È
una “grande costruzione letteraria”, piena di citazioni e battute
di spirito? È “sociologia dell’Ottocento”? È teoria astratta?
È un libro di storia? Il
Capitale di
Carlo Marx è un po’ tutte queste cose insieme e, soprattutto, 150
anni dopo la pubblicazione del Primo Libro, rimane il testo
da cui partire per comprendere il presente e immaginare il futuro del
capitalismo. Un contributo di Marco Palazzotto.
Quest’anno
ricorrono i 150 anni della pubblicazione (1867) del Primo Libro del
testo che avrebbe poi cambiato la storia del Novecento, ovvero la
principale opera di Karl Marx: Das
Kapital.
Dopo
un secolo e mezzo dalla prima edizione tedesca, ci si chiede se
un’opera che ha influenzato la politica mondiale del secolo scorso
sia oggi ancora utile ad offrire strumenti di analisi a chi si pone
come obiettivo la trasformazione della società in senso più
egualitario.
Il
Capitale,
per il livello di astrazione utilizzato da Marx, non poteva fornire
dei consigli politici pratici, mentre è parere consolidato che la
teoria del testo più importante del filosofo di Treviri non abbia
eguali, ancora oggi, quanto a capacità di comprensione e analisi del
modo di produzione capitalistico. Molte delle teorie allora
presentate possono essere ancora applicate all’interpretazione di
svariati fenomeni sociali.
Parlo
ad esempio della crisi quale
elemento strutturale del capitalismo, o della scienza
e l’automazione come
cause di diminuzione del lavoro necessario, tendenza che crea una
disoccupazione endemica, ma che allo stesso tempo deve creare le
condizioni per l’accumulazione.
Questa
tendenza del lavoro necessario (attività utile al lavoratore per
riprodurre i suoi mezzi di sussistenza) verso l’azzeramento deve
essere contrastata da controtendenze, per evitare il calo dei consumi
legati al calo dei salari reali. Pertanto, si verificheranno delle
crisi cicliche dovute alla presenza di queste tendenze opposte. E
tutt’oggi le teorizzazioni marxiane della crisi dimostrano grande
validità.
Anche
la teoria
del valore affrontata
nei primi capitoli del Capitale è fondamentale per capire la teoria
della merce, ovvero la teoria dello sfruttamento e delle relazioni
delle classi antagoniste nella produzione moderna. Teoria ancora più
pregnante se consideriamo quanto il marginalismo – e le sue
formulazioni aggiornate – sia incapace a spiegare i comportamenti
degli operatori economici contemporanei.
Chiaro
anche che il Capitale non
possa essere considerata un’opera esauriente ai fini
dell’interpretazione del capitalismo attuale. Ma è anche vero che
se si vuole capire il mondo presente bisogna partire da lì.
Purtroppo,
nel ’900 italiano i filoni di ricerca che hanno tentato di
sviluppare e aggiornare di volta in volta le teorie del Capitale sono
via via scomparsi. Il Moro non è più un autore studiato in Italia
(e sempre meno all’estero). Nelle facoltà di economia e scienze
politiche viene relegato a qualche paginetta di storia del pensiero
economico. Mentre nell’economia politica si fa spesso riferimento
alle teorie “dominanti”, come i modelli neoclassici e
neokeynesiani. L’uso che se ne fa oggi tra i filosofi italiani è
invece riduttivo, e paradossalmente non tiene conto della critica
dell’economia politica.
Ma
la cosa che sorprende di più è che anche negli ambienti di sinistra
radicale ormai non si legge più Marx, men che meno la sua opera
principale. Probabilmente questa propensione un po’ è stata
influenzata da tutto il pensiero post-gramsciano e dal cosiddetto
“Italian
Thought”,
il secondo molto influente grazie alle intuizioni metafisiche di
alcuni autori legati all’operaismo italiano. Oggi le
attualizzazioni di quest’ultima teoria, spesso prive di contenuti
empirici, vengono spesso richiamate in quel po’ che rimane della
sinistra radicale.
L’interpretazione
italiana del pensiero di Gramsci e dell’“Italian
Thought”
hanno di fatto eliminato dal discorso teorico il Capitale,
ovvero l’unica opera
matura che Marx abbia voluto pubblicare (e, di conseguenza, rispetto
alla quale si sentisse sicuro) e l’unica che probabilmente possa
considerarsi caratterizzata da un rigore tale da costituire la
fondazione di una nuova scienza: la “critica dell’economia
politica”. Il metodo scientifico marxiano pone al centro la
struttura economica del suo tempo. Struttura nella quale si formano i
rapporti tra gli uomini. Lo stesso Marx ci indica la sua concezione
del metodo scientifico storico, come ad esempio nella prefazione
a Per
la critica dell'economia politica,
dove scrive che:
"il
modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il
processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la
coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al
contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza".
Questo
concetto, molte volte formulato, è ripreso in una nota del Libro I
del Capitale,
dove si afferma che la sola maniera scientifica di fare storia, ossia
di veramente comprendere i fenomeni storici, è quella di metterli in
rapporto preciso con la loro base
economica.
