Dialettica*- Eric Weil**
Lo spettro che si aggirava per l’Europa si materializzò
improvvisamente nel 1917 alla sua estrema periferia, nel luogo e nelle
circostanze più improbabili e sfavorevoli. La Russia zarista e arretrata,
isolata e sconvolta dalla guerra, fu levatrice di un atto rivoluzionario che
ha segnato il definitivo approdo della modernità a una scala di misura
mondiale. Questo evento, tuttavia, non nasceva dal nulla. Quella stessa
Russia aveva infatti partecipato dei fermenti del movimento operaio
internazionale del XIX secolo e aveva anzi sviluppato linee originali di
pensiero e di azione; linee che avevano solide basi nella cultura e nella
riflessione filosofica continentale e che saranno vitali anche dopo
l’Ottobre. Appare utile, in questa prospettiva, tracciare un quadro
dell’influenza di Hegel sul pensiero marxista russo e sovietico,
cominciando dal primo hegelismo di sinistra. Nel farlo si ricorrerà
inevitabilmente a delle semplificazioni, sperando però di fornire una
visione d’insieme, necessariamente sintetica, delle letture russe e
sovietiche di Hegel fino agli anni Trenta.
È superfluo ricordare come la ricezione di Hegel in Russia non
costituisca soltanto un capitolo nella storia del pensiero, dal momento
che questi approcci furono sempre immancabilmente connessi a precise
contingenze politiche e storiche. Va cioè sottolineato il carattere non strettamente accademico che contraddistingue la maggior parte degli
autori presi in esame, un carattere che imprime alla filosofia russa un
chiaro timbro speculativo in chiave radicale e massimalistica1. Tale
circostanza impone una doppia prudenza: bisogna infatti evitare di
ridurre la storia del pensiero alla cronaca delle strategie politiche degli
intellettuali coinvolti ma, ad un tempo, occorre sfuggire alla tentazione
di fare storia delle idee unicamente attraverso se stessa2.
Nell’orazione per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel,
di cui si tratterà in seguito, Plechanov ricordava non a caso come,
malgrado il suo idealismo, uno dei più grandi insegnamenti del filosofo
di Stoccarda fosse stato quello di avere riportato la riflessione storica sul
terreno dell’esperienza concreta: in ciò consisteva il segreto
“materialismo” di Hegel, ovvero nella convinzione che «la filiazione
logica delle idee» non valga da sola a spiegare alcunché. Si tratta di una
premessa necessaria, dal momento che la gran parte della letteratura
critica sembra cadere spesso in uno dei due estremi: le ricostruzioni
della filosofia russa e sovietica tendono infatti a privilegiare il solo
elemento politico, escludendo in tal modo la complessa vicenda teorica
degli anni precedenti il 1917; oppure a tracciare sistematizzazioni post
festum di una filosofia che, considerata nel suo insieme e nelle sue
premesse teoriche, non poteva che condurre allo stalinismo.
Quest’ultimo viene quindi presentato come l’esito inevitabile di un
pensiero che non si era formato, come in Occidente, attraverso il lungo
apprendistato della riflessione liberale3.
Una ricostruzione delle differenti evoluzioni della ricezione hegeliana consente di inquadrare in controluce i problemi teorici che si sono presentati al pensiero russo e poi sovietico e tutte quelle tensioni concettuali che, con la dissoluzione della Seconda Internazionale, erano esplose nella loro dimensione politica. In questo contesto, come si vedrà, emergeranno anche tentativi piuttosto originali – talvolta sotto le sembianze apparentemente neutrali di una filologia marxiana – di appropriazione del testo hegeliano; tentativi che avrebbero trovato il loro esempio filosoficamente più significativo nei Quaderni filosofici di Lenin.
1. Da Belinskij a Herzen
Già nell’ambito del contrasto fra slavofili e occidentalisti che occupava la scena culturale ai tempi di Nicola I, costante era il riferimento da entrambe le parti alla filosofia della storia hegeliana, poiché, come segnala Kolakowski, «quasi tutti erano passati attraverso la scuola della filosofia tedesca»4. Mentre dal canto loro gli slavofili rivalutavano le categorie del romanticismo in chiave antimoderna, privilegiando gli aspetti teologici della filosofia hegeliana, l’occidentalismo – rappresentato dall’aristocrazia colta e cosmopolita delle grandi città – aveva i suoi giovani hegeliani nel letterato Belinskij e nel rivoluzionario Bakunin, i quali vedevano nella formula «ciò che è reale è razionale» la fonte di un nuovo principio speculativo che avrebbe consentito di porre l’elemento concreto e l’azione al di sopra della filosofia.
Come ha sostenuto Koyré, «una generazione che cominciava ad interessarsi di politica abbandonava naturalmente Schelling e si metteva alla scuola di Hegel»5. È necessario sottolineare come l’assimilazione di tale principio, che per non essere letto in senso puramente conservatore implica naturalmente la distinzione fra mera empiria e realtà autentica, fra Realität e Wirchlichkeit, sia stata un fatto graduale, dimostrato dalle continue oscillazioni dei due pensatori. Se in un primo tempo entrambi tendevano a un conservatorismo piuttosto unilaterale, successivamente Belinskij sembrerà cogliere le implicazioni pratiche di tale formula. E tuttavia egli si allontanava ben presto dal modello hegeliano, anticipando le critiche che al filosofo avrebbe mosso Kierkegaard, cioè la denuncia del disprezzo e della negazione della persona che l’Allgemeinheit comporterebbe in sede sistematica. Nonostante il suo allontanamento da Hegel, Belinskij suggerirà però, in un articolo del 1843, la celebre distinzione fra metodo dialettico e sistema, dal momento che «le sue risposte [quelle della filosofia hegeliana] talvolta appaiono appartenenti ad un periodo dell’umanità ormai passato, completamente esaurito, e tuttavia il suo rigoroso e profondo metodo ha aperto una grande strada alla coscienza della ragione umana». «Hegel», continuava, «sbagliava solo nelle applicazioni, allorché cambiava il proprio metodo»6.
Si tratta di un’affermazione certamente sorprendente, per quanto nel complesso si possa dire che la sua influenza nel pensiero filosofico successivo sia rimasta piuttosto marginale. Al contrario Bakunin, molto presto orientato dalla diretta influenza di Arnold Ruge, manifesterà clamorosamente il suo hegelismo nell’articolo del 1842 intitolato La reazione in Germania. Qui egli presentava un’immagine di Hegel del tutto conforme allo spirito della sinistra tedesca di ispirazione feuerbachiana, e tuttavia riusciva a portare a un livello ancora più radicale quei presupposti, tracciando le conseguenze politiche che derivavano dall’enfatizzazione della categoria di negazione in Hegel7. Quest’ultimo rappresenta per Bakunin «l’inizio della necessaria autodissoluzione della cultura moderna: egli è già andato oltre la teoria – anche se certamente entro la teoria stessa –, postulando un mondo nuovo, pratico; cioè un mondo che non si concluderà affatto con l’applicazione formale di teorie già apparse, ma che sarà il risultato di un atto originale dello spirito autonomo e pratico»8.
Successivamente il pensatore anarchico congederà la filosofia hegeliana in nome del valore assoluto dell’individuo e, soprattutto, in nome della sua battaglia teorica e politica contro qualunque autorità temporale, in primo luogo quella dello Stato, che egli riterrà l’ostacolo più immediato alla realizzazione della libertà umana. In ogni caso, come ricorda Planty-Bonjour, Bakunin rimane «esemplare, e in questo senso rappresentativo, dell’hegelismo russo, nella misura in cui tutti i pensatori del tempo avevano bisogno di una dottrina filosofica per dare un contenuto alla loro azione»9.
Nella stessa direzione si sviluppano le considerazioni di una figura di rilievo dell’intelligencija russa di metà Ottocento come Herzen, con il quale il pensiero russo entra in una fase di profonda meditazione e da avvio a un confronto con i presupposti sistematici dell’idealismo. Una stagione che adesso non viene più invocata per una sorta di generica infatuazione verso il lato concreto della filosofia hegeliana: la riflessione sul principio della razionalità del reale assume infatti ora il carattere di una vera e propria professione di immanentismo, che non lascia spazio ad alcuna trascendenza divina10.
