mercoledì 28 giugno 2017

Un “ponte sull’abisso”. Lenin dopo l’Ottobre*- Alexander Höbel**

*Da:   https://www.lacittafutura.it 
**Università di Napoli "Federico II"
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/edward-hallett-carr-storia-e.html

In occasione del Centenario della Rivoluzione d’Ottobre, si sta opportunamente riaprendo la discussione sul significato e il valore storico di quella straordinaria svolta che ha segnato di sé l’intero XX secolo e che si riflette, per alcuni aspetti, a partire dal mutamento dei rapporti di forza tra aree del mondo, sulla nostra stessa contemporaneità. In questo quadro è essenziale approfondire il significato ma anche i problemi di quella esperienza. Se l’obiettivo della Rivoluzione socialista era quello di sottomettere i meccanismi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata delle masse, in vista del benessere collettivo, Lenin fu sempre consapevole della difficoltà di tale sfida, in particolare in un paese arretrato come la Russia del 1917. La consapevolezza di tale difficoltà andò crescendo nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere, senza però trasformarsi mai in una diversa valutazione sulla svolta dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo la giustezza della scelta fatta, l’opportunità di aver colto il momento, di aver sfruttato al meglio le possibilità offerte da una eccezionale contingenza storica. 

All’indomani dell’Ottobre, Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di “sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel campo dell’organizzazione. Bisogna distruggere ad ogni costo – dice – il pregiudizio assurdo [...] secondo il quale soltanto le cosiddette ‘classi superiori’ [...] possono dirigere lo Stato [...]. No, gli operai non dimenticheranno nemmeno per un istante di aver bisogno della forza del sapere. [...] Ma il lavoro di organizzazione è anche alla portata di un comune operaio o contadino che sa leggere e scrivere, conosce gli uomini ed è provvisto di un’esperienza pratica”. E “ciò che precisamente fa la forza [...] della rivoluzione d’Ottobre [...] è che essa suscita queste qualità, abbatte tutte le vecchie barriere [...] fa entrare i lavoratori nella via dove creano essi stessi la nuova vita”, in modo diversificato e vario. “Dopo secoli di lavoro per altri [...] per la prima volta appare la possibilità di lavorare per sé [...] approfittando di tutte le conquiste della tecnica e della cultura moderne”[1]. 

lunedì 26 giugno 2017

Discorso sul colonialismo*- Aimé Césaire**

** Aimé Césaire è stato un poeta, scrittore e politico francese, originario della Martinica. wikipedia
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina- 


Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza.

Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi più impellenti è una civiltà ferita.

Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda.

Fatto sta che la civiltà così detta «europea», la civiltà occidentale, così come si è costituita in due secoli di regime borghese è incapace di risolvere i due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del proletariato e il problema coloniale; che deferita alla sbarra della «ragione» come a quella della «coscienza», quella stessa Europa è incapace di giustificarsi; che, quanto più, si rifugia in una ipocrisia sempre più odiosa, tanto più diminuiscono le sue possibilità di ingannare.

L'Europa è indifendibile.

Questa sembra essere la constatazione che scambiano a bassa voce gli strateghi americani.
La cosa in sé non sarebbe grave.

Grave è il fatto che «l'Europa» è moralmente e spiritualmente indifendibile.

domenica 25 giugno 2017

Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe (III° Lezione)* - Alessandra Ciattini

*Da:   https://www.unigramsci.it/

Nella terza lezione si cercheranno di ricostruire i diversi processi culturali attraverso i quali gli amerindiani interpretano il cattolicesimo e i suoi simboli introdotti in America dagli spagnoli; al contempo, si analizzerà anche l'altra prospettiva, ossia il modo in cui questi ultimi decifrano la religiosità indigena, mostrando di fatto una totale incapacità di comprensione. Tali modalità interpretative sono oggetto ancora oggi di un intenso dibattito e sono ancora operanti nei contesti rituali, che costituiscono i momenti più intesi di espressione della religiosità popolare.



Dall'analisi di tali processi storici scaturisce l'ipotesi che essi siano all'origine del cosiddetto sincretismo religioso; fenomeno che si esprime in vari gradi e che riguarda sia le religioni autoctone che quelle di origine africana, importate con gli schiavi, e che nel corso del tempo ha visto l'incorporarsi di altre tendenze religiose, come lo spiritismo. Il sincretismo non è un fenomeno appartenente al passato; esso è vivo e vegeto, e caratterizzato da uno straordinario dinamismo che gli permette di arricchirsi anche grazie all'incremento degli scambi sociali e culturali. In tale contesto saranno analizzati nel dettaglio due processi di triplice sincretizzazione di due madonne cubane.

Prima lezione:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina 
Seconda lezione:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina


sabato 24 giugno 2017

PENSARE LA RIVOLUZIONE RUSSA* - Luciano Canfora**

*Da:  Passepartout Asti   
**Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. 
Leggi anche:   https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/3/megliomenomameglio.htm


venerdì 23 giugno 2017

LENIN: L'ESTREMISMO - Stefano Garroni

Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/lenin-opere-complete.html



Stefano Garroni: A me pare che, escluse tre o quattro opere di Lenin, la grandissima maggioranza di quello che lui ha scritto, riproduce lo schema compositivo di quest’opera qua. Voglio dire: l’opera del dirigente politico, che parla di questioni politiche, a militanti politici. Quindi una scrittura molto compatta, che può essere compresa da un qualunque militante che abbia curiosità e che abbia un’esperienza politica. In questo senso la grande maggioranza delle opere di Lenin, non fanno nascere nel lettore la richiesta di un intervento della teoria per risolvere punti, per chiarire aspetti. Il lettore ha sicuramente la possibilità di capire il discorso a prescindere dall’intervento del teorico. 

