mercoledì 31 luglio 2013

Pensare il proprio tempo. Ateismo positivo e uscita dal capitalismo in Claudio Napoleoni e Franco Rodano. - Riccardo Bellofiore -

[pubblicato come Riccardo Bellofiore: Pensare il proprio tempo. Il dilemma della laicità in Claudio Napoleoni e Franco Rodano (in Per un nuovo dizionario della politica, Ed. Riuniti, Roma 1992, a cura di L. Capuccelli]                                                                                                                                                                                                         https://www.facebook.com/pages/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova/148198901904582?fref=ts                                                                                                                                 
                                                                                                                                                                               1. Introduzione
Nelle pagine che seguono si riandrà ad un episodio intellettuale tra i più significativi del secondo dopoguerra italiano. Si tratta di quel singolare confronto con il pensiero marxiano e con il pensiero cristiano che caratterizza la riflessione, prima solidale e poi separata, di Franco Rodano e Claudio Napoleoni. I due autori volevano andar oltre la mera ripresa o la pura critica dell'uno e dell'altro filone verso una sintesi che costituisse un loro effettivo "superamento": mantenendo però, in modo scientificamente rigoroso e filosoficamente fondato, l'istanza rivoluzionaria di Marx, ovvero il progetto di uscita dal capitalismo, ormai giunto alla fase dell'opulenza.

Ci resta di questa esperienza la prima serie della Rivista Trimestrale, dove i due pensatori forgiarono assieme le loro tesi in un modo così stretto da rendere disagevole il districare il contributo dell'uno e dell'altro. L'esperienza cessò nel 1971, in conseguenza di un ripensamento da parte di Napoleoni: ripensamento che egli stesso definì una vera e propria "autocritica", centrata su un mutato giudizio su Marx rispetto alla critica condotta dalla Trimestrale. Per molto tempo, e a parere di molti, si poté avere l'impressione che la storia finisse qui, con Rodano che proseguiva da solo un filo di riflessione che prima era stato comune, e con Napoleoni occupato dallo sviluppo di un diverso modo di ragionare. Non era così. Napoleoni non cessò mai di condurre un serrato confronto, critico ma non negativo, nei confronti tanto di Rodano come del seguito della riflessione della Trimestrale, che aveva intanto ripreso le pubblicazioni come Quaderni; al punto che Napoleoni divenne negli anni ottanta non soltanto interlocutore privilegiato ma anche collaboratore della nuova serie della Rivista Trimestrale. Di più, gli ultimi mesi della sua vita furono occupati da una ripresa dell'intero filo del pensiero di Rodano, in particolare nel suo aspetto di critica della teologia.

Negli inediti dell'aprile-maggio 1988 in cui questo dialogo ci è consegnato - una lettera ad Adriano Ossicini, e alcune versioni di un incompiuto saggio su Rodano - Napoleoni riconfermava l'importanza, meglio la centralità, dell'interrogativo di Rodano sulla possibilità di un'uscita dalla società opulenta per via puramente politica; ne metteva però in questione la risposta affermativa. Se, come continua ad esser vero anche per l'ultimo Napoleoni, la prospettiva di un trascendimento della storia data deve essere riconfermata, si devono allora tentare altre strade. La sentenza di Heidegger, "ormai solo un Dio ci può salvare", rimaneva cupamente sullo sfondo: come esito inquietante, certo, e contro cui però non era ancora possibile opporre obiezioni vincenti. Quella conclusione sembrava anzi imporsi, se si seguiva la logica stessa dell'ultima riflessione, scientifica e filosofica, dell'economista; ma non era negata l'eventualità di fondare altrimenti rispetto a Rodano la laicità dell'azione politica per chi si muova verso un superamento del capitalismo. Al termine del suo percorso teorico, che si era allontanato non poco dalle proposizioni della prima Trimestrale, Napoleoni tornava così a interrogarsi sulla possibilità di una nozione integralmente laica di rivoluzione, che era stata il cuore dell'elaborazione di Rodano: nozione forgiata appunto in antitesi superatrice rispetto al conservatorismo della posizione cattolica pura e rispetto all'ateismo positivo di quella sorta di religione immanentistica che era la posizione marxista.

Lo scopo che mi propongo è quello, modesto e preliminare, di una ricostruzione la più fedele possibile delle tappe di questa vicenda. In conclusione verranno proposte, in modo sintetico e dunque inevitabilmente poco più che suggestivo, alcune considerazioni critiche sui nodi della controversia, tanto in merito alla questione del giudizio sul pensiero di Marx nel suo intreccio di dimensioni (economica, filosofica, politica), quanto in merito al "dilemma della laicità" dell'azione politica.


2. Critica di Marx

Per esporre la posizione comune a Napoleoni e Rodano negli anni sessanta un buon luogo da cui partire è l'articolo a quattro mani Sul pensiero di Marx[1]. In quel testo si tiravano infatti programmaticamente le fila delle argomentazioni svolte da Rodano sulla nozione di rivoluzione e sulla categoria di società opulenta, come anche delle considerazioni di teoria economica che Napoleoni aveva condotto sulle pagine della rivista, le une e le altre in un serrato contrappunto rispetto alla posizione di Marx.

Il punto di partenza dell'interpretazione di Marx proposta dai due autori è la tesi che in Marx si dia una definizione ontologica dell'essenza umana come "pratica attività sensibile". In quanto tale, l'essere umano è libero soltanto nella misura in cui la sua attività è fine a se stessa, incondizionata, non ordinata a un fine che sia esterno all'attività stessa. Non può dunque costitutivamente essere libero il lavoro, che ha per definizione natura strumentale, di mezzo per uno scopo esterno, necessario e condizionante. Da queste prime connotazioni filosofiche dell'opera di Marx derivano una serie di conseguenze di non poco momento.

Innanzitutto, l'esistenza naturale immediata dell'uomo non può che essere in contraddizione con la sua essenza: in quanto condizionata dal bisogno della sussistenza fisica l'attività umana non è libera, ma è lavoro. La posizione immediata dell'essere umano è dunque quella di un esserealienato, e il finito viene necessariamente ad essere caratterizzato come negativo. In secondo luogo, l'alienazione, per essere superata, richiede che si produca una condizione di uscita dal lavoro, e perciò dal condizionamento naturale in quanto limite incompatibile con la libertà. La storia è per Marx la costituzione delle condizioni oggettive di tale uscita per l'intero genere umano. Cessata l'alienazione, la storia finisce. L'opera di Marx è dunque una filosofia della storia, dove il senso di quest'ultima è individuato in una realizzazione integrale dell'essenza umana, in una vera e propria conquista dell'assoluto. L'uscita dal lavoro e dalla storia è ineluttabile e necessitata nel ragionamento dialettico di Marx, in quanto l'alienazione dà origine allo sfruttamento, e quest'ultimo è il passagio storico ineludibile di una liberazione universale dal lavoro.

