Tutte le immagini sono tratte dal progetto in evoluzione No cannon ball did fly di Luca Dammicco.
Porta di Roma è una “centralità metropolitana”, uno dei moderni quartieri costruiti nella periferia della capitale negli ultimi anni. Inaugurato nel 2007, alla confluenza tra l’Autostrada A1 e il Grande Raccordo Anulare, oggi non è ancora servito dalla metropolitana. Gli abitanti utilizzano quasi tutti la macchina perché l’ampia estensione del quartiere rende difficile la pedonalità. Negozi e attività faticano a svilupparsi, divorati dalla presenza della Galleria Porta di Roma, uno dei più grandi centri commerciali d’Europa: 220 esercizi, 150.000 metri quadri, 7.000 posti auto. Nei palazzi del quartiere, molti degli appartamenti sono ancora vuoti, come la maggioranza degli uffici. La speranza è che la comunità di residenti contribuirà a rendere vivibile e ospitale il quartiere, ma oggi Porta di Roma appare come una lunga sequenza di parcheggi e di case sfitte. Gli spazi verdi non sono curati, non ci sono piazze o luoghi di socialità che non siano i corridoi della galleria commerciale.
Porta
di Roma, purtroppo, è tutt’altro che un caso isolato. Negli ultimi
vent’anni, ma il discorso potrebbe estendersi a tutta la storia di
Roma capitale, sono state costruite decine di quartieri simili,
all’estrema periferia della città. Si tratta di scelte di politica
urbana che hanno riguardato direttamente centinaia di migliaia di
cittadini, e influenzato indirettamente il funzionamento della città.
Oggi
la discussione pubblica su Roma, però, queste scelte politiche
relativamente recenti sembra ignorarle del tutto, rimanendo fondata
invece su concetti vacui e solo apparentemente apolitici come quelli
di “decoro” e “degrado”. Il racconto della città, sui
giornali, sui blog o tra cittadini è appiattito sulla condivisione
meccanica degli effetti più iconici della crisi. I disservizi
dell’ATAC (la società del trasporto pubblico romano), le foto dei
rifiuti, i video di animali a passeggio nella periferia (come se non
fossero la normalità in una città che ha invaso la campagna) sono
diventati protagonisti del discorso sullo stato di salute della
città. Una retorica che ha contribuito a portare al governo la
giunta Cinque Stelle e che ora è stata fatta propria anche dalle
altre forze politiche, oltre che dalla quasi totalità dei
commentatori.
Nella
zona Porta di Roma il piano regolatore del 1965 prevedeva, vista
la sua posizione strategica, la costruzione di un autoporto: un
grande spazio per scaricare, smistare e ridistribuire il carico di
merci provenienti dai camion del nord Italia. Negli anni Novanta però
alcuni operatori privati acquisirono i terreni e chiesero al comune
il cambio di destinazione d’uso a residenziale e commerciale. La
proposta venne accolta in cambio della realizzazione, a spese
dei costruttori, di alcune opere di urbanizzazione per il quartiere,
e negli anni successivi il progetto venne integrato nel nuovo piano
regolatore generale trasformando la zona, appunto, in una “centralità
metropolitana”.
Negli ultimi vent’anni le scelte di politica urbana sulle periferie hanno riguardato centinaia di migliaia di cittadini, e influenzato indirettamente il funzionamento di tutta la città.
Venne
realizzato il centro commerciale, seguito a stretto giro dagli
edifici con appartamenti, da un hotel (poi riconvertito a uso
residenziale) e solo alla fine vennero varati i vari servizi
pubblici, come le scuole (inaugurate nel 2011), il parco (non ancora
consegnato), e le altre opere di urbanizzazione (le strade di
raccordo, gli allacci alla rete idrica, l’illuminazione, ancora
oggi non terminate). In cambio, l’amministrazione ha abdicato al
proprio ruolo pianificatore, ha agevolato l’operazione privata, e
per di più ha costruito a proprie spese lo svincolo autostradale,
fondamentale per l’apertura del centro commerciale.