Siccome son passati diversi anni da quando lui ha scritto, quello che può essere utile è l’intervento di uno storico, che ricostruisca nei dettagli le situazioni, che ci consenta di metter carne a certe formule linguistiche che corrisponda un nome: Bordiga chi è? C’è lo storico che ce lo spiega ecc. Ma alla lettura del testo, nella grande maggioranza delle opere di Lenin, non segue il bisogno di un intervento del teorico che chiarisca, che aggiunga informazioni, riflessioni, per risolvere dei punti dubbi del testo di Lenin. Questo con l’eccezione di alcuni scritti come Materialismo ed empiriocriticismo, il Che fare?, la Critica agli amici del popolo, i Quaderni filosofici ecc.

Ora, questa descrizione della pagina di Lenin, in realtà è abbastanza equivoca, nel senso che un’opera così compatta, scritta da un politico, su temi politici, che il militante politico comprende, sembra delineare una struttura chiusa. Quasi che nasca e muoia dentro l’orizzonte politico. 

In realtà è vero questo: se noi superiamo il punto di vista di chi, fate conto, si chiede: “Cosa pensava Lenin dei sindacati?”, e allora, ecco, questa opera ti dice che cosa Lenin pensava. “Cosa pensava dello Stato?”, quest’altra ti dice cosa pensava dello Stato ecc. Quindi, se evitiamo la mentalità evidentemente dogmatica delle opere scelte in due volumi – ovviamente non abbiamo bisogno di leggere tutti e 40 e rotti volumi dell’opera di Lenin -, però abbiamo bisogno senza meno di leggere varie opere, di vari periodi, in cui Lenin si confronta con vari problemi (ognuna di queste opere potremo capirla perfettamente, discuterla, farla operare dentro di noi), però se le leggiamo in una rappresentanza ampia, a quel punto viene fuori la necessità della chiarificazione teorica. Perché?

giovedì 22 giugno 2017

Prima di andare oltre, leggiamolo*- Marco Palazzotto


È una “grande costruzione letteraria”, piena di citazioni e battute di spirito? È “sociologia dell’Ottocento”? È teoria astratta? È un libro di storia? Il Capitale di Carlo Marx è un po’ tutte queste cose insieme e, soprattutto, 150 anni dopo la pubblicazione del Primo Libro, rimane il testo da cui partire per comprendere il presente e immaginare il futuro del capitalismo. Un contributo di Marco Palazzotto.

Quest’anno ricorrono i 150 anni della pubblicazione (1867) del Primo Libro del testo che avrebbe poi cambiato la storia del Novecento, ovvero la principale opera di Karl Marx: Das Kapital.
Dopo un secolo e mezzo dalla prima edizione tedesca, ci si chiede se un’opera che ha influenzato la politica mondiale del secolo scorso sia oggi ancora utile ad offrire strumenti di analisi a chi si pone come obiettivo la trasformazione della società in senso più egualitario.
Il Capitale, per il livello di astrazione utilizzato da Marx, non poteva fornire dei consigli politici pratici, mentre è parere consolidato che la teoria del testo più importante del filosofo di Treviri non abbia eguali, ancora oggi, quanto a capacità di comprensione e analisi del modo di produzione capitalistico. Molte delle teorie allora presentate possono essere ancora applicate all’interpretazione di svariati fenomeni sociali.
Parlo ad esempio della crisi quale elemento strutturale del capitalismo, o della scienza e l’automazione come cause di diminuzione del lavoro necessario, tendenza che crea una disoccupazione endemica, ma che allo stesso tempo deve creare le condizioni per l’accumulazione.
Questa tendenza del lavoro necessario (attività utile al lavoratore per riprodurre i suoi mezzi di sussistenza) verso l’azzeramento deve essere contrastata da controtendenze, per evitare il calo dei consumi legati al calo dei salari reali. Pertanto, si verificheranno delle crisi cicliche dovute alla presenza di queste tendenze opposte. E tutt’oggi le teorizzazioni marxiane della crisi dimostrano grande validità. 
Anche la teoria del valore affrontata nei primi capitoli del Capitale è fondamentale per capire la teoria della merce, ovvero la teoria dello sfruttamento e delle relazioni delle classi antagoniste nella produzione moderna. Teoria ancora più pregnante se consideriamo quanto il marginalismo – e le sue formulazioni aggiornate – sia incapace a spiegare i comportamenti degli operatori economici contemporanei. 

martedì 20 giugno 2017

LA FORMA DI MERCE DELLA FORZA-LAVORO*- Gianfranco Pala**

*Bandiera rossa, 49, Milano 1995   http://www.contraddizione.it/scritti.htm   **gianfrancopala economista in pensione...  
                                                 


La capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente.
(Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi)


la comprensione della sola “ricchezza” del proletariato

1. “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta di merci" e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce”.

2. “All’inizio la merce ci si è presentata come qualcosa di duplice, valore d’uso e valore di scambio. In un secondo tempo s’è visto che anche il lavoro, in quanto espresso nel valore, non possiede più le stesse caratteristiche che gli sono proprie come generatore di valori d’uso. Tale duplice natura del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da me per la prima volta. E poiché questo punto è il perno intorno al quale ruota la com­prensione dell’economia politica, occorre esaminarlo più da vicino”.