E' questo il terzo momento dell'interpretazione di Marx data da Rodano e Napoleoni. Il carattererazionale tipico del lavoro umano dà luogo ad un aumento della produttività, e quest'ultimo consente che una parte della società asservisca l'altra, di modo che quest'ultima lavori non soltanto a produrre la propria sussistenza, ma anche a consentire il non lavoro dell'altra. Il "pluslavoro", lo sfruttamento, è così la base del consumo opulento delle classi signorili. La condizione servile di parte dell'umanità consente effettivamente una liberazione dal lavoro, ma quest'ultima è privilegio aristocratico di signori e filosofi. Nella logica della Trimestrale, come si vedrà, si tratta di una "rapina" dell'assoluto alla quale non possono accedere schiavi o servi della gleba, come anche tutti coloro che non trovano posto nel processo economico per la natura sostanzialmente stazionaria delle società signorili, e che vanno dunque a costituire una fascia crescente di esclusi.

La crisi della società signorile dà luogo al capitalismo, in cui il sovrappiù diviene un plusvalore di cui la borghesia continua ad appropriarsi privatamente, destinandolo però all'accumulazione. Lo sfruttamento persiste anche nelle nuove condizioni, in quanto per Marx anche nel capitalismo il plusvalore va ricondotto, in forza della teoria del valore-lavoro, a pluslavoro; ma d'altra parte il reinvestimento del surplus rende socialmente trascurabile il lavoro necessario alla sussistenza della società, e prepara così il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. In quanto il sovrappiù è destinato all'accumulazione - in quanto viga cioè in forma pura la legge del capitale - gli esclusi divengono lavoratori: la condizione servile si generalizza, e ad essa a ben vedere non sfugge la stessa borghesia, la cui attività, differentemente dal caso delle classi signorili, è interna al mondo dell'economia. La rivoluzione - dopo una fase in cui il proletariato al potere conduce a termine quello sviluppo delle forze produttive che la borghesia non è in grado di raggiungere per i limiti connessi all'anarchia del mercato e alla natura privatistica della proprietà, limiti che destinano il capitalismo ad un "crollo" finale - realizza infine, come si è anticipato, l'essenza umana.

A parere di Napoleoni e Rodano questa costruzione incontra alcune difficoltà insuperabili. Per cominciare, la teoria economica moderna - in particolare i modelli di Sraffa e di von Neumann - smentisce la teoria del valore-lavoro così come è sviluppata da Marx; smentisce cioè la tesi che dietro il plusvalore si possa rinvenire un pluslavoro, individuando in tal modo una continuità tra precapitalismo e capitalismo sotto il segno dello sfruttamento. Non che Marx avesse torto nel sottolineare come il capitalismo ha segnato un salto di qualità consistente nel fatto che il lavoro viene incluso nel capitale, sino a scomparire come categoria autonoma e divenendo lavoro "generico" che produce una ricchezza altrettanto "generica", il cui scopo non può che essere il proprio autoaccrescimento. E neanche si poteva negare l'altra tesi di Marx che nel capitale allo stato puro il consumo diviene un momento subordinato alla produzione. Il limite di Marx sta piuttosto nel non essersi reso conto che il carattere circolare del processo capitalistico, per cui il capitale è produzione per la produzione, fa sì che il sistema dei rapporti di scambio trova spiegazione non nel solo elemento del lavoro direttamente e indirettamente contenuto, come vorrebbe la teoria del valore-lavoro, ma più complessivamente nella struttura tecnica del capitale, come vuole la nuova teoria circolare della determinazione dei prezzi. Nella determinazione dei prezzi, oltre alle quantità di lavoro generico contenute nelle merci, contano le qualificazioni tecniche specifiche che i lavori hanno assunto effettivamente nei processi produttivi, e la distribuzione temporale del tempo di lavoro prestato. Anche l'origine del sovrappiù va perciò ricondotta allo stato della tecnica, non ad una deduzione dal lavoro erogato nella società. In altri termini: dato che il valore delle merci non può essere interpretato senza residui come un coagulo di lavoro, viene a cadere la dimostrazione marxiana dello sfruttamento, e dunque la tesi di una essenziale identità di sostanza tra la posizione del signore e quella del capitalista in quanto, entrambi, percettori di pluslavoro.

Alla critica della teoria del valore-lavoro e dello sfruttamento fa seguito la critica della teoria dell'alienazione. Per il Marx di Rodano e Napoleoni, l'alienazione è costitutiva al lavoro in quanto attività condizionata da fini determinanti e necessari, quale è la sussistenza fisica; al lavoro egli oppone la "pratica attività sensibile", l'essenza dell'essere umano, i cui fini sono invece arbitrari. Per i due autori, queste tesi di Marx, inevitabile conclusione di un ragionamento che parte dalla negatività del finito, sono inaccettabili. Ad essa occorre opporre una diversa definizione dell'essenza dell'uomo, una diversa ontologia, fondata sull'idea (come si dirà, cristiana) dellapositività del finito. Nella visione di Rodano e Napoleoni, l'essere umano è attraversato da un permanente squilibrio tra potenza ed atto, tra ciò che può essere e ciò che è: i suoi bisogni, lo scopo del processo, non sono mai dati una volta per tutte, e sono suscettibili di indefinito accrescimento: per questo egli elabora il dato naturale, produce, adeguando gli oggetti a bisogni via via più complessi. Forma normale ed essenziale dell'attività umana è allora proprio il lavoro, in quanto mediato da strumenti artificiali creati dallo stesso essere umano, mezzi di produzione che aumentano la capacità produttiva.

Lo sviluppo dell'essere umano è qui inteso come il superamento di ogni determinatezza data quale risulta dalla storia precedente, e perciò nell'individuazione e conseguimento di quei fini che sono a loro volta necessari per realizzare l'umanità in un momento definito, e per passare alla determinazione e alla realizzazione di fini superiori. Lo scarto tra realtà e potenzialità non viene mai colmato. Ciò non significa, d'altronde, che le esigenze storicamente poste e necessarie non possano avere pieno appagamento, né che il compimento degli scopi precedentemente fissati non dia luogo a nuovi bisogni. La nozione di alienazione corrispondente a questa diversa definizione di essenza umana è tutta diversa da quella di Marx: per alienazione si deve adesso intendere l'interruzione del processo di sviluppo dell'essenza umana, e quindi il fatto che il lavoro resti strumento per il conseguimento di bisogni dati. Ciò può avvenire tanto in quelle situazioni in cui il bisogno sia da intendersi fissisticamente in quanto dato dalla sussistenza, quanto in quelle situazioni in cui il consumo cresce in modo indotto dalla produzione: anche in questo secondo caso, infatti, non esiste autentico arricchimento dei bisogni, e la crescita dei consumi è dovuta alla semplice complicazione di bisogni nella loro sostanza immutati.