Anche per Herzen, come già per Belinskij, esiste uno scarto fra i contenuti del sistema hegeliano e i suoi principi, i quali non vengono portati alla luce che per una naturale debolezza dell’uomo Hegel: «nessuno» – scriveva Herzen nel 1843 – «può mettersi tanto al di sopra del proprio secolo, da evaderne completamente»11. Si approfondisce dunque la distinzione fra un metodo, la dialettica (considerata notoriamente da Herzen come «l’algebra della rivoluzione») e la dottrina positiva del filosofo, frutto di un’inevitabile riconciliazione con il proprio presente storico. Eppure, continua Herzen, «il vero Hegel era quel modesto professore di Jena, amico di Hölderlin, che aveva salvato sotto un lembo dell’abito la sua Fenomenologia mentre Napoleone entrava nella città», un autore la cui filosofia ancora «non portava né al quietismo indù, né alla giustificazione delle forme civili esistenti, né al cristianesimo prussiano»12. In ogni caso, l’opposizione di Herzen a Hegel non si rivolgeva tanto contro i compromessi politici del futuro docente di Berlino, quanto piuttosto contro una filosofia che falliva nel tentativo di superamento del formalismo scolastico tipico dell’idealismo. Mentre infatti il progetto speculativo hegeliano consisteva nello sforzo di unificare logica e storia, cioè di superare il dualismo kantiano, il risultato era stato invece, secondo Herzen, quello «di schiacciare con lo spirito, con la logica, la natura»13 e ciò nonostante un’ispirazione fondamentalmente realista che percorre tutta la filosofia di Hegel.
Sul materialismo di Herzen divergeranno poi Lenin e Plechanov: mentre per il primo le affermazioni di Herzen sulla priorità «della materia e della storia» non lasciano spazi a dubbi circa la collocazione materialista del pensatore moscovita, per il secondo il rifiuto della trascendenza non rendeva il filosofo del tutto immune da ricadute idealistiche, in particolare per il suo deciso rifiuto della riduzione dell’uomo a semplice fatto naturale14.
È interessante notare come già nel 1841, mentre Belinskij e Bakunin concordavano nel rilevare che in Hegel il sistema opprima la persona, sulla base della Prefazione della Fenomenologia Herzen cogliesse nel «travaglio del negativo» il passaggio attraverso cui il singolo, spogliato della propria unilateralità, deve negarsi per far posto all’universale: tale negazione, certamente dolorosa, non comporta affatto la perdita della singolarità in quanto tale ma la soppressione del suo carattere immediato e assoluto15. La mediazione dunque, e non la negazione (come in Bakunin), è il momento della dialettica che Herzen valorizza. Una mossa che gli permette di pensare, con Hegel, il fallimento delle rivoluzioni del 1848 alla luce di una filosofia della storia profondamente radicata nel presente. Una filosofia che non ammette anticipazioni né fughe nel passato, ma nella quale il prezzo da pagare per la sparizione della provvidenza divina è però naturalmente la consapevolezza della preponderanza del caso nelle vicende umane16. Nel complesso, comunque, si può dire che Herzen è rimasto estraneo alla polarizzazione fra una destra e una sinistra hegeliana, avendo rifiutato l’interpretazione conservatrice del metodo tipica della prima ma anche la visione rigidamente materialista – e, sul piano politico, orientata alla prassi rivoluzionaria – della seconda.
2. Il populismo e Plechanov
Già negli anni Sessanta del XIX secolo, in un contesto sociale radicalmente mutato per via delle politiche inizialmente liberali di Alessandro II, «l’infatuazione hegeliana degli anni Quaranta era terminata»17, nonostante Hegel rimanesse ancora un punto di riferimento costante, ma spesso polemico, per la nuova intelligencijia rivoluzionaria.
Una delle figure più indicative dell’opposizione a Hegel è senza dubbio Lavrov, fra i più noti rappresentanti del populismo, la cui interpretazione, del tutto appiattita sulle consuete accuse di conservatorismo politico modellate direttamente sull’opera di Rudolph Haym, escludeva quella separazione, tematizzata in modi diversi da Belinskij ed Herzen, fra metodo e sistema. Per Lavrov «la filosofia pratica hegeliana non è che la logica conseguenza della sua filosofia speculativa, […] e il conservatorismo politico è il risultato logico della filosofia hegeliana»18. Lavrov esprimeva perfettamente la tendenza principale del populismo - «corrente ideologica che si sviluppa al di fuori di ogni seria riflessione non solo su Hegel, ma anche sull’hegelismo di sinistra»19 –, per i cui esponenti Hegel era divenuto semplicemente sinonimo di reazione.
Com’è noto, il marxismo emerge in Russia in forte polemica con i narodniki, facendo valere in particolare le ragioni della necessità dello sviluppo graduale delle forze produttive di contro al volontarismo di gruppi come Terra e Libertà, sulla base dell’idea (più avanti formalizzata da Plechanov) secondo cui «l’evoluzione economica porta alla rivoluzione politica»20. A ben vedere, però, soprattutto nella sua genesi, il rapporto fra marxismo e populismo appare segnato da un’influenza reciproca; una consonanza che si trasformerà in aperta opposizione solo successivamente21 e che culminerà con la costituzione del gruppo Liberazione del lavoro, fondato a Ginevra nel 1883.
Come nota Billington, l’opposizione fra marxismo e populismo coincide con quella fra «materialismo dialettico e idealismo morale»22. I populisti rifiutavano in particolare certe premesse del materialismo storico, giudicate incompatibili con le condizioni sociali di un paese come la Russia, economicamente arretrato e costituito principalmente da masse contadine, mentre il pensiero marxista rimproverava ai populisti il fatto di non conoscere «neppure l’abbicì del socialismo», come aveva scritto Engels nel 1874 in polemica con il populista Tkačëv23.
L’atteggiamento dei populisti di fronte al marxismo era stato formulato con precisione da un discepolo di Lavrov, Michajlovskij. Il quale, in un articolo intitolato Karl Marx di fronte al tribunale del Signor Žukovskij, aveva sostenuto nel 1877 che accogliere in Russia la teoria marxiana, e in particolare il primo libro del Capitale, avrebbe comportato un atteggiamento passivo di attendismo, indifferente alle condizioni del popolo, nella convinzione che una rivoluzione sarebbe stata possibile solo dopo lo sviluppo completo del capitalismo. Questa circostanza, a suo avviso, avrebbe paradossalmente reso i socialisti i primi difensori del capitalismo24.
Tale fu in effetti la parabola dei cosiddetti «marxisti legali», i quali – secondo le parole del loro esponente più illustre, Pëtr Struve – sostenevano appunto la necessità di «andare a scuola dal capitalismo»25. La difesa dello sviluppo capitalistico in quanto tappa non eludibile ai fini del passaggio al socialismo accomunava in questo senso i marxisti legali a Plechanov, il quale tuttavia declinava tale necessità con la consapevolezza che una rivoluzione in un paese arretrato e privo di una classe attiva avrebbe comportato una regressione al livello delle forme politiche, perché si sarebbe risolta in una sorta di «aborto politico, sul modello degli antichi imperi della Cina e della Persia, [cioè in] un rinnovato dispotismo zarista su base comunista»26. Nella prospettiva dei populisti, queste posizioni si traducevano nella grottesca postulazione della schiavitù come tappa necessaria per il raggiungimento della civiltà, e quindi nella teorizzazione di un asservimento funzionale al processo di liberazione. Michajlovskij indicava in queste concezioni un tipico esempio di hegelismo deteriore, che assumeva le inquietanti sembianze della List der Vernunft come giustificazione ex post dei propri misfatti: in effetti, anche la dialettica servo-signore all’opera nella Fenomenologia, da questo punto di vista, presenterebbe la condizione di oppressione come tappa necessaria per il riscatto servile27.
L’atteggiamento dei populisti russi nei confronti di Hegel è particolarmente significativo e mostra come la lettura del filosofo tedesco fosse connotata in un primo momento da una precisa interpretazione in chiave rigidamente evoluzionista della sua filosofia della storia, secondo un’impostazione che comportava l’inevitabile svilimento del singolo in favore dell’universale. Secondo le parole di Michajlovskij, infatti, «non esiste un sistema filosofico che abbia trattato la persona con altrettanto disprezzo distruttore e altrettanta fredda durezza del sistema hegeliano»28.
Tra le interpretazioni di Hegel spicca poi l’assai complessa figura di Cernyševskij, uno degli intellettuali progressisti più influenti della seconda metà del secolo, che verrà apprezzato da Lenin come un «grande hegeliano e materialista»29. Cernyševskij condivideva con i populisti la valutazione in senso evoluzionista della filosofia della storia hegeliana, il cui merito più grande, scriveva nel ‘49, era stato quello di avere elaborato «l’idea dello sviluppo»30. Egli è stato il primo pensatore russo a contrapporre in modo netto ed esplicito sistema e metodo in Hegel, rilevandone sulla scorta di Engels la tensione interna: «Questa discordanza dipende […] dalla doppiezza dello stesso sistema di Hegel, dalla discordanza fra i suoi principi e le sue conclusioni, fra lo spirito e il contenuto. I principi di Hegel erano straordinariamente potenti e larghi, le sue conclusioni ristrette e inconsistenti»31.