3. “Il cambiamento di valore del denaro che si deve trasformare in capitale non può avvenire in questo stesso denaro, poiché esso, come mezzo di acquisto e come mezzo di pagamento, non fa che realizzare il prezzo della merce che compera o paga ... Il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata ..., ma non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce vien pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal con­sumo d’una merce, il possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire, all’interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d’uso stesso possedesse la peculiare qualità d’esser fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valo­re. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro”.

4. “Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esi­stono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che pro­duce valori d’uso di qualsiasi genere... La forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero pro­prietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di de­naro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali... Il proprietario di forza-lavoro, quale persona, deve riferirsi costantemente alla propria forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria merce”.

5. “Una cosa è evidente, però. La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’al­tra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il ri­sultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici ... Esso nasce soltanto do­ve il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale”.

6. “Ormai dobbiamo considerare più da vicino quella merce peculiare che è la forza-lavoro. Essa ha un va­lore, come tutte le altre merci... determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione e, quindi anche alla ri­produzione, di questo articolo specifico ... ossia: il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza ne­cessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro ... la somma dei mezzi di sussistenza necessari alla produzione della forza-lavoro include i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa razza di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato... È un sentimentalismo troppo a buon mercato il trovare brutale queste determinazioni del valore della forza-lavoro, la quale deriva dalla natura stessa del­la cosa”.

7. “La natura peculiare di questa merce specifica, la forza-lavoro, ha per conseguenza che, quando è con­cluso il contratto fra compratore e venditore, il suo valore d’uso non è ancor passato realmente nelle mani del com­pratore, ... ma il suo valore d’uso consiste soltanto nella successiva estrinsecazione della sua forza... Il valore d’uso che il possessore del denaro riceve, per parte sua, nello scambio, si mostra soltanto nel consumo reale, nel processo di consumo della forza-lavoro. Il processo di consumo della forza-lavoro è allo stesso tempo processo di produzione di merce e di plusvalore. Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori del mercato ossia della sfera della circolazione. Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire l’uno e l’altro nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto: Vietato l’ingresso agli estranei - No admittance except on business. Qui si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale. Final­mente ci si dovrà svelare l’arcano della fattura del plusvalore”.

8. “Tutti i termini del problema sono risolti e le leggi dello scambio delle merci non sono state affatto vio­late. Si è scambiato equivalente con equivalente ... La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equiva­lenti ... deve avvenire entro la sfera della circolazione e non deve avvenire entro la sfera della circolazione... Tutto questo svolgimento, la trasformazione in capitale del denaro ... avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Avviene attraverso la mediazione della circolazione, perché ha la sua condizione nella compera della forza-lavoro sul mercato delle merci; non avviene nella circolazione, perché questa non fa altro che dare inizio al processo di va­lorizzazione, il quale avviene nella sfera della produzione. E così tout est pour le mieux, dans le meilleur des mon­des possibles”.

Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta!”.

lunedì 19 giugno 2017

Natura, lavoro e ascesa del capitalismo*- Martin Empson**

*Da:  Monthly Review     traduzionimarxiste.wordpress 
**Martin Empson è autore del volume Land and labour (Bookmarks, 2014). 


Il capitalismo intrattiene un rapporto peculiare, per usare un eufemismo, col mondo naturale. (1) Karl Marx lo ha riassunto al meglio nei Grundrisse, dove ha scritto che con l’ascesa del modo di produzione capitalistico, “la natura diviene puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione”. (2) Nella stessa sezione, egli nota come “il capitale crea dunque la società borghese e l’appropriazione universale tanto della natura quanto della connessione sociale stessa da parte dei membri della società”.

Questo rapporto strumentale col mondo naturale contrasta bruscamente con le modalità attraverso le quali la natura è stata considerata, ed usata, dalle precedenti società umane. Un’interazione inedita con la natura emersa dalle violente trasformazioni sociali che hanno accompagnato lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale, estendendosi con la diffusione di tale sistema al resto dl mondo. Marx ha catalogato le molteplici forme di saccheggio e distruzione perpetuate dal primo capitalismo, nel suo rifare il mondo a propria immagine: “La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria“. (3) Il capitale, conclude egli in un celebre passo, fa il suo ingresso nel mondo “grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro”, nel momento in cui la natura stessa viene subordinata alle esigenze del sistema. (4)

domenica 18 giugno 2017

Al di là del terrore. Per una nuova antropologia*- Roberto Finelli**

*Da:  http://dialetticaefilosofia.it/
**Filosofo italiano   http://host.uniroma3.it/docenti/finelli/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/per-unetica-del-riconoscimento-paolo.html

1. Una smaterializzazione della vita 

 Com’è noto, uno dei testi più arcaici e fondativi della nostra modernità – nel senso di ciò che concerne l’αρχή, il principio – descrive la nostra società come una «immane raccolta di merci».