E' questa, in effetti, la situazione tanto delle società signorili quanto di quella capitalistica, anche nella sua configurazione pura dove l'intero plusprodotto è investito. In quest'ultimo caso, la condizione lavorativa si estende a tutti, e si crea quindi una precondizione essenziale per una autentica democrazia. Ciò avviene, però, mantenendo ancora il lavoro in una condizione di alienazione, che anzi viene perfezionata visto che l'essere umano diviene lo strumento della macchina, il lavoratore una parte del capitale. Se ne deve concludere, secondo Napoleoni e Rodano, che nel capitalismo puro si dà alienazione anche se non vi è più sfruttamento. L'alienazione è anzi talmente generale da coinvolgere la stessa classe capitalistica, in quanto l'imprenditore, a differenza del signore, non è libero di consumare il sovrappiù ma è costretto al suo reimpiego produttivo in forza di quel meccanismo di coercizione esterno che è la concorrenza. D'altra parte, il capitalismo puro incontra secondo i nostri autori - per ragioni che non è qui il caso di ripercorrere in dettaglio - difficoltà insormontabili e originarie dal lato della domanda. Basti ricordare che l'origine di questa crisi iniziale rimanda al fatto che, in un contesto di mercato privatistico, l'aumento della quota degli investimenti che sarebbe necessario per controbilanciare la riduzione della quota dei consumi salariali è reso impossibile dall'incertezza che grava sulle decisioni dei singoli imprenditori in merito alla convenienza degli incrementi di capacità produttiva delle proprie unità aziendali. La vita storica del capitalismo è dovuta alla circostanza che nell'economia reale il consumo improduttivo di parte del prodotto netto ha supplito a quell'insufficienza di domanda che sarebbe stata inevitabile, e fatale, nel capitalismo puro.

Se l'alienazione viene ridefinita in questo modo, deve mutare anche la nozione di sfruttamento rispetto a Marx. E in effetti in Rodano e Napoleoni può esistere lavoro sfruttato soltanto nella misura in cui si abbia una classe di consumatori puri, che consuma senza produrre: nella misura in cui, cioè, il lavoro produce l'opulenza di una classe di non-lavoratori. Lo sfruttamento è, in sostanza, la rendita; in essa sono di fatto inclusi la stessa spesa statale "improduttiva", e il salario in quanto ecceda la sussistenza. Mentre nel Marx di Napoleoni e Rodano l'alienazione è la condizione dell'immediatezza naturale e lo sfruttamento la sua necessaria correzione dialettica, sicché superando lo sfruttamento mediante la liberazione dal lavoro si elimina l'alienazione, la concezione della Trimestrale si basa su un nesso causale opposto. E' lo sfruttamento a determinare l'alienazione, in quanto è la divisione della società nelle due classi dei lavoratori e dei non-lavoratori a impedire un arricchimento autentico dei bisogni, cui corrisponda uno sviluppo del lavoro conforme alla sua natura di strumento universale: di conseguenza, le caratteristiche sostanzialmente immutate dei bisogni si riverberano in un lavoro ridotto "innaturalmente" a strumento particolare. Di questa visione è bene sottolineare due corollari. Il primo è che, essendo lo sfruttamento la causa dell'alienazione, il primo può cessare senza che la seconda scompaia: è quanto avverrebbe, secondo i nostri autori, nel capitalismo puro. Il secondo è che, essendo lo sfruttamento un atto che interviene su una essenza umana già dispiegabile in potenza a partire dall'immediatezza naturale, la storia non appare segnata al suo apparire dalla negatività, ma è resa negativa appunto da quell'atto specifico che è lo sfruttamento. Una storia senza sfruttamento era una storia possibile; la rivoluzione non è l'uscita dalla negatività, ma la riconquista della positività del finito.

Ma quale è a sua volta la genesi dello sfruttamento? E' forse qui che può discernersi un contributo originale di Franco Rodano, che verrà ulteriormente sviluppato e integrato negli anni a venire. Lo sfruttamento ha una genesi ideale: è cioé la conseguenza del tentativo dell'essere umano di sfuggire alla finitezza che lo contraddistingue, di rifiutare il limite che gli è proprio, di negare l'invalicabilità dei fini possibili in un momento dato. E' come se l'essere umano, in conseguenza della "chiamata" divina che gli promette escatologicamente l'infinito, pretendesse immediatamentedi assurgere alla divinità con le sue sole forze, "fuggendo" dal lavoro come dimensione costitutivamente immersa nella finitezza: fuga possibile, all'inizio della storia, soltanto in quanto si costringa in una condizione servile gran parte dell'umanità. Da questa sorta di peccato originale non sarebbe esente il marxismo, che non fa altro che render democratico, cioè estendere a tutti, l'ideale aristocratico di uscita dalla finitezza. Una posizione del genere, si badi, comporta del tutto coscientemente il rovesciamento della critica marxiana a Feuerbach. Per Marx l'alienazione religiosa, per cui gli esseri umani sono dominati dall'idea di Dio che è un prodotto della loro mente, ha il suo fondamento nell'alienazione che l'essere umano sperimenta realmente nella produzione della sua vita fisica, dove parimenti i suoi prodotti gli si oppongono come estranei e lo dominano. Secondo Napoleoni e Rodano, al contrario, gli esseri umani sono alienati nella produzione perché negano l'alterità con Dio, pretendendo di farsi essi stessi divinità; o, se si vuole, considerano come dovuto per natura ciò che è per grazia.

Già nell'articolo sul Pensiero di Marx è evidente il ruolo chiave giocato in questa costruzione intellettuale dal confronto con il pensiero cristiano. Il messaggio evangelico che dichiara l'universale eguaglianza di natura tra gli esseri umani in quanto figli di Dio, affermazione incompatibile con le società signorili, viene ritenuto la causa ideale della loro crisi. L'universale eguaglianza è peraltro una caratteristica che troverà riscontro tanto nell'ideale rivoluzionario di Marx, di cui si sono appena ricordati i limiti secondo Rodano e Napoleoni, quanto nell'alienazione generalizzata del capitalismo puro. Non può dunque bastare come base di una nuova e superiore formulazione. Ma nella tradizione cristiana vi è di più. Vi è, in particolare, l'idea del Genesi di una positività del creato come opera di Dio, in cui è implicita una critica al concetto di lavoro come negatività: critica che però rimarrà non sviluppata in quanto la teologia cristiana, inclusa quella cattolica, non abbandonerà la visione del lavoro come poena peccati. Come per Marx, è insomma opportuna anche qui una rilettura critica della teologia che ne estragga, al di là dei limiti delle formulazioni originarie, la loro "verità interna". E' quanto Rodano farà in altri scritti: ad alcuni di questi verrà dedicata la sezione seguente.


