**collettivo di formazione marxista Stefano Garroni
Analisi
dei messaggi ideologici nella presente fase del capitalismo
In
una edificante serata del popolare festival di San Remo di quest’anno
abbiamo avuto il piacere di assistere alla presentazione di una
“nuova” figura nel panorama ideologico neoliberista: quella dello
Stachanov nostrano. Si tratta di un impiegato pubblico modello, il
quale, in quarant’anni di lavoro, non ha fatto neppure un giorno di
malattia ed inoltre ha accumulato ben 239 giorni di ferie non godute.
Ci si potrebbe chiedere -se fosse cosa seria- se la ricerca medica
stia studiando il caso, per scoprire i segreti della “salute
miracolosa”. Invece, riguardo ai 239 giorni di ferie non godute -se
fosse vero-, saremmo curiosi di sentire anche il parere della moglie,
se mai ne avesse.
E’
notizia di questi stessi giorni che Boeri, presidente dell’INPS, il
quale si è distinto per il tentativo -ad oggi fallito- di
sacrificare la pensione di reversibilità per i superstiti,
intenderebbe intensificare i controlli medico-fiscali per i
dipendenti pubblici assenti per malattia. E, con l’occasione,
richiederebbe di aumentare, da quattro a sette, le ore giornaliere di
reperibilità per le visite di controllo del medico fiscale per i
dipendenti in malattia del settore privato, uniformando così la
durata della reperibilità dei dipendenti privati a quella dei
dipendenti pubblici. Per questi ultimi infatti detta durata era già
stata portata da quattro a sette ore dal ministro Brunetta del
governo Berlusconi.
Si
tratta, secondo Boeri, la classe dirigente e i giornalisti venditori
al dettaglio dell’ideologia neoliberista e repressiva, di semplice
ristabilimento di un principio di equità (naturalmente non viene
neppure considerata la possibilità di uniformare per tutti la durata
delle fasce di controllo alle quattro ore attuali dei dipendenti
privati e neppure di stabilire un livello intermedio tra le quattro e
le sette ore). Eppure, specularmente, nessuno di loro ha giudicato
iniquo il cambiamento effettuato da Brunetta, allorché introduceva
l’aumento della fascia oraria di reperibilità esclusivamente per
il pubblico impiego: è stata considerata, anzi -quella di Brunetta-
una misura “più che sacrosanta!”.
Al
principio di equità si è ispirata anche la controriforma delle
pensioni Fornero del governo Monti: essa ha innalzato di tanti anni
l’età pensionabile (che secondo le stime supererà i 70 anni per i
quarantacinquenni di oggi), soprattutto per le donne, le quali prima
avevano una pensione anticipata rispetto agli uomini e ora sono state
equiparate agli uomini, semplicemente innalzando l’età delle donne
a quella degli uomini (con un aumento di ben dieci anni!). Non
volevamo la “parità tra sessi”?
In
generale, il metodo utilizzato per consentire l’introduzione delle
controriforme (sfacciatamente chiamate “riforme”), che
-“improcrastinabili” in quanto “ce le chiedono i mercati”-
si susseguono ormai inesorabilmente da una trentina di anni (con il
disfacimento dell’URSS e dei partiti comunisti), si svolge in due
tempi: prima cambiamento in
peius delle regole
da applicare ad una specifica categoria di lavoratori e, dopo solo
qualche anno, “solamente per pura equità”,
adeguamento anche a tutti i rimanenti.
Principio
di “equità”… non “uguaglianza”: quest’ultima “parola”
è scomparsa come istanza sociale, considerata ormai un residuo
anacronistico di ideali illuministici tramontati o del comunitarismo
delle prime comunità cristiane fagocitate dalla Chiesa del potere
temporale o del pensiero marxista sconfitto dal pragmatismo del
mercato. “Uguaglianza”, un categoria quest’ultima legata ad un
“pensiero forte”, ad un umanesimo della ragione, soppiantato, in
varie fasi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, dalle
correnti di pensiero irrazionaliste: Shopenhauer, Nietzsche, passando
per il vitalismo di Bergson, per le teorie della razza che hanno
portato al nazifascismo, per l’attualismo di Gentile, per
l’esistenzialismo di Heidegger fino al pensiero debole e al
post-modernismo. Si tratta di filosofie sviluppatesi nel clima
culturale post 1848, segnate dal cambio di paradigma da parte della
borghesia dirigente che da classe emancipatrice e rivoluzionaria (si
pensi alla Rivoluzione francese) si ritrova costretta ad arretrare e
ad allearsi strategicamente con l’aristocrazia per contrastare il
movimento operaio prorompente (si pensi, alla Comune di Parigi):
siamo nella fase del colonialismo che precede la Prima Guerra
Mondiale. La rinuncia all’umanesimo della ragione finisce per
riproporre, insieme all’abbandono delle nozioni di “bene” e di
“vero”, anche quel pragmatismo e quella “teoria del fare”,
avulsi dal pensiero razionale e da una discussione sui fini,
funzionali in ultima analisi all’irreggimentazione acritica nella
società dei consumi e all’addomesticamento nel mercato
capitalistico del lavoratore sfruttato.