 Ebbene io credo che oggi la merce più rara, e di conseguenza più preziosa, sia divenuta, non una merce materiale, come il petrolio o come l’oro depositato nei caveaux delle banche centrali, bensì una merce immateriale e psichica, qual è la capacità di approfondimento interiore e di autoriflessione. E’ la capacità cioè di sentirsi - e di ritrovare nel proprio sentire emozionale il senso-guida della propria vita e il luogo ultimo, non confutabile da altri, della verità - che è venuta, a mio avviso, fondamentalmente meno, lasciando generalizzarsi e farsi coscienza comune un’attitudine alla superficie, al frammento, al percuotimento e alla seduzione dell’esteriore, che impedisce e vieta il darsi di eco e sonorità interiori, fino alla profondità corporea del nostro sentire.

 Come a dire che nell’ultimo trentennio della nostra epoca s’è vissuto, in particolare nei paesi del ricco Occidente, un enorme processo di smaterializzazione e di decorporeizzazione emozionale del nostro vivere, che altri hanno voluto chiamare anche, con termini ritengo meno adeguati, di «umanità liquida». Giacché il farsi liquidi e senza centro non coglie bene quanto e come l’esperienza dello svuotamento emozionale, ch’è divenuta configurazione psichica di massa, si sia accompagnata e dissimulata, nello stesso tempo, con l’investimento isterico e compensatorio della superficie, con la sopravalutazione eterodiretta delle paillettes e dei lustrini che spesso incorniciano il frammento, con la seduzione di una silhouette visiva, che nel contorno di una bellezza senza contenuto, cattura e mortifica lo sguardo di chi la subisce.

mercoledì 14 giugno 2017

Il rispetto delle differenze culturali: relativismo o antirelativismo?*- Alessandra Ciattini

*Da:   https://www.lacittafutura.it/
Qual è il modo più opportuno per affrontare la questione delle differenze culturali?

La questione che intendo affrontare in questo breve scritto è piuttosto intricata e coinvolge il senso comune (si pensi al problema dei migranti), la filosofia e le scienze sociali, in particolare l’antropologia. In ambito filosofico essa risale al momento in cui alcuni hanno sostenuto che non esistono criteri superiori, validi universalmente, che ci consentano di valutare gli specifici criteri culturali adottati dalle diverse culture. Si potrebbe rimandare a questo proposito a Protagora (V sec. a. C.) e al suo famoso frammento, la cui interpretazione è alquanto controversa, “L’uomo è la misura di tutte le cose” e a Michel de Montaigne (1533-1592), per il quale il nostro modo di ragionare non nasce dalla natura, ma dal costume
Naturalmente questa visione relativistica ha preoccupato la Chiesa cattolica, che nelle figure di papa Wojtila e papa Ratzinger, l’ha condannata in più occasioni, anche perché ha messo in discussione il monopolio della verità assoluta, che essa si attribuisce. 

Benché – come si è visto – il relativismo abbia radici antiche e di tutto rispetto, almeno in ambito antropologico si fa risalire alla crisi dell’evoluzionismo e progressismo ottocentesco, che prefiguravano un avanzamento continuo della società umana e che distinguevano tra i diversi livelli culturali raggiunti dalle differenti forme di vita sociale, le quali erano confrontate a loro svantaggio con la civiltà occidentale”

martedì 13 giugno 2017

Medio Oriente* - Alberto Negri, Marco Santopadre

*Presentazione: "Il Musulmano errante" di Alberto Negri (edizioni Rosenberg e Sellier).
noirestiamo insieme all'autore e a Marco Santopadre (contropiano.org), 27/03/2017. Campus Einaudi.
Vedi anche:   https://www.internazionale.it/notizie/2016/01/05/sunniti-sciiti-differenze

lunedì 12 giugno 2017

Studenti*- Giorgio Agamben**

*Da:   https://www.quodlibet.it/    http://francosenia.blogspot.it/   https://www.sinistrainrete.info/
**Giorgio_Agamben è un filosofo italiano.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-barbarie-dello-specialismo-jose.html


Sono passati cento anni da quando Benjamin, in un saggio memorabile, denunciava la miseria spirituale della vita degli studenti berlinesi e esattamente mezzo secolo da quando un libello anonimo diffuso nell’università di Strasburgo enunciava il suo tema nel titolo Della miseria nell’ambiente studentesco, considerata nei suoi aspetti economici, politici, psicologici, sessuali e in particolare intellettuali. Da allora, non soltanto la diagnosi impietosa non ha perso la sua attualità, ma si può dire senza timore di esagerare che la miseria – insieme economica e spirituale – della condizione studentesca si è accresciuta in misura incontrollabile. E questa degradazione è, per un osservatore accorto, tanto più evidente, in quanto si cerca di nasconderla attraverso l’elaborazione di un vocabolario ad hoc, che sta fra il gergo dell’impresa e la nomenclatura del laboratorio scientifico.

Una spia di questa impostura terminologica è la sostituzione in ogni ambito della parola “ricerca” a quella, che appare evidentemente meno prestigiosa, di “studio”. E la sostituzione è così integrale che ci si può domandare se la parola, praticamente scomparsa dai documenti accademici, finirà per essere cancellata anche dalla formula, che suona ormai come un relitto storico, “Università degli studi”. Cercheremo invece di mostrare che non soltanto lo studio è un paradigma conoscitivo sotto ogni aspetto superiore alla ricerca, ma che, nell’ambito delle scienze umane, lo statuto epistemologico che gli compete è assai meno contraddittorio di quello della didattica e della ricerca.

