Qual è il modo più opportuno per affrontare la questione delle differenze culturali?
La questione che intendo affrontare in questo breve scritto è piuttosto intricata e coinvolge il senso comune (si pensi al problema dei migranti), la filosofia e le scienze sociali, in particolare l’antropologia. In ambito filosofico essa risale al momento in cui alcuni hanno sostenuto che non esistono criteri superiori, validi universalmente, che ci consentano di valutare gli specifici criteri culturali adottati dalle diverse culture. Si potrebbe rimandare a questo proposito a Protagora (V sec. a. C.) e al suo famoso frammento, la cui interpretazione è alquanto controversa, “L’uomo è la misura di tutte le cose” e a Michel de Montaigne (1533-1592), per il quale il nostro modo di ragionare non nasce dalla natura, ma dal costume.
Naturalmente questa visione relativistica ha preoccupato la Chiesa cattolica, che nelle figure di papa Wojtila e papa Ratzinger, l’ha condannata in più occasioni, anche perché ha messo in discussione il monopolio della verità assoluta, che essa si attribuisce.
Benché – come si è visto – il relativismo abbia radici antiche e di tutto rispetto, almeno in ambito antropologico si fa risalire alla crisi dell’evoluzionismo e progressismo ottocentesco, che prefiguravano un avanzamento continuo della società umana e che distinguevano tra i diversi livelli culturali raggiunti dalle differenti forme di vita sociale, le quali erano confrontate a loro svantaggio con la “civiltà occidentale”.
In particolare, l’oppositore di tali tendenze fu Franz Boas (1858-1942), antropologo tedesco naturalizzato statunitense, che propose una visione delle culture costituenti ognuna un mondo a sé, dotato di una propria concezione del mondo. Questa impostazione si contrapponeva con vigore alle ipotesi fatte dagli studiosi precedenti sull’origine delle differenze culturali, considerate da questi ultimi prodotto della fase storica, in cui ogni cultura si trovava, sottolineando al contempo che era possibile stabilire una gerarchia dei vari livelli culturali raggiunti, al cui apice ponevano la “civiltà occidentale”. Dando vita al cosiddetto particolarismo, Boas rigetta tale concezione gerarchica e propone lo studio contestualizzato e specifico, abbandonando la pretesa di elaborare forme di generalizzazione, che abbraccino le diverse culture esistenti ed esistite. In questo modo, egli anticipa la critica alle varie forme di filosofia della storia (da lui ritenute tali) e alle cosiddette “metanarrazioni”[1].
Suo
continuatore e allievo fu l’antropologo statunitense Melville
J. Herskovitz (1895-1947),
appassionato studioso degli elementi culturali africani presenti
negli Stati Uniti, il quale tentò anche di far sì che
la Dichiarazione
universale dei diritti umani,
elaborata da una speciale commissione delle Nazioni Unite, non
contenesse la concezione dell’individuo propria della civiltà
occidentale. Non riuscì in tale intento e la Dichiarazione non fu
firmata da vari paesi.
Quali
sono le critiche che sono state fatte al relativismo,
che grosso modo può essere diviso in due branche (conoscitivo e
morale)? In primo luogo, è stato più volte sottolineato che
è autocontraddittorio.
Affermando, infatti, che tutto è relativo propone una concezione di
carattere assoluto. In secondo luogo, cosa vuol dire relativismo
conoscitivo e relativismo morale? Naturalmente sarebbe assai
complesso approfondire tali questioni, pertanto mi limito a dire che
il primo consiste nel sottolineare, in taluni casi, la differenza
radicale tra i modi di conoscere propri delle varie culture (si badi
bene si parla sempre di cultura e non di società), i quali sarebbero
strutturati dal linguaggio e dalle diverse concezioni del mondo. Il
secondo si riferisce all’origine dei valori che per i relativisti
sono frutto di una scelta arbitraria e, quindi, in nessun modo
giustificabili; pertanto, non sarebbe possibile condannare nessun
comportamento umano, perché ciò equivarrebbe alla formulazione di
un giudizio etnocentrico. D’altra parte, dato che ognuno di noi si
trova in un mondo chiuso ed è il risultato della cultura cui
appartiene, non potrà che formulare sempre giudizi etnocentrici, a
meno che non pratichi la sospensione del giudizio. Da questo punto di
vista, la caccia alle teste, i sacrifici umani, i campi di
concentramento non possono essere condannati; posizione che ci
conduce dritti dritti alla accettazione dello status quo e sbocca
nel nichilismo.
Naturalmente
è ben chiaro che tale posizione teoretica si oppone alla cosiddetta
uniformità della psiche umana, secondo la quale tutti gli uomini
sarebbero dotati delle stesse capacità intellettuali e delle stesse
dinamiche emotive. Si tratta quindi della messa in discussione della
“essenza umana”, che i relativisti scoprono essere costruita sul
modello dell’uomo occidentale. Scoperta dell’ombrello si potrebbe
dire, giacché è ben nota, per esempio, l’analisi fatta
da Marx della
figura di Robinson
Crusoe:
egli non è l’uomo naturale e presociale, ma l’immagine
dell’individuo calcolatore, isolato ma dipendente che appare col
costituirsi del capitalismo.