3. Critica della teologia

Un testo tra i più chiari e illuminanti della posizione di Rodano sono quelle Lettere dalla Valnerinache vennero pubblicate sotto lo pseudonimo di Ignazio Saveri tra l'ottobre del 1971 e il febbraio del 1972 su Settegiorni, e poi nell'inverno 1974-1975 sui Quaderni della Rivista Trimestrale[2]. In quelle lettere, rimaste interrotte, il nodo del rapporto tra fede e rivoluzione è il centro del discorso: senza che però la prima sia risolta nella seconda, e perseguendo l'obiettivo di chiarire la specificità del vivere cattolico. Lo sfondo su cui il ragionamento si svolge è, come si vedrà, proprio la lettura critica di Marx di cui si è detto in precedenza; il termine, la distinzione tra l'autonomia naturale dell'essere umano e l'opera della grazia.

Il punto di partenza è qui la critica della posizione, allora certo più diffusa di oggi, secondo cui peculiare al cristiano sarebbe l' "essere per gli altri". La dimensione intrinsecamente relazionaledell'essere umano, e l'umile e oggettiva necessità del servire, sono - replica Rodano - semplicemente una dimensione dell'uomo in quanto tale: non un dono della grazia, ma un portato della natura. L'alienazione è appunto, in conformità alla critica a Marx, la negazione di questa condizione costitutiva per cui l'essere umano è "servo". E' sicuramente un merito storico del cristianesimo aver difeso questa dimensione puramente naturale dell'uomo contro le «prevaricazioni di signori e filosofi»: ma questo fatto poco ha a che vedere con una autentica fede cristiana. E altrettanto sicuramente l'essere umano è attraversato da un desiderio di assoluto, per cui anche e soprattutto l'ateismo è ineluttabilmente trascinato al tentativo di realizzare, per così dire, l'infinito nel finito: ma questa tensione propriamente religiosa a realizzarepreternaturalisticamente la vita divina, che dapprima dà luogo alla società signorile, poco ha a che vedere con il contenuto positivo della rivoluzione, anche quando si "democratizzi" l'ideale signorile come fa Marx.

In una sorta di inversione delle parti, il cristianesimo "conservatore" ha finito insomma con il difendere le ragioni della natura, mentre il marxismo "rivoluzionario" ha difeso le ragioni della grazia, vista in qualche modo come il destino dell'essere umano. Sta di fatto, scrive Rodano, che il movimento operaio, e l'istanza rivoluzionaria, hanno potuto mettere radici più facilmente nelle terre della Controriforma, dove la teologia cattolica ha difeso la positività del finito come creato e dell'essere umano come creatura, che nell'area della Riforma, dove si è sostenuta una rigida alterità totale tra natura e grazia che preclude la possibilità che l'essere umano realizzi se stesso sul piano del proprio destino "terreno". La Protesta, ed in specie il calvinismo come sua forma la più omogenea possibile al capitalismo, riduce l'essere umano a strumento vuoto dell'operare della grazia, e non può che essere in contraddizione con il marxismo, che pone invece come risultato necessario della storia l'uscita dalla negatività. Per questo, una posizione che affermi la natura umana come "bene", quale quella che si ritrova nella ripresa del tomismo da parte dei Gesuiti della Controriforma, si è rivelata condizione pratica di un mantenimento di un discorso rivoluzionario. La "lezione" della Controriforma è che la positività dell'essere umano non sta nel superamento della finitezza, ma nell'accettazione del limite; il suo aspetto caduco, e propriamente conservatore, sta invece nell'intendere il limite non come qualcosa di evolventesi in una logica di sviluppo, ma come qualcosa di dato una volta per tutte.

Una volta che il marxismo sia interpretato - in conformità, sia detto di passaggio, con le tesi sostenute da sempre da Augusto Del Noce - come una religione dell'immanenza, non stupirà questa frase delle Lettere: «il marxismo è . . . "il più recente dei nostri avversari": il più temibile anzi, poiché è prossimo e quasi similare alla sostanza, al nucleo, delle nostre convinzioni più intime» (p. 61). Marx come Pelagio: la scommessa, il pari di Marx è che «l'uomo . . . non può infine non giungere alla conquista di se medesimo come assoluto. Anzi, può pervenirvi con le sole sue forze» (p. 73); per questo, la religione non può non apparire l'ostacolo massimo e decisivo, e il marxismo non può non farsi ateismo positivo. Ma ciò appare necessitato e inevitabile soltanto finché si mantenga ferma quell'antropologia per cui l'essere umano è libero solo nell'arbitrio, al di là cioè di ogni condizionamento, ed è dunque se stesso solo fuori del lavoro. Un'antropologia diversa, e ben più adeguata, è quella del Genesi. L'essere umano come "immagine" del Dio che crea i primi sei giorni e si riposa il Sabato, per cui si è se stessi soltanto nel distinto e ritmato insieme del lavoro e del riposo. L'essere umano fatto a "somiglianza" di Dio, nella misura in cui alla compiuta realizzazione della propria natura faccia seguito il dono, la grazia, di una seconda vita "celeste". La relazione tra la natura e la grazia è perciò quella tra le autonome forze dell'uomo e la gratuitachiamata del Padre. E' questa la stessa antropologia che sostiene il discorso della Rivista Trimestrale: una antropologia che è stata mantenuta in vita dal cattolicesimo, ma che è però, a parere del nostro autore, propria di chiunque voglia pensare correttamente, anche fuori da una scelta di fede.

Un filo di ragionamento non dissimile aveva svolto Rodano nelle sue lezioni del 1968-1969 alla SISPE, pubblicate postume nei due volumi Lezioni di una storia possibile e Lezioni su servo e signore[3]. Nei due volumi, più esplicita è la critica della teologia che sorregge il discorso di Rodano, e che potrebbe essere messa in questi termini. Tanto la teologia patristica, a partire da Agostino, quanto quella scolastica, incluso Tommaso, ritengono che la natura umana è decadutain conseguenza del peccato originale. Per Agostino, vi è una vera e propria corruzione dell'essere umano dopo la caduta, sicché si può dire che tutto ciò che questi fa di buono è opera di Dio in lui, dono di grazia. Per Tommaso, la natura umana rimane sì incorrotta dal peccato, ma patisce comunque una ferita cui è da imputare, oltre il dolore e la morte, anche il disordine che caratterizza l'agire e la realtà dell'essere umano. Nell'argomentazione di Tommaso, pur essendoci un "superamento" di Agostino, continua però a rimaner vero che la positività dell'essere umano può essere affermata soltanto in quanto questi sia trasformato dalla grazia: anche Tommaso è insomma subalterno all'antropologia signorile. Per superare questo limite, Rodano torna a quello che giudica il significativo e decisivo passo avanti compiuto dalla teologia gesuitica della Controriforma, cioè da Molina e Suarez, assertori di una autosufficienza della natura rispetto alla sovranatura. Lungo questa linea, Rodano giunge a scrivere nelle Lezioni di storia possibile una formulazione particolarmente esplicita della propria posizione, che merita di essere citata : «non si può essere realmente capaci di fruizione dell'assoluto se non si è per così dire 'atei', nel senso di vedere tutta la bellezza della vita umana a prescindere dall'assoluto» (p. 28).