Plechanov, che si imporrà come teorico di spicco del marxismo fin dagli esordi della Seconda Internazionale, ha contribuito a riabilitare l’hegelismo dalle accuse dei populisti attraverso un recupero della distinzione fra metodo e sistema formulata da Cernyševskij, ma con una importante precisazione: egli era persuaso infatti che il carattere mobile e dinamico del metodo prevalesse nettamente sulla staticità del sistema.
Nonostante il rimprovero di Lenin, il quale lo avrebbe accusato di non essersi misurato a sufficienza con la Scienza della Logica, Plechanov aveva capito che la categoria di contraddizione in Hegel non è riferibile unicamente ai contenuti del pensiero ma costituisce la struttura fondamentale della realtà. Come si legge in uno scritto del 1895, «conformemente alla nostra teoria materialista, le contraddizioni contenute nei concetti non sono che il riflesso, la traduzione nel linguaggio del pensiero delle contraddizioni che risiedono nei fenomeni, come conseguenza della natura contraddittoria del movimento»32. Di conseguenza, a partire dalla battaglia teorica che lo aveva visto impegnato a respingere il revisionismo di Bernstein e l’evoluzionismo di Kautsky, avrebbe rimarcato la differenza fra sviluppo e rivoluzione, cioè fra semplice teoria evoluzionista e salto rivoluzionario, sottraendo il metodo hegeliano ad ogni confusione «con la teoria dell’evoluzione». «Essa [la dialettica]», dirà, «differisce essenzialmente dalla volgare “teoria dell’evoluzione”, che si adagia sul principio che né la natura né la storia fanno dei salti e che nel mondo tutti i cambiamenti si operano gradualmente»33.
Si tratta di un’acquisizione fondamentale che verrà ripresa da Lukács, il quale in Storia e coscienza di classe riconoscerà che «è merito di Plechanov l'aver richiamato l'attenzione […] sull'importanza di questo aspetto della logica hegeliana in rapporto alla differenza tra evoluzione e rivoluzione»34. In questo quadro, la dialettica secondo Plechanov esclude una visione meramente evoluzionistica del reale proprio perché si propone di spiegare in che modo «le modificazioni quantitative, accumulandosi poco per volta, diventano finalmente delle modificazioni qualitative». «Questi passaggi», continuava il filosofo russo, «si compiono a salti e non possono compiersi in altra maniera»35. E nonostante sia indubbio che non si possa interpellare Hegel per trovare conferme sui metodi dell’«attività rivoluzionaria», nondimeno Plechanov era convinto che ci si dovesse rivolgere a lui per comprendere nella giusta maniera il movimento del reale, dal momento in cui non ci si poteva più accontentare di una semplice teoria dello sviluppo (una «fastidiosa tautologia» che procede per addizione quantitativa). Ecco allora che «uno dei più grandi meriti di Hegel [è consistito nel] l’aver epurato la dottrina dell’evoluzione da simili assurdità»36 e nell’aver posto un volta per tutte i fondamenti teorici per la pensabilità del «movimento della materia», e cioè della trasformazione, attraverso la categoria di «contraddizione»37.
Ai critici populisti, convinti che Hegel si fosse limitato ad anticipare il contenuto reale a partire da semplici astrazioni logiche, Plechanov obiettava che quasi tutto nella dialettica di Hegel è stato attinto dall’esperienza. Dal che si comprende perché «i discepoli di Hegel che insorsero contro l’idealismo» siano poi passati nel campo del materialismo: si tratta di una radicalizzazione del pensiero hegeliano o, come scrive Planty-Bonjour, di un tentativo di «raddrizzamento»38, e non tanto di un’inversione. Nell’opera sulla Concezione monistica della storia Hegel figurava infatti come il ponte teorico che collega i materialisti francesi e quelli moderni e cioè il punto di incontro fra D’Holbach e Marx39.
In effetti, sosteneva Plechanov nell’orazione Per il sessantesimo anniversario della morte di Hegel, la fondamentale aspirazione materialista che agisce in tutta l’opera di Hegel viene confermata dalla sua filosofia della storia: quando Hegel parla dei popoli «sembra quasi di dimenticarsi che si ha che fare con un idealista», tanto la sua comprensione storica è radicata nella sostanza materiale delle determinazioni empiriche, come il clima, la conformazione geografica ecc. In quest’ambito «egli osserva strettamente il suo proprio principio di mantenersi sul terreno della storia, dell’empirismo», poiché lo spirito di un popolo non è che un grado dello sviluppo dello spirito universale; le cui proprietà a loro volta non si deducono dallo studio della storia universale, per filiazione di idee, ma dall’analisi concreta dei fatti materiali. E nonostante ricorra allo «spirito» come «ultima risorsa del movimento storico», confermando in tal modo la sua fedeltà all’idealismo, Hegel «torna poi al terreno storico concreto». «La lotta delle fazioni all’interno delle città fu [spiegata tramite] l’effetto dello sviluppo economico della Grecia. […]» ed è «nella storia economica della Grecia che bisogna cercare le cause della sua scomposizione»: in questo senso «Hegel ci suggerisce dunque una concezione materialistica della storia».
In sintesi, il procedere hegeliano in campo storico si è mantenuto saldo a un principio di metodo di carattere pragmatico che si è rivelato attento alle condizioni empiriche fattuali, nella convinzione che «è nell’attività economica di un popolo che bisogna cercare la spiegazione delle sue idee religiose e di tutti i movimenti di emancipazione che si producono al suo interno». Hegel ha colto dunque «l’importanza del fattore geografico per il divenire storico dell’umanità»: sono queste – scriveva Plechanov, anticipando l’intuizione di Lukács sull’importanza attribuita da Hegel alla vita economica di un popolo – le «sorprese che ci riserva la filosofia hegeliana della storia».
Ora, Plechanov si rendeva conto che questo ancoraggio all’elemento materiale non era un fatto che potesse essere spiegato unicamente in riferimento alla filosofia della storia, perché altrimenti sarebbe rimasto nient’altro che una semplice contingenza all’interno di un sistema ben altrimenti equipaggiato contro la Zufälligkeit del reale. La necessità della conoscenza delle leggi della natura è invece un’esigenza sistematica presente già nella Logica, di cui Plechanov rivaluta l’idea secondo cui «la necessità non diventa libertà perché sparisca, ma solo perché la sua identità ancora interna vien manifestata»40. Secondo Plechanov, infatti, «Hegel ha definitivamente risolto l'antinomia Libertà-Necessità, mostrando che noi siamo liberi solamente nella misura in cui conosciamo le leggi della natura, dell'evoluzione sociale e del divenire storico, e nella misura in cui noi ci sottomettiamo ad esse, ci appoggiamo ad esse». Si tratta, com’è noto, di un passaggio fondamentale che avrà un peso determinante nella riflessione dei Quaderni filosofici (ma che a ben vedere si trova già in Materialismo ed Empiriocriticismo) e che costituisce lo strumento teorico attraverso cui Lenin elaborerà la sua opposizione al determinismo della Seconda Internazionale ma anche al volontarismo dei movimenti populisti41. In Plechanov, al contrario, convinto di avere trovato nella teoria dei «salti» rivoluzionari l’antidoto al determinismo evoluzionista, l’idea di libertà come «necessità consapevole»42 finirà per confondersi del tutto con la fiducia inamovibile nelle leggi di uno sviluppo sociale secondo lo schema evolutivo occidentale. Una lettura che lo avrebbe portato successivamente a schierarsi con i menscevichi.
3. Lenin
Intorno agli anni ‘90, a questa polarizzazione tra populisti e marxisti
si aggiunse l’apporto teorico di Lenin43
, il quale si riconosceva nelle
posizioni di Plechanov con un’importante riserva: pur sottolineando la
necessità dello sviluppo produttivo del capitalismo, egli non escludeva
la «possibilità di una transizione diversa, più diretta, al socialismo»44
,
dal momento che il capitalismo russo possedeva già una struttura
compiuta, la cui maturità era evidente nel grado di sviluppo delle
divisioni e delle lotte di classe45
.
