mercoledì 31 luglio 2013

Pensare il proprio tempo. Ateismo positivo e uscita dal capitalismo in Claudio Napoleoni e Franco Rodano. - Riccardo Bellofiore -

[pubblicato come Riccardo Bellofiore: Pensare il proprio tempo. Il dilemma della laicità in Claudio Napoleoni e Franco Rodano (in Per un nuovo dizionario della politica, Ed. Riuniti, Roma 1992, a cura di L. Capuccelli]                                                                                                                                                                                                         https://www.facebook.com/pages/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova/148198901904582?fref=ts                                                                                                                                 
                                                                                                                                                                               1. Introduzione
Nelle pagine che seguono si riandrà ad un episodio intellettuale tra i più significativi del secondo dopoguerra italiano. Si tratta di quel singolare confronto con il pensiero marxiano e con il pensiero cristiano che caratterizza la riflessione, prima solidale e poi separata, di Franco Rodano e Claudio Napoleoni. I due autori volevano andar oltre la mera ripresa o la pura critica dell'uno e dell'altro filone verso una sintesi che costituisse un loro effettivo "superamento": mantenendo però, in modo scientificamente rigoroso e filosoficamente fondato, l'istanza rivoluzionaria di Marx, ovvero il progetto di uscita dal capitalismo, ormai giunto alla fase dell'opulenza.

Ci resta di questa esperienza la prima serie della Rivista Trimestrale, dove i due pensatori forgiarono assieme le loro tesi in un modo così stretto da rendere disagevole il districare il contributo dell'uno e dell'altro. L'esperienza cessò nel 1971, in conseguenza di un ripensamento da parte di Napoleoni: ripensamento che egli stesso definì una vera e propria "autocritica", centrata su un mutato giudizio su Marx rispetto alla critica condotta dalla Trimestrale. Per molto tempo, e a parere di molti, si poté avere l'impressione che la storia finisse qui, con Rodano che proseguiva da solo un filo di riflessione che prima era stato comune, e con Napoleoni occupato dallo sviluppo di un diverso modo di ragionare. Non era così. Napoleoni non cessò mai di condurre un serrato confronto, critico ma non negativo, nei confronti tanto di Rodano come del seguito della riflessione della Trimestrale, che aveva intanto ripreso le pubblicazioni come Quaderni; al punto che Napoleoni divenne negli anni ottanta non soltanto interlocutore privilegiato ma anche collaboratore della nuova serie della Rivista Trimestrale. Di più, gli ultimi mesi della sua vita furono occupati da una ripresa dell'intero filo del pensiero di Rodano, in particolare nel suo aspetto di critica della teologia.

giovedì 25 luglio 2013

Ideologia ed Apparati Ideologici Statali Di Louis Althusser (Appunti per una ricerca) Traduzione di Bassi Gianmarco


Sulla riproduzione delle condizioni di produzione[1]
Devo ora esporre in modo più esaustivo ciò è stato brevemente intravisto nelle mie analisi quando ho
parlato della necessità di rinnovare i mezzi di produzione nel caso in cui la produzione sia possibile. Era
stato un suggerimenti di passaggio. Ora, però, andrò ad esaminare questo suggerimento in sé.
Come disse Marx, ogni bambino sa che una formazione sociale che non abbia riprodotto le proprie
condizioni di produzione che al tempo stesso produca, non durerebbe più di un anno.[2] La condizione
fondamentale della produzione è quindi la riproduzione delle condizioni di produzione. Tale riproduzione
potrebbe essere “semplice” (riproducendo esattamente le condizioni di produzione precedenti) o “su scala
estesa” (espandendole). Ignoriamo questa distinzione per un momento.
Cos’è dunque la riproduzione delle condizioni di produzione?
Qui stiamo entrando in un ambito (domain) che, è molto familiare (dal secondo volume del Capitale) ed al
tempo stesso unicamente ignorato. Le tenaci evidenze (evidenze ideologiche di tipo empirista) del punto di
vista della sola produzione, o persino di quello della mera pratica produttiva (essa stessa astratta, in
relazione al processo di produzione) sono quindi integrate nella nostra coscienza quotidiana, per la quale è
estremamente difficile, per non dire quasi impossibile, ergersi al punto di vista della riproduzione. Tuttavia,
tutto ciò che è situato al di fuori di questo punto di vista rimane astratto (o peggio ancora che fazioso (onesided):
distorto) - anche al livello della produzione, e, a maggior ragione, a quello della mera prassi.
Cerchiamo di esaminare la questione metodicamente.
Per semplificare la mia esposizione, ed assumendo che ogni formazione sociale sorga da un modo di
produzione dominante, posso dire che il processo di produzione mette al lavoro (sets to work) le forze
produttive esistenti in una determinati rapporti di produzione.
Ne consegue che, per esistere, ogni formazione sociale deve riprodurre le condizioni della sua produzione
contemporaneamente al suo produrre (at the same tim
produrre. Essa deve pertanto riprodurre:
1. le forze produttive
2. le esistenti relazioni di produzione

