venerdì 23 giugno 2017

LENIN: L'ESTREMISMO - Stefano Garroni

Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/lenin-opere-complete.html



Stefano Garroni: A me pare che, escluse tre o quattro opere di Lenin, la grandissima maggioranza di quello che lui ha scritto, riproduce lo schema compositivo di quest’opera qua. Voglio dire: l’opera del dirigente politico, che parla di questioni politiche, a militanti politici. Quindi una scrittura molto compatta, che può essere compresa da un qualunque militante che abbia curiosità e che abbia un’esperienza politica. In questo senso la grande maggioranza delle opere di Lenin, non fanno nascere nel lettore la richiesta di un intervento della teoria per risolvere punti, per chiarire aspetti. Il lettore ha sicuramente la possibilità di capire il discorso a prescindere dall’intervento del teorico. 

Siccome son passati diversi anni da quando lui ha scritto, quello che può essere utile è l’intervento di uno storico, che ricostruisca nei dettagli le situazioni, che ci consenta di metter carne a certe formule linguistiche che corrisponda un nome: Bordiga chi è? C’è lo storico che ce lo spiega ecc. Ma alla lettura del testo, nella grande maggioranza delle opere di Lenin, non segue il bisogno di un intervento del teorico che chiarisca, che aggiunga informazioni, riflessioni, per risolvere dei punti dubbi del testo di Lenin. Questo con l’eccezione di alcuni scritti come Materialismo ed empiriocriticismo, il Che fare?, la Critica agli amici del popolo, i Quaderni filosofici ecc.

Ora, questa descrizione della pagina di Lenin, in realtà è abbastanza equivoca, nel senso che un’opera così compatta, scritta da un politico, su temi politici, che il militante politico comprende, sembra delineare una struttura chiusa. Quasi che nasca e muoia dentro l’orizzonte politico. 

In realtà è vero questo: se noi superiamo il punto di vista di chi, fate conto, si chiede: “Cosa pensava Lenin dei sindacati?”, e allora, ecco, questa opera ti dice che cosa Lenin pensava. “Cosa pensava dello Stato?”, quest’altra ti dice cosa pensava dello Stato ecc. Quindi, se evitiamo la mentalità evidentemente dogmatica delle opere scelte in due volumi – ovviamente non abbiamo bisogno di leggere tutti e 40 e rotti volumi dell’opera di Lenin -, però abbiamo bisogno senza meno di leggere varie opere, di vari periodi, in cui Lenin si confronta con vari problemi (ognuna di queste opere potremo capirla perfettamente, discuterla, farla operare dentro di noi), però se le leggiamo in una rappresentanza ampia, a quel punto viene fuori la necessità della chiarificazione teorica. Perché?

Perché intanto, per esempio, esiste questo problema: perché questa grande capacità che Lenin ha di parlare al militante politico, a qualunque militante politico? Perché Lenin ha, come dire, il gusto di costruire lo scritto politico in maniera tale per cui il lettore comprenda che il problema che gli si pone nella sua organizzazione, nella sua esperienza, si è posto anche in altri partiti, in altri contesti, in altri momenti? Perché questo invadere l’esperienza del singolo lettore con riferimenti estesi a situazioni internazionali? Perché? Perché questo invito costante nelle opere politiche alla riflessione, alla discussione, all’insistitissimo motivo per cui il comunista deve conquistarsi la massima familiarità nel rapporto con le masse? Perché questo? Certo, Lenin è comunista, però intanto cominciamo subito ad incontrare un problema: noi siamo abituati da una tradizione ad usare l’espressione marxismo-leninismo. Come è noto, e per motivi del tutto ovvi anche, Lenin non usa l’espressione marxismo-leninismo. E’ troppo ovvio. Però ne usa un’altra che è marxismo rivoluzionario. Ecco, il problema è cercare di capire ad esempio se questa formula (marxismo rivoluzionario) non varrebbe la pena riprenderla al posto di marxismo-leninismo, con un guadagno politico importante. Che voglio dire?

Quando Lenin dice che il suo è marxismo rivoluzionario, intende dire qualche cosa di assolutamente comprensibile, che lo capiscono tutti. Però un momento, andiamo un po’ più a fondo. Intende dire: io traduco sul piano politico, in una prospettiva rivoluzionaria, una certa tradizione teorica personificata da Marx. E questo lui lo fa nel momento in cui quella stessa tradizione teorica è ampiamente svolta in una prospettiva riformistica. Allora, dire marxismo rivoluzionario significa:
1) Io, Lenin, mi riconosco seguace di Marx, traduco in una certa chiave il suo discorso, in contrapposizione ad altri seguaci di Marx che lo traducono in un’altra prospettiva.
Quando si dice marxismo-leninismo, la tendenza è quella a presentare Marx e Lenin come se fossero figure dello stesso genere. C’è una teoria, quella di Marx, e c’è una teoria, quella di Lenin, e la loro unione è il marxismo-leninismo. No. Lenin dice: io sviluppo sul piano politico il pensiero di Marx in una prospettiva rivoluzionaria.
2)  Contrapposizione allo sviluppo riformista. Ma attenti: lo sviluppo riformista che Lenin ha di fronte a sé, non ha nulla a che vedere con lo sviluppo riformista che noi ad es. conosciamo. Lo sviluppo riformista che lui ha presente è ad es. quello di Kautsky, e sappiamo che Kautsky ha un immagine del passaggio al socialismo che è costruita in questo modo: lotte di massa, organizzazione sindacale, elezioni, rafforzamento del partito, in maniera tale che al momento della stretta, potremo ridurre lo scontro violento proprio perché avremo attorno a noi la grande maggioranza del paese. Voi capite che qui è previsto anche uno scontro violento. Quindi non si tratta, non dico di un riformismo alla Veltroni insomma, ma neanche un riformismo alla Saragat, neanche un riformismo alla Willy Brandt. Quel riformismo a cui fa riferimento Lenin in contrapposizione, è estremamente più avanzato di tutti i riformismi di cui noi abbiamo esperienza. E dove sta il punto di rottura fondamentale con questo riformismo? Sta in un problema che ha due aspetti: è il problema dello Stato.