Proprio per il termine “ricerca” diventano particolarmente evidenti gli inconvenienti che derivano dall’incauto trasferimento di un concetto dalla sfera della scienze della natura a quella delle scienze umane. Lo stesso termine rimanda, infatti, nei due ambiti a prospettive, strutture e metodologie del tutto diverse. La ricerca nelle scienze naturali implica innanzitutto l’uso di apparecchiature così complicate e costose che non è nemmeno pensabile che un singolo ricercatore possa realizzarle da sé; implica inoltre direzioni, direttive e programmi di indagine che risultano dalla congiuntura di necessità oggettive – ad esempio, la diffusione dei tumori, lo sviluppo in corso di una nuova tecnologia o le esigenze militari – e di interessi corrispondenti nelle industrie chimiche, informatiche o belliche. Nulla di comparabile avviene nelle scienze umane. Qui il “ricercatore” – che si potrebbe più propriamente definire “studioso” – ha bisogno soltanto di biblioteche e di archivi, l’accesso ai quali è generalmente facile e gratuito (quando una tassa di iscrizione è richiesta, essa è irrisoria). In questo senso le proteste ricorrenti sull’insufficienza dei fondi di ricerca (effettivamente scarsi) sono destituite di ogni fondamento. I fondi in questione vengono infatti usati non per la ricerca in senso proprio, ma per partecipare a convegni e colloqui che per la loro natura non hanno nulla da spartire con i loro equivalenti nelle scienze naturali: mentre in questi si tratta di comunicarsi le novità più urgenti non soltanto nella teoria, ma anche e innanzitutto nelle verifiche sperimentali, nulla di simile può avvenire in ambito umanistico, in cui l’interpretazione di un passo di Plotino o di Leopardi non è legata ad alcuna urgenza particolare. Da queste diversità strutturali consegue inoltre che mentre nelle scienze della natura le ricerche più avanzate sono generalmente condotte da gruppi di scienziati che lavorano insieme, nelle scienze umane i risultati più innovativi sono ottenuti di solito da studiosi solitari, che passano il loro tempo nelle biblioteche e non amano partecipare a convegni.

Se già questa sostanziale eterogeneità dei due ambiti consiglierebbe di riservare il termine ricerca alle scienze naturali, anche altri argomenti suggeriscono di restituire le scienze umane a quello studio che le ha caratterizzate per secoli. A differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio.

Si può obiettare a queste considerazioni che mentre la ricerca ha sempre di mira una utilità concreta, non si può dire lo stesso dello studio, che, in quanto rappresenta una condizione permanente e quasi una forma di vita, può difficilmente rivendicare un’utilità immediata. Occorre qui rovesciare il luogo comune secondo cui tutte le attività umane sono definite dalla loro utilità. In forza di questo principio, le cose più evidentemente superflue vengono oggi iscritte in un paradigma utilitaristico, ricodificando come bisogni attività umane che sono sempre state fatte soltanto per puro diletto. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio: un inganno, perché non esiste né può esistere una professione che corrisponda allo studio (e tale non è certamente la sempre più rarefatta e screditata didattica); uno scempio, perché priva gli studenti di ciò che costituiva il senso più proprio della loro condizione, lasciando che, ancor prima di essere catturati nel mercato del lavoro, vita e pensiero, uniti nello studio, si separino per essi irrevocabilmente.

domenica 11 giugno 2017

I SOFISTI* - Antonio Gargano

*Da:  http://www.iisf.it/  
Vedi anche:   http://www.raiscuola.rai.it/articoli/i-sofisti-lintellettuale-professionista/3498/default.aspx 


Viviamo in un’epoca sofistica. Da che cosa è caratterizzata la sofistica? Dal dominio dell’opinione, dalla convinzione che la verità non possa essere raggiunta. Viviamo in un’epoca dominata dall’opinione, dalla sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, dallo scetticismo, e il dominio dell’opinione si fa sentire oggi con mezzi più potenti che all’epoca sofistica greca, cioè con i mezzi di comunicazione di massa. I modelli di esistenza vengono imposti da creatori di opinioni, non certo ispirati da filosofi o da chi si sforza di indagare la verità. Vedremo come i sofisti teorizzano il relativismo e come alla luce della filosofia di Socrate e di Platone il relativismo e lo scetticismo nella conoscenza, che comportano l’individualismo e l’egoismo nella vita pratica, possono essere sconfitti perché sono logicamente infondati. Possiamo riassumere così i tratti della sofistica: sofistica vuol dire regno dell’opinione, sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, e di conseguenza individualismo. Cerchiamo di collocare i sofisti all’interno della storia della filosofia. Non mi voglio attardare sulla Atene di Pericle, sulla Atene della metà del quinto secolo, di cui trovate chiare notizie nei vostri manuali: quando intendo collocare i sofisti nella storia della filosofia, voglio dire che i sofisti costituiscono un momento necessario nella storia della filosofia, non possono non comparire a un certo punto, dopo i naturalisti, come non possono non essere superati poi da una posizione come quella di Socrate e di Platone. I Greci avevano ragione sul fatto che c’è una logica in tutte le cose, ma se c’è una logica in tutte le cose ci sarà una logica anche nella storia della filosofia: la storia della filosofia segue un filo di sviluppo ben saldo. 


sabato 10 giugno 2017

Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe (II° lezione)*- Alessandra Ciattini

*Da:   https://www.unigramsci.it/

Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.

Nella seconda lezione  si illustreranno le ragioni che hanno portato gli europei (gli iberici in particolare) ad espandersi fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e dell'evangelizzazione; fenomeni che saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una stessa medaglia, richiamandosi alla nozione di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel. 