giovedì 18 luglio 2013

IL CAPITALE E’ UN RAPPORTO SOCIALE (MA QUALE?) - Gianfranco La Grassa -

PREMESSA

Torno un po’ alla teoria perché la sordità a tal proposito mi sembra piuttosto scoraggiante. Tanto più che in genere i saggi teorici li raccolgo poi in un libro e penso che una certa quantità di persone, più di quelle che leggono simili saggi in C&S, ne prenderà visione. Non c’è detto più ghiozzo e ignorante del “val più la pratica che la grammatica”. Senza grammatica (e sintassi) non si esprime nulla, salvo suoni gutturali per quanto mi riguarda incomprensibili.
Lo stimolo a quanto segue mi viene dalla lettura di questi ultimi mesi dedicata ad alcuni “classici” marxisti del secondo dopoguerra. Sono rimasto piuttosto sorpreso nel constatare che non avevano chiara la teoria del valore marxiana, pur magari sostenendo che era superata; considerare superato ciò che nemmeno si conosce tanto bene è ovviamente atteggiamento assai superficiale, per non dir di peggio. E’ assurdo, a mio parere, blaterare – e anche di scienza – se prima non si afferra il fulcro della teoria marxiana della formazione sociale. Poi c’erano gli “ortodossi”, che invece la sapevano (e anche bene) ma l’avevano irrigidita in canoni di tipo ecclesiastico. Mancava proprio l’atteggiamento a mio avviso corretto; conoscere adeguatamente il punto di partenza, ma sapere che da questo si è preso l’avvio centocinquanta anni fa; magari qualche metro di viaggio si dovrebbe essere percorso in tanto tempo.
Colombo, partendo da Palos, conosceva bene il suo porto di partenza. Invece di aggirarvisi come un tontolone andando in giro per taverne e osterie, scelse una direzione ben precisa e salpò pensando di andare alle Indie. In realtà scoperse qualcosa di inaspettato e sconosciuto, che dovette esplorare; e così pure molti altri dopo di lui. Pensate un po’ se, colpito da Alzheimer (allora malattia sconosciuta), avesse perso il senso di dove si trovava già al momento della partenza. Avrebbe levato le ancore, avrebbe preso una direzione che pensava precisa, ma che invece era anch’essa a casaccio una volta che tutto all’intorno gli fosse apparso impreciso e confuso. Chi sa dove sarebbe arrivato; dubito alle Americhe.
Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare ancora attestati “alla fonda” dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi di partenza, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale direzione effettiva si è presa; si può consultare la bussola quanto si vuole, ma se anche gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito.

lunedì 15 luglio 2013

Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy e l'ortodossia di Paul Mattick - Riccardo Bellofiore -