Dico che ha due aspetti perché il partito è l’organizzazione statale dei lavoratori nella loro lotta per il socialismo. Il modo di affrontare il problema del partito è in stretta analogia con il modo di affrontare il problema dello Stato. La necessità che il proletariato si unifichi nel partito, è la stessa necessità che il proletariato si unifichi nelle forme di una sua dittatura di classe. E’ sul tema dell’organizzazione politica la rottura con il riformismo, nel senso che per Lenin è chiaro che l’organizzazione politica del proletariato è radicalmente altra rispetto all’organizzazione politica della borghesia. E allora ecco, il dissenso con Kautsky, non è tanto l’uso o non uso della violenza, ma è l’uso delle strutture democratiche parlamentari, e quindi l’organizzazione di un partito, di un sindacato, che siano ricalcati sullo sfondo di un mondo che ruota intorno all’organizzazione parlamentare. Allora, l’attacco al parlamentarismo che fa Lenin, è un momento centrale perché si colloca proprio nel centro della sua differenziazione dal riformismo, nel centro della sua traduzione politico-rivoluzionaria e di una teoria che è quella di Marx. Allora, diciamo, se valesse la pena di fare questioni di linguaggio noi dovremo rifiutare la formula marxismo-leninismo, e riprendere invece, riconoscendola corretta, la formula marxismo rivoluzionario, cioè il leninismo è l’espressione del tradursi politicamente in termini rivoluzionari del pensiero di Marx. Se facciamo un’operazione del genere però, diciamo anche un’altra cosa, e cioè che il pensiero di Marx non è risolto, esaurito, dalla sua componente politica. La prova è questa: noi possiamo prendere una qualunque opera di Marx, e lì sentiamo subito, nel leggerla, la necessità dell’intervento del teorico che ci chiarisca delle cose, perché sennò non capiamo bene. Con Lenin non capita perché Lenin è eminentemente un dirigente politico. Marx è eminentemente un teorico che si occupa anche di politica. Fa anche il dirigente politico, ma è eminentemente un teorico, e lo spettro del suo discorso è ben più ampio che l’argomento politico. 

Ovviamente, un impostazione di questo genere già taglia con una tradizione dogmatica. Ma ci pone anche di fronte a quest’altra difficoltà che dicevo: certo, la singola opera di Lenin io posso leggerla tranquillamente e non ha nessun bisogno del teorico che mi spieghi nulla: capisco tutto, al massimo lo storico dato il tempo che è passato. Se ne leggo molte, nel momento in cui devo fare un discorso complessivo su Lenin, allora le cose diventano un po’ più complicate, e ho bisogno per es. di comprendere le relazioni tra questa costruzione che è il modo di pensare la politica di Lenin, e la tradizione marxista. E allora lì è utile il teorico. In realtà però, anche nella singola opera, a essere proprio attenti, succede che si vede la traccia della teoria, e si vede in modo pesante: L’estremismo malattia infantile.

E’ del tutto chiaro che sicuramente in tutte le lingue e in tutte le culture esiste il luogo comune del giovane che non ha pazienza, che vuole tutto subito, che non ha capito che il mondo esiste realmente, e quindi si comprende: l’estremista insomma è un ragazzino. Non è questo esattamente il discorso di Lenin, anche perché lui si confronta con personaggi come Bordiga facciamo conto, che non era proprio un ragazzino. E quando lui scrive – negli anni ’20 – l’Europa è invasa da una serie di correnti culturali – il pragmatismo, il volontarismo, il sindacalismo rivoluzionario, il futurismo – in cui al centro c’è il momento dell’azione, cioè della volontà che si esercita sul mondo essendo il mondo semplicemente la materia su cui si esercita la volontà. E’ contro questo modo di pensare. Ed è interessante che questo modo di pensare era stato criticato a suo tempo da Hegel quando criticava il romanticismo, individuando nel romanticismo proprio quest’atteggiamento della volontà soggettiva che si erge contro il mondo e impone al mondo, pretende di imporre al mondo: devi essere così e non in un altro modo.