La stessa impostazione regge un significativo intervento del nostro autore su Il regno-attualità nel dicembre 1981 sul senso dell'azione politica del credente, intitolato: "Identità cristiana e laicità politica. Nella storia comune degli uomini"[4]. L'importanza dell'articolo stava nel fatto, sottolineato dalla premessa redazionale, che era la prima volta in cui Rodano «abbia scritto e firmato per una rivista cattolica» - si ricorderà che le lettere su Settegiorni erano sotto pseudonimo. In quel testo si ribadiva che la peculiarità della fede cristiana sta nel kerigma, nell'annuncio «di una vita soprannaturale donata per grazia, e dunque radicalmente distinta (sebbene non separata in termini di incomunicabilità) dal piano di quanto appartiene all'uomo - se così vogliamo esprimerci - per sua "istituzione creaturale"» (p. 281). Sul terreno dell'azione politica nulla distingue il cristiano dall'essere umano in quanto tale: la positività del finito, benché storicamente si tratti di una verità mantenuta nel tempo grazie all'operare storico del cristianesimo, è conclusione cui si può giungere per via di ragione. Per questo, afferma Rodano, «il tradizionale luogo teologico per cui gratia perficit naturam risulta, a veder bene, da sottoporre a rovesciamento. Bisogna cioè rendersi conto che è invece la "natura", se positivamente affrontata in tutta la sua pienezza e conquistata fase per fase, giorno per giorno, lungo il corso della storia, a sostenere in maniera indiretta - ossia, per così esprimermi, come mero ma potenzialmente fecondo prolegomeno - una vera vita di grazia: di quella grazia che la fede insegna esser data "in aggiunta" all'esistenza creaturale, per "dono libero e imperscrutabile"» (p. 282, corsivi nel testo).

Quanto detto non impedisce a Rodano di individuare il contributo che il cristiano ancor oggi può dare "di suo" alla vita politica, anche qui non in forza di una integralistica superiorità ma di una maggiore consapevolezza di ciò che è genericamente umano. Si tratta di punti ormai evidenti dalla ricostruzione che abbiamo fatto della posizione dell'intellettuale romano. Il cristiano, proprio perché pone l'assoluto nella trascendenza, può più facilmente sfuggire alla tentazione di vedere la realizzazione dell'essere umano in un superamento di ogni limite nell'immanenza. Egli sa, di conseguenza, che se l'essere umano si pone come compito il "salto nell'assoluto" non potrà che fallire. Accetta dunque che la vita naturale si svolga nell'accettazione del servizio reciproco, e che ad una incondizionata pienezza di libertà può essere chiamato «solo al di là di tutto questo, e dopo che a tutto questo egli abbia cercato con ogni sforzo e fatica di adempiere sino in fondo.» (p. 283)

Alle stesse conclusioni - con qualche oscillazione, imputabile forse all'occasione o ad una imprecisa trascrizione - giungeva Rodano in una intervista del 1982 a Nuovasocietà[5]. «Per Marx . . . il socialismo è la fine della storia. Una simile visione, essendo utopistica non è una visione laica; è, al contrario in qualche modo religiosa, e dunque fatalmente concorrenziale con il cattolicesimo . . . L'insegnamento di Croce è, su questo punto decisivo: bisogna chiuderla una volta per tutte con la filosofia della storia . . . La concezione utopistica, di cui ho detto, del socialismo come conclusione della storia deriva da una antropologia, quella di Marx, che considera l'uomo essenzialmente come lavoro (sic): il lavoro è il primo bisogno dell'uomo, si ha uscita dal preumano allorché l'uomo può lavorare non per la propria sussistenza (è il regno della necessità) ma per estrinsecare la propria essenza attraverso l'esplicarsi libero e incondizionato della sua pratica attività sensibile, ossia del suo lavoro (sic). E' così che, per Marx, si entra nel regno della libertà. Ora fino a che si mantiene una simile visione dell'uomo, una simile antropologia, si rimane prigionieri di una concezione individualistica della salvezza dell'uomo. A questa va, secondo me, sostituita un'altra antropologia, secondo cui il primo bisogno dell'uomo è l'uomo stesso, è l'altro, gli altri . . . una concezione, questa, che ha certo dei punti di contatto con il cristianesimo. Cambia radicalmente, in questo modo, anche l'immagine di una società socialista: si passa dalla concezione di un socialismo tutto produttivo a quella di un socialismo per il quale momento fondamentale è il consumo, l'utilizzo delle risorse, il modo di questo utilizzo». (pp. 11-12).                       
                                                                                                                                                                        4. L'autocritica di Napoleoni.

 Le strade di Napoleoni e di Rodano si erano separate dall'inizio degli anni settanta. L'ultimo numero della prima serie della Rivista Trimestrale, il 31-32, è datato giugno 1970. Il primo della ripresa come Quaderni, il 33-34, porta la data del maggio 1972. La corrispondenza tra i due conservata al Fondo Napoleoni mostra che almeno sino all'aprile del 1971 Napoleoni, che andava allora rimeditando la propria posizione sulla teoria del valore-lavoro marxiana in serrato confronto con Lucio Colletti e Marina Bianchi, confidava ancora di poter proseguire l'esperienza della Trimestrale. Ulteriore conferma ne sono altri due fatti: un appunto della primavera di quell'anno sul "problema della trasformazione" è  ancora sostanzialmente interno alla lettura di Marx della Trimestrale, lettura che aveva trovato la sua più matura espressione nell'introduzione alla Teoria dello sviluppo capitalistico di Sweezy curata per la Boringhieri e apparsa nel 1970; la collaborazione al settimanale Settegiorni, su cui Napoleoni andava conducendo dall'ottobre del 1970 degli interventi in favore di quella linea di "riforme nel consumo" che discendeva coerentemente dalla linea teorica della Trimestrale, cessa soltanto nel giugno del 1971. Alcuni appunti del luglio 1971, ancora sulla teoria del valore-lavoro marxiana, mostrano però che a partire da allora Napoleoni inizia a muoversi nel tentativo di recuperare, tanto sul terreno filosofico quanto su quello strettamente analitico, la posizione di Marx, fuori dunque dalle ipotesi condivise con Rodano: non certo, va sottolineato, nel senso di una qualche ortodossia, semmai di uno sviluppo originale, che però rimanga interno al marxismo e non ne fuoriesca. Questi primi tentativi sono incerti, ma lo conducono ben presto a un distanziamento dall'esperienza della Trimestrale, distacco che è evidente negli interventi che Napoleoni fa nell'ottobre del 1971 al convegno dell'Istituto Gramsci sul "marxismo italiano degli anni sessanta e le nuove generazioni". Nei primi mesi del 1972 Napoleoni ha ormai definito nelle sue grandi linee un suo nuovo programma di ricerca a partire da una diversa interpretazione di Marx, come è testimoniato, tra l'altro, dal saggio che include nella seconda edizione riveduta di Smith, Ricardo, Marx e che risale a quel periodo.