Per quanto in Che cosa sono gli amici del popolo (1894) si ricavi una
valutazione sostanzialmente negativa della triade hegeliana, in
particolare quando questa viene spacciata per un metodo conoscitivo,
accortosi che gli intelettuali della socialdemocrazia rifiutavano l’eredità
hegeliana in favore di un ritorno a Kant, Lenin si ergerà a difesa della
dialettica. Il neokantismo avrebbe implicato infatti la sostituzione di un
idealismo con un altro idealismo ben più minaccioso, perché camuffato
con le vesti di un empirismo volgare e di una «pacifica» teoria
dell’evoluzione46. Nella sua battaglia teorica e pratica contro il
revisionismo Lenin aveva capito che «la filosofia hegeliana è ben più di una vuota formulazione»47 e che la dialettica, una volta epurata dai suoi
residui teologici, risultava di gran lunga preferibile alle teorie
dell’evoluzione e allo spontaneismo politico. Certamente, come scrive il
leader bolscevico in un articolo su Engels (1895), Hegel era un
«ammiratore dello Stato autocratico prussiano», eppure «la sua dottrina
era rivoluzionaria».
Sulla scorta di Herzen, distingueva dunque l’uomo dalla dottrina e,
all’interno della dottrina, tra principi ed esposizione positiva.
Soprattutto, però, Lenin fa notare che
«la fiducia di Hegel nella ragione umana e nei suoi diritti e la tesi
fondamentale della filosofia hegeliana, secondo la quale nel mondo si svolge un
processo continuo di trasformazione e di evoluzione, indussero gli allievi del
filosofo berlinese che non volevano conciliarsi con la realtà, a pensare che
anche la lotta contro la realtà, la lotta contro l’ingiustizia esistente e contro il
male dominante, debba avere le sue radici nella legge universale dello sviluppo
perpetuo. Se tutto si sviluppa, se alcune istituzioni esistenti vengono sostituite
da altre istituzioni, perché dovrebbero perpetuarsi in eterno l’autocrazia del re
prussiano o dello zar russo, l’arricchimento di un’infima minoranza a spese
della stragrande maggioranza, il dominio della borghesia sul popolo?»48.
Si vede qui come l’esposizione leniniana della filosofia di Hegel lasci
subito spazio a un’interpretazione in chiave rivoluzionaria e questo
perché Hegel ha posto al centro del proprio pensiero la categoria di
contraddizione e cioè del movimento costante della realtà come totalità
concreta. Il filosofo non poteva però trarre le conseguenze politiche
della propria stessa dottrina, perché «dallo sviluppo dello spirito egli
deduceva lo sviluppo della natura, dell'uomo e dei rapporti sociali tra
gli uomini»49. Si trattava quindi, secondo la classica lezione di Engels e
Marx, «di rimettere sui piedi la dialettica» e applicarla allo studio delle
formazioni economico sociali. Anche le lotte politiche, si legge in Un
passo avanti e due indietro, soggiacciono alle leggi della dialettica: non
in quanto essa le «anticipi», ma perché effettivamente il mondo reale
procede per contraddizioni.
In questo testo Lenin proverà a precisare la natura della «grande
dialettica hegeliana»50
, la quale procede per «negazione» e poi per
«negazione della negazione», così che in questo passaggio il risultato
finale costituisce una «sintesi superiore» perché arricchito attraverso il
processo stesso51. È qui che Lenin comincia a distanziarsi da Plechanov,
il quale non aveva compreso che la dialettica non può essere un metodo
puramente formale, poiché «la vera dialettica non giustifica gli errori
personali, ma studia le svolte ineluttabili, dimostrandone l’ineluttabilità
sulla base di un esame dettagliato dello sviluppo in tutta la sua
concretezza». «La posizione fondamentale della dialettica», dunque, «è:
non esiste una verità astratta, la verità è sempre concreta»52. Il difetto
strategico di Martov e dei menscevichi consisteva allora nella mancata
analisi dei rapporti di forza effettivi, in favore di una più radicata fiducia
nelle presunte leggi dello sviluppo; ma se la dialettica si riduce a
semplice congegno predittivo, allora essa non è che un «giochetto
analogico»53. Uno strumento inservibile per la lotta rivoluzionaria, che
esige invece «l’analisi concreta della situazione concreta».
Con ben altra preparazione Lenin si rivolgerà a Hegel ancora nel
1915, quando, nel bel mezzo della guerra ed esule in Svizzera, si
immergerà nella lettura della Scienza della Logica. Il risultato è talmente
sorprendente che gli studiosi sono tutt’oggi divisi sulla valutazione di
questo testo singolare, composto da brevi annotazioni, trascrizioni,
frammenti, che in alcun modo era stato destinato dal suo autore alla
pubblicazione. È anche per questo che i Quaderni filosofici vengono
spesso considerati dai critici occidentali (con poche eccezioni54) come
un sorta di stranezza non filosofica, il cui carattere frammentario non
consente una valutazione circostanziata e oggettiva55. Eppure, a voler leggere i Quaderni come numerosi studiosi invitano a fare56, ci si
accorge come adesso – alla luce delle esperienze politiche di Lenin in
seguito al voto dei socialdemocratici europei per i crediti di guerra e al
fallimento della Seconda Internazionale – il “nocciolo razionale” della
dialettica venga valorizzato come mai prima. In particolare, per il leader
bolscevico era necessario procedere alla confutazione teorica dei
presupposti metodologici alla base della strategia socialdemocratica, la
cui grave carenza filosofica consisteva esattamente in una mancata
comprensione della «dialettica rivoluzionaria»57
.
Se in Materialismo ed empiriocriticismo il materialismo, in opposizione all’idealismo, veniva definito unicamente in base alla priorità che esso conferisce all’essere sul pensiero, con i Quaderni la prospettiva cambia, al punto che Lenin giunge a definire «l’idealismo intelligente più vicino al materialismo intelligente di quanto lo sia il materialismo stolido»58 . Qui la polarizzazione fondamentale che permette di leggere la storia del pensiero non è più evidentemente quella fra idealismo e materialismo (come nel Ludwig Feuerbach di Engels) ma quella fra «dialettica» e «metafisica». Poco dopo egli approfondirà la sua affermazione secondo cui si tratta di comprendere l’«idealismo dialettico al posto di intelligente; metafisico, non sviluppato, morto, volgare, immobile al posto di stolido»59 (il materialismo metafisico, volgare, che aveva i suoi esponenti filosofici in Elvetius, Mach e D’Holbach, trovava chiaramente il suo corollario politico in Kautstky e Plechanov60). Per comprendere in che modo il materialismo dialettico fosse più vicino all’idealismo dialettico, occorre soffermarsi sulle nozioni di materia e di dialettica. Lenin distingueva fra il concetto filosofico e quello scientifico della materia61: le acquisizioni scientifiche di quegli anni sulla struttura dell’atomo gettavano nuove perplessità sulla trasparenza del concetto di materia, inducendo Lenin a interrogarsi sulla sostenibilità del paradigma materialista ereditato dalla tradizione filosofica premarxista62 . Pur non allontanandosi dal campo di un realismo gnoseologico forte, egli era stato perciò indotto a ripensare la teoria del rispecchiamento alla luce di una nuova esigenza epistemologica che tenesse conto del carattere ideale della materia, del suo essere cioè non un semplice fatto che la coscienza si limita a riflettere, bensì il risultato di un processo che coinvolge attivamente il soggetto conoscente. In questo quadro la lettura di Hegel si è rivelata decisiva: Lenin impara infatti che «la coscienza dell’uomo non solo rispecchia il mondo oggettivo, ma altresì lo crea»63 .
Se in Materialismo ed empiriocriticismo il materialismo, in opposizione all’idealismo, veniva definito unicamente in base alla priorità che esso conferisce all’essere sul pensiero, con i Quaderni la prospettiva cambia, al punto che Lenin giunge a definire «l’idealismo intelligente più vicino al materialismo intelligente di quanto lo sia il materialismo stolido»58 . Qui la polarizzazione fondamentale che permette di leggere la storia del pensiero non è più evidentemente quella fra idealismo e materialismo (come nel Ludwig Feuerbach di Engels) ma quella fra «dialettica» e «metafisica». Poco dopo egli approfondirà la sua affermazione secondo cui si tratta di comprendere l’«idealismo dialettico al posto di intelligente; metafisico, non sviluppato, morto, volgare, immobile al posto di stolido»59 (il materialismo metafisico, volgare, che aveva i suoi esponenti filosofici in Elvetius, Mach e D’Holbach, trovava chiaramente il suo corollario politico in Kautstky e Plechanov60). Per comprendere in che modo il materialismo dialettico fosse più vicino all’idealismo dialettico, occorre soffermarsi sulle nozioni di materia e di dialettica. Lenin distingueva fra il concetto filosofico e quello scientifico della materia61: le acquisizioni scientifiche di quegli anni sulla struttura dell’atomo gettavano nuove perplessità sulla trasparenza del concetto di materia, inducendo Lenin a interrogarsi sulla sostenibilità del paradigma materialista ereditato dalla tradizione filosofica premarxista62 . Pur non allontanandosi dal campo di un realismo gnoseologico forte, egli era stato perciò indotto a ripensare la teoria del rispecchiamento alla luce di una nuova esigenza epistemologica che tenesse conto del carattere ideale della materia, del suo essere cioè non un semplice fatto che la coscienza si limita a riflettere, bensì il risultato di un processo che coinvolge attivamente il soggetto conoscente. In questo quadro la lettura di Hegel si è rivelata decisiva: Lenin impara infatti che «la coscienza dell’uomo non solo rispecchia il mondo oggettivo, ma altresì lo crea»63 .