Sweezy è nato a New York, nel 1910, rampollo della alta borghesia degli Stati Uniti, figlio di un vicepresidente della First National Bank. I suoi primi scritti compaiono sull’«American Economic Review», la più prestigiosa rivista di economia, prima ancora di aver esaurito il primo ciclo degli studi universitari. Studia alla Philips Exeter Academy e alla Harvard University, dove si laurea nel 1931. Nel 1932-33 va alla London School of Economics, dove fu influenzato dal pensiero di Laski, e dove ebbe un primo contatto col marxismo. Tornato ad Harvard nel 1939 per il dottorato, divenne assistente di Schumpeter: per lui curò, oltre ai rapporti con gli studenti, una serie di seminari. Importante fu quello di un gruppo molto ristretto, cui partecipavano solo 4-5 persone: tra loro Elizabeth Boody, storica economica, futura moglie dell’economista austriaco; e Samuelson, futuro Premio Nobel per l’economia. Allievo di Sweezy fu pure un altro premio Nobel, Robert Solow, che partecipò al corso sull’economia del socialismo. In una bella intervista a Savran e Tonak, tradotta da L’ospite ingrato, Sweezy ricorda come Solow fosse al tempo uno dei giovani economisti più radicalmente orientati a sinistra (non si poteva dire lo stesso, osserva, di Samuelson). Ottenuta una posizione di ruolo, continua Sweezy, il radicalismo di Solow impallidì alquanto.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                Paul Mattick. Nato nel 1904, giovanissimo operaio diviene spartachista, e partecipa alla fallita rivoluzione tedesca. Nei primi anni Venti, comunista «consiliare» e parte dell’opposizione di sinistra al bolscevismo leninista, abbandona il Partito comunista di Germania per entrare nel Partito comunista operaio diGermania. Emigra nel 1926 negli Stati Uniti, dove contribuì a redigere il Programma degli Industrial Workers of the World a Chicago nel 1933.
Mattick è stato «uno dei tre» del comunismo dei consigli, insieme a Karl Korsch e Anton Pannekoek. Denunciando i limiti e l’involuzione del partito leninista, Mattick ha invece sostenuto l’importanza della nuova forma organizzativa emersa spontaneamente durante la rivoluzione russa del 1905: i consigli operai. Tornati sulla scena con maggior forza nel febbraio 1917, determinarono la natura del processo rivoluzionario, ispirando la formazione di analoghe organizzazioni spontanee nella rivoluzione tedesca del 1918, e poi un pò dappertutto fino ai giorni nostri. Secondo Mattick, con il sistema consiliare nasceva una forma organizzativa capace di coordinare in piena indipendenza le autonome attività di masse molto vaste. Oltre ai saggi di critica dell’economia, ha pubblicato dal 1934 una rivista vicina al movimento dei consigli, l’ «International Council Correspondence», divenuta «Living Marxism» nel 1938, per cambiare ancora nome nel 1942 col titolo di «New Essays». Nel1936 scrisse per la «Zeitschrift für Sozialforschung» di Horkheimer un saggio sul movimento dei disoccupati dopo il 1929: aveva partecipato alle organizzazioni spontanee per l’occupazione di case, per l’uso proletario del gas e dell’elettricità, per le grandi manifestazioni che la polizia non riusciva più a contenere.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           ... È soltanto su questo sfondo che si può intendere quello che viene dopo, la nuova grande crisi che stiamo vivendo: a partire da Sweezy e Mattick, ma andando oltre Sweezy e Mattick.  La risposta del capitale alla crisi degli anni Settanta si è mossa su due gambe. Da un lato, la frantumazione del lavoro, cioè la precarizzazione nel mercato e nel processo di lavoro, la concorrenza aggressiva dei global player che determina sovra-capacità, la centralizzazione senza concentrazione, il trasformarsi della struttura produttiva verso un capitalismo di imprese modulari articolate in rete. È un mondo di catene transnazionali della produzione, di delocalizzazioni e in-house-outsourcing, di lavoro migrante e sempre più «femminile». Dall’altro lato, abbiamo la finanziarizzazione. Favorita dalla globalizzazione dei capitali e dai cambi flessibili, e dalla conseguente incertezza, il rinnovato primato della finanza ha preso la forma di un money manager capitalism,di un «capitalismo dei fondi», che ha fatto esplodere il debito privato, e in particolare il debito al consumo, grazie ad una inflazione dei prezzi delle attività finanziarie che è fuori dall’orizzonte dei due pensatori qui considerati (ne ha scritto in importanti lavori Jan Toporowski). Questa nuova finanziarizzazione altro non è che una autentica «sussunzione reale del lavoro alla finanza» (ai mercati finanziari e alle banche). Essa non solo ha incluso le «famiglie» in modo subalterno. Essa ha anche, da un lato, accelerato la decostruzione del lavoro per mille vie, incidendo potentemente sui processi capitalistici di lavoro, dall’altro stimolato una domanda effettiva manovrata politicamente. Una sorta di paradossale «keynesismo privatizzato» di natura finanziaria...                                                                                                                                        https://www.facebook.com/notes/economisti-di-classe-riccardo-bellofiore-giovanna-vertova/tra-schumpeter-e-keynes-leterodossia-di-paul-marlor-sweezy-e-lortodossia-di-paul/483435408400092
https://www.facebook.com/notes/economisti-di-classe-riccardo-bellofiore-giovanna-vertova/tra-schumpeter-e-keynes-leterodossia-di-paul-marlor-sweezy-e-lortodossia-di-paul/485323824877917

