giovedì 14 novembre 2019

HEGEL IN URSS. HEGELISMO E RICEZIONE DI HEGEL NELLA RUSSIA SOVIETICA - Valeria Finocchiaro

Da: materialismostorico n° 2/2017 (vol. III) - Valeria Finocchiaro (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
                      Dialettica*- Eric Weil** 

Lo spettro che si aggirava per l’Europa si materializzò improvvisamente nel 1917 alla sua estrema periferia, nel luogo e nelle circostanze più improbabili e sfavorevoli. La Russia zarista e arretrata, isolata e sconvolta dalla guerra, fu levatrice di un atto rivoluzionario che ha segnato il definitivo approdo della modernità a una scala di misura mondiale. Questo evento, tuttavia, non nasceva dal nulla. Quella stessa Russia aveva infatti partecipato dei fermenti del movimento operaio internazionale del XIX secolo e aveva anzi sviluppato linee originali di pensiero e di azione; linee che avevano solide basi nella cultura e nella riflessione filosofica continentale e che saranno vitali anche dopo l’Ottobre. Appare utile, in questa prospettiva, tracciare un quadro dell’influenza di Hegel sul pensiero marxista russo e sovietico, cominciando dal primo hegelismo di sinistra. Nel farlo si ricorrerà inevitabilmente a delle semplificazioni, sperando però di fornire una visione d’insieme, necessariamente sintetica, delle letture russe e sovietiche di Hegel fino agli anni Trenta.

È superfluo ricordare come la ricezione di Hegel in Russia non costituisca soltanto un capitolo nella storia del pensiero, dal momento che questi approcci furono sempre immancabilmente connessi a precise contingenze politiche e storiche. Va cioè sottolineato il carattere non strettamente accademico che contraddistingue la maggior parte degli autori presi in esame, un carattere che imprime alla filosofia russa un chiaro timbro speculativo in chiave radicale e massimalistica1. Tale circostanza impone una doppia prudenza: bisogna infatti evitare di ridurre la storia del pensiero alla cronaca delle strategie politiche degli intellettuali coinvolti ma, ad un tempo, occorre sfuggire alla tentazione di fare storia delle idee unicamente attraverso se stessa2. 

Nell’orazione per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel, di cui si tratterà in seguito, Plechanov ricordava non a caso come, malgrado il suo idealismo, uno dei più grandi insegnamenti del filosofo di Stoccarda fosse stato quello di avere riportato la riflessione storica sul terreno dell’esperienza concreta: in ciò consisteva il segreto “materialismo” di Hegel, ovvero nella convinzione che «la filiazione logica delle idee» non valga da sola a spiegare alcunché. Si tratta di una premessa necessaria, dal momento che la gran parte della letteratura critica sembra cadere spesso in uno dei due estremi: le ricostruzioni della filosofia russa e sovietica tendono infatti a privilegiare il solo elemento politico, escludendo in tal modo la complessa vicenda teorica degli anni precedenti il 1917; oppure a tracciare sistematizzazioni post festum di una filosofia che, considerata nel suo insieme e nelle sue premesse teoriche, non poteva che condurre allo stalinismo. Quest’ultimo viene quindi presentato come l’esito inevitabile di un pensiero che non                                                                                                                              si era formato, come in Occidente, attraverso il lungo apprendistato della riflessione liberale3.

Una ricostruzione delle differenti evoluzioni della ricezione hegeliana consente di inquadrare in controluce i problemi teorici che si sono presentati al pensiero russo e poi sovietico e tutte quelle tensioni concettuali che, con la dissoluzione della Seconda Internazionale, erano esplose nella loro dimensione politica. In questo contesto, come si vedrà, emergeranno anche tentativi piuttosto originali – talvolta sotto le sembianze apparentemente neutrali di una filologia marxiana – di appropriazione del testo hegeliano; tentativi che avrebbero trovato il loro esempio filosoficamente più significativo nei Quaderni filosofici di Lenin. 


1. Da Belinskij a Herzen 


Già nell’ambito del contrasto fra slavofili e occidentalisti che occupava la scena culturale ai tempi di Nicola I, costante era il riferimento da entrambe le parti alla filosofia della storia hegeliana, poiché, come segnala Kolakowski, «quasi tutti erano passati attraverso la scuola della filosofia tedesca»4. Mentre dal canto loro gli slavofili rivalutavano le categorie del romanticismo in chiave antimoderna, privilegiando gli aspetti teologici della filosofia hegeliana, l’occidentalismo – rappresentato dall’aristocrazia colta e cosmopolita delle grandi città – aveva i suoi giovani hegeliani nel letterato Belinskij e nel rivoluzionario Bakunin, i quali vedevano nella formula «ciò che è reale è razionale» la fonte di un nuovo principio speculativo che avrebbe consentito di porre l’elemento concreto e l’azione al di sopra della filosofia.

Come ha sostenuto Koyré, «una generazione che cominciava ad interessarsi di politica abbandonava naturalmente Schelling e si metteva alla scuola di Hegel»5. È necessario sottolineare come l’assimilazione di tale principio, che per non essere letto in senso puramente conservatore implica naturalmente la distinzione fra mera empiria e realtà autentica, fra Realität e Wirchlichkeit, sia stata un fatto graduale, dimostrato dalle continue oscillazioni dei due pensatori. Se in un primo tempo entrambi tendevano a un conservatorismo piuttosto unilaterale, successivamente Belinskij sembrerà cogliere le implicazioni pratiche di tale formula. E tuttavia egli si allontanava ben presto dal modello hegeliano, anticipando le critiche che al filosofo avrebbe mosso Kierkegaard, cioè la denuncia del disprezzo e della negazione della persona che l’Allgemeinheit comporterebbe in sede sistematica. Nonostante il suo allontanamento da Hegel, Belinskij suggerirà però, in un articolo del 1843, la celebre distinzione fra metodo dialettico e sistema, dal momento che «le sue risposte [quelle della filosofia hegeliana] talvolta appaiono appartenenti ad un periodo dell’umanità ormai passato, completamente esaurito, e tuttavia il suo rigoroso e profondo metodo ha aperto una grande strada alla coscienza della ragione umana». «Hegel», continuava, «sbagliava solo nelle applicazioni, allorché cambiava il proprio metodo»6.

Si tratta di un’affermazione certamente sorprendente, per quanto nel complesso si possa dire che la sua influenza nel pensiero filosofico successivo sia rimasta piuttosto marginale. Al contrario Bakunin, molto presto orientato dalla diretta influenza di Arnold Ruge, manifesterà clamorosamente il suo hegelismo nell’articolo del 1842 intitolato La reazione in Germania. Qui egli presentava un’immagine di Hegel del tutto conforme allo spirito della sinistra tedesca di ispirazione feuerbachiana, e tuttavia riusciva a portare a un livello ancora più radicale quei presupposti, tracciando le conseguenze politiche che derivavano dall’enfatizzazione della categoria di negazione in Hegel7. Quest’ultimo rappresenta per Bakunin «l’inizio della necessaria autodissoluzione della cultura moderna: egli è già andato oltre la teoria – anche se certamente entro la teoria stessa –, postulando un mondo nuovo, pratico; cioè un mondo che non si concluderà affatto con l’applicazione formale di teorie già apparse, ma che sarà il risultato di un atto originale dello spirito autonomo e pratico»8.

Successivamente il pensatore anarchico congederà la filosofia hegeliana in nome del valore assoluto dell’individuo e, soprattutto, in nome della sua battaglia teorica e politica contro qualunque autorità temporale, in primo luogo quella dello Stato, che egli riterrà l’ostacolo più immediato alla realizzazione della libertà umana. In ogni caso, come ricorda Planty-Bonjour, Bakunin rimane «esemplare, e in questo senso rappresentativo, dell’hegelismo russo, nella misura in cui tutti i pensatori del tempo avevano bisogno di una dottrina filosofica per dare un contenuto alla loro azione»9.