Il discorso che Lenin fa è sempre un altro: guarda il mondo, capiscilo, cerca di individuare nel mondo le tendenze, le contraddizioni, le direzioni, nel mondo: inserisciti nel corso reale. Certo, questa è la dialettica. Appunto, io ricordavo la critica di Hegel al romanticismo: questo è il realismo della dialettica. Ma noi dobbiamo ricordare anche un’altra cosa: schematizzando, dal ’67-’68, noi siamo stati di nuovo invasi da una cultura, in particolare a sinistra, con forti tratti romantici del giovane che dice: “Voglio tutto subito” e che contrappone la propria volontà al mondo, e che ha il gusto della trasgressione. Ovviamente il dialettico non ha il gusto della trasgressione, perché non si tratta di compiere il gesto che crei nervosismo, che impressioni, che colpisca; ma si tratta di inserirsi nei processi reali, di farsi, come dire, parte consapevole di un movimento di massa che cresce, e quindi qui non c’è spazio per il gesto del dandy, non c’è lo scandalo da creare, c’è invece da immergersi nel rapporto di massa, raccogliere le esigenze di massa e dare ad esse una traduzione scientifica, solida. E’ tutto il contrario che lo scandalo. Nel ’68 noi siamo progressivamente stati invasi, invece, da questa mentalità romantica, e ricordate: il ’68 è il periodo che ridà fiato addirittura agli anarchici. Ricordate il modo in cui l’esperienza guevarista fu ripresa, cioè quest’idea del fuoco rivoluzionario, del fuoco che accende la prateria, quindi del gesto eroico da cui segue lo sconvolgimento del mondo ecc. ecc.

Ma anche il gusto della trasgressione. Di fronte a tutto questo la logica di Lenin – lo si vede molto bene qua – è la logica di chi invece minuziosamente cerca di capire quello che succede, cioè cerca di rendersi conto del mondo e dei movimenti del mondo, per inserire la propria azione dentro questi processi obiettivi.

E qui comprendete bene che quest’orientamento, quest’atteggiamento – che ripeto, senza dubbio è esemplificato in modo del tutto trasparente da Lenin, ma ha radici più lontane, ha significati più ampi -, è un atteggiamento che, come dire, periodicamente si trova a doversi contrastare con il romanticismo nel senso che dicevo prima. Lo si può documentare: se non altro dalla fine del ‘700, nei momenti di grave crisi sociale, appaiono i fenomeni che noi oggi scambiamo per postmoderno. Appaiono regolarmente, e sono queste manifestazioni di irrazionalismo contro cui l’atteggiamento di Lenin è del tutto chiaro. E’ ovvio che qui si colloca subito la questione del rapporto partito-massa. Lenin ha delle formule assolutamente trasparenti, che però forse possono essere meglio capite se noi andiamo subito al centro della cosa, che mi pare nel testo sia dato non tanto dalla polemica contro l’antiparlamentarismo – apro qui rapidamente una parentesi. Il discorso di Lenin è del tutto chiaro: nella misura in cui esistono larghe masse che hanno fiducia nella democrazia parlamentare, i comunisti, proprio perché non amano il gesto che colpisce, ma vogliono agire realmente nel mondo, non possono contrapporre semplicemente il loro antiparlamentarismo all’orientamento delle masse, ma devono addirittura andare al parlamento se necessario. Per fare cosa? Lui lo dice con chiarezza: per creare all’interno del parlamento una quinta colonna, nel senso che il gruppo parlamentare serve a mostrare nei fatti a che cosa serve realmente il parlamento, quindi a sbugiardarlo attraverso l’esperienza, mentre il partito fuori del parlamento opera nello stesso senso. Insomma il problema è quello di far crescere attraverso l’esperienza delle masse (diretta o indiretta), far crescere la consapevolezza nelle masse di che cos’è il parlamento, che cos’è la struttura democratico-parlamentare e perché è necessaria una nuova struttura democratica. Ma far crescere questa consapevolezza nelle masse, perché Lenin è sempre convinto del fatto che il socialismo lo fanno le masse e non i partiti. Il comunista è quello capace di saldarsi alle masse nel senso di far crescere il loro livello di coscienza e di combattività. Se sa fare questo è comunista. Se non lo sa fare si può chiamare comunista ma non lo è, e lui lo dice esplicitamente questo. 

Da questo punto di vista però ha ragione Renato, che qualche sera fa diceva: “In fin dei conti la lezione tattica di Lenin qual è? E’ molto facile: senza nessuna riserva, senza nessun pregiudizio, scegliamo nelle situazioni diverse quelle mosse che possono essere più funzionali all’obiettivo nostro. Senza pregiudizi. Quindi se è necessario andiamo a fare la riunione con il prete, se è necessario andiamo al parlamento, ma la questione fondamentale è che la nostra azione deve servire a far crescere il livello di coscienza di massa, preparare le forze delle masse per l’obiettivo reale che è la dittatura del proletariato. Le strade con cui arriviamo a questo possono essere le più diverse nelle situazioni.