E' al termine di questa opera di revisione autocritica che Napoleoni pubblica su Rinascita, nell'ottobre del 1972, un articolo in cui sanziona la propria rottura con la Rivista Trimestrale, e ne rende conto[6]. Ad essere messa in questione è la critica a Marx condotta sulle pagine della rivista. Quella critica, ricorda Napoleoni su Rinascita, si era costituita sulla confluenza di due indirizzi interpretativi: quello della sinistra cristiana, e in parte di Croce, che imputava a Marx una filosofia della storia e il concetto di rivoluzione come salto nell'assoluto; quello di filoni disparati della teoria economica, che identificavano la teoria del valore come lavoro astratto di Marx con la teoria del lavoro contenuto di Ricardo, sulla base della riduzione del primo a mero "lavoro in generale". Abbiamo ricordato in precedenza il contenuto di questa fusione di posizioni diverse operata dalla Trimestrale, per cui non seguiremo Napoleoni nella sua riesposizione di quella critica a Marx. Vale però la pena di ricordare l'efficace rappresentazione del modo con cui la rivista riuscì a sintetizzare i due indirizzi critici. Scrive Napoleoni: «se il lavoro, al quale ci si riferisce nella teoria del valore, è concepito come il lavoro umano tout court, onde a Marx si attribuisce l'idea che il valore non sia che l'espressione della naturale limitatezza del lavoro rispetto ai bisogni, allora la negazione del valore, in cui secondo Marx, consiste la rivoluzione, può essere interpretata come la negazione del lavoro in generale, e perciò come uscita dal finito; ma poiché la relazione valore-lavoro non può essere tenuta per valida, la base "scientifica", posta da Marx al concetto di rivoluzione come superamento del finito, viene meno» (p. 32).

Il fatto è, ritiene ora Napoleoni, che quella interpretazione di Marx è internamente contraddittoria e conduce a esiti inaccettabili, tali da indurre a rimettere in questione la premessa, costituita dal carattere non superabile delle difficoltà della teoria marxiana del valore. La contradditorietà della Trimestrale sta in ciò. Si mantiene da Marx l'idea del capitale come produzione autofinalizzata, e dunque del capitale come ricchezza astratta. Al tempo stesso, al termine del ragionamento della rivista, il capitale viene però configurato come una realtà socialmente neutra, di cui si potrebbe dare una "gestione proletaria". Il superamento dello sfruttamento presente nel capitalismo reale, identificato con il consumo improduttivo, può infatti venire solo dalla riconduzione della società al capitale puro, ma sotto la gestione borghese dell'accumulazione ciò comporterebbe una crisi insuperabile; quest'ultima può essere evitata nella misura in cui la programmazione intervenga per colmare l'insufficienza del consumo operaio sostituendo un consumo pubblico al consumo opulento, con un risparmio di risorse che può essere impiegato per massimizzare la crescita e l'occupazione. Il capitale, dunque, come puro strumento in un processo che subordina la produzione al consumo. Ma, questa è la critica di Napoleoni, in tal modo il capitale è simultaneamente inteso come qualcosa che ha il suo fine in sé stesso, e come qualcosa suscettibile di essere riempito di scopi specifici.

Si cela in queste tesi della Trimestrale, e del tutto conseguentemente, un altro esito inaccettabile, costituito dalla convinzione che sia possibile modificare la società assumendo come momento fondamentale del "processo rivoluzionario" il mutamento dei caratteri del consumo. Si finisce così, senza volerlo, succubi di quella scissione tra lavoro e bisogni che è tipica del capitalismo, dove «l'uomo, l'operaio, resta separato dal lavoro e perciò dalla possibile realizzazione della sua umanità, e in qualunque modo egli possa essere collocato nella sfera del consumo, resta che questo consumo gli sopravviene dall'esterno» (p. 33). In altri termini, non è possibile contestare l'aspetto del consumo senza mettere in questione nello stesso tempo l'aspetto della produzione (era quanto avveniva nelle lotte operaie di quegli anni, che dovettero avere un peso non indifferente nel mutamento di opinione di Napoleoni). Se non si incide nella struttura del capitalismo, a poco vale "razionalizzare" il consumo, almeno in una logica rivoluzionaria quale voleva pur essere quella della prima Trimestrale. Non basandosi su un mutamento nei caratteri del lavoro, anche i "consumi sociali" proposti dalla rivista non possono non avere un elemento fondamentale di arbitrarietà, perché continuano a riferirsi a bisogni scissi dall'attività: la loro natura, a dispetto delle intenzioni, non può che essere quella di una linea di razionalizzazione del capitalismo.

Come si è anticipato, l'intenibilità delle conclusioni conduce Napoleoni a rivedere la premessa da cui erano tratte, cioè il giudizio sulla teoria del valore-lavoro marxiana. La revisione investe tanto il suo aspetto scientifico quanto il suo aspetto filosofico, che sono anzi visti come strettamente e irresolubilmente intrecciati, e si riverbera in un mutato giudizio anche per quel che riguarda la teoria della rivoluzione.

