lunedì 18 novembre 2019

Il declino di Roma - Luca Dammicco

Da: https://www.iltascabile.com - Luca Dammicco, nato a Roma nel 1986, fotografo. -
Tutte le immagini sono tratte dal progetto in evoluzione No cannon ball did fly di Luca Dammicco. 


Porta di Roma è una “centralità metropolitana”, uno dei moderni quartieri costruiti nella periferia della capitale negli ultimi anni. Inaugurato nel 2007, alla confluenza tra l’Autostrada A1 e il Grande Raccordo Anulare, oggi non è ancora servito dalla metropolitana. Gli abitanti utilizzano quasi tutti la macchina perché l’ampia estensione del quartiere rende difficile la pedonalità. Negozi e attività faticano a svilupparsi, divorati dalla presenza della Galleria Porta di Roma, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa: 220 esercizi, 150.000 metri quadri, 7.000 posti auto. Nei palazzi del quartiere, molti degli appartamenti sono ancora vuoti, come la maggioranza degli uffici. La speranza è che la comunità di residenti contribuirà a rendere vivibile e ospitale il quartiere, ma oggi Porta di Roma appare come una lunga sequenza di parcheggi e di case sfitte. Gli spazi verdi non sono curati, non ci sono piazze o luoghi di socialità che non siano i corridoi della galleria commerciale. 

Porta di Roma, purtroppo, è tutt’altro che un caso isolato. Negli ultimi vent’anni, ma il discorso potrebbe estendersi a tutta la storia di Roma capitale, sono state costruite decine di quartieri simili, all’estrema periferia della città. Si tratta di scelte di politica urbana che hanno riguardato direttamente centinaia di migliaia di cittadini, e influenzato indirettamente il funzionamento della città.

Oggi la discussione pubblica su Roma, però, queste scelte politiche relativamente recenti sembra ignorarle del tutto, rimanendo fondata invece su concetti vacui e solo apparentemente apolitici come quelli di “decoro” e “degrado”. Il racconto della città, sui giornali, sui blog o tra cittadini è appiattito sulla condivisione meccanica degli effetti più iconici della crisi. I disservizi dell’ATAC (la società del trasporto pubblico romano), le foto dei rifiuti, i video di animali a passeggio nella periferia (come se non fossero la normalità in una città che ha invaso la campagna) sono diventati protagonisti del discorso sullo stato di salute della città. Una retorica che ha contribuito a portare al governo la giunta Cinque Stelle e che ora è stata fatta propria anche dalle altre forze politiche, oltre che dalla quasi totalità dei commentatori. 


Nella zona Porta di Roma il piano regolatore del 1965 prevedeva, vista la sua posizione strategica, la costruzione di un autoporto: un grande spazio per scaricare, smistare e ridistribuire il carico di merci provenienti dai camion del nord Italia. Negli anni Novanta però alcuni operatori privati acquisirono i terreni e chiesero al comune il cambio di destinazione d’uso a residenziale e commerciale. La proposta venne accolta in cambio della realizzazione, a spese dei costruttori, di alcune opere di urbanizzazione per il quartiere, e negli anni successivi il progetto venne integrato nel nuovo piano regolatore generale trasformando la zona, appunto, in una “centralità metropolitana”.
Negli ultimi vent’anni le scelte di politica urbana sulle periferie hanno riguardato centinaia di migliaia di cittadini, e influenzato indirettamente il funzionamento di tutta la città. 

Venne realizzato il centro commerciale, seguito a stretto giro dagli edifici con appartamenti, da un hotel (poi riconvertito a uso residenziale) e solo alla fine vennero varati i vari servizi pubblici, come le scuole (inaugurate nel 2011), il parco (non ancora consegnato), e le altre opere di urbanizzazione (le strade di raccordo, gli allacci alla rete idrica, l’illuminazione, ancora oggi non terminate). In cambio, l’amministrazione ha abdicato al proprio ruolo pianificatore, ha agevolato l’operazione privata, e per di più ha costruito a proprie spese lo svincolo autostradale, fondamentale per l’apertura del centro commerciale. 

La retorica anti degrado però se la prende con i parcheggi in doppia fila, con le buche, con i rifiuti, un po’ accusando di inciviltà i romani un po’ il sindaco di turno. Ma è il modo giusto di affrontare il problema? Le domande da porsi sarebbero forse di altro tipo. 