Nella stessa direzione si sviluppano le considerazioni di una figura di rilievo dell’intelligencija russa di metà Ottocento come Herzen, con il quale il pensiero russo entra in una fase di profonda meditazione e da avvio a un confronto con i presupposti sistematici dell’idealismo. Una stagione che adesso non viene più invocata per una sorta di generica infatuazione verso il lato concreto della filosofia hegeliana: la riflessione sul principio della razionalità del reale assume infatti ora il carattere di una vera e propria professione di immanentismo, che non lascia spazio ad alcuna trascendenza divina10.

Anche per Herzen, come già per Belinskij, esiste uno scarto fra i contenuti del sistema hegeliano e i suoi principi, i quali non vengono portati alla luce che per una naturale debolezza dell’uomo Hegel: «nessuno» – scriveva Herzen nel 1843 – «può mettersi tanto al di sopra del proprio secolo, da evaderne completamente»11. Si approfondisce dunque la distinzione fra un metodo, la dialettica (considerata notoriamente da Herzen come «l’algebra della rivoluzione») e la dottrina positiva del filosofo, frutto di un’inevitabile riconciliazione con il proprio presente storico. Eppure, continua Herzen, «il vero Hegel era quel modesto professore di Jena, amico di Hölderlin, che aveva salvato sotto un lembo dell’abito la sua Fenomenologia mentre Napoleone entrava nella città», un autore la cui filosofia ancora «non portava né al quietismo indù, né alla giustificazione delle forme civili esistenti, né al cristianesimo prussiano»12. In ogni caso, l’opposizione di Herzen a Hegel non si rivolgeva tanto contro i compromessi politici del futuro docente di Berlino, quanto piuttosto contro una filosofia che falliva nel tentativo di superamento del formalismo scolastico tipico dell’idealismo. Mentre infatti il progetto speculativo hegeliano consisteva nello sforzo di unificare logica e storia, cioè di superare il dualismo kantiano, il risultato era stato invece, secondo Herzen, quello «di schiacciare con lo spirito, con la logica, la natura»13 e ciò nonostante un’ispirazione fondamentalmente realista che percorre tutta la filosofia di Hegel.

Sul materialismo di Herzen divergeranno poi Lenin e Plechanov: mentre per il primo le affermazioni di Herzen sulla priorità «della materia e della storia» non lasciano spazi a dubbi circa la collocazione materialista del pensatore moscovita, per il secondo il rifiuto della trascendenza non rendeva il filosofo del tutto immune da ricadute idealistiche, in particolare per il suo deciso rifiuto della riduzione dell’uomo a semplice fatto naturale14.

È interessante notare come già nel 1841, mentre Belinskij e Bakunin concordavano nel rilevare che in Hegel il sistema opprima la persona, sulla base della Prefazione della Fenomenologia Herzen cogliesse nel «travaglio del negativo» il passaggio attraverso cui il singolo, spogliato della propria unilateralità, deve negarsi per far posto all’universale: tale negazione, certamente dolorosa, non comporta affatto la perdita della singolarità in quanto tale ma la soppressione del suo carattere immediato e assoluto15. La mediazione dunque, e non la negazione (come in Bakunin), è il momento della dialettica che Herzen valorizza. Una mossa che gli permette di pensare, con Hegel, il fallimento delle rivoluzioni del 1848 alla luce di una filosofia della storia profondamente radicata nel presente. Una filosofia che non ammette anticipazioni né fughe nel passato, ma nella quale il prezzo da pagare per la sparizione della provvidenza divina è però naturalmente la consapevolezza della preponderanza del caso nelle vicende umane16. Nel complesso, comunque, si può dire che Herzen è rimasto estraneo alla polarizzazione fra una destra e una sinistra hegeliana, avendo rifiutato l’interpretazione conservatrice del metodo tipica della prima ma anche la visione rigidamente materialista – e, sul piano politico, orientata alla prassi rivoluzionaria – della seconda.

2. Il populismo e Plechanov

Già negli anni Sessanta del XIX secolo, in un contesto sociale radicalmente mutato per via delle politiche inizialmente liberali di Alessandro II, «l’infatuazione hegeliana degli anni Quaranta era terminata»17, nonostante Hegel rimanesse ancora un punto di riferimento costante, ma spesso polemico, per la nuova intelligencijia rivoluzionaria.

Una delle figure più indicative dell’opposizione a Hegel è senza dubbio Lavrov, fra i più noti rappresentanti del populismo, la cui interpretazione, del tutto appiattita sulle consuete accuse di conservatorismo politico modellate direttamente sull’opera di Rudolph Haym, escludeva quella separazione, tematizzata in modi diversi da Belinskij ed Herzen, fra metodo e sistema. Per Lavrov «la filosofia pratica hegeliana non è che la logica conseguenza della sua filosofia speculativa, […] e il conservatorismo politico è il risultato logico della filosofia hegeliana»18. Lavrov esprimeva perfettamente la tendenza principale del populismo - «corrente ideologica che si sviluppa al di fuori di ogni seria riflessione non solo su Hegel, ma anche sull’hegelismo di sinistra»19 –, per i cui esponenti Hegel era divenuto semplicemente sinonimo di reazione.

Com’è noto, il marxismo emerge in Russia in forte polemica con i narodniki, facendo valere in particolare le ragioni della necessità dello sviluppo graduale delle forze produttive di contro al volontarismo di gruppi come Terra e Libertà, sulla base dell’idea (più avanti formalizzata da Plechanov) secondo cui «l’evoluzione economica porta alla rivoluzione politica»20. A ben vedere, però, soprattutto nella sua genesi, il rapporto fra marxismo e populismo appare segnato da un’influenza reciproca; una consonanza che si trasformerà in aperta opposizione solo successivamente21 e che culminerà con la costituzione del gruppo Liberazione del lavoro, fondato a Ginevra nel 1883.

Come nota Billington, l’opposizione fra marxismo e populismo coincide con quella fra «materialismo dialettico e idealismo morale»22. I populisti rifiutavano in particolare certe premesse del materialismo storico, giudicate incompatibili con le condizioni sociali di un paese come la Russia, economicamente arretrato e costituito principalmente da masse contadine, mentre il pensiero marxista rimproverava ai populisti il fatto di non conoscere «neppure l’abbicì del socialismo», come aveva scritto Engels nel 1874 in polemica con il populista Tkačëv23.

L’atteggiamento dei populisti di fronte al marxismo era stato formulato con precisione da un discepolo di Lavrov, Michajlovskij. Il quale, in un articolo intitolato Karl Marx di fronte al tribunale del Signor Žukovskij, aveva sostenuto nel 1877 che accogliere in Russia la teoria marxiana, e in particolare il primo libro del Capitale, avrebbe comportato un atteggiamento passivo di attendismo, indifferente alle condizioni del popolo, nella convinzione che una rivoluzione sarebbe stata possibile solo dopo lo sviluppo completo del capitalismo. Questa circostanza, a suo avviso, avrebbe paradossalmente reso i socialisti i primi difensori del capitalismo24.

Tale fu in effetti la parabola dei cosiddetti «marxisti legali», i quali – secondo le parole del loro esponente più illustre, Pëtr Struve – sostenevano appunto la necessità di «andare a scuola dal capitalismo»25. La difesa dello sviluppo capitalistico in quanto tappa non eludibile ai fini del passaggio al socialismo accomunava in questo senso i marxisti legali a Plechanov, il quale tuttavia declinava tale necessità con la consapevolezza che una rivoluzione in un paese arretrato e privo di una classe attiva avrebbe comportato una regressione al livello delle forme politiche, perché si sarebbe risolta in una sorta di «aborto politico, sul modello degli antichi imperi della Cina e della Persia, [cioè in] un rinnovato dispotismo zarista su base comunista»26. Nella prospettiva dei populisti, queste posizioni si traducevano nella grottesca postulazione della schiavitù come tappa necessaria per il raggiungimento della civiltà, e quindi nella teorizzazione di un asservimento funzionale al processo di liberazione. Michajlovskij indicava in queste concezioni un tipico esempio di hegelismo deteriore, che assumeva le inquietanti sembianze della List der Vernunft come giustificazione ex post dei propri misfatti: in effetti, anche la dialettica servo-signore all’opera nella Fenomenologia, da questo punto di vista, presenterebbe la condizione di oppressione come tappa necessaria per il riscatto servile27.