Ma mi pare che il punto chiave in questo testo sia realmente il punto della polemica con i comunisti di sinistra tedeschi, olandesi, inglesi e italiani. In parte ce ne siamo già occupati nella precedente fase del seminario. Dico che è il punto chiave perché chiarissimamente qui si scontrano due atteggiamenti, due orientamenti: l’orientamento di Lenin, che è un orientamento dialettico, improntato al realismo della dialettica e che quindi vede lo stesso processo di costruzione del movimento per la conquista della dittatura del proletariato come un processo oggettivo, in cui, voglio dire, si maturano le larghe masse che devono partecipare a questa lotta, perché senza le larghe masse non è una lotta realmente comunista, e dall’altro lato l’atteggiamento settario, nel senso di chi intende l’esser comunista come il costituire un settore particolare, che si caratterizza per la sua coscienza, per la sua organizzazione, quale che siano gli scandali che da questi derivano. Cioè in definitiva un atteggiamento che per quanto possa riempirsi la bocca del rapporto con le masse, in realtà tende a segnare la differenza tra me comunista e voi. Il percorso che Lenin descrive anche quando illustra l’esperienza dei due anni e poco più del potere sovietico, è profondamente diverso. Lenin dedica la parte finale dello scritto all’illustrazione delle strutture del potere sovietico, avendo prima chiarito un punto fondamentale: l’esperienza della rivoluzione russa presenta elementi che hanno un valore universale, che hanno un valore per tutte le rivoluzioni, tutte le future rivoluzioni proletarie ovviamente. E’ interessante che nel modo in cui Lenin presenta questo tema, non c’è il dogmatismo con cui invece successivamente queste pagine di Lenin sono state assunte. Perché? Perché Lenin, appena ha detto: “Esistono aspetti dell’esperienza sovietica che sono universalmente validi per le future rivoluzioni”, fa un chiarimento: “Non appena la rivoluzione avrà vinto in un paese avanzato, l’esperienza russa passerà in secondo piano”. Consentitemi di tornare un attimo alla faccenda di marxismo-leninismo, perché è una cosa importante: marxismo-leninismo è stato inteso in vari modi che oscillano tra due poli fondamentali. Primo polo: il leninismo è l’elaborazione marxista nell’epoca dell’imperialismo. Quindi, in un certo senso, è la continuazione dell’elaborazione marxista, ma riadattata all’epoca dell’imperialismo. E quando si dice elaborazione marxista, nella nostra storia, se badate bene, non si chiarisce mai esattamente il rapporto tra questa tradizione di elaborazione marxista e la Seconda Internazionale. E in effetti anche in Lenin non è chiaro questo tema.

Voi sapete che potremo fare una raccolta di tutte le occasioni in cui Lenin parla di Kautsky o di Plechanov come dei rinnegati e degli opportunisti (potremo riempire un volume), ma potremo riempire almeno due volumi di tutte le occasioni in cui Lenin dice che i grandi maestri di marxismo sono Plechanov e Kautsky, perché qui in realtà c’è un problema al fondo, un problema grosso: parte del marxismo, sicuramente il senso antisettario nel significato che dicevo prima, della storia come processo obiettivo, come risultato di un muoversi delle cose, e quindi, appunto, come Marx scriveva nel manifesto, i comunisti non sono un settore a parte, ma sono solo la punta della coscienza del movimento popolare, ma non sono un settore a parte, quindi questo senso di un processo storico largo, vasto, che cresce, quindi questo senso dell’obiettività dei processi. Ma anche, contemporaneamente, il senso del ruolo dell’avanguardia, dell’avanguardia organizzata, cioè della coscienza che interviene, e che quindi dà al corso delle cose una certa direzione. Come si mediano le due posizioni? E nella storia del movimento comunista o comunque del movimento politico di ispirazione marxista è stato un problema come mediare queste due componenti. Voi capite che chiarire che cosa significa tradizione marxista, teoria marxista, cioè chiarire il rapporto tra il marxismo che viene professato e il marxismo secondo internazionalista, è decisivo perché significa anche entrare nel merito di questa mediazione tra intervento della coscienza e sviluppo obiettivo. Il che è una questione dall’influenza politica decisiva è del tutto chiaro. Non solo è importante teoricamente, ma dagli effetti politici enormi. E qui – e chiudo – è fondamentale riscoprire che appunto Marx ha dietro le spalle Hegel, e quindi, tornare a capire finalmente che cosa, dal punto di vista della dialettica si intende per obiettività del processo, che non c’entra nulla con una versione positivistica ecc., e quindi si riesce a vedere come le cose siano mediate. Lenin, ricordate che nei Quaderni filosofici, scrive una cosa terribile. Lenin dice: “Non si capisce nulla di Marx, se non si capisce la logica di Hegel”. E lui dice la logica sottolineato, cioè intende il libro, che è effettivamente, come dire, il condensato di tutta l’esperienza teorica di Hegel, un libro non facile da leggere. E Lenin dice che se non si capisce quel libro non si capisce nulla di Marx, e aggiunge: siccome sono cinquanta anni che nessuno legge Hegel, nessuno più capisce Marx. Possiamo aggiungere molti altri decenni, specialmente se abbiamo di fronte a noi la sinistra, e quindi la situazione presenta una drammaticità notevolissima.