La Roma di cui tutti si lamentano oggi è, almeno in parte, figlia delle politiche degli ultimi vent’anni e del Piano Regolatore Generale approvato nel 2008. Un piano necessario, visto che il piano precedente risaliva al 1965, era fondato su previsioni di crescita demografica sbagliate (e di tanto) ed era stato disatteso nel suo obiettivo principale: il decentramento delle funzioni, pubbliche e private, in periferia. 

Il Piano del 2008 doveva poi rappresentare il coronamento del cosiddetto Modello Roma: l’insieme delle pratiche di amministrazione delle giunte di centro sinistra succedutesi al governo della città – due giunte Rutelli e due Veltroni. Un progetto politico con l’ambizione di coniugare crescita economica e giustizia sociale attraverso la costante concertazione tra politica e attori economici della città, e caratterizzato da un forte investimento sul marketing urbano. 

Il bilancio delle giunte Rutelli (1993 – 2001) è positivo sotto molti aspetti e il suo successo principale riguarda senza dubbio l’ambito culturale. Viene potenziato il sistema dei musei comunali, si aprono nuovi spazi espositivi e viene rilanciato il sistema delle biblioteche. Grande attenzione viene riservata anche alla mobilità: sotto la spinta del vicesindaco Tocci viene dato grande impulso alla cosiddetta “cura del ferro”, con l’istituzione di nuove linee di tram e tre nuove ferrovie di scala metropolitana. L’idea è quella, meritoria, di ripensare la mobilità fondandola sul trasporto su rotaia, vista la saturazione del sistema degli autobus e le complessità sotterranee nel costruire nuove metro. 

In parallelo, però, viene gestita in maniera controversa la pianificazione urbanistica che la città attendeva da anni. L’ambito viene declinato secondo i principi del pianificar facendo, un approccio finalizzato alla semplificazione grazie all’aumento della sinergia tra pubblico e privato. Si assiste a una decisa politica di salvaguardia di alcune aree di pregio ambientale che il precedente piano regolatore aveva destinato all’edificazione attraverso l’uso di due nuovi e controversi strumenti legislativi: la compensazione urbanistica e l’accordo di programma. La compensazione urbanistica stabilisce l’esistenza di un diritto edificatorio perenne in mano al proprietario terriero e permette un trasferimento dei metri cubi edificabili da aree soggette a (sopraggiunti) vincoli ambientali ad altre libere. L’accordo di programma permette di operare fuori dalla pianificazione ordinaria, cioè dal piano regolatore, attraverso accordi con il costruttore proponente di una variante urbanistica.

Quali che fossero le intenzioni iniziali, la combinazione di questi due strumenti finisce per ridurre l’importanza del controllo pubblico sulla pianificazione e con esso il mantenimento dell’interesse collettivo. In nome dei “diritti edificatori” il comune rinuncia così al controllo delle singole operazioni di espansione e i costruttori si ritrovano a capo delle decisioni sulla ricollocazione delle cubature in altre aree di loro preferenza. 

Per evitare di ricorrere all’esproprio, ai possessori dei terreni interessati da questa “variante di salvaguardia” viene permesso di costruire in aree più periferiche e con cubature aumentate, per compensare i valori delle aree centrali ora soggette al vincolo ambientale. Per tutelare i diritti economici di chi possiede terreni edificabili in aree soggette a vincolo si finisce così ancora una volta ad agire sui terreni liberi della campagna, cementificandola, nonostante già allora Roma non crescesse più a livello demografico e si stesse attestando poco sotto i 3 milioni di abitanti (le previsioni del piano del 1965 sfioravano invece i 5 milioni). Un’operazione ingiustificata anche dal punto di vista residenziale, visto che le nuove case non sono a prezzi popolari, se non in minima parte. 