Certo, Lenin è convinto, come Herzen, che nonostante il suo
avvicinarsi al materialismo Hegel abbia finito per schiacciare il reale
sotto il peso dell’idea assoluta. E tuttavia scorge in questa posizione
hegeliana la fonte di un’ambiguità produttiva, dal momento che il
filosofo tedesco ha postulato al contempo «il passaggio dell’idea logica
nella natura» e cioè l’impossibilità per il pensiero di mantenersi al livello
dei puri concetti. Il riferimento alle Tesi su Feuerbach è d’obbligo e
aiuta a capire in che modo per Lenin la filosofia hegeliana sia stata la
sola ad aver concepito il reale non come riduzione e appiattimento sul
dato né come vuota astrazione logica, ma come «unità dialettica
dell’essenza e del fenomeno»64. In altri termini, egli cominciava a intuire
come per cogliere il reale senza ricadere in dualismi più o meno sottili
fosse necessario comprendere al centralità del mondo fenomenico,
come possiamo capire dalle sue osservazioni secondo cui «l’idea della
trasformazione dell’ideale nel reale è profonda» ed è «molto importante
per la storia», oltre che – aggiungeva – «contro il materialismo
volgare»65.
Se le cose stanno così, è evidente che l’autore dei Quaderni non
poteva più accontentarsi della teoria del riflesso delineata in
Materialismo ed empiriocriticismo 66. Adesso il ruolo del soggetto non è
più semplicemente passivo ma contribuisce in maniera attiva alla
costituzione del “dato”. Secondo le parole di Lenin
«La conoscenza è il rispecchiamento della natura da parte dell’uomo. Ma
questo non è un rispecchiamento semplice, immediato, totale, è invece il
processo di una serie di astrazioni, il processo della formulazione, della
formazione di concetti, leggi ecc., i quali concetti, leggi ecc. abbracciano anche in modo condizionato e approssimativo le leggi universali della natura che è in
eterno movimento e sviluppo»
67.
La novità teorica consiste dunque nel fatto che Lenin giunge a
elaborare una concezione dell’attività astraente molto più ricca,
coinvolgendo in maniera produttiva il rapporto fra conoscenza e azione:
si tratta dell’applicazione della categoria di praxis alla teoria della
conoscenza, cioè dell’idea che la relazione fra il dominio dei fatti e
quello puramente intellettuale sia possibile solo attraverso la mediazione
dell’uomo come prassi che opera nella storia. Ancora una volta Hegel si
dimostra una lettura feconda: «all’Idea come coincidenza di concetto e
oggetto, all’Idea come verità, Hegel si accosta attraverso l’attività
pratica finalistica dell’uomo. Ci si accosta così molto all’idea che l’uomo
mediante la sua prassi dimostri la validità oggettiva delle sue idee, dei
suoi concetti, del suo sapere, della sua scienza»68.
Nel complesso, si può dire che nel passaggio da Materialismo ed
empiriocriticismo ai Quaderni filosofici Lenin non cambi la propria
valutazione di Hegel, né modifichi la convinzione del carattere
«oggettivo» della materia (ovvero del suo «esistere [anche] al di fuori
della nostra conoscenza»69), ma che piuttosto approfondisca nel senso
della praxis la sua interpretazione del filosofo tedesco70. Secondo
Kouvelakis è proprio qui che per Lenin «Hegel è infinitamente più
prossimo al materialismo che i “materialisti” dell’ortodossia (o delle sue
versioni precedenti, premarxiane, del materialismo)», e questo perché
egli «è maggiormente vicino al nuovo materialismo, quello di Marx, il
quale afferma non il primato della materia, ma dell’attività di
trasformazione materiale come praxis rivoluzionaria»71.
Ne risulta profondamente modificata l’immagine canonica della
dialettica: «non si può applicare la logica di Hegel nella sua forma data»
– scriveva Lenin –, e cioè «non la si può prendere come un dato» ma
«da essa bisogna estrarre le sfumature logiche (gnoseologiche), dopo averla depurata della Ideenmystik: questo è ancora un gran lavoro»72
.
Sembra qui che Lenin cerchi di rimediare all’errore di Cernyševskij, il
quale, per aver troppo frettolosamente separato il sistema dai suoi
principi, non aveva colto l’essenziale, e cioè che la dialettica non è un
metodo ma il riconoscimento a livello concettuale del movimento
contraddittorio del reale. «È il reale che è dialettico, non il metodo. […]
Niente è più estraneo dallo spirito hegeliano di un soggetto isolato, che
riflettendo dal di fuori sul reale, lo asserva ai propri schemi»73, scriveva
a questo proposito Arturo Massolo. Allo stesso modo, i Quaderni
filosofici approdavano – pur nella loro aporeticità –, a un risultato non
dissimile ovvero alla scoperta che si può definire la dialettica come «lo
studio della contraddizione nell’essenza stessa degli oggetti»
74.
Non è il caso di insistere ulteriormente su questo punto, poiché è già
sufficientemente nota la distanza che separava Lenin, convinto della
possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, da Plechanov e dai
fautori della “rivoluzione borghese” sulla base delle presunte leggi del
determinismo dialettico. In ogni caso, egli avvertiva come ci fosse
ancora un «gran lavoro» da fare per riportare il materialismo al livello di
una teoria scientifica. Ed è per questo che nell’articolo Sul significato
del materialismo militante – pubblicato sulla rivista teorica bolscevica
“Pod znamenem marksizma”, [Sotto la bandiera del marxismo], da lui
stesso fondata nel 1922 – affermerà che a tal fine bisogna «organizzare
lo studio sistematico della dialettica di Hegel da un punto di vista
materialistico, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato
praticamente nel suo Capitale e nei suoi lavori storici e politici»75, pena
l’impossibilità di mettere capo a un «materialismo militante»76.
4. La polemica fra materialisti e dialettici
Negli anni successivi alla rivoluzione, il testo di Bucharin La teoria
del materialismo storico (1922) tentava, per la prima volta, di offrire un esame sistematico – sotto l’influsso di Bogdanov – dei concetti
fondamentali e del contenuto teorico del materialismo dialettico.
Questo saggio costituisce il tentativo più completo di sistematizzazione
della dottrina marxista e, per il suo carattere manualistico ad uso
divulgativo, presenta numerose semplificazioni e riduzioni
meccanicistiche. Successivamente, in seguito alla messa in minoranza di
Bucharin nel partito, la sua impostazione teorica, che aveva
nell’identificazione della dialettica come «legge dell’equilibrio» il fulcro
teorico principale, venne bollata come «deviazionismo di destra», il cui
difetto principale consisteva in una svalutazione del metodo dialettico
che, sul piano politico, aveva portato alla difesa dei culachi e alla
resistenza alla collettivizzazione.
Alla pubblicazione del libro era seguito un ampio dibattito svoltosi
principalmente sulle colonne di Pod znamenem marksizma. La
polemica ebbe una forte eco nel paese: ai dialettici, sostenitori della
funzione unificatrice della filosofia nel campo delle scienze e del suo
statuto come disciplina autonoma, si opponevano i meccanicisti, fermi
oppositori di tale prospettiva77. Si trattava, a detta di uno degli
intellettuali coinvolti, di uno scontro che metteva in luce «due tendenze
contrapposte nell’ambito del marxismo»78: da un lato i «comunisti
impegnati nelle diverse branche della scienza», convinti che la dialettica
fosse una sorta di schema accessorio e non essenziale che potesse essere
applicato alla conoscenza della natura; dall’altro i fautori del sistema
filosofico integrale di Hegel.