L’altro modo in cui è stato inteso marxismo-leninismo, è questo: proprio perché Lenin fa centro sull’analisi dell’imperialismo, ha in realtà mostrato lo spostarsi dell’asse rivoluzionario, dall’occidente all’oriente. Voi capite che questo modo di intendere il leninismo, cambia radicalmente rispetto alla tradizione, comunque venga inteso, e anche questo è un altro problema enorme, cioè capire poi che cosa si vuol dire con marxismo-leninismo. La formula è una, ma si vogliono dire molte cose diverse. Voi capite perfettamente che questo spostamento di asse dall’occidente all’oriente, non è indolore, né politicamente e né sul piano teorico, cioè mette in questione tutta la struttura politica e teorica del marxismo e della sua storia. Quando Lenin dice: “Se la rivoluzione vince in un paese avanzato, allora l’importanza dell’esperienza russa passa in secondo piano”, sembra dare l’indicazione che certo lui non è d’accordo con un’interpretazione del marxismo-leninismo come spostamento dell’asse verso oriente. Sembra dire esattamente l’opposto, cioè sembra dire che Lenin è consapevole che i processi storici sono estremamente complicati e possono dar luogo, come dire, ad anomalie, nel senso che se qualcosa, per nascere, ha bisogno che esistano le condizioni per la sua nascita, le sue condizioni di possibilità; questo, qualche volta, è vero solo logicamente, perché può darsi, nella realtà storica, che qualcosa nasca anche in mancanza delle condizioni di possibilità per la sua nascita. E in fin dei conti il discorso: “Passa in seconda linea l’esperienza sovietica se vince la rivoluzione in un paese avanzato”, che significa? Significa che Lenin spinge perché si ricongiungano le condizioni di possibilità – l’alto sviluppo – e l’effetto socialista. E’ verso quello che spinge, perché si rende conto delle conseguenze devastanti di un processo rivoluzionario socialista, laddove manchino le condizioni oggettive di possibilità di essa. Ma se questo è vero, allora si comprende ancora di più perché Lenin avverte fortemente la necessità che i comunisti si leghino alle masse, perché appunto, è solo con l’apporto del movimento di massa, solo col sostegno delle masse che questo processo bizzarro, anomalo, per cui la classe operaia ha preso il potere in un paese arretrato, e condannato poi mano a mano all’isolamento, all’accerchiamento, all’aggressione; solo se ti porti appresso le masse puoi resistere. E qui ritorna anche la necessità di notare quello che Lenin dice: “Un partito è comunista se riesce a costituire un’unità con le masse, non è comunista perché si chiama comunista”, è comunista se riesce a far questo. E per esempio noi abbiamo avuto esperienza, fate conto Cuba, in cui chi è riuscito a far questo è stato un partito che non si chiamava comunista, mentre i comunisti non lo sapevano fare. 

Ora, quando Lenin, nella parte finale, descrive le strutture del potere sovietico, pare che dia fino in fondo la risposta alla critica dei comunisti di sinistra che contrapponevano capi e masse, quindi l’organizzazione politica come qualcosa di separato, di staccato dalla massa, che in quanto tale è portatrice della verità, della sanità, ecc. ecc. Lenin a queste cose non ci crede ovviamente: sono di nuovo cose romantiche, cioè il popolo come depositario dello spirito giusto, sono di Rousseau e tutte queste cose qua, ma che noi abbiamo rivisto nel ’68. Abbiamo rivisto, fate conto, pensate all’Unione dei Comunisti, che era un organizzazione particolare, molto numerosa, ma non era solo quello, era anche il momento in cui prendeva particolare evidenza un atteggiamento diffuso. Pensate anche a certa insistenza nella volgarità che noi troviamo nel nostro ambiente, perché questa insistenza nella volgarità significa una volontà di farsi popolo, nell’accezione più volgare, appunto, del termine. Convinti che nell’esser popolo si è più avanzati, democratici, di sinistra, comunisti. No! Perché il comunista punta alla trasformazione del popolo in classe dirigente, e allora critica ai comunisti di sinistra da un lato, e dall’altro lato l’elaborazione – nell’Unione Sovietica -, di una serie di strutture che consentano un duplice sistema di influenza: del partito sulle masse e delle masse sul partito.

Lenin come al solito è molto franco, e dice: “In Unione Sovietica esiste un’autentica oligarchia”, quindi nel periodo della dittatura c’è un’autentica oligarchia. Quest’oligarchia com’è costruita? C’è un Comitato Centrale del partito, che badate, viene eletto in congressi annuali - è molto interessante, nella storia del partito sovietico, vedere progressivamente come i congressi da annuali diventano centenari – congressi annuali che eleggono il Comitato Centrale, il Comitato Centrale elegge un ufficio organizzativo e un ufficio politico, che, chiarisce Lenin, si occupano del lavoro corrente. Chi comanda è il Comitato Centrale, eletto ogni anno dai congressi. Le altre due strutture più selezionate ovviamente – l’ufficio politico e l’ufficio organizzativo – si occupano del lavoro corrente. E, aggiunge Lenin: “Nessuna decisione prende lo Stato Sovietico, se non sotto il controllo del Comitato Centrale del partito”. Quindi netto primato del partito sullo Stato, e, dice Lenin: “Questa è un’autentica oligarchia”.

A questo punto sembra che il comunista di sinistra che denuncia la dittatura dei capi abbia ragione. Andiamo a vedere come è fatto questo partito. Lenin dice: “Noi non avremmo resistito non dico due anni e mezzo, ma neanche due mesi e mezzo se non avessimo potuto avere l’appoggio profondo delle masse”. Ottenuto come? Anche qui noi siamo persone bizzarre, ci occupiamo di cose strane. Vedete come è costruito questo partito: il partito raccoglie gli elementi più pensanti, più attivi, più ricchi di spirito di abnegazione, del proletariato. Che vuol dire più pensanti? Più pensanti vuol dire intanto che il partito è fatto di gente che pensa, e quindi non ci può essere uno che dice: “Si fa così”. No, un momento, io penso, quindi per esempio voglio sapere perché! In questo senso è un partito selettivo. Ed è chiaro che più un partito è selettivo e più è democratico: più hai compagni che pensano e meno è possibile che uno pensi per tutti. 