La
retorica anti degrado però se la prende con i parcheggi in doppia
fila, con le buche, con i rifiuti, un po’ accusando di inciviltà i
romani un po’ il sindaco di turno. Ma è il modo giusto di
affrontare il problema? Le domande da porsi sarebbero forse di altro
tipo.
La
Roma di cui tutti si lamentano oggi è, almeno in parte, figlia delle
politiche degli ultimi vent’anni e del Piano Regolatore Generale
approvato nel 2008. Un piano necessario, visto che il piano
precedente risaliva al 1965, era fondato su previsioni di crescita
demografica sbagliate (e di tanto) ed era stato disatteso nel suo
obiettivo principale: il decentramento delle funzioni, pubbliche e
private, in periferia.
Il
Piano del 2008 doveva poi rappresentare il coronamento del cosiddetto
Modello Roma: l’insieme delle pratiche di amministrazione delle
giunte di centro sinistra succedutesi al governo della città – due
giunte Rutelli e due Veltroni. Un progetto politico con l’ambizione
di coniugare crescita economica e giustizia sociale attraverso la
costante concertazione tra politica e attori economici della città,
e caratterizzato da un forte investimento sul marketing urbano.
Il
bilancio delle giunte Rutelli (1993 – 2001) è positivo sotto molti
aspetti e il suo successo principale riguarda senza dubbio
l’ambito culturale. Viene potenziato il sistema dei musei comunali,
si aprono nuovi spazi espositivi e viene rilanciato il sistema delle
biblioteche. Grande attenzione viene riservata anche alla
mobilità: sotto la spinta del vicesindaco Tocci viene dato grande
impulso alla cosiddetta “cura del ferro”, con l’istituzione di
nuove linee di tram e tre nuove ferrovie di scala metropolitana.
L’idea è quella, meritoria, di ripensare la mobilità fondandola
sul trasporto su rotaia, vista la saturazione del sistema degli
autobus e le complessità sotterranee nel costruire nuove metro.
In
parallelo, però, viene gestita in maniera controversa la
pianificazione urbanistica che la città attendeva da anni. L’ambito
viene declinato secondo i principi del pianificar facendo,
un approccio finalizzato alla semplificazione grazie all’aumento
della sinergia tra pubblico e privato. Si assiste a una decisa
politica di salvaguardia di alcune aree di pregio ambientale che il
precedente piano regolatore aveva destinato all’edificazione
attraverso l’uso di due nuovi e controversi strumenti legislativi:
la compensazione urbanistica e l’accordo di programma. La
compensazione urbanistica stabilisce l’esistenza di un diritto
edificatorio perenne in mano al proprietario terriero e permette un
trasferimento dei metri cubi edificabili da aree soggette a
(sopraggiunti) vincoli ambientali ad altre libere. L’accordo di
programma permette di operare fuori dalla pianificazione ordinaria,
cioè dal piano regolatore, attraverso accordi con il costruttore
proponente di una variante urbanistica.
Quali
che fossero le intenzioni iniziali, la combinazione di questi due
strumenti finisce per ridurre l’importanza del controllo pubblico
sulla pianificazione e con esso il mantenimento dell’interesse
collettivo. In nome dei “diritti edificatori” il comune rinuncia
così al controllo delle singole operazioni di espansione e i
costruttori si ritrovano a capo delle decisioni sulla ricollocazione
delle cubature in altre aree di loro preferenza.
Per
evitare di ricorrere all’esproprio, ai possessori dei terreni
interessati da questa “variante di salvaguardia” viene permesso
di costruire in aree più periferiche e con cubature aumentate, per
compensare i valori delle aree centrali ora soggette al vincolo
ambientale. Per tutelare i diritti economici di chi possiede
terreni edificabili in aree soggette a vincolo si finisce così
ancora una volta ad agire sui terreni liberi della campagna,
cementificandola, nonostante già allora Roma non crescesse più a
livello demografico e si stesse attestando poco sotto i 3 milioni di
abitanti (le previsioni del piano del 1965 sfioravano invece i 5
milioni). Un’operazione ingiustificata anche dal punto di vista
residenziale, visto che le nuove case non sono a prezzi popolari, se
non in minima parte.