Per quanto riguarda la teoria del valore-lavoro, Napoleoni si propone su Rinascita, senza alcuna ambiguità, una sua ripresa a tutto campo, di cui i caratteri divengono sempre più nitidi sulla scorta delle carte inedite, alcune già pubblicate[7]. Il ragionamento è il seguente. La storia del problema della trasformazione si è interamente svolta nell'ambito dell'ipotesi che il valore di scambio sia per Marx l'espressione di una situazione di equilibrio, così come lo è il prezzo di produzione. In stretta coerenza, il rapporto tra valori e prezzi non può allora che configurarsi che come una derivazione, e derivazione essenziale, dei secondi dai primi. In questa impostazione, la dimostrazione - con Seton e Sraffa - che i prezzi possono essere determinati indipendentemente dai valori è distruttiva. Ma, sostiene Napoleoni con cristallina chiarezza tra il 1972 e il 1974, in Marx il valore è la rappresentazione di una realtà duplice e contraddittoria, di equilibrio e di squilibrio, di sviluppo e di crisi: per questo, modelli di tipo naturalistico, come quelli di von Neumann o di Sraffa, non potranno mai descriverla compiutamente sul piano conoscitivo, e l'economia intesa come scienza naturale dovrà rivelarsi necessariamente muta sull'oggetto che studia. La contraddizione che si esprime nel valore è quella costitutiva al mercato, tra il lavoro immediatamente privato dei produttori separati e il lavoro astratto nel quale i primi hanno dovuto rovesciarsi per diventare sociali attraverso la mediazione dello scambio delle cose prodotte. Ma lo scambio diviene generale soltanto con il capitalismo, con la riduzione a merce della stessa forza-lavoro: il valore come lavoro astratto oggettivato è allora nient'altro che il risultato di un processo in cui il lavoro vivo del lavoratore salariato è lavoro astratto in divenire. La relazione tra capitale e lavoro è così doppia: il lavoro (vivo) del salariato produce il (plus)valore, cioè il capitale; ma il capitale è esso stesso il produttore del(la forza-)lavoro.

Stando così le cose, la teoria del valore-lavoro viene giudicata tuttora il miglior punto di partenza di una comprensione della dinamica, economica e sociale, capitalistica - anche se, come è ovvio, si riconosce che c'è ancora molto lavoro da compiere per giungere ad una formulazione rigorosa. E' certo comunque che la teoria del valore di Marx è l'unica teoria economica in cui l'indagine non è dimidiata in una microeconomia di equilibrio e una macroeconomia che descrive la crisi. Al contrario, l'analisi della "costituzione" del capitale - l'esame di come dall'antagonismo di classe nei singoli processi produttivi e dai profitti "originari" dei capitali individuali si perviene al saggio del profitto medio - è la base rigorosa delle conclusioni sulla connaturata tendenza alla crisi: vuoi per le eventuali difficoltà attinenti al processo di creazione del valore nei processi di produzione; vuoi per il verificarsi di difficoltà di realizzazione sul mercato. Quella teoria richiede che la questione della trasformazione dei valori in prezzi non sia ridotta a deduzione matematica, perché così «ci si preclude fin dall'inizio la possibilità della soluzione» (p. 33), ma che si ricerchino le mediazioni reali che conducono dall'estorsione del plusvalore come pluslavoro alla sua distribuzione tra i capitali.

Le conclusioni della Trimestrale su Marx sono radicalmente rifiutate. Il lavoro "astratto" non è il lavoro in generale ma il lavoro in condizioni storiche determinate: Marx è dunque diverso da Ricardo. In quanto dipendente dal lavoro salariato, il processo capitalistico è un processo lineare dal lavoro al valore prima di, e per poter, essere un processo circolare dal capitale al capitale: Sraffa non può essere né la prosecuzione né la correzione di Marx. In conseguenza di ciò, il lavoro astratto non può limitarsi a fondare qualitativamente le relazioni di scambio, ma deve prolungarsi in una loro, sia pur mediata, regola quantitativa: il problema della trasformazione è un problema ancora aperto, e la teoria marxiana dello sfruttamento come pluslavoro non è ancora definitivamente refutata. L'alienazione non precede lo sfruttamento, ma vi si identifica.

In merito alla alienazione, la tesi del Napoleoni di questo periodo è che in Marx essa sia innanzitutto una possibilità dovuta al fatto che nell'essere umano essenza ed esistenza non coincidono mai ma sono in rapporto l'una con l'altra: rapporto che può, appunto come possibilità, presentarsi rovesciato, il che avviene quando l'essenza è mezzo all'esistenza e non il contrario, come è nel capitalismo. Questa possibilità si realizza allorché la coscienza, cioè la componente astratta e formale dell'essere umano in quanto ente naturale generico, si separa dal lavoro, cioè dalla sua componente concreta e materiale. In questa separazione, non soltanto la coscienza incarna la genericità e il lavoro la naturalità come aspetti scissi, ma l'una e l'altra si collocano presso esseri umani, e presso classi, diverse: gli sfruttatori e gli sfruttati. Come scrive Napoleoni in un inedito di questo periodo (29 marzo 1972), in Marx «dall'unità, costituita dalla coscienza attiva, dal lavoro cosciente, deriva la separazione di lavoro e coscienza, e perciò la degradazione del primo e l'astrazione della seconda».

In merito allo sfruttamento inteso come pluslavoro, giova ribadire la sua immediata discendenza dalla definizione marxiana di alienazione (capitalistica). Anche qui può essere utile una citazione da un altro inedito di questa fase (16 novembre 1971): «questa alienazione comporta la genericità e quindi il valore; ma il valore, in quanto derivato dal lavoro astratto, implica lavoro necessario e pluslavoro. Cioè la separazione tra alienazione e sfruttamento, applicata al capitalismo (come da parte della RT) non ha senso». E' certamente vero, afferma Napoleoni, che sfruttamento precapitalistico e sfruttamento capitalistico sono diversi - come voleva la Trimestrale  - in quanto nelle società signorili il fine della società è il consumo, gestito dal signore, mentre nel capitalismo il fine è l'accumulazione, gestita dalla borghesia. Ma in entrambi i casi l'elemento comune è che il fine di tutta la società è gestito da una sua parte, sicché non ha senso negare la presenza di sfruttamento nel capitalismo come ha fatto la rivista. Ed ancora: non è corretto l'argomento secondo cui per la legge del capitale non vi è differenza sostanziale tra borghesia e proletariato, in quanto lo stesso imprenditore, a differenza del signore, non è libero ma è soggetto al meccanismo coercitivo esterno della concorrenza. «Il problema dello sfruttamento - ricorda Napoleoni - si riferisce a classi e non ad individui . . . quello che conta non è la posizione in cui si trova personalmente ogni membro d'una data classe, ma la posizione della classe nella società. A questa stregua, ciò che conta è l'esclusione di una classe. La classe operaia è esclusa perché non è composta di soggetti».