Dopo otto anni di amministrazione Rutelli, Veltroni porta a compimento il Modello Roma moltiplicando la sinergia tra l’amministrazione e gli attori economici della capitale. La popolarità dell’Urbe è ai massimi, gli investimenti in continuo aumento, i migliori architetti del mondo, come Zaha Adid, Renzo Piano e Richard Meier, danno lustro alla città. Si potenzia ancora l’offerta culturale ma quasi solo nel centro, mentre in periferia prende corpo un differente fenomeno urbano: in aperto contrasto con la “cura del ferro”, che mirava a ridurre la dipendenza dalle automobili, nascono decine di centri commerciali raggiungibili solo su gomma. Tra il 2001 e il 2008, sia per decisioni precedenti che per nuovi accordi di programma, i cosiddetti “poli di consumo” passano da 2 a 28
Il pianificar facendo trova il suo sbocco naturale nel piano regolatore del 2008, che insieme agli innovativi principi teorici rappresenta la ratifica dei progetti urbanistici iniziati negli anni precedenti. Seguendo lo stesso indirizzo applicato in precedenza, il Comune di Roma rinuncia alle vertenze nei confronti di chi detiene diritti edificatori e attraverso le compensazioni urbanistiche si fa carico di un’ulteriore politica espansiva in materia edilizia prevedendo altri metri cubi di costruzioni. Durante l’amministrazione Veltroni il Pil di Roma cresce molto più della media nazionale ed è trainato dal settore edilizio. Ma a che prezzo? Circa 70 milioni di metri cubi di nuove costruzioni e 15.000 ettari di Agro da urbanizzare. Dopo anni di mancata pianificazione in cui il mercato edilizio ha deciso da solo l’espansione della città, si è realizzato un piano che non inverte la tendenza ma la accentua.  
In poco tempo le periferie delle “centralità metropolitane” sono diventate quartieri residenziali intorno a grandi centri commerciali e non delle realtà capaci di ricucire i tessuti                                                                                                                                urbani frammentati 

Stando ai principi di base, il piano regolatore generale si era posto come principale obiettivo la riqualificazione delle periferie attraverso un modello policentrico. Si prefigurava cioè una città costituita da piccole realtà decentrate in grado di dar vita a una rete di servizi di alto livello e da infrastrutture capaci di generare e moltiplicare i flussi. In questo modello il punto chiave nello sviluppo futuro di Roma era rappresentato dal sistema delle “centralità”, in particolare quelle cosiddette “metropolitane”.  
Le centralità metropolitane e urbane sono finalizzate alla nuova organizzazione multipolare del territorio metropolitano, attraverso una forte caratterizzazione funzionale e morfo-tipologica”, si legge nelle linee guida del piano. “Poli universitari, centri direzionali pubblici, spazi fieristici, centri con funzioni turistiche, ricettive e ricreative. Nelle Centralità urbane e metropolitane – tutte lontane dal centro, tutte servite dal trasporto pubblico su ferro, tutte qualificate da funzioni pregiate – vive l’organizzazione policentrica della città. Un sistema che pone le basi per lo sviluppo autonomo dei futuri municipi metropolitani e per la valorizzazione delle risorse locali esistenti”. 

Porta di Roma, Ponte di Nona, Eur Castellaccio, La Storta, il Tecnopolo Tiburtino e le altre centralità (in tutto 18, di cui alcune ancora da progettare), dovevano rappresentare i poli di raccordo tra tutti gli altri interventi realizzati nelle periferie con gli accordi di programma (piani di zona, piani di recupero, lottizzazioni). Da subito però molti osservatori sottolinearono come non fosse chiara la logica alla base della loro localizzazione e, soprattutto, come il numero fosse eccessivo per una efficiente strategia di decentramento. Il criterio utilizzato nella scelta delle aree e nel loro numero non sembrava insomma rispecchiare un intento di razionale ridistribuzione delle funzioni bensì la volontà di accontentare più municipi e più proprietari di terreni possibile. 
  
Come è andata a finire? Prima, durante e dopo l’approvazione del piano si sono moltiplicati gli accordi di programma che ne hanno modificato le già poco solide basi. Tra il 2003 e il 2013 le aree delle centralità metropolitane sono state interessate da continue modifiche nelle quantità e nel tipo di cubature, sempre in accordo con i costruttori. Il consumo di suolo è ulteriormente aumentato e le funzioni previste sono state ridotte a vantaggio di ulteriori abitazioni che ai costruttori garantivano maggiori profitti. In poco tempo le centralità sono diventate dei quartieri residenziali intorno a grandi centri commerciali e non, come era invece esplicito negli intenti del piano, delle realtà capaci di ricucire i tessuti urbani frammentati. 
  
La frattura tra il centro e le periferie è aumentata, sono nati nuovi quartieri senza alcuna relazione con il resto della città. Tutto ciò senza intaccare la questione dell’emergenza abitativa, che non ha accennato a diminuire: le nuove case hanno contribuito all’aumento generale degli affitti e all’espulsione dei residenti dalla città consolidata. Semplicemente le case più economiche si sono spostate più in periferia in quelli che sono a tutti gli effetti quartieri dormitorio. 