Dopo
otto anni di amministrazione Rutelli, Veltroni porta a compimento il
Modello Roma moltiplicando la sinergia tra l’amministrazione e gli
attori economici della capitale. La popolarità dell’Urbe è ai
massimi, gli investimenti in continuo aumento, i migliori architetti
del mondo, come Zaha Adid, Renzo Piano e Richard Meier, danno lustro
alla città. Si potenzia ancora l’offerta culturale ma quasi
solo nel centro, mentre in periferia prende corpo un differente
fenomeno urbano: in aperto contrasto con la “cura del ferro”, che
mirava a ridurre la dipendenza dalle automobili, nascono decine di
centri commerciali raggiungibili solo su gomma. Tra il 2001 e il
2008, sia per decisioni precedenti che per nuovi accordi di
programma, i cosiddetti “poli di consumo” passano da 2 a 28.
Il pianificar
facendo trova il suo sbocco naturale nel piano regolatore
del 2008, che insieme agli innovativi principi teorici rappresenta la
ratifica dei progetti urbanistici iniziati negli anni precedenti.
Seguendo lo stesso indirizzo applicato in precedenza, il Comune di
Roma rinuncia alle vertenze nei confronti di chi detiene diritti
edificatori e attraverso le compensazioni urbanistiche si fa carico
di un’ulteriore politica espansiva in materia edilizia prevedendo
altri metri cubi di costruzioni. Durante l’amministrazione Veltroni
il Pil di Roma cresce molto più della media nazionale ed è trainato
dal settore edilizio. Ma a che prezzo? Circa 70 milioni di metri cubi
di nuove costruzioni e 15.000 ettari di Agro da urbanizzare. Dopo
anni di mancata pianificazione in cui il mercato edilizio ha deciso
da solo l’espansione della città, si è realizzato un piano che
non inverte la tendenza ma la accentua.
In poco tempo le periferie delle “centralità metropolitane” sono diventate quartieri residenziali intorno a grandi centri commerciali e non delle realtà capaci di ricucire i tessuti urbani frammentati
Stando
ai principi di base, il piano regolatore generale si era posto come
principale obiettivo la riqualificazione delle periferie attraverso
un modello policentrico. Si prefigurava cioè una città costituita
da piccole realtà decentrate in grado di dar vita a una rete di
servizi di alto livello e da infrastrutture capaci di generare e
moltiplicare i flussi. In questo modello il punto chiave nello
sviluppo futuro di Roma era rappresentato dal sistema delle
“centralità”, in particolare quelle cosiddette
“metropolitane”.
“Le
centralità metropolitane e urbane sono finalizzate alla nuova
organizzazione multipolare del territorio metropolitano, attraverso
una forte caratterizzazione funzionale e morfo-tipologica”, si
legge nelle linee guida del piano. “Poli universitari, centri
direzionali pubblici, spazi fieristici, centri con funzioni
turistiche, ricettive e ricreative. Nelle Centralità urbane e
metropolitane – tutte lontane dal centro, tutte servite dal
trasporto pubblico su ferro, tutte qualificate da funzioni pregiate –
vive l’organizzazione policentrica della città. Un sistema che
pone le basi per lo sviluppo autonomo dei futuri municipi
metropolitani e per la valorizzazione delle risorse locali
esistenti”.
Porta
di Roma, Ponte di Nona, Eur Castellaccio, La Storta, il Tecnopolo
Tiburtino e le altre centralità (in tutto 18, di cui alcune ancora
da progettare), dovevano rappresentare i poli di raccordo tra tutti
gli altri interventi realizzati nelle periferie con gli accordi di
programma (piani di zona, piani di recupero, lottizzazioni). Da
subito però molti osservatori sottolinearono come non fosse chiara
la logica alla base della loro localizzazione e, soprattutto, come il
numero fosse eccessivo per una efficiente strategia di decentramento.