Ecco un altro brano di Marx:
Il
Darwin ha diretto l'interesse sulla storia della tecnologia naturale,
cioè sulla formazione degli organi vegetali e animali come strumenti
di produzione della vita delle piante e degli animali. Non merita
uguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi
dell'uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale
particolare? E non sarebbe più facile da fare, poiché, come dice il
Vico, la storia dell'umanità si distingue dalla storia naturale per
il fatto che noi abbiamo fatto l'una e non abbiamo fatto l'altra? La
tecnologia svela il comportamento attivo dell'uomo verso la natura,
l'immediato processo di produzione della sua vita, e con essi anche
l'immediato processo di produzione dei suoi rapporti sociali vitali e
delle idee dell'intelletto che ne scaturiscono. Neppure una storia
delle religioni, in qualsiasi modo eseguita, che faccia astrazione da
questa base materiale, è critica. Di fatto è molto più facile
trovare mediante l'analisi il nocciolo terreno delle nebulose
religiose, che, viceversa, 'dedurre' dai rapporti reali di vita, che
di volta in volta si presentano, le loro forme incielate.
Quest'ultimo è l'unico metodo materialistico e quindi scientifico.
(…) [1]
Quindi
l’insegnamento principale per capire le contraddizioni del sistema
capitalistico, e trasformare tali contraddizioni in lotta di classe
“efficace”, è lo studio delle teorie dominanti che regolano le
società capitalistiche, quelle che Marx nel Capitale chiama
teorie borghesi “scientifiche” e che differenzia dalle teorie
volgari, meramente apologetiche.
La
teoria giusta in merito al conflitto tra le classi si può ricercare
solo indagando le teorie di volta in volta egemoni, cercando di
trovarvi delle incongruenze, per utilizzarle infine a beneficio delle
classi subalterne.
Durante
il cosiddetto periodo “fordista”, l’operaio grazie alla sempre
più forte integrazione produttiva nella grande fabbrica ha potuto
infliggere duri colpi ai proprietari dei mezzi di produzione. I
picchettaggi e gli scioperi organizzati al fine di interrompere la
catena produttiva avevano l’effetto di arrestare il processo di
accumulazione. L’operaio era cosciente di questo potere.
Oggi,
in Italia sarebbe impossibile una strategia politica di tal fatta,
dati i cambiamenti avvenuti durante gli ultimi trenta anni nel
sistema produttivo. La crisi dei partiti e dei sindacati alternativi
ha accentuato questo fenomeno di crisi di rappresentanza politica
delle classi lavoratrici. Inoltre, una riorganizzazione delle forze
che ricompattasse i blocchi antagonisti non è stata possibile anche
per la risposta alla transnazionalizzazione delle catene produttive
che è stata attuata durante la fase del neoliberismo. Tali eventi
hanno creato una “centralizzazione senza concentrazione” e
pertanto è stato difficile alle forze lavoratici anche solo
ripensare una forma di organizzazione che mettesse in difficoltà il
capitale.
A
tutto ciò si aggiunge la crisi dei socialismi reali, che per decenni
– soprattutto nel periodo della guerra fredda – hanno facilitato
lo sviluppo di un welfare europeo che non ha eguali nella storia del
nostro continente.
Le
nuove teorizzazioni a sinistra non hanno contribuito al miglioramento
della situazione: un sistema dottrinario basato su un’interpretazione
del capitalismo moderno – il cosiddetto post-fordismo – della
quale non sussistono dimostrazioni concrete e risultati empirici, non
aiuta a trovare la strada giusta per una sinistra in continua crisi
di identità.
I
recenti fatti politici, come ad esempio la Brexit, o le elezioni di
Trump negli USA, hanno decretato la fine (ammesso che ci sia mai
stata così come declinato dai dissidenti no global e dalla scienza
economica convenzionale) del fenomeno della globalizzazione. Una
nuova politica protezionista si affaccia all’orizzonte (come
dimostrato durante l’ultimo G7 a Taormina). Il TTIP ormai si è
arenato, mentre sul TTP gli USA hanno chiesto una sospensione del
trattato. Il ruolo degli Stati-nazione è sempre importante nella
gestione politica della struttura produttiva e il mondo è sempre di
più diviso in blocchi, come nel ’900. Quella dell’imperialismo
come massima forma fenomenologica del capitalismo è una teoria
ancora molto attuale.
I
dati dimostrano che l’industria, anche in Italia, rimane il settore
trainante (con i servizi all’industria connessi) e raggiunge i
tassi di accumulazione più alti. La teoria del valore marxiana è lì
che ci guarda con nostalgia. La tendenza è quella verso tassi di
profitto e quindi di estrazione di plusvalore sempre elevati; abbiamo
semmai assistito ad un cambio di posizione del settore della finanza
nel circuito monetario della produzione capitalista. Da funzione
redistributiva ha assunto sempre di più il compito di incidere
indirettamente sull’intensità di lavoro e dunque sul processo di
creazione di valore e plusvalore, grazie all’indebitamento delle
famiglie [2].