Nonostante negli intenti del piano fosse scritto che “l’attuazione delle centralità metropolitane e urbane è subordinata alla preventiva o contestuale realizzazione delle infrastrutture ferroviarie previste”, si è permesso ai costruttori di aprire i cantieri prima ancora che esse fossero progettate. Ancora oggi i collegamenti sono stati realizzati solo in minima parte lasciando molte centralità poco o per nulla servite dal trasporto su rotaia. Quello che era già un problema di Roma, cioè l’essere a misura di auto privata, è stato aggravato dal piano. E il traffico è aumentato. 
  
A Ponte di Nona, fuori dal raccordo, nella campagna a est di Roma, il paesaggio non è molto diverso da quello di Porta di Roma. Tante automobili, tanti parcheggi e pochi negozi. Enormi aree verdi in cui la manutenzione è deficitaria. Anche Ponte di Nona è una centralità (ma nata dall’unione di diversi progetti urbanistici) ridotta oggi a quartiere dormitorio. La stazione del treno (che collega ogni mezz’ora con la stazione Tiburtina) ha aperto solo nel 2016, a più di dieci anni dalla consegna delle case, tutto questo a più di venti chilometri di distanza dal centro e per un numero di abitanti che a regime dovrebbe superare le 50.000 unità. 

Tutte le funzioni terziarie, a eccezione del centro commerciale, non sono nate e il quartiere appare come un’enorme distesa di case intervallate da vuoti urbani. La viabilità è illogica e a causa dell’orografia della zona, piena di fossi, i collegamenti tra le diverse parti del quartiere sono complicati. La via principale è intitolata a Francesco Caltagirone, padre del proprietario dei terreni. 

Nessuna delle altre centralità già costruite è servita dal sistema ferroviario metropolitano. Non lo è EUR-castellaccio, non lo è Tor vergata, né il Tecnopolo Tiburtino. La centralità La Storta, ancora in fase di realizzazione, sarà servita dal treno regionale per Viterbo (uno ogni mezz’ora), ma sarà talmente ampia che solo una parte di essa si troverà realmente vicina alla stazione, mentre l’altra rimarrà a più di mezz’ora a piedi. 

E non ci sono solo le centralità. Negli ultimi vent’anni sono sorti decine di altri insediamenti più piccoli, ma con le stesse caratteristiche – alcuni nomi: Poggio Belvedere, Infernetto, Selva Candida, Ponte Galeria, Vallerano, Fonte Laurentina. E anche un quartiere destinato a fasce di reddito più elevate, come Mezzocammino, alla periferia sud della città, ha seguito uno sviluppo simile: uno splendido parco e molti edifici di ottima fattura, ma tutto è dominato dalle automobili, unico modo per entrare e uscire dal quartiere, e, se si esclude la zona verde, la piazza compresa nel centro commerciale rimane l’unico luogo in cui i cittadini possono trovarsi. 

Lo sviluppo di Roma è stato guidato in maniera pressoché esclusiva da una logica finalizzata alla speculazione sul territorio 
e alla messa a valore di ogni centimetro possibile. 

Meriterebbe poi un discorso a parte Parco Leonardo (vicino all’aeroporto Leonardo Da Vinci, ma il nome lo deve al costruttore Leonardo Caltagirone), che fa parte del Comune di Fiumicino e non dipende dal piano del 2008. Pur caratterizzato da un progetto architettonico alternativo, da un’estensione superficiale minore, da una quasi totale pedonalizzazione (molti parcheggi sono sotterranei) e dalla scelta di un’area già servita dal trasporto pubblico ferroviario (la linea Roma – Fiumicino), anche questo quartiere risponde allo stesso paradigma, perché la presenza di quella sola linea ferroviaria non è in grado di far fronte all’isolamento dato dalla distanza dal centro di Roma e il pendolarismo è ancora sotto forma automobilistica. Anche qui le attività commerciali tradizionali non aprono, o chiudono dopo poco, schiacciate dal dominio del centro commerciale; anche qui le funzioni terziarie non attecchiscono e molti degli edifici destinati a ospitare uffici sono già in totale abbandono. 


II problema di questi nuovi quartieri, sia chiaro, non riguarda solo la qualità della vita di chi ci abita. Alcune delle persone che hanno acquistato qui degli appartamenti si dicono comunque soddisfatte per il prezzo (per molti l’unico sostenibile a Roma), per le dimensioni degli appartamenti e per la quantità di spazi verdi. Di certo la qualità della vita ha a che fare con aspetti soggettivi e la lontananza dal centro congestionato e inquinato può essere un valore. Non possiamo però dimenticare che non tutti i tipi di città sono sostenibili: la città diffusa, poco densa, è ormai riconosciuta ovunque come impossibile da gestire, anche a fronte di uno sviluppato sistema di infrastrutture. 