L’atteggiamento dei populisti russi nei confronti di Hegel è particolarmente significativo e mostra come la lettura del filosofo tedesco fosse connotata in un primo momento da una precisa interpretazione in chiave rigidamente evoluzionista della sua filosofia della storia, secondo un’impostazione che comportava l’inevitabile svilimento del singolo in favore dell’universale. Secondo le parole di Michajlovskij, infatti, «non esiste un sistema filosofico che abbia trattato la persona con altrettanto disprezzo distruttore e altrettanta fredda durezza del sistema hegeliano»28.

Tra le interpretazioni di Hegel spicca poi l’assai complessa figura di Cernyševskij, uno degli intellettuali progressisti più influenti della seconda metà del secolo, che verrà apprezzato da Lenin come un «grande hegeliano e materialista»29. Cernyševskij condivideva con i populisti la valutazione in senso evoluzionista della filosofia della storia hegeliana, il cui merito più grande, scriveva nel ‘49, era stato quello di avere elaborato «l’idea dello sviluppo»30. Egli è stato il primo pensatore russo a contrapporre in modo netto ed esplicito sistema e metodo in Hegel, rilevandone sulla scorta di Engels la tensione interna: «Questa discordanza dipende […] dalla doppiezza dello stesso sistema di Hegel, dalla discordanza fra i suoi principi e le sue conclusioni, fra lo spirito e il contenuto. I principi di Hegel erano straordinariamente potenti e larghi, le sue conclusioni ristrette e inconsistenti»31.

Plechanov, che si imporrà come teorico di spicco del marxismo fin dagli esordi della Seconda Internazionale, ha contribuito a riabilitare l’hegelismo dalle accuse dei populisti attraverso un recupero della distinzione fra metodo e sistema formulata da Cernyševskij, ma con una importante precisazione: egli era persuaso infatti che il carattere mobile e dinamico del metodo prevalesse nettamente sulla staticità del sistema.

Nonostante il rimprovero di Lenin, il quale lo avrebbe accusato di non essersi misurato a sufficienza con la Scienza della Logica, Plechanov aveva capito che la categoria di contraddizione in Hegel non è riferibile unicamente ai contenuti del pensiero ma costituisce la struttura fondamentale della realtà. Come si legge in uno scritto del 1895, «conformemente alla nostra teoria materialista, le contraddizioni contenute nei concetti non sono che il riflesso, la traduzione nel linguaggio del pensiero delle contraddizioni che risiedono nei fenomeni, come conseguenza della natura contraddittoria del movimento»32. Di conseguenza, a partire dalla battaglia teorica che lo aveva visto impegnato a respingere il revisionismo di Bernstein e l’evoluzionismo di Kautsky, avrebbe rimarcato la differenza fra sviluppo e rivoluzione, cioè fra semplice teoria evoluzionista e salto rivoluzionario, sottraendo il metodo hegeliano ad ogni confusione «con la teoria dell’evoluzione». «Essa [la dialettica]», dirà, «differisce essenzialmente dalla volgare “teoria dell’evoluzione”, che si adagia sul principio che né la natura né la storia fanno dei salti e che nel mondo tutti i cambiamenti si operano gradualmente»33.

Si tratta di un’acquisizione fondamentale che verrà ripresa da Lukács, il quale in Storia e coscienza di classe riconoscerà che «è merito di Plechanov l'aver richiamato l'attenzione […] sull'importanza di questo aspetto della logica hegeliana in rapporto alla differenza tra evoluzione e rivoluzione»34. In questo quadro, la dialettica secondo Plechanov esclude una visione meramente evoluzionistica del reale proprio perché si propone di spiegare in che modo «le modificazioni quantitative, accumulandosi poco per volta, diventano finalmente delle modificazioni qualitative». «Questi passaggi», continuava il filosofo russo, «si compiono a salti e non possono compiersi in altra maniera»35. E nonostante sia indubbio che non si possa interpellare Hegel per trovare conferme sui metodi dell’«attività rivoluzionaria», nondimeno Plechanov era convinto che ci si dovesse rivolgere a lui per comprendere nella giusta maniera il movimento del reale, dal momento in cui non ci si poteva più accontentare di una semplice teoria dello sviluppo (una «fastidiosa tautologia» che procede per addizione quantitativa). Ecco allora che «uno dei più grandi meriti di Hegel [è consistito nel] l’aver epurato la dottrina dell’evoluzione da simili assurdità»36 e nell’aver posto un volta per tutte i fondamenti teorici per la pensabilità del «movimento della materia», e cioè della trasformazione, attraverso la categoria di «contraddizione»37.

Ai critici populisti, convinti che Hegel si fosse limitato ad anticipare il contenuto reale a partire da semplici astrazioni logiche, Plechanov obiettava che quasi tutto nella dialettica di Hegel è stato attinto dall’esperienza. Dal che si comprende perché «i discepoli di Hegel che insorsero contro l’idealismo» siano poi passati nel campo del materialismo: si tratta di una radicalizzazione del pensiero hegeliano o, come scrive Planty-Bonjour, di un tentativo di «raddrizzamento»38, e non tanto di un’inversione. Nell’opera sulla Concezione monistica della storia Hegel figurava infatti come il ponte teorico che collega i materialisti francesi e quelli moderni e cioè il punto di incontro fra D’Holbach e Marx39.

In effetti, sosteneva Plechanov nell’orazione Per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel, la fondamentale aspirazione materialista che agisce in tutta l’opera di Hegel viene confermata dalla sua filosofia della storia: quando Hegel parla dei popoli «sembra quasi di dimenticarsi che si ha che fare con un idealista», tanto la sua comprensione storica è radicata nella sostanza materiale delle determinazioni empiriche, come il clima, la conformazione geografica ecc. In quest’ambito «egli osserva strettamente il suo proprio principio di mantenersi sul terreno della storia, dell’empirismo», poiché lo spirito di un popolo non è che un grado dello sviluppo dello spirito universale; le cui proprietà a loro volta non si deducono dallo studio della storia universale, per filiazione di idee, ma dall’analisi concreta dei fatti materiali. E nonostante ricorra allo «spirito» come «ultima risorsa del movimento storico», confermando in tal modo la sua fedeltà all’idealismo, Hegel «torna poi al terreno storico concreto». «La lotta delle fazioni all’interno delle città fu [spiegata tramite] l’effetto dello sviluppo economico della Grecia. […]» ed è «nella storia economica della Grecia che bisogna cercare le cause della sua scomposizione»: in questo senso «Hegel ci suggerisce dunque una concezione materialistica della storia».

In sintesi, il procedere hegeliano in campo storico si è mantenuto saldo a un principio di metodo di carattere pragmatico che si è rivelato attento alle condizioni empiriche fattuali, nella convinzione che «è nell’attività economica di un popolo che bisogna cercare la spiegazione delle sue idee religiose e di tutti i movimenti di emancipazione che si producono al suo interno». Hegel ha colto dunque «l’importanza del fattore geografico per il divenire storico dell’umanità»: sono queste – scriveva Plechanov, anticipando l’intuizione di Lukács sull’importanza attribuita da Hegel alla vita economica di un popolo – le «sorprese che ci riserva la filosofia hegeliana della storia».

Ora, Plechanov si rendeva conto che questo ancoraggio all’elemento materiale non era un fatto che potesse essere spiegato unicamente in riferimento alla filosofia della storia, perché altrimenti sarebbe rimasto nient’altro che una semplice contingenza all’interno di un sistema ben altrimenti equipaggiato contro la Zufälligkeit del reale. La necessità della conoscenza delle leggi della natura è invece un’esigenza sistematica presente già nella Logica, di cui Plechanov rivaluta l’idea secondo cui «la necessità non diventa libertà perché sparisca, ma solo perché la sua identità ancora interna vien manifestata»40. Secondo Plechanov, infatti, «Hegel ha definitivamente risolto l'antinomia Libertà-Necessità, mostrando che noi siamo liberi solamente nella misura in cui conosciamo le leggi della natura, dell'evoluzione sociale e del divenire storico, e nella misura in cui noi ci sottomettiamo ad esse, ci appoggiamo ad esse». Si tratta, com’è noto, di un passaggio fondamentale che avrà un peso determinante nella riflessione dei Quaderni filosofici (ma che a ben vedere si trova già in Materialismo ed Empiriocriticismo) e che costituisce lo strumento teorico attraverso cui Lenin elaborerà la sua opposizione al determinismo della Seconda Internazionale ma anche al volontarismo dei movimenti populisti41. In Plechanov, al contrario, convinto di avere trovato nella teoria dei «salti» rivoluzionari l’antidoto al determinismo evoluzionista, l’idea di libertà come «necessità consapevole»42 finirà per confondersi del tutto con la fiducia inamovibile nelle leggi di uno sviluppo sociale secondo lo schema evolutivo occidentale. Una lettura che lo avrebbe portato successivamente a schierarsi con i menscevichi.

