, in mille modi, con mille tecniche, e
appiattito da una ideologia diffusa che tende a imbarbarire – in
modo moderno, casomai con il telefonino, ma barbarico. Il partito ha
la funzione opposta: che vuol dire l’unificazione della classe?
Vuol dire far sorgere quella consapevolezza che lo stesso processo di
frantumazione del proletariato non è altro che un modo per
rafforzare su tutti il potere centrale del lavoro. Ma allora vuol
dire salire alla capacità di una visione complessiva, cioè salire a
livello della presa di coscienza, della trasformazione di sé da
barbaro in soggetto. Un momento fondamentale di questo è il partito.
Allora credo che la centralità del tema partito, proprio come uno
degli strumenti fondamentali della trasformazione del proletariato in
classe.
[...]E
allora da questo punto di vista, come dire, sostituire il termine
“partito” con “organizzazione” - facciamo finta che sia una
proposta precisa -, non sarebbe corretto perché l’organizzazione
perde, non mi fa capire questa funzione di salto di qualità che
spetta al partito.
[...]Quindi,
direi che non si tratta di cambiare il nome del partito in
“organizzazione”, ma di rivendicare invece fino in fondo il
valore del partito, capendo che il partito è esattamente l’opposto
della dogmatizzazione, e che quando è stato dogmatizzato ci si è
allontanati dal partito, si è fatta un’altra cosa, si è veramente
fatto del partito un’organizzazione, qualcosa cioè di funzionale a
dei risultati, ma non qualcosa che serviva a produrre nuova coscienza
di classe, a estendere la capacità del popolo di autogovernarsi.
[...]E
qui c’è in ballo anche il problema del rapporto tra il partito di
Stalin e il partito di Lenin: sono diverse le situazioni, e forse è
vero che la situazione in cui Stalin ha operato non rendeva
possibile, o rendeva estremamente difficile organizzare il partito
nel senso di Lenin. Probabilmente la condizione poneva quella
trasformazione del partito in un gruppo rigido e dall’alto riusciva
a mobilitare, ma l’elevamento della coscienza di classe forse non
era più possibile.
[...]quel
libro di Losurdo ‘Democrazia o bonapartismo’, è un libro molto
importante, perché lì si dimostra come nella società borghese, più
si espandono i confini della democrazia borghese, e più si restringe
il potere degli istituti democratici: più il parlamento, appunto, è
il luogo in cui tutti vanno a votare e meno il parlamento conta.
Allora,
in sostanza, è molto bello – molto bello perché rappresentativo
-, che oggi tu hai addirittura, come dire, plebiscitariamente la
gente che chiede il maggioritario cioè la negazione del potere
legislativo. I comitati di base per sostenere il diritto di ognuno a
scegliersi la cura per il cancro. Questo è bellissimo perché è
l’esaltazione della presenza diretta delle masse, ma contro le
masse. Ecco, questo mi pare che sia caratteristico oggi: il fatto che
l’evoluzione della democrazia borghese introduce direttamente
nell’autoritarismo. Questa è una situazione appena intravista agli
inizi del ‘900, e che oggi è la situazione dominante. Questo
certamente comporta una modifica della funzione del partito, nel
senso che si accentua la funzione formativa del partito.
[...]Ancora,
un tema fondamentale che poneva Sergio mi pare che è questo
dell’Europa e quindi lo Stato transnazionale e localismo.
Ovviamente Sergio ce lo insegna: sono i due rovesci di una stessa
medaglia, esattamente nel senso che la disgregazione localistica è
proprio il modo per consentire meglio al potere lontano, di tutto
prendere. E’ come le multinazionali che hanno interesse a spezzare
i vari Stati perché così ogni pezzetto se lo fregano come vogliono
loro. Però questo, immediatamente, può produrre una espansione di
una coscienza localistica. Di nuovo la funzione del partito, che in
questo senso non è solo organizzazione, ma di far capire come questa
frantumazione è funzionale alla centralizzazione più netta e più
forte, quindi, come nel localismo io vado a giocare la partita
dell’Europa. E’ chiaro che poi c’è anche un altro elemento
fondamentale, è una faccenda anche di nome: spesso noi diciamo
sviluppo tecnologico come sviluppo scientifico, vogliamo intendere lo
sviluppo tecnologico e parliamo di sviluppo scientifico, e invece le
cose sono nettamente diverse, e non cadiamo nell’imbroglio di
immaginare che la storia della tecnologia - cioè il tipo concreto di
sviluppo che la tecnologia ha sia l’unico possibile, ma è quello
imposto da un fattore intermedio tra scienza e tecnologia, che è il
potere politico. Quindi in realtà il problema non è né della
polemica in sé contro la tecnologia, né tanto meno contro la
scienza, ma contro il potere politico e la struttura sociale, che
impongono un uso della tecnologia, e quindi anche la polemica contro
la tecnologia in realtà va chiarita come polemica contro un sistema
di potere, di potere sociale e politico. In questo senso a me sembra,
appunto, che si debba dire: “No alla glorificazione del partito, no
alla negazione del partito, si all’importanza centrale del partito,
una volta che sia legato ad una coscienza dialettica reale”. Il
punto di fondo è capire che il marxismo in quanto dialettico, è
radicalmente antidogmatico, e che il partito è l’espressione
organizzata di questa coscienza critica, non dogmatica, e quindi
anche l’impegno forte del partito.
Voi
lo capite bene che quando i sovietici hanno cominciato a scrivere i
manuali, ovviamente avevano di fronte un problema politico molto
preciso: quello di centinaia di milioni di persone disgregate dal
punto di vista della coscienza - o peggio, aggregate da un punto di
vista religioso -, e quindi la necessità di sostituire
quest’ideologia diffusa o disaggregata o religiosa, con una nuova
ideologia unificante. E’ qui la radice della semplificazione, e in
questo ha ragione Sergio: era un’operazione politica necessaria. Il
compagno Holz, in un suo scritto dice: “Non è colpa dei manuali se
gli scienziati sovietici hanno finito per prendere quello che c’era
scritto nei manuali per principi”. Non è il manuale di per sé il
nemico. Il nemico è l’uso che ne fai: se tu sostituisci i principi
con il manuale, allora hai fatto il casino, ma il manuale in quanto
forma comunque di diffusione e di unificazione delle coscienze, può
avere un ruolo positivo.
[...]Il
partito di quadri vuol dire che il partito diventa fatto da tutta una
serie di persone che possono sostituire Mauro. Tutti hanno una
qualità tale per cui Mauro non è indispensabile, ma può essere
sostituito da altri.
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