La realtà è che lo sviluppo di Roma è stato guidato in maniera pressoché esclusiva da una logica finalizzata alla speculazione sul territorio e alla messa a valore di ogni centimetro possibile. Tutto ciò mentre venivano e vengono sgomberati gli spazi sociali alternativi a questa logica e le occupazioni abitative collettive di immobili lasciati abbandonati per anni in attesa di congiunture economiche più favorevoli alla speculazione. La cultura privatistica ha prevalso nei processi di sviluppo di Roma e questo ha avuto un ruolo centrale nel declino attuale. 

Migliaia di persone non possono più permettersi un affitto e sono state espulse nella periferia al di fuori del GRA o nei comuni della corona metropolitana. La cosiddetta riqualificazione di quartieri definiti come “degradati” è stata attuata spesso attraverso la costruzione di spazi privati, come i centri commerciali, che hanno diminuito la quantità e la fruibilità di quelli pubblici. E non possiamo dire che l’aggregazione sociale che si crea in una piazza sia la stessa anche nello spazio recintato di una galleria commerciale, in cui non si possono fare foto, non si gioca a pallone e in cui gli spazi a sedere per chi non consuma sono inesistenti. Sempre in nome della lotta al degrado si sono poi moltiplicati fenomeni di gentrificazione che hanno avuto il solo effetto di rendere più appetibili a determinate fasce di popolazione alcuni quartieri, espellendone altre economicamente più deboli e favorendo la nascita di ghetti urbani sempre più lontani dal centro. 

Si sono insomma edificate decine di quartieri distanti dalla città già costruita solo perché i proprietari di quei terreni avevano un alto grado di influenza politica. Oggi si sottolinea l’innegabile cattiva gestione di ATAC e AMA (l’azienda dei rifiuti) ma in pochi parlano di insostenibilità per un servizio che è obbligato a servire zone a distanze siderali dal centro. Quartieri dove la maggior parte della popolazione è costretta all’uso del mezzo privato perché gli uffici e gli altri luoghi di lavoro si trovano in zone non servite in maniera diretta.  
A parità di fondi, portare servizi sempre più lontano dal centro ha costi maggiori. Le linee di autobus vengono sovraccaricate, hanno più probabilità di incontrare traffico, e soprattutto devono affrontare molti più chilometri per trasportare poche decine di persone in quartieri isolati: questo non può non avere un effetto sul servizio complessivo. Lo stesso vale per la raccolta dei rifiuti, mentre lo svuotamento residenziale del centro fa il resto: i turisti di un bed and breakfast consumano più di un residente, e il risultato è che AMA deve raccogliere più rifiuti nel centro e ancora di più in periferia. 

Questa dinamica, che è stata messa a sistema durante le giunte Rutelli e Veltroni, è poi continuata anche durante i cinque anni di governo Alemanno, che arrivò a parlare esplicitamente di moneta urbanistica: in cambio di cubature aumentate o dell’edificabilità di un’area di loro possesso, i privati si impegnavano a finanziare un’opera di urbanizzazione. Il territorio è stato reso definitivamente neutro e messo a valore, come fosse uguale costruire in un luogo o in un altro. La fine dell’interesse pubblico. 

Negli ultimi dieci anni i residenti fuori dal GRA sono cresciuti del 26%, allo stesso tempo sono diminuiti quelli all’interno. Mezzocammino e Ponte di Nona hanno visto dal 2006 un aumento di abitanti superiore al 120%. Roma sta affrontando un cambiamento complessivo nei modi di vita dei suoi cittadini e nell’organizzazione della vita quotidiana. I problemi sociali che ne derivano sono molto più gravi del mero “degrado”. 

Da una parte il centro storico si svuota di residenti e si riempie di strutture ricettive per il turismo, grandi catene, sedi di rappresentanza, dall’altra si aggrava la condizione degli spazi periferici, disperdendoli, allontanandoli dai servizi basilari, ghettizzandoli o inserendo in contesti già precari ulteriori fonti di disagio sociale (i centri di accoglienza rifugiati, o i cosiddetti campi Rom). 