Ma compagni riconosciuti dalle masse, come elementi pensanti, attivi, pieni di abnegazione, moralmente solidi ecc., allora questi compagni scelti, sono appunto riconosciuti come meritevoli dalle masse, e allora hanno la capacità di dirigere le masse perché le masse si riconoscono in essi, e si riconoscono in essi come la parte migliore delle masse. Ma allora alla fine che succede? Succede che il giudizio delle masse su quei militanti, è decisivo perché il partito operi. Allora vedete come l’oligarchia del partito si rovescia nel suo contrario. In realtà intanto il partito può dirigere in quanto è riconosciuto dalle masse come la parte migliore di sé, cioè delle masse. Quindi un partito di quadri, ma un partito di quadri che è accolto dalle masse e destinato al lavoro di massa. Non c’è opposizione tra partito di quadri e partito di massa: se noi siamo comunisti, se siamo dell’idea che il socialismo è fatto dalle masse, allora ovviamente il partito comunista lavora nelle masse, con le masse, e deve essere accolto dalle masse, riconosciuto come la propria avanguardia; se non riesce a farsi riconoscere, non è un partito comunista. Allora: intanto è un gruppo oligarchico in quanto le masse lo sostengono, perché si riconoscono in esso, quindi il giudizio delle masse è decisivo perché quell’oligarchia esista. 

E allora ecco che il circuito è complesso: tu hai la sensazione e hai la realtà di un cammino che va dalle masse al vertice di partito, ma anche di un altro processo, che segue esattamente la via opposta, perché tutto si sostiene sul fatto che le masse riconoscono te come la parte migliore di sé stesse. E allora è chiaro che il problema della contrapposizione capo-base, capo-massa, si toglie, ma attenti, Lenin dice: “Bisogna assolutamente lavorare laddove sono le masse dacché il compito dei comunisti è di saper convincere gli elementi arretrati, di saper lavorare tra loro, di non separarsi da loro con parole d’ordine di sinistra puerili e cervellotiche”. Cioè l’insistenza è evidente, appunto su questo elemento del legame, della consonanza, per cui quella parte più avanzata che è raccolta nel partito, ha il proprio banco di prova nella capacità di essere accolta e riconosciuta dagli strati più arretrati […]

[…] Allora voi capite che il periodo della dittatura del proletariato può essere un po’ lungo insomma, se l’obiettivo è questo della repubblica internazionale dei soviet. 

E’ ovvio: come può una repubblica dei soviet, in un mondo capitalistico, sopravvivere? Siamo seri!
Ora, qui mi pare che più indicazioni vengano fuori con grande nettezza, ed esprimo con tutta franchezza la mia convinzione che queste indicazioni sono di totale attualità, totale. Attualità proprio nel senso di compiti immediati, secondo me. 

1) il partito si costituisce per uno scopo: l’unificazione del proletariato, cioè la trasformazione del proletariato in classe.
Ora, fate conto che noi volessimo costituire il partito in Turchia, e venisse qualcuno a dirci: “Allora è meglio che i volantini li scrivete in turco”. Credo che noi avremo una reazione un po’ nervosa insomma, è ovvio, se lo vogliamo fare in Turchia … Voglio dire: è evidente che se il proletariato in una situazione determinata è organizzato nel lavoro, nella produzione, in un modo o in un altro modo, è certo che questo ci interessa quando vogliamo costruire il partito. Ma perché lo vogliamo costruire? Per restare, come dire, appiattiti nella frantumazione del proletariato così come si da in seguito al modo tecnico di organizzarsi della produzione capitalistica? No! Il compito del partito è l’unificazione. Potrà essere un fatto di tattica che noi costruiamo, che ne so, le cellule in un modo o in un altro modo, data la situazione, così come faremo il volantino in turco invece che in cinese se stiamo in Turchia invece che in Cina, ma il nostro obiettivo è l’unificazione del proletariato. Quindi il nostro obiettivo è comunque, quando facciamo il volantino in turco, riuscire a portare progressivamente i lavoratori turchi a riconoscersi nell’Internazionale proletaria, non restare fissi nella loro “turchicità”: se ho di fronte un proletariato spezzettato, il mio problema sarà quello certamente di trovare il modo di entrare in contatto, ma per unificarlo. E quindi l’obiettivo del partito non è quello di plasmarsi sulla frantumazione, ma di partire dalla frantumazione per l’unificazione del proletariato. Sennò siamo socialdemocratici, sennò scambiamo l’immediatezza materiale con l’obiettivo finale. 

2) i comunisti lottano per la dittatura del proletariato, cioè lottano per una forma nuova di Stato, in cui il soggetto protagonista sia dato dai lavoratori. Il soggetto protagonista nella vita statale. Vuol dire in sostanza che noi dobbiamo essere in condizione di organizzare la ricerca scientifica, di organizzare la produzione, di organizzare, che ne so, il cinema, il teatro; cioè noi dobbiamo, in quanto partito, stimolare un processo di crescita del proletariato che lo metta, progressivamente, nel tempo, non dall’oggi al domani è evidente, ma che gli faccia capire che il suo compito è intervenire nella totalità del processo sociale.
Allora capite -che non è un’insistenza da professore di filosofia- la cultura è decisiva. Se siamo comunisti è decisiva: dobbiamo arrivare a prendere il potere? Ma poi lo dobbiamo esercitare! E badate che uno dei problemi decisivi, drammatici della Russia è che non aveva i quadri per farlo. Voi sapete che il primo piano quinquennale, presenta questa mostruosità imposta dalla storia: i compagni dovevano costruire l’industria, e la gente capace di lavorarci; l’industria e i tecnici capaci di lavorarci. I tecnici, ma anche le scuole che producessero i tecnici, e tutto nello stesso momento. Allora, che siano successi alcuni squilibri e scompensi nella prima pianificazione non fa meraviglia, però probabilmente fa meraviglia se noi continuiamo a non capire l’importanza decisiva che l’azione dei comunisti, sia non solo strettamente politica, ma che si estenda su tutto l’arco del terreno di intervento futuro perché poi ci si deve pure arrivare a questa benedetta dittatura del proletariato. 