3. Lenin 

Intorno agli anni ‘90, a questa polarizzazione tra populisti e marxisti si aggiunse l’apporto teorico di Lenin43 , il quale si riconosceva nelle posizioni di Plechanov con un’importante riserva: pur sottolineando la necessità dello sviluppo produttivo del capitalismo, egli non escludeva la «possibilità di una transizione diversa, più diretta, al socialismo»44 , dal momento che il capitalismo russo possedeva già una struttura compiuta, la cui maturità era evidente nel grado di sviluppo delle divisioni e delle lotte di classe45 .

Per quanto in Che cosa sono gli amici del popolo (1894) si ricavi una valutazione sostanzialmente negativa della triade hegeliana, in particolare quando questa viene spacciata per un metodo conoscitivo, accortosi che gli intelettuali della socialdemocrazia rifiutavano l’eredità hegeliana in favore di un ritorno a Kant, Lenin si ergerà a difesa della dialettica. Il neokantismo avrebbe implicato infatti la sostituzione di un idealismo con un altro idealismo ben più minaccioso, perché camuffato con le vesti di un empirismo volgare e di una «pacifica» teoria dell’evoluzione46. Nella sua battaglia teorica e pratica contro il revisionismo Lenin aveva capito che «la filosofia hegeliana è ben più di una vuota formulazione»47 e che la dialettica, una volta epurata dai suoi residui teologici, risultava di gran lunga preferibile alle teorie dell’evoluzione e allo spontaneismo politico. Certamente, come scrive il leader bolscevico in un articolo su Engels (1895), Hegel era un «ammiratore dello Stato autocratico prussiano», eppure «la sua dottrina era rivoluzionaria».

Sulla scorta di Herzen, distingueva dunque l’uomo dalla dottrina e, all’interno della dottrina, tra principi ed esposizione positiva. Soprattutto, però, Lenin fa notare che

«la fiducia di Hegel nella ragione umana e nei suoi diritti e la tesi fondamentale della filosofia hegeliana, secondo la quale nel mondo si svolge un processo continuo di trasformazione e di evoluzione, indussero gli allievi del filosofo berlinese che non volevano conciliarsi con la realtà, a pensare che anche la lotta contro la realtà, la lotta contro l’ingiustizia esistente e contro il male dominante, debba avere le sue radici nella legge universale dello sviluppo perpetuo. Se tutto si sviluppa, se alcune istituzioni esistenti vengono sostituite da altre istituzioni, perché dovrebbero perpetuarsi in eterno l’autocrazia del re prussiano o dello zar russo, l’arricchimento di un’infima minoranza a spese della stragrande maggioranza, il dominio della borghesia sul popolo?»48.

Si vede qui come l’esposizione leniniana della filosofia di Hegel lasci subito spazio a un’interpretazione in chiave rivoluzionaria e questo perché Hegel ha posto al centro del proprio pensiero la categoria di contraddizione e cioè del movimento costante della realtà come totalità concreta. Il filosofo non poteva però trarre le conseguenze politiche della propria stessa dottrina, perché «dallo sviluppo dello spirito egli deduceva lo sviluppo della natura, dell'uomo e dei rapporti sociali tra gli uomini»49. Si trattava quindi, secondo la classica lezione di Engels e Marx, «di rimettere sui piedi la dialettica» e applicarla allo studio delle formazioni economico sociali. Anche le lotte politiche, si legge in Un passo avanti e due indietro, soggiacciono alle leggi della dialettica: non in quanto essa le «anticipi», ma perché effettivamente il mondo reale procede per contraddizioni.

In questo testo Lenin proverà a precisare la natura della «grande dialettica hegeliana»50 , la quale procede per «negazione» e poi per «negazione della negazione», così che in questo passaggio il risultato finale costituisce una «sintesi superiore» perché arricchito attraverso il processo stesso51. È qui che Lenin comincia a distanziarsi da Plechanov, il quale non aveva compreso che la dialettica non può essere un metodo puramente formale, poiché «la vera dialettica non giustifica gli errori personali, ma studia le svolte ineluttabili, dimostrandone l’ineluttabilità sulla base di un esame dettagliato dello sviluppo in tutta la sua concretezza». «La posizione fondamentale della dialettica», dunque, «è: non esiste una verità astratta, la verità è sempre concreta»52. Il difetto strategico di Martov e dei menscevichi consisteva allora nella mancata analisi dei rapporti di forza effettivi, in favore di una più radicata fiducia nelle presunte leggi dello sviluppo; ma se la dialettica si riduce a semplice congegno predittivo, allora essa non è che un «giochetto analogico»53. Uno strumento inservibile per la lotta rivoluzionaria, che esige invece «l’analisi concreta della situazione concreta».

Con ben altra preparazione Lenin si rivolgerà a Hegel ancora nel 1915, quando, nel bel mezzo della guerra ed esule in Svizzera, si immergerà nella lettura della Scienza della Logica. Il risultato è talmente sorprendente che gli studiosi sono tutt’oggi divisi sulla valutazione di questo testo singolare, composto da brevi annotazioni, trascrizioni, frammenti, che in alcun modo era stato destinato dal suo autore alla pubblicazione. È anche per questo che i Quaderni filosofici vengono spesso considerati dai critici occidentali (con poche eccezioni54) come un sorta di stranezza non filosofica, il cui carattere frammentario non consente una valutazione circostanziata e oggettiva55. Eppure, a voler leggere i Quaderni come numerosi studiosi invitano a fare56, ci si accorge come adesso – alla luce delle esperienze politiche di Lenin in seguito al voto dei socialdemocratici europei per i crediti di guerra e al fallimento della Seconda Internazionale – il “nocciolo razionale” della dialettica venga valorizzato come mai prima. In particolare, per il leader bolscevico era necessario procedere alla confutazione teorica dei presupposti metodologici alla base della strategia socialdemocratica, la cui grave carenza filosofica consisteva esattamente in una mancata comprensione della «dialettica rivoluzionaria»57 .

Se in Materialismo ed empiriocriticismo il materialismo, in opposizione all’idealismo, veniva definito unicamente in base alla priorità che esso conferisce all’essere sul pensiero, con i Quaderni la prospettiva cambia, al punto che Lenin giunge a definire «l’idealismo intelligente più vicino al materialismo intelligente di quanto lo sia il materialismo stolido»58 . Qui la polarizzazione fondamentale che permette di leggere la storia del pensiero non è più evidentemente quella fra idealismo e materialismo (come nel Ludwig Feuerbach di Engels) ma quella fra «dialettica» e «metafisica». Poco dopo egli approfondirà la sua affermazione secondo cui si tratta di comprendere l’«idealismo dialettico al posto di intelligente; metafisico, non sviluppato, morto, volgare, immobile al posto di stolido»59 (il materialismo metafisico, volgare, che aveva i suoi esponenti filosofici in Elvetius, Mach e D’Holbach, trovava chiaramente il suo corollario politico in Kautstky e Plechanov60). Per comprendere in che modo il materialismo dialettico fosse più vicino all’idealismo dialettico, occorre soffermarsi sulle nozioni di materia e di dialettica. Lenin distingueva fra il concetto filosofico e quello scientifico della materia61: le acquisizioni scientifiche di quegli anni sulla struttura dell’atomo gettavano nuove perplessità sulla trasparenza del concetto di materia, inducendo Lenin a interrogarsi sulla sostenibilità del paradigma materialista ereditato dalla tradizione filosofica premarxista62 . Pur non allontanandosi dal campo di un realismo gnoseologico forte, egli era stato perciò indotto a ripensare la teoria del rispecchiamento alla luce di una nuova esigenza epistemologica che tenesse conto del carattere ideale della materia, del suo essere cioè non un semplice fatto che la coscienza si limita a riflettere, bensì il risultato di un processo che coinvolge attivamente il soggetto conoscente. In questo quadro la lettura di Hegel si è rivelata decisiva: Lenin impara infatti che «la coscienza dell’uomo non solo rispecchia il mondo oggettivo, ma altresì lo crea»63 .