Così, nel vuoto di risposte, prendono corpo la rabbia e l’indignazione dei residenti, veicolate dai blog anti-degrado. Si attivano i comitati di quartiere e le associazioni tra cittadini, portatori di una rinnovata attenzione verso pratiche di rispetto degli spazi comuni ma anche di tanti sottovalutati effetti collaterali nella gestione delle marginalità e del rapporto tra Stato e cittadino. La maggioranza di chi partecipa ai comitati di quartiere lo fa ovviamente con le migliori intenzioni ma questo tipo di azioni purtroppo non mette mai in discussione il modello privato e finalizzato alla rendita che è alla base del disagio urbano crescente. Il disagio viene solo depoliticizzato e si rischia così di non agire sulle cause reali, e anche le migliori azioni di volontariato rischiano di aumentare il problema: sostituendosi al servizio pubblico si concorre ad abbassare l’asticella delle responsabilità della classe dirigente che quei servizi gestisce. AMA è a tutti gli effetti mal gestita e sottodimensionata dal punto di vista dei dipendenti operativi (non nella parte dirigenziale), e andrebbe spinta a una migliore gestione attraverso vertenze pubbliche, proteste, manifestazioni, e non invece sopperendo alle sue mancanze, portando i cittadini a pulire le strade e rendendo così ancora più deboli i suoi lavoratori.
Il problema è un modello urbano che non considera più la città nel suo ruolo sociale e pubblico ma solo ed esclusivamente per il suo valore economico e finanziario. 

Molte delle campagne contro il degrado finiscono per legittimare forme opache di sorveglianza e conseguenti ondate discriminatorie. Si crea in questo modo magari una minima identità di comunità ma il prezzo è quello di stabilire una differenza tra chi tutela il valore economico di un territorio da chi non ha accesso alle sue risorse. Perché ci stupiamo dell’intolleranza? 

Assistiamo alla moltiplicazione di ondate di protesta nelle periferie dove l’estrema destra soffia sul disagio sociale della popolazione indirizzando il malcontento non verso l’autorità o la classe dirigente ma contro chiunque venga individuato come estraneo e per questo responsabile del degrado o dell’impoverimento della classe media. A Casal Bruciato, a Casalotti e Torre Maura a distanza di pochi mesi sono state respinte, attraverso manifestazioni e minacce di barricate, alcune famiglie Rom che avevano il diritto di accedere all’abitazione a loro assegnata. A Tor Sapienza e poi a Rocca di Papa sorte simile è toccata invece ai migranti appena destinati alle strutture di accoglienza. 


Chi non rientra nella visione “decorosa” della città, rom, migranti, poveri (multati se rovistano nei cassonetti), writers, movimenti di lotta per la casa e centri sociali, viene respinto o criminalizzato. Il Messagero e il Tempo, i principali quotidiani romani (la cui proprietà è storicamente in mano a costruttori: Caltagirone e Angelucci, che ha acquistato nel 2016 da Bonifaci, altro imprenditore nel settore dell’edilizia) parlano nei loro titoli di “racket della casa”, di richieste di pizzo, mettendo costantemente in relazione la criminalità che lucra sulle case (attraverso vere e proprie compravendite di alloggi popolari) con i movimenti di lotta che, ponendo questioni sociali e politiche, occupano collettivamente gli stabili lasciati vuoti da decenni: una relazione in realtà inesistente. Il blog romafaschifo.it, alfiere della campagna mediatica sul degrado, finito addirittura sulle pagine del New York Times, definisce i movimenti  “nazisti”, “pro mafia-capitale”, “criminali”, “un danno per la città” e responsabili “del declino di Roma”. Ma sono stati i movimenti a costruire i quartieri in aperta campagna? 

Martellati da questo dibattito fuori fuoco assistiamo a un progressivo ritiro dello Stato da quelle che sono invece le sue prerogative: il diritto alla casa, all’abitare, alla mobilità, i problemi sociali, la pulizia, la sicurezza, vengono progressivamente depoliticizzati, privatizzati e legati in un nodo che sembra poter essere sciolto solo dall’ordine pubblico. Il risultato è una città che, a prescindere dal colore politico di chi la governa, sfrutta la povertà e reprime le conseguenze di questo sfruttamento, che sgombera persone dai loro ritrovi di fortuna (come avviene costantemente ai rifugiati aiutati dall’associazione Baobab), che rende l’indigenza un reato e gli ultimi qualcosa da nascondere, che ha come unico orizzonte la rimozione alla vista delle conseguenze peggiori dello sviluppo capitalista, mantenendone però inalterato il paradigma. Finché le cose resteranno così, il problema non sarà mai questa o quella amministrazione. Il problema rimarrà un modello urbano che non considera più la città nel suo ruolo sociale e pubblico ma solo ed esclusivamente per il suo valore economico e finanziario. 








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