3) l’internazionalismo. Io credo che francamente sia ancora vero che nella coscienza dei compagni, generalmente, l’internazionalismo è scendere in piazza a fare la manifestazione in sostegno dei palestinesi, che ovviamente è un aspetto. Ma l’internazionalismo è un’altra cosa: è la capacità di vedere la propria situazione nel contesto del mondo. Cioè capire che non esiste un propria situazione, se non come articolazione del contesto mondiale. Per esempio, voi lo sapete che continuiamo noi stessi, fate conto, ad occuparci dei processi degenerativi dell’Unione Sovietica, quasi che l’Unione Sovietica vivesse per conto suo in un mondo. E no: stiamo in un mondo molto più grande. E probabilmente noi non capiamo nulla di quello che è successo in Unione Sovietica, se non capiamo la situazione internazionale. Per esempio, fate conto: che peso ha avuto la svolta sempre più socialdemocratica dei paesi comunisti occidentali per la vicenda sovietica? E’ comprensibile quello che accade in URSS senza certi rapporti di forza, certi movimenti economici, ecc. ecc.? 
I compagni mi scuseranno, ma io son convinto che – e poi la pianto – che ovviamente noi non possiamo inventarci di essere il partito comunista ovviamente, però io ho l’impressione che noi, come dire, fin da subito dovremmo addestrarci ad agire da comunisti insomma, anche se il partito ancora non c’è, credo che questo elemento fondamentale dell’impegno a far salire il livello di coscienza delle masse, sia veramente una cosa fondamentale. Ricordo che un anno fa all’ Intifada facemmo una riunione per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Secondo me fu un esperienza molto bella perché in un ambiente chiarissimamente fortemente popolare, beh, c’èra un livello di attenzione, di partecipazione, estremamente interessante, e per quanto mi riguarda, a me sembra che si possano dare tante prove del fatto che oggi esiste una richiesta molto diffusa, anche da parte giovanile – io continuo a dire che i giovani sono la parte peggiore della società contemporanea – ma mi pare che anche da parte giovanile ci sia una forte richiesta a riprendere a ragionare. Ecco, mi pare che l’ambiente comunista attuale, questo ancora non l’ha capito. 

Molte volte hai l’impressione che il giovane migliore, dal punto di vista delle possibilità di una scelta comunista, sia quello che non ha rapporti con l’organizzazione, e quello più lontano dall’ideologia diffusa nelle organizzazioni e che è questo decadente romanticismo da supermercato.

intervento incomprensibile--

Stefano Garroni: A me sembra questo: appunto, gli esempi che tu fai a me convincono ancora di più del fatto che un discorso sulla storia sovietica che separi l’Unione Sovietica dalla condizione generale, non permette di capire. Voglio dire che, certo, in Unione Sovietica si è posto questo problema decisivo, e cioè che le condizioni di possibilità del socialismo di estensione internazionale, sembravano aperte nei primissimi anni ’20, ma poi si sono chiuse. Allora a questo punto tutto quanto il discorso risulta falsato, e tutto diventa vago e ipocrita, per esempio: che vuol dire “massa” ? Tu sai che gli scontri non sono stati solamente con i contadini ma anche con settori operai. E a quel punto, quando il problema che il partito effettivamente aveva era quello di perdere o non perdere il potere, è chiaro che la problematica era diventata un’altra. 

Presumibilmente, a questo punto, il discorso che noi dovremo fare nelle analisi, è cercare di capire se un orientamento consentiva o non consentiva di mantenere il potere. Anche proprio qui semplicemente come potere che tu hai in mano. La problematica che pone Lenin ormai non ha più una corrispondenza storica. Credo che noi abbiamo due verifiche di questo: il fallimento chiarissimo del tentativo della Quarta Internazionale, cioè quando si ha l’impressione che la crisi a cui è arrivata l’Unione Sovietica con lo stalinismo sia tale per cui è possibile costruire un altro movimento comunista, e questo fallisce completamente. Il che, secondo me, è una prova significativa del fatto che, primo: il clima internazionale non era più di tipo rivoluzionario, secondo che si era capito che in realtà il problema vero era quello di mantenere il potere o perderlo. E allora qua torna quella citazione di Lenin: “Chi attacca l’unità del partito in certe condizioni, aiuta la borghesia, quali che siano le intenzioni”. 