Seconda lezione:   (a partire dal minuto 4 la ricezione audio si regolarizza...)


Prima lezione:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-e.html


venerdì 9 giugno 2017

IDEOLOGIA E DIALETTICA*- Stefano Garroni

*Da:   https://www.youtube.com/user/mirkobe79/playlists?flow=grid&view=1&sort=lad



[…] il proletariato, la lotta di classe: c’è questa tragedia incombente. E peggio, questa tragedia incombente può anche essere addirittura segno dell’ira di dio contro l’uomo peccatore: tutti siamo assassini, tutti abbiamo ucciso nella guerra – i nazisti, gli antinazisti -, siamo tutti sporchi di sangue, dunque è possibile addirittura che dio consenta la guerra atomica per punirci.

Althusser, che in questo periodo è cattolico, dice ai cattolici per esempio a Malraux e Marcel: “Ma con quale arroganza voi pretendete di interpretare dio? Noi uomini possiamo capire le cose del mondo e allora cominciamo a dire chi sono i responsabili e a chiamare le persone con il loro nome. E chi è questo ‘tutti’? Guarda un po’, tutte queste persone che favoriscono l’ideologia del proletariato del terrore, poi se andiamo a vedere politicamente ruotano intorno alla socialdemocrazia e sono anticomunisti”.

Allora comincia a delinearsi questa immagine ideologica di un pensiero che – prendendo spunto da effettivi drammi, da effettivi problemi – addirittura accentuando la drammaticità di questi problemi, arriva alla conclusione che è inutile la lotta di classe: è come se coloro che occupano il treno lanciato verso l’abisso, si mettono a litigare tra loro quando c’è questa tragedia, e sono socialdemocratici e anticomunisti.

A questo proletariato del terrore lui contrappone il proletariato quello proletario, e dice: “Questo è un proletariato che si definisce per la sua condizione sociale, politica, economica, che lotta per delle cose determinate, contro forze determinate, e lottando impara che può vincere, e quindi costruisce un’immagine della società, del mondo in cui sta, si pone obiettivi, opera, fa; invece questo proletariato del terrore disarma”.

giovedì 8 giugno 2017

Come funziona il Soviet*- John Reed

*Da:  http://www.marxpedia.org/   Questo scritto viene pubblicato a puntate sull'Ordine Nuovo dal 21 giugno al 12 luglio del 1919. 

Introduzione

In mezzo al coro di ingiurie e di menzogne contro la Russia dei Soviet ricorre, con una sorta di terrore, un alto grido: non vi è nessun governo in Russia, non vi è nessuna organizzazione tra gli operai russi! Non si lavora più! Non si lavora più!
È il metodo nella calunnia.
Come ogni socialista sa, come io stesso, che sono stato presente nella Rivoluzione russa, posso attestare, esiste oggi a Mosca e in tutte le città e in tutti i centri abitati del paese un organismo politico complesso, che è sostenuto dalla grande maggioranza della popolazione, e che funziona bene allo stesso modo di ogni altro governo popolare di recente formazione. Gli operai della Russia hanno, sotto l'impulso delle loro necessità e dei bisogni della vita, creato un'organiz­zazione economica che sta trasformandosi in una vera democrazia operaia.
Darò un disegno schematico della struttura dello Stato dei Soviet.

Storia dei Soviet

Lo Stato del Soviet è basato sui Soviet - e Consigli - di operai e contadini.
Questi Consigli - istituzioni cosi caratteristiche della Rivoluzione russa - sorsero nel 1905, quando, durante il primo sciopero generale degli operai, le fabbriche di Pietrogrado e le organizzazioni econo­miche mandarono delegati a un Comitato centrale. Questo comitato dello sciopero fu chiamato «Consiglio dei deputati operai». Esso organizzò il secondo sciopero generale della fine del 1905, inviò organizzatori per tutta la Russia, e per breve tempo fu ri­conosciuto dal governo imperiale come l'organo uf­ficiale e autorizzato della classe operaia rivoluzionaria russa.
Fallita la rivoluzione del 1905, i membri del Consiglio in parte fuggirono, in parte furono mandati in Siberia. Ma questo tipo di organizzazione unitaria era cosi straordinariamente efficace come organo politico che tutti i partiti rivoluzionari inclusero un Con­siglio di deputati degli operai nei loro piani per la prossima rivolta.
Nel marzo 1917, quando, davanti a tutta la Rus­sia agitata come un mare in tempesta, lo Zar abdicò, il granduca Michele rinunciò al trono, e la Duma riluttante fu forzata ad assumere le redini del potere, il Consiglio dei deputati degli operai sorse completamente formato. In pochi giorni fu esteso in modo da comprendere delegati dell’esercito, e chia­mato Consiglio dei deputati degli operai e dei sol­dati. Il Comitato della Duma era composto, fatta eccezione per Kerensky, da borghesi, e non aveva nes­suna relazione con le masse rivoluzionarie. Si doveva combattere, si doveva restaurare l'ordine, si doveva difendere il fronte... I membri della Duma non ave­vano modo di adempiere questi doveri: essi furono obbligati a ricorrere ai rappresentanti degli operai e dei soldati - in altre parole, al Consiglio. Il Con­siglio prese parte all'opera rivoluzionaria, al lavoro di coordinare le attività, di mantenere l'ordine. lnoltre si assunse il compito di difendere la rivoluzione dai tradimenti della borghesia.
Dal momento che la Duma fu costretta a fare ap­pello al Consiglio, due organismi governativi comin­ciarono a esistere in Russia, ed essi combatterono per la supremazia fino al novembre 1917, quando i Soviet, sotto la direzione dei bolscevichi, abbatte­rono il governo della coalizione.
Come ho detto, vi erano Soviet sia di operai che di soldati; un po' di tempo dopo si formarono Soviet di contadini. Nella maggior parte delle città i Soviet degli operai e dei soldati si unirono; e uniti tennero il loro Congresso panrusso. I Soviet dei contadini in­vece vennero tenuti separati dagli elementi reazionari che lo dirigevano e non si riunirono agli operai e ai soldati che dopo la rivoluzione di ottobre e dopo la costituzione del governo dei Soviet.