venerdì 12 luglio 2013

La luxemburg, Lenin e la democrazia. - Stefano Garroni. 14/06/2006 -



Nel suo scritto su La rivoluzione russa[1], la Luxemburg considera lo scioglimento dell’Assemblea costituente, voluto da Lenin e ampiamente giustificato da Trockij, come un punto nodale, partendo dal quale la politica bolscevica si va effettivamente determinando, assumendo un profilo preciso. Ed ovviamente la Luxemburg non manca di sottolineare che i bolscevichi avevano duramente criticato il precedente governo Kerenskij, perché ostile all’Assemblea costituente: ciò nonostante, appena fu loro possibile, proprio i bolscevichi si resero responsabili dello scioglimento di quella stessa Assemblea.
La Luxemburg, inoltre, cita ampiamente le successive argomentazioni di Trockij a giustificazione di codesto scioglimento -argomentazioni contenute nell’opuscolo, giudicato “interessante” dalla stessa Rosa, Dalla Rivoluzione d’Ottobre alla pace di Brest-Litowsk.[2]
In quello scritto sostanzialmente Trockij svolgeva un argomento tipico della sua riflessione: ovvero, il meccanismo elettorale della democrazia parlamentare o borghese segna un momento di passività delle masse e le fissa nello stato d’animo e nelle scelte fatte al momento delle elezioni, anche se proprio da quel momento la generale situazione politica e lo stesso orientamento delle masse hanno subito mutamenti profondi. Insomma, per Trockij l’Assemblea costituente, eletta molto tempo prima della Rivoluzione d’Ottobre, rifletteva una situazione politica ormai passata e incompatibile con la nuova realtà, scaturita proprio dalla Rivoluzione: di qui l’inevitabilità di sciogliere un’Assemblea ormai non più significativa.
Questa argomentazione appare viziosa alla Luxemburg, quasi un esempio dello ‘gettare il bambino insieme all’acqua sporca’ – perché, si chiede infatti die rote Rose [3], se quell’ Assemblea costituente non rispecchiava più la situazione politica e sociale, non convocare nuove elezioni e procedere, così, all’elezione di un’Assemblea più fedele ai tempi?

martedì 9 luglio 2013

H.H.Holz, Philosophie, Hamburg 1990



La filosofia è quel modo di conoscenza,che non tanto si orienta mediante gli oggetti indagati dalle scienze particolari, quanto piuttosto sulle condizioni e la struttura dei loro [1]
insiemi ordinati, sul modo del loro esser dati nella conoscenza, sul loro significato per l‘uomo e, dunque, in fine, sull’orientamento teorico e pratico dell’uomo nel mondo. (672). La filosofia si interroga anche sull’essenza del singolo essere e del mondo come tutto, sulla verità e le forme del pensiero, nonché circa il senso della vita e lo scopo dell’agire. A differenza di altre forme di visione del mondo, la filosofia sottopone la propria teoria ed argomenti e criteri razionali, per opera dei quali essa generalmente risulta comprensibile e nei migliori dei casi si può dimostrare che essa dovrebbe esser vincolante. Poiché il movimento di pensiero della filosofia non si pone al livello dell’oggetto, ma a ciò giunge partendo dai rapporti tra gli oggetti, ovvero dal rapporto tra essere e pensiero, inizialmente la filosofia si pone in contraddizione rispetto ad altre forme di visione del mondo, quali ad es. il mito, la religione, la concezione naturalistica, che procedono da qualcosa di presupposto. La filosofia,invece, non procede da altro se non da se stessa: la filosofia deve –e in ciò consiste la sua difficoltà- intraprendere il tentativo di iniziare senza presupposti, in modo da potere, nel corso del suo sviluppo, esplicitare i presupposti nascosti in un inizio che apparentemente ne è privo. Ciò significa che il suo movimento, che la fonda, è circolare e si verifica nella costruzione non viziosa di questo circolo.(673)