Il criterio utilizzato nella scelta delle aree e nel loro numero non
sembrava insomma rispecchiare un intento di razionale ridistribuzione
delle funzioni bensì la volontà di accontentare più municipi e più
proprietari di terreni possibile.
Come
è andata a finire? Prima, durante e dopo l’approvazione del piano
si sono moltiplicati gli accordi di programma che ne hanno modificato
le già poco solide basi. Tra il 2003 e il 2013 le aree delle
centralità metropolitane sono state interessate da continue
modifiche nelle quantità e nel tipo di cubature, sempre in accordo
con i costruttori. Il consumo di suolo è ulteriormente aumentato e
le funzioni previste sono state ridotte a vantaggio di ulteriori
abitazioni che ai costruttori garantivano maggiori profitti. In
poco tempo le centralità sono diventate dei quartieri residenziali
intorno a grandi centri commerciali e non, come era invece esplicito
negli intenti del piano, delle realtà capaci di ricucire i tessuti
urbani frammentati.
La
frattura tra il centro e le periferie è aumentata, sono nati nuovi
quartieri senza alcuna relazione con il resto della città. Tutto ciò
senza intaccare la questione dell’emergenza abitativa, che non ha
accennato a diminuire: le nuove case hanno contribuito all’aumento
generale degli affitti e all’espulsione dei residenti dalla città
consolidata. Semplicemente le case più economiche si sono spostate
più in periferia in quelli che sono a tutti gli effetti quartieri
dormitorio.
Nonostante
negli intenti del piano fosse scritto che “l’attuazione delle
centralità metropolitane e urbane è subordinata alla preventiva o
contestuale realizzazione delle infrastrutture ferroviarie previste”,
si è permesso ai costruttori di aprire i cantieri prima ancora che
esse fossero progettate. Ancora oggi i collegamenti sono stati
realizzati solo in minima parte lasciando molte centralità poco o
per nulla servite dal trasporto su rotaia. Quello che era già un
problema di Roma, cioè l’essere a misura di auto privata, è stato
aggravato dal piano. E il traffico è aumentato.
A
Ponte di Nona, fuori dal raccordo, nella campagna a est di Roma, il
paesaggio non è molto diverso da quello di Porta di Roma. Tante
automobili, tanti parcheggi e pochi negozi. Enormi aree verdi in cui
la manutenzione è deficitaria. Anche Ponte di Nona è una centralità
(ma nata dall’unione di diversi progetti urbanistici) ridotta oggi
a quartiere dormitorio. La stazione del treno (che collega ogni
mezz’ora con la stazione Tiburtina) ha aperto solo nel 2016, a più
di dieci anni dalla consegna delle case, tutto questo a più di venti
chilometri di distanza dal centro e per un numero di abitanti che a
regime dovrebbe superare le 50.000 unità.
Tutte
le funzioni terziarie, a eccezione del centro commerciale, non sono
nate e il quartiere appare come un’enorme distesa di case
intervallate da vuoti urbani. La viabilità è illogica e a causa
dell’orografia della zona, piena di fossi, i collegamenti tra le
diverse parti del quartiere sono complicati. La via principale è
intitolata a Francesco Caltagirone, padre del proprietario dei
terreni.
Nessuna
delle altre centralità già costruite è servita dal sistema
ferroviario metropolitano. Non lo è EUR-castellaccio, non lo è Tor
vergata, né il Tecnopolo Tiburtino. La centralità La Storta, ancora
in fase di realizzazione, sarà servita dal treno regionale per
Viterbo (uno ogni mezz’ora), ma sarà talmente ampia che solo una
parte di essa si troverà realmente vicina alla stazione, mentre
l’altra rimarrà a più di mezz’ora a piedi.