A ben vedere, la tendenza alla diversificazione in base al rifiuto o
meno del sistema hegeliano è una costante ben presente anche nel
marxismo occidentale; mentre però in Europa il rifiuto dell’hegelismo
ha assunto principalmente le forme di una critica della ragione e delle
sue pretese, e quindi di una sfiducia complessiva nell’idea di progresso
che culminerà nelle varie forme di postmodernismo e “pensiero
debole”, in Urss la reazione a Hegel veniva condotta nel nome di una
razionalità ancora più forte in antitesi all’idealismo, considerato da
alcuni come pura superstizione. Questa era la posizione dei cosiddetti
meccanicisti – influenzati dalle correnti neopositiviste in filosofia e dal determinismo economicista della Seconda Internazionale –, il cui
manifesto programmatico era stato il saggio di Sergej Minin, pubblicato
nel 1922 e intitolato significativamente Gettiamo via la filosofia: un
testo in difesa delle scienze naturali e contro l’interferenza della
filosofia.
Nella seconda metà degli anni Venti, anche grazie alla pubblicazione
nel 1925 della Dialettica della natura di Engels e nel 1929 dei Quaderni
filosofici di Lenin, in questa polemica prevalsero i dialettici, secondo i
quali il compito di fornire una fondazione filosofica della linea politica
del partito e di guidare le varie sfere delle scienze sociali e naturali
doveva essere affidato al materialismo dialettico. In tale prospettiva, la
filosofia è necessaria alla scienza in quanto permette di cogliere il
«concetto concreto»79
– ciò che Hegel aveva chiamato «universale
concreto» –, ovvero la connessione intrinseca delle cose; laddove invece
la scienza, occupandosi di casi particolari, non riesce a concepire la
natura come totalità organica. Il principale esponente di questa tedenza,
Abram Deborin, che in passato era stato socialdemocratico e poi
menscevico, divenne nel 1926 redattore capo di Pod znamenem
marksizma. Da questo momento la rivista cessò di pubblicare contenuti
di parte meccanicista.
L’opera più famosa di Deborin, L’introduzione alla filosofia del
materialismo dialettico, punto di riferimento per tutti gli anni Venti, pur
criticando l’idealismo e la metafisica, valorizzava Hegel come il
pensatore che più di ogni altro aveva aperto la strada del materialismo
dialettico. Anche qui, come si è già visto a proposito dei Quaderni
filosofici, la scissione fondamentale nella storia del pensiero viene
individuata nell’opposizione fra dialettica e metafisica. Quest’ultima,
scrive Deborin, insegna che «tutto esiste ma nulla succede», mentre la
dialettica, al contrario, consiste «nel rifiuto di considerare il mondo
come un complesso di cose finite, bensì come un complesso di
processi»80 e insiste sul principio del divenire e della continua
trasformazione del reale, giungendo a spiegare «l’unità dell’essere e del
non essere»81.
Nella prefazione al testo, scritta da Plechanov, viene ripresa
l’intuizione hegeliana secondo cui la «vecchia fisica» è una concezione
scientifica che vede i fenomeni solo nella loro astrattezza, senza
coglierne lo sviluppo interno: a Engels spetta il merito di avere risolto
questa carenza attraverso l’applicazione del metodo dialettico anche alla
natura. Proprio su questo punto Deborin criticava duramente Storia e
coscienza di classe, accusando Lukács di aver meccanicamente
contrapposto Engels a Marx e di aver messo in dubbio l’applicabilità
del metodo dialettico alle scienze naturali, affermandone la conformità
alla sola realtà storico-sociale e finendo perciò per negare il
materialismo dialettico come Weltanschauung integrale82.
Gli oppositori alla corrente deborista, rappresentati da Stepanov,
Aksel’rod, e Timirijazev, credevano invece che la filosofia dovesse
limitarsi a chiarire i concetti e le leggi della scienza senza interferire
nella sue ricerche sulla base di principi a priori. Per non essere una
mera sovrastruttura ideologica tesa a legittimare le classi dominanti, la
filosofia del marxismo deve coincidere con i risultati delle scienze
naturali e identificarsi con essi, mentre la dialettica, da questo punto di
vista, risultava del tutto inutile e antiscientifica. Questi autori
accusavano in sostanza gli avversari di coltivare un pensiero magico, che
forzava entro gli schemi puramente immaginari del pensiero la struttura
materiale della realtà.
Il dibattito tra meccanicisti e dialettici si sarebbe concluso con la
vittoria di questi ultimi: nell’aprile 1929, la seconda Conferenza
Pansovietica delle Istituzioni Scientifiche Marxiste-Leniniste
pronunciava una dura condanna contro i meccanicisti; i quali, accusati
di deviazionismo di destra, furono censurati ideologicamente e allontanati dagli istituti in cui lavoravano. Già l’anno successivo però i
deboristi vennero a loro volta accusati di formalismo idealistico e
vennero anch’essi espulsi dai posti di rilievo che avevano conquistato.
Entrambe le accuse vennero ribadite in un articolo sulla Pravda a firma
di Mitin, Yudin e Raltsevich83, i quali imputavano ai dialettici di tenere
in scarsa considerazione la “partiticità” della filosofia e di avere
sottovalutato Lenin come pensatore in favore di Plechanov. Poco dopo,
essi vennero etichettati da Stalin come fautori di un «idealismo
menscevizzante»84, definizione che divenne poi ufficiale insieme
all’accusa di «glorificare esageratamente Hegel».
In questo contesto veniva condannato sia il «revisionismo
meccanicista» che quello «idealista»: le loro divergenze erano giudicate
solo formali, mentre entrambi venivano accomunati dalla tendenza a
esprimere «forze di classe avversarie che accerchiano il proletariato»85
.
Da qui la necessità per il partito della «lotta su due fronti»: contro
Trotzsky e i dialettici da un lato86 e contro Bucharin e i meccanicisti
dall’altro, considerati rispettivamente come revisionismi filosofici di
sinistra e di destra. Secondo uno degli uomini più in vista del fronte di
centro, Mitin, entrambi gli schieramenti «trattavano la filosofia leninista
con poco rispetto»87 e, soprattutto, privilegiavano l’indagine teoretica a
scapito della prassi.
5. Stalin
La fine della controversia tra meccanicisti e dialettici – che
testimonia tra l’altro del clima di diffusa libertà intellettuale presente durante tutti gli anni Venti88
– e il prevalere della strategia del
socialismo in un solo paese coincisero con la fine della NEP e con la
definitiva bolscevizzazione della filosofia. Questa tendenza si rafforzò
nel 1938 con la pubblicazione del Breve corso di storia del partito
comunista dell’Urss. Il testo conteneva un paragrafo intitolato Sul
materialismo dialettico e storico: redatto dallo stesso Stalin al fine di
consolidare il marxismo-leninismo come teoria generale della realtà
naturale (materialismo dialettico) e di quella sociale (materialismo
storico), questo paragrafo imporrà l’autore come punto di riferimento
filosofico principale da qui in avanti, in quanto continuatore sul piano
delle idee dell’autentica dottrina leninista89.
Stalin presentava la dialettica alla base dello sviluppo della società
come un caso particolare di una dialettica che opera prima di tutto nella
natura, concepita in termini rigorosamente materialistici e intesa come
un insieme coerente in cui tutti i singoli fenomeni, organicamente
collegati tra loro, dipendono l’uno dall’altro e si condizionano a
vicenda90. Analogamente, anche lo sviluppo delle società obbedisce a
meccanismi precisi, che non consentono regimi sociali immutabili, né
«principi eterni» e fanno sì che le società siano continuamente soggette
al cambiamento91. Tra le leggi della dialettica, però, quella della
negazione della negazione e quella della trasformazione della qualità in
quantità venivano sistematicamente sottovalutate e integrate molto
genericamente in una variante della legge dello sviluppo. Si potrebbe
dire che nella situazione estremamente sfavorevole dell’Unione Sovietica, nel suo forzato isolamento internazionale e nella necessità di
forzare lo sviluppo delle forze produttive del paese, servisse al partito in
primo luogo non tanto un’ideologia della rivoluzione quanto una teoria
dello sviluppo e dell’evoluzione; una teoria nella quale il progresso si
sostituisse alla categoria di negazione. Di conseguenza, l’accento
ricadeva sulla «funzione organizzatrice delle idee», in un quadro
politico segnato dal difficile problema della pianificazione economica e
dalla permanente ostilità internazionale. In questo contesto non solo la
filosofia, ma anche la ricerca scientifica veniva collegata al problema
dell’edificazione del socialismo, nella misura in cui entrambe avrebbero
dovuto contribuire con i loro risultati alla costruzione della nuova
società.