Un
altro meccanismo ideologico, promosso mediante i mezzi di
informazione di massa e riprodotti nelle “chiacchiere da bar”,
consiste nello screditare una categoria di lavoratori per poi poter
attuare la controriforma a danno di essi. I più attaccati sono stati
i lavoratori del pubblico impiego, i quali sarebbero privilegiati,
scansafatiche,
superprotetti,
raccomandati,
corrotti,
falsi invalidi,
finti malati,
utilizzatori di
permessi della legge 104 “per i propri porci comodi”:
essi, insomma, “vivono
sulle spalle della collettività”.
Questo atteggiamento ha gioco facile perché i cittadini finiscono
per scaricare su di essi la loro rabbia per le gravi carenze dei
servizi pubblici, senza considerare che tali carenze sono in realtà
da imputarsi da una parte alle sempre minori risorse investite su di
essi, dall’altra alla corruzione e al sistema clientelare della
dirigenza. Risorse distolte dallo stato sociale in quanto (in assenza
di conflittualità) da riservarsi per ridurre le imposte sulle
imprese e attrarre i capitali e soprattutto per “rassicurare” i
creditori del debito pubblico -mediante il “rigore” dei conti
pubblici-, come “ci chiede” l’Unione Europea. Oggi l’unico
vero obiettivo della politica economica italiana è infatti quello di
evitare che gli attuali settanta miliardi di euro di interessi annui
pagati non debbano essere ulteriormente incrementati in relazione
all’aumento dei tassi di interesse (legati, quest’ultimi,
appunto, alla “fiducia” dei mercati), rendendo alla fine
l’immenso debito pubblico nazionale inesigibile.
La
tattica sempre valida per introdurre le controriforme è quella del
divide et impera:
si mettono in competizione, uno contro l’altro, lavoratori del
pubblico impiego e del privato, lavoratori e disoccupati, pensionati
e giovani lavoratori, liberi professionisti e dipendenti, immigrati e
non, persino impiegati e operai all’interno di una stessa azienda
industriale, ma anche Italiani e Francese, Europei e Cinesi e via su
questa strada. Queste sarebbero, nell’ideologia neoliberista e
post-moderna, le reali contrapposizioni sociali, mentre è
considerato “superato” o, paradossalmente, “ideologico”
parlare di opposizione tra lavoratori e capitalisti (o come si diceva
con chiarezza, “operai e padroni”). Addirittura, hanno cercato (e
lo ha fatto anche lo stesso Boeri) di mettere in opposizione i
pensionati persino con chi ancora non è nato, allorché è stato
affermato che “non ci si può più permettere di far vivere i
pensionati sulle spalle delle future generazioni”. Purtroppo non è
dato sapere come la pensano effettivamente in proposito quei figli o
nipoti (in nome dei quali i pensionati dovrebbero sacrificarsi) con
salari da fame o disoccupati che vengono sostenuti economicamente
dalle pur modeste pensioni dei genitori o dei nonni… ma questo “non
deve interessare” in quanto “chi non lavora è una sanguisuga”,
anzi, “che ci sta a fare un bamboccione
ancora a casa con mamma e papà”? I legami famigliari infatti
contrastano la piena libertà del mercato del lavoro, sostenendo i
disoccupati, i quali in tal modo non sono ancora costretti ad
accettare ad ogni costo qualsiasi salario e qualsiasi condizione
lavorativa per sopravvivere.
Come
sono lungimiranti i nostri governanti! Si preoccupano delle future
generazioni, le stesse che tuttavia erediteranno un ecosistema
devastato, a causa dell’impossibilità, all’interno del sistema
capitalistico, malgrado grandiosi summit mondiali -in realtà
inconsistenti “messe in scena”-, di prendere veri provvedimenti
di preservazione delle risorse naturali. Questi, d’altra parte,
impatterebbero con la massimizzazione dei profitti. I sistemi di
produzione in un’economia capitalistica si basano sulla crescita
irrazionale dei consumi e sullo spreco, precisamente sul primato del
valore di scambio sul valore d’uso, scaricando i costi esterni
sulla biosfera ed indistintamente su tutta l’umanità.
Pensioni
da fame e sanità pubblica in forte ridimensionamento (insieme forse
anche ad altri fattori come la distruzione del tessuto sociale e il
traffico, lo stress da lavoro e la disoccupazione) hanno già
comportato, come è noto dai dati ISTAT, per la prima volta nel
dopoguerra, un abbassamento dell’aspettativa di vita per gli
Italiani. Ciò non può aver meravigliato i nostri governanti, i
quali lo avevano previsto già da tempo. Infatti nella riforma
pensionistica della Fornero del governo Monti la normativa ha
previsto da subito che il legame tra aspettativa di vita su base
ISTAT ed età pensionabile fosse tale solo nella direzione
dell’aumento e non fosse reversibile nel caso di riduzione
dell’aspettativa di vita. I giornalisti però, come al solito, si
sono sempre ben guardati dall’informare adeguatamente il pubblico
in merito a tale asimmetria.