domenica 7 luglio 2013

A proposito della lukàcciana Distruzione della ragione. - Stefano Garroni -



Secondo Garin, La distruzione della ragione[1] fu scritta da Lukàcs in funzione anti-Zhdanov[2], esattamente per criticare l’endiadi idealismo/materialismo, a cui Lukàcs contrappone quella di razionalismo/irrazionalismo, intendendo che entrambe queste ultime prospettive possono assumere sia forma materialistica che idealistica.[3]

Si può azzardare da ciò, che Lukàcs, realmente, ponga in secondo piano il problema gnoseologico (espresso dalle domande che e quali possibilità di conoscenza posso effettivamente avere)?

                                                                                                                                                                                                  Come che stiano le cose, non è dubbio che la pagina lukàcciana non è mai contenuta nei limiti e nella determinatezza di un  problema, ma  che al contrario, anche quando in questione sia un singolo tema, il suo respiro, la sua apertura va oltre, quasi a cogliere una totalità di prospettiva, che comprende, ma supera anche, la questione sul tappeto.
Per render conto di questo carattere peculiare (hegeliana) della scrittura lukacciana, avanziamo l’ipotesi che, almeno a volte, Lukàcs scriva la storia della filosofia, avendo a mente due modelli letterari: ed esattamente Dostoevskij e in particolare il  Th. Mann della Montagna incantata.. Esempio evidente di ciò dovrebbe essere, appunto, La Distruzione della ragione.
Introducendo questi modelli, intendo che gli eventi, i personaggi, gli episodi –rilevanti o meno- della filosofia, quasi personaggi di un romanzo, son comunque tutti elementi, che servono, in Lukàcs, a dar carne allo scheletro di fondo, alla trama che sta alla base della costruzione scritta (rispettivamente, lo svolgersi della Pietroburgo moderna, ovvero –forse- del capitalismo in Russia; la dinamica della crisi europea ed infine l’esacerbarsi della barbarie imperialistica).
Se effettivamente così è impostata la pagina lukàcciana, allora è implicito in essa un certo taglio ‘riduzionistico’, che però non sempre disturba, se mette effettivamente in luce come a largo livello culturale, politico, storico, e in condizioni storiche date, le filosofie possono funzionare rispetto alla loro finalità di comprensione/descrizione olistica, anche rischiando certe cadute.[4]

sabato 6 luglio 2013

Del materialismo storico - Antonio Labriola -

I.    In questo genere di considerazioni, come in tanti altri, ma in questo più che in ogni altro, è di non piccolo impedimento, anzi torna di fastidioso impaccio, quel vizio delle menti addottrinate coi soli mezzi letterarii della coltura, che di solito dicesi verbalismo. Si insinua e si espande in ogni campo di conoscenze cotesto mal vezzo; ma nelle trattazioni che si riferiscono al così detto mondo morale, e ossia al complesso storico-sociale, accade assai di sovente, che il culto e l’impero delle parole riescano a corrodervi e a spegnervi il senso vivo e reale delle cose.