E non
ci sono solo le centralità. Negli ultimi vent’anni sono sorti
decine di altri insediamenti più piccoli, ma con le stesse
caratteristiche – alcuni nomi: Poggio Belvedere, Infernetto,
Selva Candida, Ponte Galeria, Vallerano, Fonte Laurentina. E anche un
quartiere destinato a fasce di reddito più elevate, come
Mezzocammino, alla periferia sud della città, ha seguito uno
sviluppo simile: uno splendido parco e molti edifici di ottima
fattura, ma tutto è dominato dalle automobili, unico modo per
entrare e uscire dal quartiere, e, se si esclude la zona verde, la
piazza compresa nel centro commerciale rimane l’unico luogo in cui
i cittadini possono trovarsi.
e alla messa a valore di ogni centimetro possibile.
Meriterebbe
poi un discorso a parte Parco Leonardo (vicino all’aeroporto
Leonardo Da Vinci, ma il nome lo deve al costruttore Leonardo
Caltagirone), che fa parte del Comune di Fiumicino e non dipende dal
piano del 2008. Pur caratterizzato da un progetto architettonico
alternativo, da un’estensione superficiale minore, da una quasi
totale pedonalizzazione (molti parcheggi sono sotterranei) e dalla
scelta di un’area già servita dal trasporto pubblico ferroviario
(la linea Roma – Fiumicino), anche questo quartiere risponde allo
stesso paradigma, perché la presenza di quella sola linea
ferroviaria non è in grado di far fronte all’isolamento dato dalla
distanza dal centro di Roma e il pendolarismo è ancora sotto forma
automobilistica. Anche qui le attività commerciali tradizionali non
aprono, o chiudono dopo poco, schiacciate dal dominio del centro
commerciale; anche qui le funzioni terziarie non attecchiscono e
molti degli edifici destinati a ospitare uffici sono già in totale
abbandono.
II
problema di questi nuovi quartieri, sia chiaro, non riguarda solo la
qualità della vita di chi ci abita. Alcune delle persone che hanno
acquistato qui degli appartamenti si dicono comunque soddisfatte per
il prezzo (per molti l’unico sostenibile a Roma), per le dimensioni
degli appartamenti e per la quantità di spazi verdi. Di certo la
qualità della vita ha a che fare con aspetti soggettivi e la
lontananza dal centro congestionato e inquinato può essere un
valore. Non possiamo però dimenticare che non tutti i tipi di città
sono sostenibili: la città diffusa, poco densa, è ormai
riconosciuta ovunque come impossibile da gestire, anche a fronte di
uno sviluppato sistema di infrastrutture.
La
realtà è che lo sviluppo di Roma è stato guidato in maniera
pressoché esclusiva da una logica finalizzata alla speculazione sul
territorio e alla messa a valore di ogni centimetro possibile. Tutto
ciò mentre venivano e vengono sgomberati gli spazi sociali
alternativi a questa logica e le occupazioni abitative collettive di
immobili lasciati abbandonati per anni in attesa di congiunture
economiche più favorevoli alla speculazione. La cultura privatistica
ha prevalso nei processi di sviluppo di Roma e questo ha avuto un
ruolo centrale nel declino attuale.
Migliaia
di persone non possono più permettersi un affitto e sono state
espulse nella periferia al di fuori del GRA o nei comuni della corona
metropolitana. La cosiddetta riqualificazione di quartieri definiti
come “degradati” è stata attuata spesso attraverso la
costruzione di spazi privati, come i centri commerciali, che hanno
diminuito la quantità e la fruibilità di quelli pubblici. E non
possiamo dire che l’aggregazione sociale che si crea in una piazza
sia la stessa anche nello spazio recintato di una galleria
commerciale, in cui non si possono fare foto, non si gioca a pallone
e in cui gli spazi a sedere per chi non consuma sono inesistenti.