Costituzione dei Soviet

domenica 4 giugno 2017

Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe*- Alessandra Ciattini**

*Da:   https://www.unigramsci.it/ 
**Professore associato alla Sapienza di Roma, Facoltà di lettere e Filosofia (Discipline demoetnoantropologiche). 
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/il-fattore-religioso-nellattuale.html 


Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.

La prima lezione sarà dedicata alla ricostruzione della storia dell'espressione America Latina; espressione che si è affermata e diventata comune solo in seguito alla politica espansionistica di Napoleone III, abortita nel giro di pochi anni. Allo stesso tempo ci si soffermerà sul concetto di “religiosità popolare”, partendo dal punto di vista gramsciamo secondo il quale i diversi settori sociali sviluppano forme di religiosità e concezioni del mondo loro peculiari. Saranno illustrati i caratteri della religiosità popolare, i suoi contenuti e le sue modalità di espressione, mostrando come tali contenuti e tali forme di esteriorizzazione esercitino un grande fascino nella società contemporanea, in cui consistenti settori sociali sono alla ricerca di concezioni del mondo alternative a quelle egemoni. 
Prima lezione:


Nella lezione seguente si illustreranno le ragioni che hanno portato gli europei (gli iberici in particolare) ad espandersi fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e dell'evangelizzazione; fenomeni che saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una stessa medaglia, richiamandosi alla nozione di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel. 

Nella terza lezione si cercheranno di ricostruire i diversi processi culturali attraverso i quali gli amerindiani interpretano il cattolicesimo e i suoi simboli introdotti in America dagli spagnoli; al contempo, si analizzerà anche l'altra prospettiva, ossia il modo in cui questi ultimi decifrano la religiosità indigena, mostrando di fatto una totale incapacità di comprensione. Tali modalità interpretative sono oggetto ancora oggi di un intenso dibattito e sono ancora operanti nei contesti rituali, che costituiscono i momenti più intesi di espressione della religiosità popolare.

Dall'analisi di tali processi storici scaturisce l'ipotesi che essi siano all'origine del cosiddetto sincretismo religioso; fenomeno che si esprime in vari gradi e che riguarda sia le religioni autoctone che quelle di origine africana, importate con gli schiavi, e che nel corso del tempo ha visto l'incorporarsi di altre tendenze religiose, come lo spiritismo. Il sincretismo non è un fenomeno appartenente al passato; esso è vivo e vegeto, e caratterizzato da uno straordinario dinamismo che gli permette di arricchirsi anche grazie all'incremento degli scambi sociali e culturali. In tale contesto saranno analizzati nel dettaglio due processi di triplice sincretizzazione di due madonne cubane.

Infine, la quarta lezione sarà dedicata alla relazione tra religione e politica, e ci soffermeremo su questi aspetti: il carattere interclassista della Chiesa cattolica, la presenza in essa del pluralismo religioso sia pure contrastato e controllato, l'emergenza di tendenze progressiste e impegnate politicamente (come la Teologia della liberazione e le comunità ecclesiastiche di base), il conflitto tra Chiesa cattolica e i governi progressisti (il caso di Cuba e la lotta contro la Teologia della liberazione), la politica dell'attuale papa verso l'America latina e le ragioni della sua “apertura” alle richieste delle masse popolari. Si farà cenno anche al fenomeno della diffusione del pentecostalismo, fomentata dalle “missioni di fede” statunitensi, e alla sua relazione con l’imposizione a partire degli anni ’70 del Novecento delle politiche neoliliberali. 

sabato 3 giugno 2017

Il mito dell’imperialismo russo: in difesa dell’analisi di Lenin*- Renfrey Clarke, Roger Annis**

https://traduzionimarxiste.wordpress.com/   Il testo seguente è una versione più lunga di un precedente saggio: Perpetrator or victim? Russia and contemporary imperialism, di Renfrey Clarke e Roger Annis, pubblicato sul sito Links International Journal of Socialist Renewal, nel febraio del 2016. 
**Renfrey Clarke, scrittore ed attivista australiano, nel corso degli anni Novanta ha svolto il ruolo di corrispondente da Mosca per Green Left Weekly. Roger Annis, lavoratore del settore aerospaziale oggi in pensione, attivista e blogger, ha compiuto numerosi viaggi di ricerca in Crimea e nel Donbass. Entrambi sono tra i curatori del sito New Cold War (newcoldwar).