Inoltre,
bisogna osservare, che i relativisti identificano la riflessione
scientifica con lo scientismo e per questo arrivano a pensare che le
conclusioni cui giungono le varie scienze siano da queste ultime
considerate verità assolute, mentre sono risultati problematici e
provvisori, che possono essere sempre messi in discussione.
Altro
aspetto criticabile e criticato del relativismo sta nel fatto che,
stante la concezione delle culture come monadi senza finestre, intese
come entità tra loro incommensurabili, non
si riesce a capire come gli esseri umani possano comunicare tra
loro, né
come un antropologo o uno storico possano studiare un mondo lontano e
“altro”. C’è qualcuno che giunge a sostenere che il mondo in
cui viviamo si muta a seconda del nostro modo di concepirlo, per cui
se per esempio nel mondo occidentale la magia non funziona più, da
ciò non si può ricavare che non funzioni nelle altre culture.
Questo
modo di concepire le culture è rafforzato dal fatto che in ogni
contesto gli esseri umani recepiscono, attraverso un processo
di inculturazione,
un insieme di credenze, usanze, valori, come se fossero “naturali e
ovvie”, reagendo in maniera negativa alle concezioni culturali
altrui. In tale forma spontanea di etnocentrismo l’essere uomini è
identificato con i caratteri che ogni individuo acquisisce
nell’interazione sociale, tanto che assai spesso il nome con cui
certi popoli si autodefiniscono vuol dire semplicemente “uomini”.
Rendendosi
conto dei pericoli del relativismo, pur non rinunciando ad esso,
alcuni antropologi cercano di barcamenarsi tra l’approccio
relativista e quello antirelativista, sostenendo che le diverse
culture non hanno un’essenza statica, ma sono il risultato di
processi tra i quali menzionano un
fantomatico dialogo interculturale,
senza ricordare che esso si è basato prima sul colonialismo, poi
sull’imperialismo. Quindi definirlo dialogo,
parola che indica un rapporto paritario, mi sembra alquanto
mistificante e opposto alla lettura che di questi processi fa Eric
Wolf nel
suo libro “L’Europa
e i popoli senza storia” [2].
Comunque, da questa scoperta dell’apertura delle culture verso
l’alterità ricavano
che sia possibile comunicare ed arricchire la propria esperienza
storica con gli apporti culturali proveniente da mondi distanti e
dissonanti.
Ma
c’è un ultimo aspetto del relativismo che deve essere analizzato.
Esso è messo in evidenza da un autore francese, J.L.
Herbert (“Indianité
et lutte de classe”,
Parigi 1972), il quale esamina l’indigenismo latino-americano,
sviluppatosi quando il colonizzatore non può essere più apertamente
razzista e paternalista. Tale corrente culturale è un’ideologia
che oscilla tra l’assimilazionismo e il riconoscimento formale
delle differenze culturali, occultando però lo
stretto nesso tra queste ultime e le condizioni politico-sociali
dell’indigeno [3],
così chiamato per annichilire la sua identità etnica.
Se
questo ragionamento ha un senso, ritenere, per esempio, che i nomadi
abbiano scelto liberamente le loro condizioni di vita (il nomadismo,
le attività informali, la non frequentazione assidua della scuola da
parte dei bambini) e che quindi debbano essere lasciati al loro
destino, occulta il fatto che in questa significativa differenza
culturale si cristallizza la loro marginalità politica e sociale.
Inoltre, le loro condizioni di vita non offrono loro gli elementi
fondamentali per essere cittadini a pieno titolo nella società
contemporanea, nella quale anche noi non abbiamo scelto di vivere, ma
di cui dobbiamo tenere conto [4]. Quindi, ricavo dal mio ragionamento
che, a meno che non vogliamo chiudere in un museo le forme di vita
precapitalistiche con i loro protagonisti, sarebbe opportuno
garantire ai nomadi [5] questi elementi fondamentali, di cui
gradualmente siamo stati privati anche noi e che essi stessi
rivendicano. E ciò non per rafforzare l’ordine esistente, ma per
avanzare verso una forma di vita sociale fondata sull’uguaglianza,
senza la quale non c’è nessun rispetto delle peculiarità
culturali e individuali.
Concludendo,
direi che il
relativismo non deve essere del tutto abbandonato;
infatti, quando viene usato nella comparazione tra usanze o credenze
diverse, possiamo spesso ricavare l’assurdità di ciò che a noi
sembra scontato e naturale, come fece del resto Montaigne nel suo
saggio sui cannibali. Esso è, quindi, uno strumento
essenziale di autocritica.
Note:
1.
Con la parola “metanarrazione” il pensiero postmoderno intende i
grandi schemi filosofici e politici elaborati dal pensiero moderno,
come l’illuminismo, il marxismo, l’idealismo.
2.
Ma Wolf, morto nel 1999, era marxista e aveva anche
denunciato l’imperialismo
disciplinare che
spinge gli antropologi a ignorare aspetti della storia problematici
per le classi dirigenti.
3.
Nesso riconosciuto anche da Gramsci nelle “Osservazioni sul
folclore”, in cui mette in relazione questa concezione del mondo
con la collocazione sociale delle masse popolari.
4.
Non si può non citare la famosa frase di Marx: “Gli uomini fanno
la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze
scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano
immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle
tradizioni”.
5.
Quelli che praticano ancora il nomadismo sono un’esigua minoranza,
che vive in condizioni subumane.
Nessun commento:
Posta un commento