I
settori produttivi sono sempre più delocalizzati, ma con un centro
di comando sempre più stretto: un decentramento produttivo tale da
creare disorientamento e disorganizzazione nel mondo del lavoro.
Quale
strategia politica di lotta, oggi, in una situazione di questo
genere? Se di organizzazione dobbiamo parlare, questa si potrebbe
attuare solo tramite un soggetto che abbia una visione di insieme
generale e che riesca a entrare nei luoghi del conflitto. Un soggetto
che riesca a ricompattare, organizzare, creare la
cultura politica, rappresentando le istanze di massa.
Gramsci
nei Quaderni rilevava
quanto segue:
1)
Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è
offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo
ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe,
è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche
“solamente” con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li
centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza
coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo
impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare
una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che
non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono
solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza
conseguenza. 2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel
campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di
forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo
elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si
intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di
forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da
solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo
formerebbe più che non il primo elemento considerato. Si parla di
capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un
esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito [già
esistente] è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre
l’esistenza di un gruppo di capitani, non tarda a formare un
esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il
primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo “fisico”
ma morale e intellettuale. [3]
Io
credo che questa definizione sia ancora attuale e che oggi ci sia
bisogno della “forza coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice”
di alcuni “capitani” che sappiano interpretare le esigenze e
catalizzare le forze delle masse di lavoratori, lavoratrici,
disoccupati e disoccupate attraverso la giusta lettura e analisi
delle contraddizioni attuali del sistema economico. Io credo che
queste forme di mediazione politica siano necessarie per evitare la
situazione di sparpagliamento e annullamento nel “pulviscolo
impotente” in cui si trovano le forze lavoratrici.
Oggi
però viviamo una situazione differente rispetto agli anni della
guerra fredda e del miracolo economico in cui la soggettività
politica era rappresentata dal ruolo dei partiti e dei sindacati. La
crisi di entrambi i soggetti, crisi dovuta a molti fattori, è legata
non solo al differente rapporto geopolitico, ma anche ad una
trasformazione dell’apparato industriale e finanziario che ha
costretto i pochi partiti e sindacati legati alla tradizione del
movimento operaio a non capire dove stesse andando il capitalismo.
Va
sicuramente rilevato che soprattutto in Italia e in Occidente non si
può pensare che le contraddizioni più importanti siano tutte dentro
la grande fabbrica come nell’assetto fordista, ma non bisogna
neanche credere alla favola che oggi la grande fabbrica non esista
più o non esista più l’operaio manifatturiero. Semmai ci troviamo
di fronte ad uno spezzettamento della catena produttiva, e quindi del
valore, con concentrazioni sempre più frequenti verso luoghi lontani
dal centro produttivo occidentale. Dove può incidere allora il
lavoratore, soprattutto in Italia e in Occidente, affinché possa
interrompersi il processo di accumulazione cercando di volgere a
proprio vantaggio il conflitto, se l’Italia vede una tendenza alla
deindustrializzazione come in altre parti dell’Occidente?
Delle
esperienze positive si hanno in Italia, ad esempio, nelle vertenze
sindacali nel settore della logistica. Settore ricco di rigidità e
contraddizioni come lo era il manifatturiero negli anni postbellici.
E di nuovo ritorna la teoria del Capitale, che
ci può offrire un’analisi utile a produrre strumenti per la lotta
contro lo sfruttamento del lavoro. Infatti, dal secondo libro
del Capitale sappiamo
che il processo di valorizzazione attraverso creazione di profitto
non dipende solo dallo sfruttamento del lavoro (libro primo), ma
dipende anche dalla circolazione del capitale, ovvero il numero di
volte in cui il ciclo D-M-D’ si compie. Più volte si compie il
ciclo (efficienza del lavoratore) più profitti si realizzeranno in
un determinato periodo. I settori che influiscono sulla circolazione
come logistica (più veloce il percorso della merce da produttore a
consumatore) e servizi finanziari (più velocemente il denaro
investito dal capitalismo ritorna sotto forma di pagamenti – D’).
Ecco perché la catena di montaggio (spezzettata in termini
geografici e contrattuali) non è più il luogo adatto alle lotte nel
capitalismo moderno (un’interessante analisi del suddetto fenomeno
la si può trovare nel libro Tempesta Perfetta, curato
dalla Campagna Noi Restiamo – Odradek 2016).
Per
concludere, ritorniamo alla domanda iniziale, ovvero quanto può
essere utile oggi un’opera di 150 anni fa. Se si vogliono attuare
delle buone pratiche quotidiane nel senso di trasformazione della
società si deve seguire il sentiero del Marx del Capitale,
ovvero per capire come funziona il modo di produzione presente; come
diceva un mio caro amico attivista nei quartieri degradati di Palermo
negli anni ’70, occorre studiare il nemico. E per batterlo occorre
studiare la sua teoria, per poi presentarne una nuova che sappia
creare una società differentemente funzionante. Insomma, una scienza
sociale degna di questo nome non può esimersi da una “critica
dell’economia politica” del presente.
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