Secondo: è certo che in Unione Sovietica sicuramente quello che è successo oltre agli scontri all’interno dei settori proletari, è successo anche un altro fenomeno, e lo sappiamo con chiarezza, perché Lenin stesso lo denuncia, e cioè il fatto che settori di privilegiati, anche nel senso di alti burocrati, o di piccoli arruffoni faccendieri, si intrufolano nel partito. E’ chiaro che la grande Unione Sovietica non è diretta realmente dal centro, è troppo grande e le strutture son troppo deboli, e l’Unione Sovietica ha patito quel grave colpo che è stata la morte di migliaia e migliaia e migliaia di quadri comunisti e operai, durante la guerra civile, e si è dovuta inventare una classe operaia dall’oggi al domani, senza tradizioni ecc., quindi è chiaro che il partito è riuscito a controllare le cose molto meno di quanto non sembri. Lenin, vi ricordo, dice proprio questo, nell’ultimo discorso che lui fa a un Congresso del partito, lui dice: “La sensazione è che abbiamo in mano un manubrio, cerchiamo di guidarlo e questo va per conto suo”. E lui chiarisce che cosa vuol dire questo: per esempio quell’infiltrazione di opportunisti dentro il partito, che poi si fanno gli affari loro. E dall’altro lato una caduta della tensione politica per cui gli operai disertano i soviet per esempio, cioè riemerge - uso l’espressione di Lenin –, “La vecchia merda orientale”, cioè l’arretratezza riemerge nella Russia isolata. Questo cambia completamente il quadro. Allora non puoi più, come dire, lavorare direttamente con i criteri di Lenin perché è una situazione diversa, mi pare, punto primo. Punto secondo: è chiaro che quando Lenin dice “masse” intende masse lavoratrici. Nella storia concreta dell’Unione Sovietica vuol dire … tu sai che il contadino medio in Unione Sovietica era uno che aveva due pezzi di pane insomma, questo era il contadino medio, non è che fosse il piccolo borghese, il negoziante, il calzolaio, va bene? E quindi quando dice ‘masse’ il discrimine di classe è netto, però certo si tratta di un proletariato estremamente vario e di grande maggioranza proprio contadina, perché, appunto, questa è un’altra favola: la rivoluzione sovietica vince molto rapidamente a Mosca e a Pietroburgo, ma poi ci sono anni e anni di lotta armata, per conquistare tutto il territorio dell’ex impero zarista, e queste battaglie, non sempre sono favorevoli all’Armata Rossa, ci sono momenti anche di grande pericolo, cioè c’è un periodo lungo di lotta armata, anche incerto, che non solo costa moltissimo economicamente ma costa in quanto a quadri, perché è chiaro che quelli che vanno poi a combattere sono i quadri migliori. E quindi il partito si dissangua proprio, e si dissangua il proletariato. Allora è chiaro che tutto il problema dell’Unione Sovietica tu non puoi impostarlo proprio per l’isolamento, quindi proprio per una certa situazione internazionale, per gli squilibri di sviluppo economico e tecnologico e scientifico, non puoi più affrontarli con gli schemi diretti di Lenin. La situazione è molto più arretrata purtroppo, mi pare. 

Per quanto riguarda la faccenda de L’estremismo e la crisi mi pare questo: mi sembra che noi abbiamo avuto degli esempi molto chiari. In questo periodo io mi sono riletto il capitolo finale, che risale ai primi anni ’50, de La distruzione della ragione di Luckacs, dove ci sono alcune cose, per esempio l’analisi delle contraddizioni tra capitalismo europeo e capitalismo americano. Siamo negli anni ’50: il discorso sui due imperialismi, lì lo troviamo. Ovviamente accompagnato dalla consapevolezza che noi tutti abbiamo che per quanto due, poi c’è un’unità di classe fondamentale. Sta là però quel discorso. 

Quel discorso balordo che noi facciamo sul pensiero unico in cui scambiamo il pensiero con l’ideologia, l’individuazione di una ideologia dominante che si esprime in certi modi ecc. ecc., che noi oggi facciamo come discorso nuovo, lì c’è. Voglio dire: questa dimenticanza nostra, della nostra storia, dei nostri risultati, anche dei nostri prodotti culturali, ovviamente vien fuori dal fatto che tu hai avuto alcuni decenni in cui il Partito Comunista Italiano, ha progressivamente abbandonato il marxismo e una linea politica comunista, - sia pure di destra ma comunista -, e poi la grande mazzata che è stata quel papocchio di americanismo, spiritualismo, e pezzi di marxismo che si sono consolidati nel ’68 e dintorni. A questo punto succede che – te ne accorgi molto bene parlando con i compagni – lo strumento marxista che X o Y può cercare di usare, è uno strumento che non riesce più a capire le situazioni, non per difetto dello strumento marxista, ma perché è restato residuo di un vecchio marxismo, impapocchiato con elementi estranei, allora in questo vuoto di incapacità di comprendere, di illustrare, di spiegare, e quindi anche di vedere tendenze, è ovvio che in questo vuoto precipita l’ideologia dell’avversario da un lato, e dall’altro lato precipita il senso dell’impotenza.

Appunto, tutti quegli scienziati italiani che ci hanno descritto i grandi guasti della guerra atomica combattuta in Jugoslavia: alla fine, dopo tutte queste descrizioni, tu hai la sensazione: “O vado in un altro mondo o mi sparo, non c’è nulla da fare” O vado, o rinuncio; oppure faccio il gesto esemplare. Il gesto esemplare è l’altra faccia della rinuncia in realtà: non ho più fiducia nella possibilità di un movimento antagonistico, non vedo le contraddizioni, ma vedo il cattivo nemico addosso. Non ho nulla da fare, per cui o urlo o chino la testa. E allora mi pare che si comprenda: in fin dei conti il proletariato tedesco – qui aveva ragione la Luxemburg – non aveva intenzione profonda di seguire l’esempio rivoluzionario russo. Non è una balla, ma quando gli operai tedeschi andavano a prepararsi alla lotta armata contro l’esercito imperiale, pagavano il biglietto della metropolitana. Non è una balla questa. Questo significa evidentemente un senso della legalità verso questo Stato, non è …


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