venerdì 30 agosto 2013

Quel pasticciaccio brutto dell’euro - Sergio Cesaratto -

 Il sovrappiù è ciò che rimane alle classi dominanti del prodotto sociale dopo che ne hanno destinato una parte alle sussistenze dei lavoratori e delle loro famiglie. Le merci che costituiscono il sovrappiù devono tuttavia essere vendute. Parte di esse sono acquistate dai capitalisti medesimi (che se le scambiano fra loro) sotto forma di consumi di lusso (yacht, ville ecc.) o di beni di investimento (nuovi macchinari ecc). La spesa dei capitalisti può tuttavia essere insufficiente ad assorbire tutto il sovrappiù. Michal Kalecki - il “Keynes marxista” - riprese e rese coerente l’idea di Rosa Luxemburg che il capitalismo ha bisogno di “mercati esterni” per smaltire la parte del sovrappiù non assorbita dai capitalisti medesimi. La spesa pubblica è un esempio di mercato esterno: un’adeguata spesa pubblica consente elevati livelli di produzione in quanto ne assorbe una parte come acquisti della pubblica amministrazione (per esempio sotto forma di armamenti). Concentrandoci sulla parte della spesa in disavanzo, sono i capitalisti medesimi a finanziarla acquistando titoli del debito pubblico – sicché essi con una mano vendono le merci al settore pubblico mentre con l’altra gli prestano i ricavi ottenuti. Un altro mercato esterno sono i “consumi autonomi”, ovvero i consumi dei lavoratori finanziati dal credito al consumo. Il ruolo trainante di tale componente della domanda aggregata lo si può apprezzare pensando al boom edilizio pre-crisi negli Stati Uniti e in Spagna. Anche in questo caso i capitalisti con una mano vendono e con l’altra prestano alle famiglie. Si osservi come l’assorbimento del sovrappiù da parte di Stato e famiglie implichi l’indebitamento di questi settori. Il debito delle famiglie è quello più fragile, potendo lo Stato sempre ricorrere all’aumento delle imposte e al finanziamento della banca centrale. Quella parte del sovrappiù che non è consumata all’interno di un paese né dai suoi capitalisti, né dallo Stato e neanche dalle famiglie (indebitate), può trovare sbocco all’esterno e va così a rappresentare il surplus commerciale con l’estero. Sono in genere i paesi più avanzati, come gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, e/o quelli mercantilisti, come il Giappone o la Germania, a trovarsi nella condizione di paesi esportatori netti (cioè che tendono a esportare più di quanto importino). I paesi mercantilisti accentuano questa tendenza attraverso la compressione dei consumi interni, pubblici e privati. Questo accade, per esempio, attraverso aumenti dei salari reali in misura inferiore alla crescita della produttività del lavoro. Essendo paesi come Giappone e Germania economie ad elevata produttività, i salari reali sono comunque alti, per cui i sindacati possono facilmente diventare conniventi a tale modello (per alcuni dettagli del modello tedesco si veda Cesaratto & Stirati 2011). Anche in questo caso i capitalisti (dei paesi in surplus commerciale) con una mano vendono le proprie merci ai paesi (definiamoli) periferici, mentre con l’altra prestano a tali paesi i capitali necessari per finanziare i propri deficit di bilancia dei pagamenti.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      http://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/3007-sergio-cesaratto-quel-pasticciaccio-brutto-delleuro.html  

domenica 25 agosto 2013

RUDOLF HILFERDING IL CAPITALE FINANZIARIO Introduzione di Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro - (© 2011 – Mimesis Edizioni) -


Oggi […] l’economia borghese non conduce più energiche e gaie battaglie sul piano teorico. In quanto portavoce della borghesia, interviene soltanto là dove questa ha degli interessi pratici, rispecchiando fedelmente gli interessi conflittuali delle cricche dominanti nelle lotte economiche quotidiane, ma evitando accuratamente di prendere in considerazione la totalità dei rapporti sociali,    ritenendo giustamente che tale considerazione sia inconciliabile con la propria esistenza di economia borghese. E anche quando per necessità dei suoi «sistemi» e nei suoi «compendi» deve esprimersi sui nessi della totalità, può cogliere la totalità soltanto rappezzando   faticosamente assieme i singoli frammenti. Avendo cessato di essere fondata su principi e di essere sistematica, è diventata eclettica e sincretistica.