Certo, Lenin è convinto, come Herzen, che nonostante il suo avvicinarsi al materialismo Hegel abbia finito per schiacciare il reale sotto il peso dell’idea assoluta. E tuttavia scorge in questa posizione hegeliana la fonte di un’ambiguità produttiva, dal momento che il filosofo tedesco ha postulato al contempo «il passaggio dell’idea logica nella natura» e cioè l’impossibilità per il pensiero di mantenersi al livello dei puri concetti. Il riferimento alle Tesi su Feuerbach è d’obbligo e aiuta a capire in che modo per Lenin la filosofia hegeliana sia stata la sola ad aver concepito il reale non come riduzione e appiattimento sul dato né come vuota astrazione logica, ma come «unità dialettica dell’essenza e del fenomeno»64. In altri termini, egli cominciava a intuire come per cogliere il reale senza ricadere in dualismi più o meno sottili fosse necessario comprendere al centralità del mondo fenomenico, come possiamo capire dalle sue osservazioni secondo cui «l’idea della trasformazione dell’ideale nel reale è profonda» ed è «molto importante per la storia», oltre che – aggiungeva – «contro il materialismo volgare»65.

Se le cose stanno così, è evidente che l’autore dei Quaderni non poteva più accontentarsi della teoria del riflesso delineata in Materialismo ed empiriocriticismo 66. Adesso il ruolo del soggetto non è più semplicemente passivo ma contribuisce in maniera attiva alla costituzione del “dato”. Secondo le parole di Lenin «La conoscenza è il rispecchiamento della natura da parte dell’uomo. Ma questo non è un rispecchiamento semplice, immediato, totale, è invece il processo di una serie di astrazioni, il processo della formulazione, della formazione di concetti, leggi ecc., i quali concetti, leggi ecc. abbracciano anche in modo condizionato e approssimativo le leggi universali della natura che è in eterno movimento e sviluppo» 67.

La novità teorica consiste dunque nel fatto che Lenin giunge a elaborare una concezione dell’attività astraente molto più ricca, coinvolgendo in maniera produttiva il rapporto fra conoscenza e azione: si tratta dell’applicazione della categoria di praxis alla teoria della conoscenza, cioè dell’idea che la relazione fra il dominio dei fatti e quello puramente intellettuale sia possibile solo attraverso la mediazione dell’uomo come prassi che opera nella storia. Ancora una volta Hegel si dimostra una lettura feconda: «all’Idea come coincidenza di concetto e oggetto, all’Idea come verità, Hegel si accosta attraverso l’attività pratica finalistica dell’uomo. Ci si accosta così molto all’idea che l’uomo mediante la sua prassi dimostri la validità oggettiva delle sue idee, dei suoi concetti, del suo sapere, della sua scienza»68.

Nel complesso, si può dire che nel passaggio da Materialismo ed empiriocriticismo ai Quaderni filosofici Lenin non cambi la propria valutazione di Hegel, né modifichi la convinzione del carattere «oggettivo» della materia (ovvero del suo «esistere [anche] al di fuori della nostra conoscenza»69), ma che piuttosto approfondisca nel senso della praxis la sua interpretazione del filosofo tedesco70. Secondo Kouvelakis è proprio qui che per Lenin «Hegel è infinitamente più prossimo al materialismo che i “materialisti” dell’ortodossia (o delle sue versioni precedenti, premarxiane, del materialismo)», e questo perché egli «è maggiormente vicino al nuovo materialismo, quello di Marx, il quale afferma non il primato della materia, ma dell’attività di trasformazione materiale come praxis rivoluzionaria»71.

Ne risulta profondamente modificata l’immagine canonica della dialettica: «non si può applicare la logica di Hegel nella sua forma data» – scriveva Lenin –, e cioè «non la si può prendere come un dato» ma «da essa bisogna estrarre le sfumature logiche (gnoseologiche), dopo  averla depurata della Ideenmystik: questo è ancora un gran lavoro»72 . Sembra qui che Lenin cerchi di rimediare all’errore di Cernyševskij, il quale, per aver troppo frettolosamente separato il sistema dai suoi principi, non aveva colto l’essenziale, e cioè che la dialettica non è un metodo ma il riconoscimento a livello concettuale del movimento contraddittorio del reale. «È il reale che è dialettico, non il metodo. […] Niente è più estraneo dallo spirito hegeliano di un soggetto isolato, che riflettendo dal di fuori sul reale, lo asserva ai propri schemi»73, scriveva a questo proposito Arturo Massolo. Allo stesso modo, i Quaderni filosofici approdavano – pur nella loro aporeticità –, a un risultato non dissimile ovvero alla scoperta che si può definire la dialettica come «lo studio della contraddizione nell’essenza stessa degli oggetti» 74.

Non è il caso di insistere ulteriormente su questo punto, poiché è già sufficientemente nota la distanza che separava Lenin, convinto della possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, da Plechanov e dai fautori della “rivoluzione borghese” sulla base delle presunte leggi del determinismo dialettico. In ogni caso, egli avvertiva come ci fosse ancora un «gran lavoro» da fare per riportare il materialismo al livello di una teoria scientifica. Ed è per questo che nell’articolo Sul significato del materialismo militante – pubblicato sulla rivista teorica bolscevica “Pod znamenem marksizma”, [Sotto la bandiera del marxismo], da lui stesso fondata nel 1922 – affermerà che a tal fine bisogna «organizzare lo studio sistematico della dialettica di Hegel da un punto di vista materialistico, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale e nei suoi lavori storici e politici»75, pena l’impossibilità di mettere capo a un «materialismo militante»76.

4. La polemica fra materialisti e dialettici 

Negli anni successivi alla rivoluzione, il testo di Bucharin La teoria del materialismo storico (1922) tentava, per la prima volta, di offrire un esame sistematico – sotto l’influsso di Bogdanov – dei concetti fondamentali e del contenuto teorico del materialismo dialettico. Questo saggio costituisce il tentativo più completo di sistematizzazione della dottrina marxista e, per il suo carattere manualistico ad uso divulgativo, presenta numerose semplificazioni e riduzioni meccanicistiche. Successivamente, in seguito alla messa in minoranza di Bucharin nel partito, la sua impostazione teorica, che aveva nell’identificazione della dialettica come «legge dell’equilibrio» il fulcro teorico principale, venne bollata come «deviazionismo di destra», il cui difetto principale consisteva in una svalutazione del metodo dialettico che, sul piano politico, aveva portato alla difesa dei culachi e alla resistenza alla collettivizzazione.

Alla pubblicazione del libro era seguito un ampio dibattito svoltosi principalmente sulle colonne di Pod znamenem marksizma. La polemica ebbe una forte eco nel paese: ai dialettici, sostenitori della funzione unificatrice della filosofia nel campo delle scienze e del suo statuto come disciplina autonoma, si opponevano i meccanicisti, fermi oppositori di tale prospettiva77. Si trattava, a detta di uno degli intellettuali coinvolti, di uno scontro che metteva in luce «due tendenze contrapposte nell’ambito del marxismo»78: da un lato i «comunisti impegnati nelle diverse branche della scienza», convinti che la dialettica fosse una sorta di schema accessorio e non essenziale che potesse essere applicato alla conoscenza della natura; dall’altro i fautori del sistema filosofico integrale di Hegel.