Sempre in nome della lotta al degrado si sono poi moltiplicati
fenomeni di gentrificazione che hanno avuto il solo effetto di
rendere più appetibili a determinate fasce di popolazione alcuni
quartieri, espellendone altre economicamente più deboli e favorendo
la nascita di ghetti urbani sempre più lontani dal centro.
Si
sono insomma edificate decine di quartieri distanti dalla città già
costruita solo perché i proprietari di quei terreni avevano un alto
grado di influenza politica. Oggi si sottolinea l’innegabile
cattiva gestione di ATAC e AMA (l’azienda dei rifiuti) ma in pochi
parlano di insostenibilità per un servizio che è obbligato a
servire zone a distanze siderali dal centro. Quartieri dove la
maggior parte della popolazione è costretta all’uso del mezzo
privato perché gli uffici e gli altri luoghi di lavoro si trovano in
zone non servite in maniera diretta.
A
parità di fondi, portare servizi sempre più lontano dal centro ha
costi maggiori. Le linee di autobus vengono sovraccaricate, hanno più
probabilità di incontrare traffico, e soprattutto devono affrontare
molti più chilometri per trasportare poche decine di persone in
quartieri isolati: questo non può non avere un effetto sul servizio
complessivo. Lo stesso vale per la raccolta dei rifiuti, mentre lo
svuotamento residenziale del centro fa il resto: i turisti di un bed
and breakfast consumano più di un residente, e il risultato è che
AMA deve raccogliere più rifiuti nel centro e ancora di più in
periferia.
Questa
dinamica, che è stata messa a sistema durante le giunte Rutelli e
Veltroni, è poi continuata anche durante i cinque anni di governo
Alemanno, che arrivò a parlare esplicitamente di moneta urbanistica:
in cambio di cubature aumentate o dell’edificabilità di un’area
di loro possesso, i privati si impegnavano a finanziare un’opera di
urbanizzazione. Il territorio è stato reso definitivamente neutro e
messo a valore, come fosse uguale costruire in un luogo o in un
altro. La fine dell’interesse pubblico.
Negli
ultimi dieci anni i residenti fuori dal GRA sono cresciuti del 26%,
allo stesso tempo sono diminuiti quelli all’interno. Mezzocammino e
Ponte di Nona hanno visto dal 2006 un aumento di abitanti superiore
al 120%. Roma sta affrontando un cambiamento complessivo nei modi di
vita dei suoi cittadini e nell’organizzazione della vita
quotidiana. I problemi sociali che ne derivano sono molto più gravi
del mero “degrado”.
Da
una parte il centro storico si svuota di residenti e si riempie di
strutture ricettive per il turismo, grandi catene, sedi di
rappresentanza, dall’altra si aggrava la condizione degli spazi
periferici, disperdendoli, allontanandoli dai servizi basilari,
ghettizzandoli o inserendo in contesti già precari ulteriori fonti
di disagio sociale (i centri di accoglienza rifugiati, o i cosiddetti
campi Rom).
Così,
nel vuoto di risposte, prendono corpo la rabbia e l’indignazione
dei residenti, veicolate dai blog anti-degrado. Si attivano i
comitati di quartiere e le associazioni tra cittadini, portatori di
una rinnovata attenzione verso pratiche di rispetto degli spazi
comuni ma anche di tanti sottovalutati effetti collaterali nella
gestione delle marginalità e del rapporto tra Stato e cittadino. La
maggioranza di chi partecipa ai comitati di quartiere lo fa
ovviamente con le migliori intenzioni ma questo tipo di azioni
purtroppo non mette mai in discussione il modello privato e
finalizzato alla rendita che è alla base del disagio urbano
crescente. Il disagio viene solo depoliticizzato e si rischia così
di non agire sulle cause reali, e anche le migliori azioni di
volontariato rischiano di aumentare il problema: sostituendosi al
servizio pubblico si concorre ad abbassare l’asticella delle
responsabilità della classe dirigente che quei servizi
gestisce. AMA è a tutti gli effetti mal gestita e
sottodimensionata dal punto di vista dei dipendenti operativi (non
nella parte dirigenziale), e andrebbe spinta a una migliore gestione
attraverso vertenze pubbliche, proteste, manifestazioni, e non invece
sopperendo alle sue mancanze, portando i cittadini a pulire le strade
e rendendo così ancora più deboli i suoi lavoratori.