                  Rudolf Hilferding


             

 
      Sarebbe ovviamente poco onesto dimenticare che la «zona euro» nacque a seguito della caduta del Muro di Berlino e in virtù del tracollo dell’Unione sovietica. Non si può sottovalutare il profondo senso di disorientamento che quegli eventi epocali produssero in tutti gli eredi del movimento operaio. Lo stesso ottundimento che ancora oggi sembra pervaderli costituisce una conseguenza anche del colpo tremendo
ricevuto allora. L’adesione acritica ai processi di centralizzazione dei capitali, l’ormai palese incapacità di organizzare le masse lavoratrici per incunearsi nello scontro tra capitali forti e capitali deboli e la conseguente fuga ideologica verso una pelosa «etica europeista» o «globalista» trovano molte delle loro radici nel fallimento della rivoluzione sovietica: vale a dire, del primo, grande progetto politico alternativo alla logica della riproduzione e della centralizzazione capitalistica.
Noi crediamo, proprio per questo, che sia giunto il tempo che i marxisti riesaminino l’esperienza sovietica, con le sue grandezze e i suoi orrori, in chiave finalmente scientifica e storico-critica. Non si tratta soltanto di ammettere che la minaccia sovietica è entrata per decenni nella «funzione di produzione» del sistema di welfare e degli stessi equilibri capitalistici europei (come implicitamente dimostrato dal fatto che quel sistema di welfare e quegli equilibri sono entrati in crisi a seguito della scomparsa di quella minaccia), ma di riconoscere che la presenza di quel «grande Altro» rappresentava in un certo senso la ragion d’essere non
solo e non semplicemente dei comunisti della Terza Internazionale, ma anche, a pensarci bene, di tutti gli altri eredi della tradizione del movimento operaio, inclusi gli stessi socialdemocratici riformisti: i quali, finita l’esperienza sovietica, sono entrati essi stessi in una gravissima crisi d’identità generale. Esaminare in chiave storico-critica le potenzialità e gli enormi limiti della politica economica sovietica costituisce dunque un passo necessario per fuoriuscire dalle secche teoriche e pratiche di uno scontro tra «riformisti» e «rivoluzionari» i cui termini sono ormai desueti da entrambe le parti, e per rendere nuovamente praticabile una proposta alternativa alle logiche e alle tendenze del capitale. Ossia, in ultima istanza, per attualizzare il tema più generale della pianificazione: per riscoprire la potenziale modernità del «piano».
Naturalmente, sarebbe ingenuo discutere oggi di «pianificazione socialista» in termini ideali: il discorso sulla pianificazione si articola e si modifica in funzione dell’articolazione e del mutamento dei rapporti di forza. È chiaro quindi che esso andrebbe sviluppato e riproposto in funzione della dinamica di quei rapporti, perché «piano» può significare molte cose: basti ricordare che, durante la prima crisi petrolifera, furono addirittura gli Stati Uniti ad essere investiti da un grande dibattito sulla pianificazione, a seguito delle proposte avanzate al Congresso dal Comitato per la Pianificazione Nazionale guidato dal premio Nobel per l’economia Wassily Leontief. Resta comunque il fatto che, nell’attuale fase storica, quanto maggiore sarà la capacità di riarticolare il discorso relativo alla pianificazione, tanto maggiori saranno le possibilità di costituire un insieme credibile di alternative all’ideologia anarco-liberista del mercato capitalistico, in piena crisi ma tutt’altro che sconfitta.
Ci sono fondati motivi per supporre, a tal riguardo, che una nuova e praticabile logica di «piano» emergerà solo dall’abbandono dell’idea secondo cui il ruolo dello stato dovrebbe essere relegato all’abusata funzione ancillare dei mercati finanziari, ossia come prestatore di ultima istanza per il capitale privato. Semmai, l’autorità statale dovrebbe attuare una «repressione dei mercati finanziari» e un «pesante uso dei controlli dei
capitali», allo scopo di vanificare le pretese del capitale finanziario sulla moneta e disinnescare il meccanismo di produzione delle crisi che esso porta con sé. Questa dovrebbe esser considerata la premessa necessaria  per assumere un controllo pubblico della circolazione monetaria allo scopo di inaugurare un nuovo regime, in cui lo stato agisca quale creatore di prima istanza di nuova occupazione. Di prima istanza, si badi, ossia non
per fini di mera assistenza, ma in primo luogo per la produzione di quelle basic commodities che maggiormente incidono sulle condizioni del progresso materiale e civile della società e che, proprio per ciò,non dovrebbero esser lasciate alla ristretta logica dell’impresa capitalistica privata. Si tratta, del resto, di un’implicazione logicamente necessaria del paradigma della riproduzione: più precisamente, se è vero che il potere del capitale è il potere di governare l’allocazione del lavoro sociale sulla base di una logica riproduttiva espressa in forma di «domanda monetaria», una razionalità economica antagonistica rispetto a quella del capitale non potrà che manifestarsi preliminarmente nella forma di un potere sul denaro: cioè di una «signoria politica» che ne reprima il ruolo capitalistico di generatore e allocatore del lavoro disponibile                                                                                                                                                                                                                                                                               http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2013/08/Brancaccio-e-Cavallaro-Leggere-Il-capitale-finanziario-2011.pdf

venerdì 9 agosto 2013

Manifesto del Partito Comunista - Introduzione*- Stefano Garroni**

*Edizioni Laboratorio politico, gennaio 1994 
**Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. E’ possibile ascoltare le registrazioni audio e video degli incontri in collaborazione con Stefano Garroni qui:  http://www.youtube.com/user/mirkobe79  
                                                                                                                                               