A ben vedere, la tendenza alla diversificazione in base al rifiuto o meno del sistema hegeliano è una costante ben presente anche nel marxismo occidentale; mentre però in Europa il rifiuto dell’hegelismo ha assunto principalmente le forme di una critica della ragione e delle sue pretese, e quindi di una sfiducia complessiva nell’idea di progresso che culminerà nelle varie forme di postmodernismo e “pensiero debole”, in Urss la reazione a Hegel veniva condotta nel nome di una razionalità ancora più forte in antitesi all’idealismo, considerato da alcuni come pura superstizione. Questa era la posizione dei cosiddetti meccanicisti – influenzati dalle correnti neopositiviste in filosofia e dal determinismo economicista della Seconda Internazionale –, il cui manifesto programmatico era stato il saggio di Sergej Minin, pubblicato nel 1922 e intitolato significativamente Gettiamo via la filosofia: un testo in difesa delle scienze naturali e contro l’interferenza della filosofia.

Nella seconda metà degli anni Venti, anche grazie alla pubblicazione nel 1925 della Dialettica della natura di Engels e nel 1929 dei Quaderni filosofici di Lenin, in questa polemica prevalsero i dialettici, secondo i quali il compito di fornire una fondazione filosofica della linea politica del partito e di guidare le varie sfere delle scienze sociali e naturali doveva essere affidato al materialismo dialettico. In tale prospettiva, la filosofia è necessaria alla scienza in quanto permette di cogliere il «concetto concreto»79 – ciò che Hegel aveva chiamato «universale concreto» –, ovvero la connessione intrinseca delle cose; laddove invece la scienza, occupandosi di casi particolari, non riesce a concepire la natura come totalità organica. Il principale esponente di questa tedenza, Abram Deborin, che in passato era stato socialdemocratico e poi menscevico, divenne nel 1926 redattore capo di Pod znamenem marksizma. Da questo momento la rivista cessò di pubblicare contenuti di parte meccanicista.

L’opera più famosa di Deborin, L’introduzione alla filosofia del materialismo dialettico, punto di riferimento per tutti gli anni Venti, pur criticando l’idealismo e la metafisica, valorizzava Hegel come il pensatore che più di ogni altro aveva aperto la strada del materialismo dialettico. Anche qui, come si è già visto a proposito dei Quaderni filosofici, la scissione fondamentale nella storia del pensiero viene individuata nell’opposizione fra dialettica e metafisica. Quest’ultima, scrive Deborin, insegna che «tutto esiste ma nulla succede», mentre la dialettica, al contrario, consiste «nel rifiuto di considerare il mondo come un complesso di cose finite, bensì come un complesso di processi»80 e insiste sul principio del divenire e della continua trasformazione del reale, giungendo a spiegare «l’unità dell’essere e del non essere»81.

Nella prefazione al testo, scritta da Plechanov, viene ripresa l’intuizione hegeliana secondo cui la «vecchia fisica» è una concezione scientifica che vede i fenomeni solo nella loro astrattezza, senza coglierne lo sviluppo interno: a Engels spetta il merito di avere risolto questa carenza attraverso l’applicazione del metodo dialettico anche alla natura. Proprio su questo punto Deborin criticava duramente Storia e coscienza di classe, accusando Lukács di aver meccanicamente contrapposto Engels a Marx e di aver messo in dubbio l’applicabilità del metodo dialettico alle scienze naturali, affermandone la conformità alla sola realtà storico-sociale e finendo perciò per negare il materialismo dialettico come Weltanschauung integrale82.

Gli oppositori alla corrente deborista, rappresentati da Stepanov, Aksel’rod, e Timirijazev, credevano invece che la filosofia dovesse limitarsi a chiarire i concetti e le leggi della scienza senza interferire nella sue ricerche sulla base di principi a priori. Per non essere una mera sovrastruttura ideologica tesa a legittimare le classi dominanti, la filosofia del marxismo deve coincidere con i risultati delle scienze naturali e identificarsi con essi, mentre la dialettica, da questo punto di vista, risultava del tutto inutile e antiscientifica. Questi autori accusavano in sostanza gli avversari di coltivare un pensiero magico, che forzava entro gli schemi puramente immaginari del pensiero la struttura materiale della realtà.

Il dibattito tra meccanicisti e dialettici si sarebbe concluso con la vittoria di questi ultimi: nell’aprile 1929, la seconda Conferenza Pansovietica delle Istituzioni Scientifiche Marxiste-Leniniste pronunciava una dura condanna contro i meccanicisti; i quali, accusati di deviazionismo di destra, furono censurati ideologicamente e allontanati dagli istituti in cui lavoravano. Già l’anno successivo però i deboristi vennero a loro volta accusati di formalismo idealistico e vennero anch’essi espulsi dai posti di rilievo che avevano conquistato. Entrambe le accuse vennero ribadite in un articolo sulla Pravda a firma di Mitin, Yudin e Raltsevich83, i quali imputavano ai dialettici di tenere in scarsa considerazione la “partiticità” della filosofia e di avere sottovalutato Lenin come pensatore in favore di Plechanov. Poco dopo, essi vennero etichettati da Stalin come fautori di un «idealismo menscevizzante»84, definizione che divenne poi ufficiale insieme all’accusa di «glorificare esageratamente Hegel».

In questo contesto veniva condannato sia il «revisionismo meccanicista» che quello «idealista»: le loro divergenze erano giudicate solo formali, mentre entrambi venivano accomunati dalla tendenza a esprimere «forze di classe avversarie che accerchiano il proletariato»85 . Da qui la necessità per il partito della «lotta su due fronti»: contro Trotzsky e i dialettici da un lato86 e contro Bucharin e i meccanicisti dall’altro, considerati rispettivamente come revisionismi filosofici di sinistra e di destra. Secondo uno degli uomini più in vista del fronte di centro, Mitin, entrambi gli schieramenti «trattavano la filosofia leninista con poco rispetto»87 e, soprattutto, privilegiavano l’indagine teoretica a scapito della prassi.



5. Stalin

La fine della controversia tra meccanicisti e dialettici – che testimonia tra l’altro del clima di diffusa libertà intellettuale presente durante tutti gli anni Venti88 – e il prevalere della strategia del socialismo in un solo paese coincisero con la fine della NEP e con la definitiva bolscevizzazione della filosofia. Questa tendenza si rafforzò nel 1938 con la pubblicazione del Breve corso di storia del partito comunista dell’Urss. Il testo conteneva un paragrafo intitolato Sul materialismo dialettico e storico: redatto dallo stesso Stalin al fine di consolidare il marxismo-leninismo come teoria generale della realtà naturale (materialismo dialettico) e di quella sociale (materialismo storico), questo paragrafo imporrà l’autore come punto di riferimento filosofico principale da qui in avanti, in quanto continuatore sul piano delle idee dell’autentica dottrina leninista89.

Stalin presentava la dialettica alla base dello sviluppo della società come un caso particolare di una dialettica che opera prima di tutto nella natura, concepita in termini rigorosamente materialistici e intesa come un insieme coerente in cui tutti i singoli fenomeni, organicamente collegati tra loro, dipendono l’uno dall’altro e si condizionano a vicenda90. Analogamente, anche lo sviluppo delle società obbedisce a meccanismi precisi, che non consentono regimi sociali immutabili, né «principi eterni» e fanno sì che le società siano continuamente soggette al cambiamento91. Tra le leggi della dialettica, però, quella della negazione della negazione e quella della trasformazione della qualità in quantità venivano sistematicamente sottovalutate e integrate molto genericamente in una variante della legge dello sviluppo. Si potrebbe dire che nella situazione estremamente sfavorevole dell’Unione Sovietica, nel suo forzato isolamento internazionale e nella necessità di forzare lo sviluppo delle forze produttive del paese, servisse al partito in primo luogo non tanto un’ideologia della rivoluzione quanto una teoria dello sviluppo e dell’evoluzione; una teoria nella quale il progresso si sostituisse alla categoria di negazione. Di conseguenza, l’accento ricadeva sulla «funzione organizzatrice delle idee», in un quadro politico segnato dal difficile problema della pianificazione economica e dalla permanente ostilità internazionale. In questo contesto non solo la filosofia, ma anche la ricerca scientifica veniva collegata al problema dell’edificazione del socialismo, nella misura in cui entrambe avrebbero dovuto contribuire con i loro risultati alla costruzione della nuova società.