I drammatici eventi succeduti all’omicidio di Kirov, l’invasione
nazista poi, le esigenze di ricostruzione di un paese che aveva subito
perdite umane e naturali immense durante la guerra, non favorirono
l’ulteriore sviluppo del pensiero sovietico. Già dagli anni Quaranta
queste tendenze vennero però a poco a poco ridimensionate e il
panorama filosofico cominciò a rielaborare gradualmente le discussioni
degli anni Venti, sforzandosi ancora una volta di fare i conti con il
marxismo e con Hegel, come dimostra la pubblicazione della Storia
della filosofia di Alexandrov (fortemente criticata da Zdanov nel 1948
per la sua sottovalutazione de gli elementi reazionari di Hegel e per aver
presentato il marxismo come un naturale risultato dell’idealismo
tedesco92). Al tempo stesso ritornava sulla scena la questione del
rapporto fra il marxismo come visione del mondo e la scienza.
6. Un breve bilancio
Nella complessa vicenda teorica della filosofia russa, qui ricostruita
per grandi linee, è costante il ritorno alle fonti hegeliane, soprattutto nei
periodi di crisi, A differenza di quanto sostenuto dalla vulgata
storiografica in seguito alla dissoluzione dell’URSS, questo dimostra il
carattere dinamico del marxismo sovietico, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio fra la tendenza alla naturalizzazione della dialettica e
alla sua formalizzazione.
Le differenti interpretazioni non consentono una descrizione
univoca della presenza di Hegel in Russia e tuttavia è possibile
individuare un tratto comune alle letture prese in esame. L’autentica
eredità hegeliana non si compone qui di un corpo di nozioni definitive e
immutabili. Piuttosto, essa consiste nel tentativo sempre rinnovato di
cogliere, per dirla con le parole di Beyer, «Hegel als Weg, nicht den
Weg Hegels»93. In altri termini, seguire l’insegnamento hegeliano non
significa richiamarsi scolasticamente alla sua dottrina, bensì sforzarsi di
pensare il proprio tempo per afferrare in esso la struttura oggettiva dei
processi storici, ossia ciò che esso ha di specifico e di strutturalmente
necessario, le sue «svolte ineluttabili» (Lenin). Tale consapevolezza,
come è ovvio, non può che comportare ad un tempo la continuazione
della lezione hegeliana e il suo necessario distacco. È un’idea già
espressa da Herzen, il quale credeva che fosse necessario «andare oltre
le sue inconseguenze [di Hegel], con la ferma coscienza di andare oltre
lui, ma non contro di lui»
94.
Si potrebbe forse dire che è proprio in questi termini che Lenin
aveva cercato di ripensare il suo rapporto con Hegel dopo il 1909. E
che allora la considerazione della dialettica non rispondeva più al
tentativo deterministico di formulare un criterio onnicomprensivo di
lettura della realtà, quanto all’esigenza di mantenersi al livello della
strada tracciata da Hegel e Marx, vale a dire intendere la filosofia come
necessaria comprensione della storicità dei processi. Hegel als Weg,
dunque, non significava estrapolare un “metodo” formale e astratto,
(cosa che, come Lenin aveva colto, sarebbe stata il contrario
dell’insegnamento hegeliano...), quanto «comprendere» – per usare le
parole di Eric Weil – «ciò che è divenuto a partire dalla storia», dato
che «la dialettica è questo movimento, non una costruzione dello
spirito»95.
1 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 14.
2 Rimando qui alle
pagine introduttive del volume di VENTURI 1972, che illustra le
difficoltà di condurre una ricerca sulle tendenze intellettuali
russe dopo la riforma contadina del 1861, cfr. p. XVII.
3 Così ad esempio
KOLAKOWSKI 1983, pp. 318, 320.
4 Ivi, p. 322.
5 KOYRÉ 1950, p.
113. Tali interpretazioni, indubbiamente più conformi ai bisogni
degli autori che allo spirito hegeliano, vengono da diversi storici
descritte come filosofie di stampo fichtiano espresse in linguaggio
hegeliano, cfr.PLANTY-BONJOUR 1995 pp. 54 e 68. Su questo cfr. anche
BERDJAEV 1976, pp. 56-57.
6 PLANTY-BONJOUR
1995, p. 67.
7 Il che, com’è
noto, lo condusse successivamente alla professione di nichilismo.
8 BAKUNIN 1842,
citazione originale: «ist er [Hegel] auch der Anfang einer
notwendigen Selbstauflösung der modernen Bildung; – als diese
Spitze ist er schon über die Theorie, – freilich zunächst noch
innerhalb der Theorie selbst -, hinausgegangen und hat eine neue
praktische Welt postuliert, – eine Welt, welche keineswegs durch
eine formale Anwendung und Verbreitung von fertigen Theorien, sondern
nur durch eine ursprüngliche Tat des praktischen autonomischen
Geistes sich erst vollbringen wird».
9 PLANTY-BONJOUR
1995, p. 89.
10 Cfr., KOYRÉ
1950, p. 197.
11 A. Herzen,
Dilettantismo e scienza (1842), cit. in PLANTY-BONJOUR 1995, p. 153.
12 Ivi, p. 154.
13 Ivi, p. 177.
14 KOYRÉ 1950
sostiene invece che le Lettere sullo studio della natura non sono «né
materialismo né positvismo comtiano, ma una buona Naturphilosophie
hegeliana» (p. 203).
15 Cfr.,
PLANTY-BONJOUR 1995, p. 159.
16 È per questo che
molti storici considerano la filosofia della storia di Herzen come
una forma di irrazionalismo.
17 PLANTY-BONJOUR
1995, p. 204.
18 Ivi, p. 213.
19 Ivi, p. 217.
20 PLECHANOV 1945,
p. 130, in corsivo nel testo.
21 Come dimostra
anche la vicenda biografica di Plechanov stesso. Su questo cfr.
WALICKI 1969. 22 BILLINGTON 1958, p. 171.
23 Cit. in WALICKI
1979, p. 369. Engels continua: «La borghesia è, non meno del
proletariato, una premessa necessaria della rivoluzione socialista».
24 Ivi, p. 370.
25 STRUVE 1894,
Kriticeskie zametki k voprosu ob ekonomiceskom razvitii Rossii,
[Annotazioni critiche concernenti lo sviluppo economico della
Russia], cit. in WALICKI 1979, p. 372.
26 PLECHANOV 1883,
Socialismo e lotta politica, cit. in KOLAKOWSKI 1983, p. 347.
27 MICHAILOVSKIJ
1895, O g. P. Struve i ego kritičeskich zametkach po voprosu ob
ekonomičeskom razvitii Rossii, [P. Struve e le sue annotazioni
critiche concernenti lo sviluppo economico della Russia], cit. in
WALICKI 1979, p. 373.
28 Cit. in
PLANTY-BONJOUR 1995, p. 286.
29 LENIN 1967, p.
353.
30 VENTURI 1972, p.
245. 31 PLANTY-BONJOUR 1995, p. 221. 32 PLECHANOV 1908, p. 154. 33
Ivi, p. 51.
34 LUKÁCS 1923, p.
214.
35 PLECHANOV 1908,
p. 136.
36 Ivi, p. 138.
37 Cfr. Ivi, p. 147.
KOLAKOWSKI 1983, pp. 356-57 e passim, non manca di sottolineare come
questa interpretazione «semplicistica» non regga al banco di prova
delle scienze empiriche, e che sia frutto, in ultima analisi, di una
trasposizione piuttosto scolastica della dottrina engelsiana.
38 Poiché in Hegel
«la dialettica coincide con la metafisica, mentre in noi la
dialettica si regge sulla dottrina della natura» (PLECHANOV 1908, p.
153). E ancora: «secondo Hegel il corso delle cose è determinato
dal corso delle idee; secondo noi il corso delle idee si spiega con
corso delle cose, il corso del pensiero col corso della vita» (p.
154). Naturalmente qui Plechanov riprende in maniera piuttosto
pedissequa la celebre riflessione sulla dialettica contenuta nella
Prefazione alla seconda edizione tedesca del primo libro del
Capitale.
39 BARON 1963, p.
289.
40 HEGEL 1981, p.
645.
41 Cfr., FRIEDRICH
1965, p. 341.
42 ARATO 1979, p.
705.
43 Definito
significativamente da Walicki «terza variante» (1979, p. 377) del
marxismo russo, in ciò forse enfatizzando eccessivamente la distanza
di Lenin da Plechanov già in questa prima fase.