Com’è ben noto Il Manifesto fu scritto da Marx ed Engels su commissione della Lega dei comunisti, organizzazione londinese, che però raccoglieva anche lavoratori di altri paesi e che aveva una consistente rete di rapporti internazionali.
Lo scopo dell’opuscolo – perché di questo si trattava – era di propagandare un unitario orientamento politico, che fosse, nello stesso tempo, capace di rinserrare le file dei più decisi e combattivi rivoluzionari europei, come anche di fornire a quell’orientamento uno spessore storico e teorico. Insomma, si trattava anche – e forse fondamentalmente – di organizzare un effettivo argine contro il dilagare, nel movimento rivoluzionario, di orientamenti utopistici, spesso costruiti su ispirazioni di tipo francamente religioso e, generalmente, tanto roboanti sul piano verbale, quanto inconcludenti su quello effettivamente pratico e politico.
Ricordiamo che tutta la vicenda si ambienta nel 1848, in un’epoca, dunque, ricca di fermenti rivoluzionari, ma pure caratterizzata ancora dal fatto che il movimento proletario e persino gli ambienti rivoluzionari più solidi, mancano di una propria autonomia teorica, non sanno discriminare adeguatamente tra le critiche alla società presente che esprimono i rimpianti delle classi tramontate; e quelle, invece, che rappresentano un nuovo punto di vista, legato al moderno proletariato di fabbrica.
È un’epoca, dunque, di incertezze teoriche, che si esprimono sia in oscillazioni politiche, sia nella proclamazioni di tesi francamente utopistiche e spesso “colorate” – lo ripeto – in senso religioso e sentimentale.
La battaglia per dare al movimento rivoluzionario un orientamento teorico diverso, che fosse fondato dal punto di vista critico-scientifico, già aveva visto nettamente impegnati sia Marx che Engels: l’incarico, dunque, ottenuto dalla Lega dei comunisti era anche una loro personale vittoria. Tuttavia, il compito assegnato era sempre – e solo – quello di scrivere un opuscolo agitatorio. Ricordare ciò può sembrare bizzarro, quasi si insistesse su un’ovvietà.

Senonchè, capita che Il Manifesto abbia conosciuto un’enorme “fortuna” sia in quanto a numero di lettori (si è perfino scritto che solo la Bibbia ne abbia avuto di maggiori), sia in quanto a letteratura critica, cioè, a scritti, che avevano Il Manifesto come oggetto. Ed è qui che – per così dire – cominciano i guai.
Schematicamente, infatti, si può notare che la letteratura critica sul Manifesto (fatte le dovute eccezioni) è di due tipi: o esprime la preoccupazione di dimostrarne la non attualità – per rendere, così, accettabile la proposta al movimento operaio di un orientamento riformistico e socialdemocratico; oppure, esprime una preoccupazione opposta – di dimostrare la PIENA attualità del testo, allo scopo di consolidare un orientamento comunistico.
Il fatto è, però, che questo secondo tipo di letteratura critica è stato continuato anche quando le organizzazioni comuniste si andavano effettivamente orientando, sul piano politico, secondo prospettive che, ormai, non avevano quasi più nulla in comune con quelle enunciate da Marx ed Engels perché non tanto indirizzate verso lo Stato SOCIALISTA, quanto più modestamente verso lo Stato sociale.
È capitato, dunque, che i due tipi di letteratura finissero, come si dice, col darsi la mano: complementari, infatti, sono (per certi aspetti) i ruoli di chi NEGA L’ATTUALITA’del Manifesto e di chi L’AFFERMA, invece, ma in modo tale da ridurre il testo a verità già data, indiscutibile: dunque, MORTA.
D’altronde è significativo che il terreno comune ai due tipi di letteratura critica (con pochissime eccezioni) sia stato quello della secca alternativa fra ATTUALITA’-NON ATTUALITA’del testo: ora, come si può onestamente porre una tale rigida questione, quando si ha a che fare con un OPUSCOLO AGITATORIO, scritto per altro da due giovani autori?