Il problema è un modello urbano che non considera più la città nel suo ruolo sociale e pubblico ma solo ed esclusivamente per il suo valore economico e finanziario.
Molte
delle campagne contro il degrado finiscono per legittimare forme
opache di sorveglianza e conseguenti ondate discriminatorie. Si crea
in questo modo magari una minima identità di comunità ma il prezzo
è quello di stabilire una differenza tra chi tutela il valore
economico di un territorio da chi non ha accesso alle sue risorse.
Perché ci stupiamo dell’intolleranza?
Assistiamo
alla moltiplicazione di ondate di protesta nelle periferie dove
l’estrema destra soffia sul disagio sociale della popolazione
indirizzando il malcontento non verso l’autorità o la classe
dirigente ma contro chiunque venga individuato come estraneo e per
questo responsabile del degrado o dell’impoverimento della classe
media. A Casal Bruciato, a Casalotti e Torre Maura a distanza di
pochi mesi sono state respinte, attraverso manifestazioni e minacce
di barricate, alcune famiglie Rom che avevano il diritto di accedere
all’abitazione a loro assegnata. A Tor Sapienza e poi a Rocca di
Papa sorte simile è toccata invece ai migranti appena destinati alle
strutture di accoglienza.
Chi
non rientra nella visione “decorosa” della città, rom, migranti,
poveri (multati se rovistano nei cassonetti), writers,
movimenti di lotta per la casa e centri sociali, viene respinto o
criminalizzato. Il
Messagero e il
Tempo,
i principali quotidiani romani (la cui proprietà è storicamente in
mano a costruttori: Caltagirone e Angelucci, che ha acquistato nel
2016 da Bonifaci, altro imprenditore nel settore dell’edilizia)
parlano nei loro titoli di “racket
della casa”,
di richieste
di pizzo,
mettendo costantemente in relazione la
criminalità che lucra sulle case (attraverso vere e proprie
compravendite di alloggi popolari) con i movimenti di lotta che,
ponendo questioni sociali e politiche, occupano collettivamente gli
stabili lasciati vuoti da decenni: una relazione in realtà
inesistente. Il blog romafaschifo.it,
alfiere della campagna mediatica sul degrado, finito addirittura
sulle pagine del New
York Times, definisce
i movimenti “nazisti”, “pro mafia-capitale”,
“criminali”, “un danno per la città” e responsabili “del
declino di Roma”. Ma sono stati i movimenti a costruire i quartieri
in aperta campagna?
Martellati
da questo dibattito fuori fuoco assistiamo a un progressivo
ritiro dello Stato da quelle che sono invece le sue prerogative: il
diritto alla casa, all’abitare, alla mobilità, i
problemi sociali, la pulizia, la sicurezza, vengono progressivamente
depoliticizzati, privatizzati e legati in un nodo che sembra
poter essere sciolto solo dall’ordine pubblico. Il risultato è una
città che, a prescindere dal colore politico di chi la governa,
sfrutta la povertà e reprime le conseguenze di questo sfruttamento,
che sgombera persone dai loro ritrovi di fortuna (come avviene
costantemente ai rifugiati aiutati dall’associazione Baobab), che
rende l’indigenza un reato e gli ultimi qualcosa da nascondere, che
ha come unico orizzonte la rimozione alla vista delle conseguenze
peggiori dello sviluppo capitalista, mantenendone però inalterato il
paradigma. Finché le cose resteranno così, il problema non
sarà mai questa o quella amministrazione. Il problema rimarrà un
modello urbano che non considera più la città nel suo ruolo sociale
e pubblico ma solo ed esclusivamente per il suo valore economico e
finanziario.
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