44 Ivi, p. 378.
45 Cfr, LENIN 1955,
p. 194, dove si può leggere: «Il signor Michajlovskij ha questo
coraggio, [di dire cioè che] “Marx aveva a che fare con un
proletariato e con un capitalismo già formati, mentre noi dobbiamo
ancora crearli”. La Russia deve ancora creare il proletariato?! In
Russia, il solo paese in cui si possa trovare una miseria così
irrimediabile delle masse, uno sfruttamento così sfrontato dei
lavoratori, un paese che è stato paragonato (e a buon diritto) con
l'Inghilterra per la situazione della sua popolazione povera, dove la
fame di milioni di uomini è un fenomeno costante accompagnato, per
esempio, da una esportazione di grano in continuo aumento, in Russia
non c'è proletariato!!».
46 LENIN 1967, p.
27: «i professori ‘ritornano a Kant’ e il revisionismo si
trascina sulle orme dei neokantiani […] i professori trattano Hegel
come un ‘cane morto’ e, predicando essi stessi l’idealismo,, ma
un idealismo mille volte più meschino e triviale di quello
hegeliano».
47 PLANTY-BONJOUR
1995, p. 305.
48 LENIN 1954, p.
11.
49 Ibidem.
50 LENIN 1959, p.
399.
51 Ivi, p. 398-99.
52 Ibidem. Su questo
punto e, più in generale, sull’epistemologia in Lenin cfr.
BALLESTREM 1968, pp. 77-105.
53 LENIN 1955, p.
166.
54 WETTER 1948,
ANDERSON 1995, LÖWY 1974, KOUVELAKIS 2016.
55 Fra questi
KRANCBERG 1981 che, ignorando gli studi di ANDERSON 1995 e
DUNAYEVSKAYA 1977 e privilegiando invece le letture di Althusser e
Colletti, sostiene che i Quaderni testimonierebbero la scarsa
propensione di Lenin verso i temi complessi, come ad esempio la
logica hegeliana (p. 90). Questa tesi diffusa costituisce a ben
vedere un modello di lettura piuttosto parziale e poco efficace dal
punto di vista metodologico: per confermare la tesi di una
sostanziale continuità tra Materialismo ed empiriocriticismo e i
Quaderni filosofici, COLLETTI 1970 è ad esempio costretto a
suddividere in modo piuttosto netto e manicheo la sostanza dei
Quaderni in «elementi negativi», riconducibili all’influenza
della «carica irrazionalistica» della dialettica (p. CLXV), e in
elementi positivi, che coincidono con gli strali di Lenin contro
l’idealismo hegeliano. Si tratta di uno schema interpretativo ben
sintetizzato da Planty-Bonjour, secondo cui «Se si è convinti che
Marx non debba assolutamente nulla al filosofo tedesco, allora si
tende a sminuire il significato dei Quaderni filosofici. […] Al
contrario, coloro i quali vogliono conservare un rapporto fra
l’hegelismo e il marxismo si sforzeranno di rettificare e perfino
di correggere le chiusure di Materialismo ed empiriocriticismo
servendosi dei Quaderni filosofici» (PLANTY-BONJOUR 1995, p. 311).
Ora, entrare nel merito della questione circa l’evoluzione del
pensiero di Lenin esula dall’oggetto del presente discorso; qui ci
si limita a sottolineare che risulta evidente una sostanziale
incompatibilità dei due testi rispetto alla figura di Hegel. Su
questo, fra gli altri autori già menzionati, cfr. anche LEFEBVRE
1959, p. 85.
56 HÖPPNER 1956, p.
304; GARAUDY 1970; LÖWY 1974.
57 LÖWY 1974, p.
95.
58 LENIN 1969, p.
277. Si sceglie qui di indicare la data 1914 per esigenze espositive,
mentre i materiali raccolti nei Quaderni filosofici si collocano fra
il 1903 e il 1916.
59 Ibidem.
60 «Plechanov
critica il kantismo […] più dal punto di vista del materialismo
volgare che non da quello materialistico dialettico»: LENIN 1969, p.
166. Su questo punto cfr. anche BLOCH 1975: «Lenin rinnovò il
marxismo autentico non da ultimo attraverso il ricorso al “nucleo”
della dialettica hegeliana […] Proprio il marxismo ortodosso
quindi, quello ristabilito da Lenin, presuppone questa conoscenza di
Hegel, a differenza di un marxismo volgare, schematico e privo di
tradizione» (p. 399).
61 Cfr. LENIN 1963.
62 Cfr. WETTER 1963,
p. 40. Per una disamina puntuale della questione della materia in
Lenin, per quanto solo fino al 1909 cfr. anche WETTER 1948, pp.
255-62.
63 LENIN 1969, p.
197.
64 PLANTY-BONJOUR
1995, p. 330.
65 LENIN 1969, p.
110.
66 Cfr., ANDERSON
1995, p. 302 e JORAVSKI 2009, p. 20. JHONSTON 2013 sostiene invece
che non c’è rottura fra Materialismo ed empiriocriticismo e i
Quaderni, p. 176.
67 LENIN 1969,
pp.168-69.
68 Ivi, p. 177. Su
questo punto cfr. WETTER 1965, pp. 417-20.
69 LENIN 1963, cit.
in WETTER 1948, p. 255.
70 BEYER 1970, p.
284, BALLESTREM 1968, p. 91.
71 KOUVELAKIS 2016.
In questa direzione anche FRIEDRICH 1965, pp. 341 e 346, e BEYER
1970.
72 LENIN 1969, p.
268.
73 MASSOLO 1967, p.
189-90.
74 LENIN 1969, p.
257, in corsivo nel testo.
75 Cit. in
PLANTY-BONJOUR 1995, p. 313.
76 Ibidem.
77 Per un’analisi
dettagliata e comprensiva dell’intera questione si rimanda a YAKHOT
2012.
78 I. Stepanov, cit.
in TAGLIAGAMBE 1979, p. 116.
79 Abram Deborin,
cit. in WETTER 1947, p. 195.
80 Abram Deborin,
cit. in TAGLIAGAMBE 1979, p. 115.
81 KOLAKOWSKI 1985,
p. 67.
82 Abram Deborin,
Lukács e la sua critica al marxismo (1924), in BOELLA 1977, p. 126.
Deborin sostiene animatamente contro Lukács che tale posizione porta
alla formalizzazione del metodo dialettico: ma ciò è contrario alla
dottrina marxista, poichè «è chiaro che al metodo non spetta un
rilievo autonomo, che esso non rappresenta alcuno schema puramente
logico, applicabile solo al campo del pensiero puro», p. 131. E
dunque, se non esiste la dialettica come metodo, è ovvio che essa
deve rispecchiare la natura, nella misura in cui i suoi risultati non
possono essere in contraddizione con la prassi scientifica. In
realtà, come si vede, anche i deboristi finirono in certo modo con
la formalizzazione della dialettica intesa come metodo, cfr. WETTER
1947, p. 187.
83 I quali nel 1931
entrarono a far parte del comitato redazionale di Pod znamenem
marksizma, cfr., COPLESTON 1986 p. 322.
84 Cfr. TAGLIAGAMBE
1979, p. 186.
85 KOLAKOWSKI 1985,
p. 71
86 Come è stato
messo in luce, non esisteva in realtà nessun collegamento fra i
dialettici e Trotzsky, tanto che lo stesso Trotzsky fu accusato
successivamente da Mitin di essere «imbevuto fino alle midolla di
bassissimo meccanicismo volgare»: cit. in WETTER 1947, p. 162.
87 Ivi, p. 73.
88 LOSURDO 2008, p.
126.
89 Secondo Mitin
infatti «non è possibile concepire correttamente e giungere alla
padronanza dell’eredità filosofica di Lenin senza prendere in
considerazione i pareri del compagno Stalin»: cit. in YAKHOT AND
BLAKELY 1979, p. 305.
90 Josif Stalin,
cit. in TAGLIAGAMBE 1979, p. 196 sgg.
91 È interessante
notare cosa scrive qui Stalin: «se tutti i fenomeni sono collegati
tra loro e si condizionano a vicenda, è chiaro che ogni regime
sociale e ogni movimento nella storia devono essere giudicati non già
dal punto di vista della “giustizia eterna”, o di qualsiasi altra
idea preconcetta – come fanno non di rado gli storici – ma dal
punto di vista delle condizioni che hanno generato quel regime e quel
movimento sociale» (Josif Stalin, cit. in TAGLIAGAMBE 1979, p. 199).
92 Cfr. ZDANOV 1949
93 BEYER 1970, p.
294.
94 PLANTY-BONJOUR
1995 p. 176.
95 WEIL 1988, p.
178.
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