Le
controriforme del lavoro (Job
Act di Renzi -in
inglese dà un’idea di essere più moderno!-) facilitano i
licenziamenti, portando i salari a livello di sopravvivenza sotto il
ricatto della disoccupazione. Quest’ultima è infatti funzionale ai
profitti del capitale, tant’è che nulla si fa in concreto per
combatterla. Basti dire che il governo Monti (per aumentare la
disoccupazione, intimidire i lavoratori, ridurre la spesa pubblica e
rassicurare i creditori) ha incrementato gli anni di vita di lavoro
non solo, come detto, aumentando di tanti anni l’età pensionabile,
ma anche eliminando sia l’istituto della Mobilità per i
licenziamenti collettivi (tre anni di sussidio e quattro nelle zone
ex Cassa del Mezzogiorno) sia la Cassa Integrazione Guadagni
Straordinaria a seguito di licenziamenti collettivi (altri quattro
anni). Tutto ciò, senza considerare la disoccupazione conseguente
all’aumento della produttività per l’introduzione della robotica
nelle fabbriche, dell’automazione e dell’informatizzazione.
Pure
un bambino capisce che basterebbe ridurre adeguatamente l’orario di
lavoro a tutti per riassorbire la disoccupazione -ma ciò
contrasterebbe la politica di riduzione dei salari-. Eppure,
paradossalmente, si arriva a dire che contro la disoccupazione
dobbiamo lavorare di più, non assentarci mai (neppure se si è
malati -ma i virus e i batteri poi non si diffonderanno?-), ridurre
le ferie, abolire giorni festivi, comunque “mai ammalarsi!”.
Dunque si vorrebbe aumentare la durata della reperibilità per
dissuadere i lavoratori dall’assentarsi per malattia, mettendo i
lavoratori ammalati agli arresti domiciliari, impedendogli persino di
andare in farmacia o di comprare il latte o la frutta (si sente dire,
nel “chiacchiericcio” di più o meno consapevoli portavoce della
cinica ideologia neoliberista, a giustificazione di ciò, che “se
uno sta male e non può lavorare non può nemmeno andare al
supermercato”: ma questo altro non è che la logica dell’uomo
ridotto a mero strumento di valorizzazione del capitale).
Con
la crescita dei profitti da una parte e la riduzione di salari e
pensioni, disoccupazione e contrazione dello stato sociale
dall’altra, non ci si può meravigliare se la polarizzazione della
ricchezza si accentui sempre più, in maniera gigantesca. Ma è
grottesco che per spiegare il disinvestimento sugli ospedali o sui
mezzi di trasporto pubblico o la “stretta” sulle pensioni si
sente sempre ripetere la frase “non ci sono i soldi”, quando non
occorrerebbe un trattato di economia per vedere che i soldi in realtà
ci sono (basti osservare sempre più yacht di stazza gigantesca nei
porti turistici o lussuosi SUV che occupano tre posti macchina -a
Roma tutto il marciapiede più mezza carreggiata-).
L’ideologia
dominante e la sconfitta dei tentativi del socialismo ci offuscano la
vista, ed il capitalismo, senza più contropoteri, può esplicare
appieno il proprio percorso di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e
di distruzione della natura per il vantaggio materiale di pochi.
L’ideologia attuale, risultato dell’egemonia della cultura del
mercato capitalistico, è destoricizzante e afferma l’eternità del
sistema capitalistico. Tuttavia sappiamo che la storia non è finita,
se, come speriamo, l’ecosistema nel frattempo non sarà così
danneggiato da non consentire nel futuro uno sviluppo materiale
dell’uomo. La storia non è finita in quanto una parte sempre
maggiore di uomini si vorrà prima o poi opporre a questo sistema
ingiusto ed irrazionale e vorrà e saprà organizzarsi per costruire
un modo di produzione non capitalistico. Rischiamo, quando e se
questo avverrà, che la nostra epoca e la nostra generazione, a
partire dalla fine degli anni settanta, sarà descritta come una
delle pagine più squallide e ottuse della storia moderna.
Quindi, se
non altro per dignità, per non doversi vergognare della nostra
miseria morale e spirituale, in attesa ed in preparazione di una
trasformazione, dobbiamo iniziare a smontare, pezzo dopo pezzo, le
affermazioni ideologiche del nostro tempo, rifiutandone il contenuto
falso e fuorviante, per affermare gli ideali di giustizia,
uguaglianza, solidarietà ed emancipazione: consapevoli che la
realizzazione di tali istanze, mai del tutto sopite, che hanno
accompagnato i momenti più alti dell’idealità umana, non è
compatibile con una società di classi sociali, sui cui invece poggia
il processo di accumulazione capitalistico.
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