I drammatici eventi succeduti all’omicidio di Kirov, l’invasione nazista poi, le esigenze di ricostruzione di un paese che aveva subito perdite umane e naturali immense durante la guerra, non favorirono l’ulteriore sviluppo del pensiero sovietico. Già dagli anni Quaranta queste tendenze vennero però a poco a poco ridimensionate e il panorama filosofico cominciò a rielaborare gradualmente le discussioni degli anni Venti, sforzandosi ancora una volta di fare i conti con il marxismo e con Hegel, come dimostra la pubblicazione della Storia della filosofia di Alexandrov (fortemente criticata da Zdanov nel 1948 per la sua sottovalutazione de gli elementi reazionari di Hegel e per aver presentato il marxismo come un naturale risultato dell’idealismo tedesco92). Al tempo stesso ritornava sulla scena la questione del rapporto fra il marxismo come visione del mondo e la scienza.



6. Un breve bilancio

Nella complessa vicenda teorica della filosofia russa, qui ricostruita per grandi linee, è costante il ritorno alle fonti hegeliane, soprattutto nei periodi di crisi, A differenza di quanto sostenuto dalla vulgata storiografica in seguito alla dissoluzione dell’URSS, questo dimostra il carattere dinamico del marxismo sovietico, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio fra la tendenza alla naturalizzazione della dialettica e alla sua formalizzazione.

Le differenti interpretazioni non consentono una descrizione univoca della presenza di Hegel in Russia e tuttavia è possibile individuare un tratto comune alle letture prese in esame. L’autentica eredità hegeliana non si compone qui di un corpo di nozioni definitive e immutabili. Piuttosto, essa consiste nel tentativo sempre rinnovato di cogliere, per dirla con le parole di Beyer, «Hegel als Weg, nicht den Weg Hegels»93. In altri termini, seguire l’insegnamento hegeliano non significa richiamarsi scolasticamente alla sua dottrina, bensì sforzarsi di pensare il proprio tempo per afferrare in esso la struttura oggettiva dei processi storici, ossia ciò che esso ha di specifico e di strutturalmente necessario, le sue «svolte ineluttabili» (Lenin). Tale consapevolezza, come è ovvio, non può che comportare ad un tempo la continuazione della lezione hegeliana e il suo necessario distacco. È un’idea già espressa da Herzen, il quale credeva che fosse necessario «andare oltre le sue inconseguenze [di Hegel], con la ferma coscienza di andare oltre lui, ma non contro di lui» 94.

Si potrebbe forse dire che è proprio in questi termini che Lenin aveva cercato di ripensare il suo rapporto con Hegel dopo il 1909. E che allora la considerazione della dialettica non rispondeva più al tentativo deterministico di formulare un criterio onnicomprensivo di lettura della realtà, quanto all’esigenza di mantenersi al livello della strada tracciata da Hegel e Marx, vale a dire intendere la filosofia come necessaria comprensione della storicità dei processi. Hegel als Weg, dunque, non significava estrapolare un “metodo” formale e astratto, (cosa che, come Lenin aveva colto, sarebbe stata il contrario dell’insegnamento hegeliano...), quanto «comprendere» – per usare le parole di Eric Weil – «ciò che è divenuto a partire dalla storia», dato che «la dialettica è questo movimento, non una costruzione dello spirito»95.