Là dove la prolungata osservazione, il reiterato esperimento, il sicuro maneggio di raffinati istrumenti, l’applicazione totale o almeno parziale del calcolo, finiron per metter la mente in una metodica relazione con le cose e con le variazioni loro, come è il caso delle scienze naturali propriamente dette, ivi il mito ed il culto delle parole rimasero oramai superati e vinti, ed ivi le questioni terminologiche non hanno in fin delle fini se non il valore subordinato di una mera convenzione. Nello studio, invece, dei rapporti e delle vicende umane, le passioni, e gl’interessi, e i pregiudizii di scuola, di setta, di classe, di religione, e poi l’abuso letterario dei mezzi tradizionali della rappresentanza del pensiero, e poi la scolastica non mai vinta e anzi sempre rinascente, o fanno velo alle cose effettuali, o inavvertitamente le trasformano in termini, e parole, e modi di dire astratti e convenzionali.
Di tali difficoltà bisogna che innanzi tutto si renda conto chi mette fuori in pubblico la espressione, o formula, di concezione materialistica della storia. A molti è parso, pare e parrà sia ovvio e comodo di ritrarne il senso dalla semplice analisi delle parole che la compongono, anziché dal contesto di una esposizione, o dallo studio genetico del come la dottrina si è prodotta 1, o dalla polemica con la quale i sostenitori suoi ribattono le obiezioni degli avversarii. Il verbalismo tende sempre a rinchiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l’intricato e immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza, che sia cosa agevole il vedersi sott’occhi il multiforme e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o, a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi, perché non vede che denominazioni.

venerdì 5 luglio 2013

Pacifismo come servo dell'imperialismo - L. Trotsky - Scritto nel periodo tra la formazione del Governo Provvisorio e la metà del 1917.

Non ci sono mai stati tanti pacifisti al mondo quanti ve ne sono oggi, quando in tutti i paesi gli uomini si stanno uccidendo l'un l'altro. Ogni epoca storica ha non solo la propria tecnica e la propria forma politica, ma anche una forma di ipocrisia da essa peculiare. Una volta i popoli si distruggevano l'un l'altro nel nome dell'insegnamento cristiano di amore per l'umanità. Oggi solo governi arretrati si richiamano a Cristo. Le nazioni progressiste si sgozzano a vicenda in nome del pacifismo. Wilson trascina l'America in guerra nel nome della Società delle Nazioni e della pace perpetua. Kerensky e Tsereteli richiamano all'offensiva nell'interesse di una pace imminente.
La nostra epoca manca dell'indignata satira di un Giovenale. In ogni caso, persino le più potenti armi satiriche corrono il rischio di risultare impotenti ed illusorie a confronto della trionfante infamia e della spregevole stupidità; due elementi egualmente liberati dalla guerra.
Il pacifismo fa parte della stessa stirpe storica della democrazia. La borghesia ha fatto un grande e storico tentativo per ordinare tutte le relazioni umane in conformità alla ragione, per soppiantare cieche e mute tradizioni con le istituzioni del pensiero critico. Le gilde con le loro restrizioni della produzione, le istituzioni politiche con i loro privilegi, la monarchia assolutista - tutte queste cose erano relitti tradizionali del medio evo. La democrazia borghese esigeva uguaglianza legale per la libera concorrenza, e il parlamentarismo come mezzo per governare gli affari pubblici. Essa ha cercato di regolare anche le relazioni internazionali alla stessa maniera. Ma qui essa è venuta incontro alla guerra, cioè incontro ad un metodo di risolvere i problemi che è una completa negazione della "ragione". Così essa ha preso ad insegnare alle persone la poesia, la filosofia, l'etica ed i metodi commerciali, che sono molto più utili per loro per diffondere la pace perpetua. Questi sono gli argomenti logici per il pacifismo.
L'ereditato fallimento del pacifismo, però, fu il male fondamentale che caratterizzò la democrazia borghese. Le sue critiche toccano soltanto la superficie dei fenomeni sociali, esso non ha il coraggio di tagliare nel profondo, nei sottostanti fatti economici. Il realismo capitalista, però, accarezza l'idea di una pace perpetua basata sull'armonia della ragione forse più spietatamente delle idee di libertà, uguaglianza e fratellanza. Il capitalismo, che ha sviluppato tecniche razionali, ha fallito nel regolarne razionalmente le condizioni d'uso. Esso ha costruito armi di mutuo sterminio che i "barbari" dei tempi medievali non si sarebbero mai sognati.
Il rapido intensificarsi dei rapporti internazionali e l'incessante crescita del militarismo, hanno tolto la terra da sotto i piedi del pacifismo. Ma, allo stesso tempo, queste stesse forze stavano dando al pacifismo nuova vita sotto i nostri stessi occhi, una nuova vita che è differente dalla vecchia tanto quanto un tramonto rosso sangue è differente da una rosea alba.