In tempi recenti, un’aspra controversia si è sviluppata in seno alla sinistra internazionale riguardo al posto occupato dalla Russia nell’odierno sistema capitalistico mondiale. Nello specifico, si tratta di una potenza imperialista, parte integrante del “centro” del capitalismo globale? Oppure le sue caratteristiche economiche, sociali e politico-militari la rendono parte della “periferia”, o semi-periferia, globali – ovvero, parte della maggioranza dei paesi che, a diversi livelli, sono oggetto dell’aggressione e del saccheggio imperialisti? [1]
Tradizionalmente, la sinistra marxista ha utilizzato il termine “imperialismo” con un alto grado di discernimento. Dunque, per i marxisti, l’imperialismo non è un qualcosa che emerge misteriosamente quando i leader si lasciano sovrastare dall'”avidità”. Né può essere ridotto alla semplice azione militare esterna, per quanto aggressiva. Per i marxisti, viceversa, l’imperialismo attuale nasce da specifiche caratteristiche dell’ordine economico e sociale dei paesi capitalistici più avanzati.

La classica definizione marxista di imperialismo nell’epoca moderna è stata fornita da Lenin nel suo pamphlet del 1916,  L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Secondo il punto di vista del leader bolscevico, il capitalismo avanzato emerso nei decenni precedenti presentava le seguenti caratteristiche salienti:
“1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli come funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo «capitale finanziario», di un’oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.” [2] 

A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, affermava Lenin, le economie dei paesi più industrializzati si erano mosse in direzione di una nuova fase di “capitalismo monopolistico”. Il controllo sulla vita economica da parte delle maggiori concentrazioni di capitale era giunto al punto che, in ognuno di questi paesi, l’influenza detenuta da un gruppo strettamente interconnesso dei più potenti capitalisti, finanziari e industriali, era fuori questione.

giovedì 1 giugno 2017

Contro il liberoscambismo*- Marco Veronese Passarella**

*Da:    http://www.marcopassarella.it/it/socialismo-o-liberoscambismo/ (https://mpra.ub.uni-muenchen.de/60350/1/MPRA_paper_60350.pdf)       https://sinistrainrete.info/
** Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email: m.passarella@leeds.ac.uk. Web: www.marcopassarella.it  
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/crisi-si-ma-quale-teoria-della-crisi.html 

1. Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1. In effetti, la stagione di grande apertura dei mercati che precedette la prima guerra mondiale non avrebbe conosciuto eguali fino alla seconda ondata di globalizzazione capitalistica sperimentata dalle maggiori economie mondiali in seguito all’implosione del blocco socialista – a partire, cioè, dai primi anni novanta. Sennonché, a dispetto delle asserite proprietà salvifiche delle forze della concorrenza e delle leggi naturali del mercato, la crescente integrazione delle economie mondiali è sembrata dischiudere, ancora una volta, gravi rischi per le conquiste economiche e sociali strappate, nel corso del secondo dopoguerra, dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rappresentative nei paesi di prima industrializzazione. D’altra parte, l’ascesa economica recente dei giganti asiatici e sudamericani non appare in grado, almeno al momento, di legarsi stabilmente alla prospettiva di un avanzamento generalizzato nei rapporti sociali a favore dei salariati e delle classi lavoratrici in genere, di surrogare, cioè, il katéchon sovietico2. 
Sono già qui enunciate in nuce due tesi fondamentali, che costituiranno il leitmotiv di questo breve saggio. La prima tesi è che è che la contrapposizione welfare oppure barbarie sia storicamente legata a doppio filo al grado di mondializzazione del capitale, ossia ai processi di apertura dei mercati regionali e nazionali ai flussi internazionali di capitali e di merci. La seconda tesi – che è poi un corollario – è che non sia tanto, o soltanto, la soluzione di quella contrapposizione a favore del secondo termine (la barbarie connessa al possibile azzeramento di ogni forma di prestazione sociale) a far problema. È una posizione, questa, che pure sembrerebbe emergere dall’osservazione di quanto accaduto nelle economie avanzate nell’ultimo trentennio, dove il sistema statuale di previdenza sociale è stato progressivamente smantellato (ancorché in modo asimmetrico e parziale) a colpi di privatizzazioni prima, e di misure di austerità poi. Piuttosto, la sensazione è che si stia assistendo al progressivo tramutarsi della congiunzione «o» in una copulativa positiva, «e»: welfare e barbarie. Non azzeramento delle prestazioni di welfare, insomma, ma loro profonda ridefinizione in termini, ad un tempo, «universalistici» e «minimalisti», sulla base dei rapporti sociali emersi dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta e dai conseguenti processi di ristrutturazione produttiva degli anni ottanta e novanta. Il welfare come sussidio residuale atto a colmare la differenza tra redditi da lavoro salariato precario e soglia minima di sussistenza: questa sembra essere, per le classi lavoratrici italiane (ed europee), la fosca prospettiva che si para all’orizzonte. Si tratta di una prospettiva, per la verità, non nuova, dato che rimanda agli albori del processo di industrializzazione. Di fronte a questo scenario, si ritiene necessario, anzitutto, avanzare una critica radicale all’accettazione incondizionata, a tratti apologetica, delle dinamiche di mondializzazione capitalistica e dell’agenda neoliberista e liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica3.Tale atteggiamento ha curiosamente caratterizzato, in Italia, gli intellettuali e le organizzazioni eredi del movimento operaio novecentesco ancor più delle forze conservatrici. Si tratta, in secondo luogo, di prospettare una diversa forma di organizzazione economica e sociale che recuperi ed aggiorni lo strumento della pianificazione economica quale alternativa alle dinamiche caotiche del mercato e, al contempo, quale prefigurazione di una società altra