Note 


1 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 14.
2 Rimando qui alle pagine introduttive del volume di VENTURI 1972, che illustra le difficoltà di condurre una ricerca sulle tendenze intellettuali russe dopo la riforma contadina del 1861, cfr. p. XVII.
3 Così ad esempio KOLAKOWSKI 1983, pp. 318, 320.
4 Ivi, p. 322.
5 KOYRÉ 1950, p. 113. Tali interpretazioni, indubbiamente più conformi ai bisogni degli autori che allo spirito hegeliano, vengono da diversi storici descritte come filosofie di stampo fichtiano espresse in linguaggio hegeliano, cfr.PLANTY-BONJOUR 1995 pp. 54 e 68. Su questo cfr. anche BERDJAEV 1976, pp. 56-57.
6 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 67.
7 Il che, com’è noto, lo condusse successivamente alla professione di nichilismo.
8 BAKUNIN 1842, citazione originale: «ist er [Hegel] auch der Anfang einer notwendigen Selbstauflösung der modernen Bildung; – als diese Spitze ist er schon über die Theorie, – freilich zunächst noch innerhalb der Theorie selbst -, hinausgegangen und hat eine neue praktische Welt postuliert, – eine Welt, welche keineswegs durch eine formale Anwendung und Verbreitung von fertigen Theorien, sondern nur durch eine ursprüngliche Tat des praktischen autonomischen Geistes sich erst vollbringen wird».
9 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 89.
10 Cfr., KOYRÉ 1950, p. 197.
11 A. Herzen, Dilettantismo e scienza (1842), cit. in PLANTY-BONJOUR 1995, p. 153.
12 Ivi, p. 154.
13 Ivi, p. 177.
14 KOYRÉ 1950 sostiene invece che le Lettere sullo studio della natura non sono «né materialismo né positvismo comtiano, ma una buona Naturphilosophie hegeliana» (p. 203).
15 Cfr., PLANTY-BONJOUR 1995, p. 159.
16 È per questo che molti storici considerano la filosofia della storia di Herzen come una forma di irrazionalismo.
17 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 204.
18 Ivi, p. 213.
19 Ivi, p. 217.
20 PLECHANOV 1945, p. 130, in corsivo nel testo.
21 Come dimostra anche la vicenda biografica di Plechanov stesso. Su questo cfr. WALICKI 1969. 22 BILLINGTON 1958, p. 171.
23 Cit. in WALICKI 1979, p. 369. Engels continua: «La borghesia è, non meno del proletariato, una premessa necessaria della rivoluzione socialista».
24 Ivi, p. 370.
25 STRUVE 1894, Kriticeskie zametki k voprosu ob ekonomiceskom razvitii Rossii, [Annotazioni critiche concernenti lo sviluppo economico della Russia], cit. in WALICKI 1979, p. 372.
26 PLECHANOV 1883, Socialismo e lotta politica, cit. in KOLAKOWSKI 1983, p. 347.
27 MICHAILOVSKIJ 1895, O g. P. Struve i ego kritičeskich zametkach po voprosu ob ekonomičeskom razvitii Rossii, [P. Struve e le sue annotazioni critiche concernenti lo sviluppo economico della Russia], cit. in WALICKI 1979, p. 373.
28 Cit. in PLANTY-BONJOUR 1995, p. 286.
29 LENIN 1967, p. 353.
30 VENTURI 1972, p. 245. 31 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 221. 32 PLECHANOV 1908, p. 154. 33 Ivi, p. 51.
34 LUKÁCS 1923, p. 214.
35 PLECHANOV 1908, p. 136.
36 Ivi, p. 138.
37 Cfr. Ivi, p. 147. KOLAKOWSKI 1983, pp. 356-57 e passim, non manca di sottolineare come questa interpretazione «semplicistica» non regga al banco di prova delle scienze empiriche, e che sia frutto, in ultima analisi, di una trasposizione piuttosto scolastica della dottrina engelsiana.
38 Poiché in Hegel «la dialettica coincide con la metafisica, mentre in noi la dialettica si regge sulla dottrina della natura» (PLECHANOV 1908, p. 153). E ancora: «secondo Hegel il corso delle cose è determinato dal corso delle idee; secondo noi il corso delle idee si spiega con corso delle cose, il corso del pensiero col corso della vita» (p. 154). Naturalmente qui Plechanov riprende in maniera piuttosto pedissequa la celebre riflessione sulla dialettica contenuta nella Prefazione alla seconda edizione tedesca del primo libro del Capitale.
39 BARON 1963, p. 289.
40 HEGEL 1981, p. 645.
41 Cfr., FRIEDRICH 1965, p. 341.
42 ARATO 1979, p. 705.
43 Definito significativamente da Walicki «terza variante» (1979, p. 377) del marxismo russo, in ciò forse enfatizzando eccessivamente la distanza di Lenin da Plechanov già in questa prima fase.
44 Ivi, p. 378.
45 Cfr, LENIN 1955, p. 194, dove si può leggere: «Il signor Michajlovskij ha questo coraggio, [di dire cioè che] “Marx aveva a che fare con un proletariato e con un capitalismo già formati, mentre noi dobbiamo ancora crearli”. La Russia deve ancora creare il proletariato?! In Russia, il solo paese in cui si possa trovare una miseria così irrimediabile delle masse, uno sfruttamento così sfrontato dei lavoratori, un paese che è stato paragonato (e a buon diritto) con l'Inghilterra per la situazione della sua popolazione povera, dove la fame di milioni di uomini è un fenomeno costante accompagnato, per esempio, da una esportazione di grano in continuo aumento, in Russia non c'è proletariato!!».
46 LENIN 1967, p. 27: «i professori ‘ritornano a Kant’ e il revisionismo si trascina sulle orme dei neokantiani […] i professori trattano Hegel come un ‘cane morto’ e, predicando essi stessi l’idealismo,, ma un idealismo mille volte più meschino e triviale di quello hegeliano».
47 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 305.
48 LENIN 1954, p. 11.
49 Ibidem.
50 LENIN 1959, p. 399.
51 Ivi, p. 398-99.
52 Ibidem. Su questo punto e, più in generale, sull’epistemologia in Lenin cfr. BALLESTREM 1968, pp. 77-105.
53 LENIN 1955, p. 166.
54 WETTER 1948, ANDERSON 1995, LÖWY 1974, KOUVELAKIS 2016.
55 Fra questi KRANCBERG 1981 che, ignorando gli studi di ANDERSON 1995 e DUNAYEVSKAYA 1977 e privilegiando invece le letture di Althusser e Colletti, sostiene che i Quaderni testimonierebbero la scarsa propensione di Lenin verso i temi complessi, come ad esempio la logica hegeliana (p. 90). Questa tesi diffusa costituisce a ben vedere un modello di lettura piuttosto parziale e poco efficace dal punto di vista metodologico: per confermare la tesi di una sostanziale continuità tra Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici, COLLETTI 1970 è ad esempio costretto a suddividere in modo piuttosto netto e manicheo la sostanza dei Quaderni in «elementi negativi», riconducibili all’influenza della «carica irrazionalistica» della dialettica (p. CLXV), e in elementi positivi, che coincidono con gli strali di Lenin contro l’idealismo hegeliano. Si tratta di uno schema interpretativo ben sintetizzato da Planty-Bonjour, secondo cui «Se si è convinti che Marx non debba assolutamente nulla al filosofo tedesco, allora si tende a sminuire il significato dei Quaderni filosofici. […] Al contrario, coloro i quali vogliono conservare un rapporto fra l’hegelismo e il marxismo si sforzeranno di rettificare e perfino di correggere le chiusure di Materialismo ed empiriocriticismo servendosi dei Quaderni filosofici» (PLANTY-BONJOUR 1995, p. 311). Ora, entrare nel merito della questione circa l’evoluzione del pensiero di Lenin esula dall’oggetto del presente discorso; qui ci si limita a sottolineare che risulta evidente una sostanziale incompatibilità dei due testi rispetto alla figura di Hegel. Su questo, fra gli altri autori già menzionati, cfr. anche LEFEBVRE 1959, p. 85.
56 HÖPPNER 1956, p. 304; GARAUDY 1970; LÖWY 1974.
57 LÖWY 1974, p. 95.
58 LENIN 1969, p. 277. Si sceglie qui di indicare la data 1914 per esigenze espositive, mentre i materiali raccolti nei Quaderni filosofici si collocano fra il 1903 e il 1916.
59 Ibidem.
60 «Plechanov critica il kantismo […] più dal punto di vista del materialismo volgare che non da quello materialistico dialettico»: LENIN 1969, p. 166. Su questo punto cfr. anche BLOCH 1975: «Lenin rinnovò il marxismo autentico non da ultimo attraverso il ricorso al “nucleo” della dialettica hegeliana […] Proprio il marxismo ortodosso quindi, quello ristabilito da Lenin, presuppone questa conoscenza di Hegel, a differenza di un marxismo volgare, schematico e privo di tradizione» (p. 399).
61 Cfr. LENIN 1963.
62 Cfr. WETTER 1963, p. 40. Per una disamina puntuale della questione della materia in Lenin, per quanto solo fino al 1909 cfr. anche WETTER 1948, pp. 255-62.
63 LENIN 1969, p. 197.
64 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 330.
65 LENIN 1969, p. 110.
66 Cfr., ANDERSON 1995, p. 302 e JORAVSKI 2009, p. 20. JHONSTON 2013 sostiene invece che non c’è rottura fra Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni, p. 176.
67 LENIN 1969, pp.168-69.
68 Ivi, p. 177. Su questo punto cfr. WETTER 1965, pp. 417-20.
69 LENIN 1963, cit. in WETTER 1948, p. 255.
70 BEYER 1970, p. 284, BALLESTREM 1968, p. 91.
71 KOUVELAKIS 2016. In questa direzione anche FRIEDRICH 1965, pp. 341 e 346, e BEYER 1970.
72 LENIN 1969, p. 268.
73 MASSOLO 1967, p. 189-90.
74 LENIN 1969, p. 257, in corsivo nel testo.
75 Cit. in PLANTY-BONJOUR 1995, p. 313.
76 Ibidem.
77 Per un’analisi dettagliata e comprensiva dell’intera questione si rimanda a YAKHOT 2012.
78 I. Stepanov, cit. in TAGLIAGAMBE 1979, p. 116.
79 Abram Deborin, cit. in WETTER 1947, p. 195.
80 Abram Deborin, cit. in TAGLIAGAMBE 1979, p. 115.
81 KOLAKOWSKI 1985, p. 67.
82 Abram Deborin, Lukács e la sua critica al marxismo (1924), in BOELLA 1977, p. 126. Deborin sostiene animatamente contro Lukács che tale posizione porta alla formalizzazione del metodo dialettico: ma ciò è contrario alla dottrina marxista, poichè «è chiaro che al metodo non spetta un rilievo autonomo, che esso non rappresenta alcuno schema puramente logico, applicabile solo al campo del pensiero puro», p. 131. E dunque, se non esiste la dialettica come metodo, è ovvio che essa deve rispecchiare la natura, nella misura in cui i suoi risultati non possono essere in contraddizione con la prassi scientifica. In realtà, come si vede, anche i deboristi finirono in certo modo con la formalizzazione della dialettica intesa come metodo, cfr. WETTER 1947, p. 187.
83 I quali nel 1931 entrarono a far parte del comitato redazionale di Pod znamenem marksizma, cfr., COPLESTON 1986 p. 322.
84 Cfr. TAGLIAGAMBE 1979, p. 186.
85 KOLAKOWSKI 1985, p. 71
86 Come è stato messo in luce, non esisteva in realtà nessun collegamento fra i dialettici e Trotzsky, tanto che lo stesso Trotzsky fu accusato successivamente da Mitin di essere «imbevuto fino alle midolla di bassissimo meccanicismo volgare»: cit. in WETTER 1947, p. 162.
87 Ivi, p. 73.
88 LOSURDO 2008, p. 126.
89 Secondo Mitin infatti «non è possibile concepire correttamente e giungere alla padronanza dell’eredità filosofica di Lenin senza prendere in considerazione i pareri del compagno Stalin»: cit. in YAKHOT AND BLAKELY 1979, p. 305.
90 Josif Stalin, cit. in TAGLIAGAMBE 1979, p. 196 sgg.
91 È interessante notare cosa scrive qui Stalin: «se tutti i fenomeni sono collegati tra loro e si condizionano a vicenda, è chiaro che ogni regime sociale e ogni movimento nella storia devono essere giudicati non già dal punto di vista della “giustizia eterna”, o di qualsiasi altra idea preconcetta – come fanno non di rado gli storici – ma dal punto di vista delle condizioni che hanno generato quel regime e quel movimento sociale» (Josif Stalin, cit. in TAGLIAGAMBE 1979, p. 199).
92 Cfr. ZDANOV 1949
93 BEYER 1970, p. 294.
94 PLANTY-BONJOUR 1995 p. 176. 
95 WEIL 1988, p. 178. 

  

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