giovedì 4 luglio 2013

STORIA DEL MARXISMO - Andras Hegedus -



La costruzione del socialismo in Russia

 1  Il nuovo Stato

Una situazione rivoluzionaria nella storia raramente ha trovato una immagine del futuro già pronta, come quella che prese forma all’interno della corrente bolscevica russa del marxismo. E qui dobbiamo pensare anzitutto ai lavori di Lenin e specialmente allo scritto, terminato nel settembre del 1917, dal titolo Stato e rivoluzione. Secondo il contenuto di quest’opera, la prima tappa della via che conduce al comunismo è l’instaurazione della dittatura del proletariato, che significa da un lato democrazia per la stragrande maggioranza del popolo, dall’altro violenta esclusione dalla democrazia per gli antichi oppressori del popolo. Per quest’ultima tuttavia non ci sarà bisogno, o “quasi” non ci sarà bisogno, di un apparato speciale, perché sarà sufficiente l’organizzazione delle masse armate. Dapprima verrà eliminata solo quell’ingiustizia sociale derivante dal fatto che i mezzi di produzione sono di proprietà di singoli individui, mentre la distribuzione dei beni di consumo non avverrà ancora secondo i bisogni, bensì secondo il lavoro, nel senso che, non esistendo un altro diritto, sussiste ancora il “diritto borghese”; anche la tecnica inoltre esige la più severa attenzione, altrimenti la fabbrica si ferma e nascono disturbi nel funzionamento del macchinario. Lo Stato, proprio per la necessità di organizzare questi rapporti, continua a sopravvivere, sebbene abbia perso ormai la sua funzione oppressiva, perché deve difendere il suddetto ruolo di divisione dei prodotti e del lavoro. Ogni cittadino sarà il funzionario retribuito di questo potere, che allora veniva immaginato ancora come omogeneo, senza articolazione e funzionante come un “cartello” esteso a tutto il popolo. “L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”. (Lenin, Stato e rivoluzione, Roma 1966, p.178)

Solo in tale periodo di transizione possono lentamente maturare le condizioni per la totale estinzione dello Stato e con ciò le condizioni del raggiungimento del grado superiore del comunismo, ma solo nel caso che vengano applicate immediatamente tutte le misure atte a contrastare la burocratizzazione; e quindi non solo l’eleggibilità delle cariche, ma anche la mobilità; retribuzioni non superiori a quelle degli operai, transizione immediata alla fase in cui ognuno è “burocrate” per un certo tempo, così che nessuno possa diventare burocrate.

     Questa immagine del futuro si distingue dalle “profezie” di Marx non soltanto per il fatto che - almeno per certi aspetti – in essa si delineano con maggior precisione i contorni della nuova società, ma anche per l’accentuazione che viene data al ruolo dominante dello Stato nella vita economica, sebbene si tratti di un nuovo tipo di Stato. Possiamo arrischiare la supposizione che in questo “statocentrismo” avesse un ruolo molto importante la peculiarità dello sviluppo russo e il livello di tale sviluppo: quella certa “asiaticità” (Asientum), tanto spesso citata, e da cui, secondo la teoria di Lenin, il popolo può essere fatto uscire solo dall’avanguardia della classe operaia organizzata in Stato nella forma dei soviet. In quella situazione non si poteva neppure parlare di “libere associazioni dei produttori”. In quell’immagine del futuro rimaneva ancora incerta la funzione di due importanti sistemi istituzionali: il ruolo del partito e quello dei sindacati nello Stato proletario, che si immaginava privo di partiti indipendenti. La teoria sottolinea la funzione del partito, come avanguardia della classe operaia, soprattutto in riferimento al periodo della rivoluzione. I sindacati invece svolgono la funzione di terreno di confronto nella lotta tra le forze rivoluzionarie e le varie forze revisioniste e riformiste.