In conclusione, contro le posizioni della Trimestrale, si deve dire che teoria del valore, teoria dell'alienazione, teoria della contraddizione sono una cosa sola. Non meno radicale l'allontanamento dalla precedente critica al concetto di rivoluzione in Marx. Non è vero, scrive Napoleoni su Rinascita, che Marx condivida con Hegel l'idea della negatività del finito: «Per Marx, il finito non è negativo, ma è reso tale da una situazione sociale determinata . . . La rivoluzione, nel senso di Marx, ne risulta allora caratterizzata, al contrario di quanto la Rivista Trimestrale ha presupposto, come la riconquista della positività del finito, come quella riappropriazione dell'uomo per cui il limite proprio dell'ente naturale generico, e perciò del lavoro, è solo limite e non anche alienazione e sfruttamento. . .  Insomma, il compito che la Rivista Trimestrale pensava si dovesse assolvere (cioé la formulazione del concetto di rivoluzione al di fuori della tradizione di pensiero che assegna all'uomo un destino storico di assolutezza) è stato in realtà già assolto dal marxismo. E se il problema è questo, allora non si tratta certo di "uscire" dal marxismo, ma di trovare il modo di rimanervi dentro» (p. 33).


5. Il confronto con Rodano

Questa vera e propria, originale ed eterodossa, ripresa di Marx dopo Marx proposta da Claudio Napoleoni verrà da lui abbandonata pochi anni dopo, tra il 1976 e il 1978. Non è qui il caso di ripercorrerne le ragioni. Ci basti suggerire che giocarono probabilmente più fattori, tra loro interconnessi. Innanzitutto, difficoltà analitiche interne alla ripresa della teoria del valore-lavoro, non tanto legate alle già note difficoltà matematiche della trasformazione, quanto semmai alla possibilità di mantenere la tesi di una duplicità di rapporti di scambio "normali" nella rappresentazione scientifica del capitalismo, i valori (includenti il momento dello squilibrio) e i prezzi (assolutizzanti il momento dell'equilibrio). In secondo luogo, e di non poco peso, il fatto che la ripresa della teoria del valore-lavoro marxiana era stata condotta da Napoleoni identificandola con una teoria della crisi sociale dovuta all'antagonismo operaio, e in questa versione appariva sempre meno in grado di rendere conto dello stallo tra le forze sociali che, a parere del nostro autore, si era ormai instaurato in Italia alla metà degli anni settanta. Infine, e forse determinante per un autore che non aveva mai ritenuto possibile "fare da solo", l'abbandono del marxismo da parte di Lucio Colletti, che dichiarava nel 1974 l'impossibilità di usare la logica marxiana della contraddizione in una analisi autenticamente scientifica, sicché il rapporto tra valori e prezzi si scindeva in un due aspetti incomunicanti: quello filosofico, il valore, che può dar conto della contraddizione ma non prolungarsi nell'analisi dei rapporti di scambio, e quello scientifico, che rischiava di rinchiudersi di nuovo nei modelli naturalistici ipostatizzanti la condizione dell'equilibrio. E questa, in effetti, è la posizione di Napoleoni in Valore, del 1976: libro che aprirà la lunga ricerca di una nuova sistemazione teorica, che Napoleoni penserà di aver raggiunto nel 1985 con il Discorso sull'economia politica[8]. Filo rosso di questi sviluppi sarà la tesi che la conoscenza della società deve ormai più alla filosofia che alla scienza economica strettamente intesa. L'esito, su cui dovremo tornare, sarà una nuova critica di Marx anche sul terreno della teoria della rivoluzione, ma per ragioni tutte diverse da quelle della Trimestrale.

Prima però di affrontare l'ultimo periodo della riflessione di Napoleoni, è bene rilevare che questa nuova risistemazione teorica non comporta alcuna retrocessione rispetto alle critiche a Rodano e alla Trimestrale, che anzi vengono a più riprese confermate. La cosa può essere agevolmente dimostrata con alcuni rimandi a quegli scritti in cui la ripresa dei temi dell'autocritica su Rinascita è esplicita, scritti che coprono senza soluzione di continuità la seconda metà degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta. La selezione delle citazioni sarà ovviamente molto parziale, finalizzata come è semplicemente a sostenere la continuità di un filo critico nei confronti di Rodano e della propria primitiva esperienza.

Nel 1976 Napoleoni scrive due articoli su Repubblica in cui recensisce polemicamente il volume Sulla politica dei comunisti dove Rodano aveva raccolto alcuni saggi già apparsi sui Quaderni[9]. Nel primo, i commenti sono rivolti ai fondamenti teorici della linea delle "riforme nel consumo"; nel secondo, vengono avanzate alcune valutazioni, non totalmente negative, sulla proposta in sé. La critica teorica si appunta sulla tesi che le riforme nel consumo configurino dei "germi di comunismo": «Qui mi pare - scrive Napoleoni - che si manifestino semplicemente le conseguenze di una lettura molto parziale, e quindi equivoca, di Marx. Ciò che "la teoria di Marx dice sul comunismo" non è principalmente "a ciascuno secondo i suoi bisogni", ma è soprattutto che il lavoro diventi il primo bisogno, attraverso il superamento della figura del lavoro astratto, propria del rapporto capitalistico. Se la questione del bisogno viene presa astraendola dalla questione della trasformazione del lavoro, si capisce che si può poi comprimere il discorso denro la sola dimensione del consumo: ma questo non significa assumere la "lezione" anziché la "lettera" di Marx: significa solo mettere Marx in soffitta". Per quanto riguarda le riforme nel consumo, si conferma che il loro contenuto non rompe affatto con il capitalismo, e se mai ne costituisce una possibile razionalizzazione: razionalizzazione che ora Napoleoni, a differenza che nel 1972-1974, ritiene opportuno che sia perseguita dai partiti della sinistra, e in particolare dal Partito comunista. Al di là di questa differenza di valutazione strettamente politica, come si vede, nulla è mutato rispetto all'articolo su Rinascita.

Nel 1979, sempre su Repubblica, Napoleoni replica a un commento di Rodano, scritto per Paese-sera, sulle ragioni della sconfitta elettorale del Partito comunista[10]. Oggetto della discussione è la tesi di Rodano che la sconfitta sia dovuta al prevalere di un'interpretazione riduttiva e conservatrice della linea berlingueriana dell' "austerità", che la vede come mera condizione di una ripresa del processo accumulativo. Il senso profondo di quella parola d'ordine era invece, a parere di Rodano, quella di consentire l'avvio di un processo di fuoriuscita dal capitalismo. Napoleoni sottolinea i non pochi punti di consenso: in particolare, concorda con il giudizio che il problema di uscire dal capitalismo sia «un problema tanto reale quanto immediato», così come con la convinzione «che esista, in una parte del quadro dirigente del Pci, la tendenza a limitarsi ad amministrare, sia pure in modo razionale, l'esistente». Dove Rodano sbaglia è nel pensare che una linea di questo tipo «possa essere compresa nella categoria dell'austerità. Se le parole hanno un senso, austerità significa rinuncia ai consumi presenti in vista, al più, di un aumento dei consumi futuri, ma della stessa natura. Non c'è nulla, nell'austerità, che possa far pensare a un mutamento qualitativo dei consumi e perciò a un diverso orientamento del processo produttivo. . . La questione dell'uscita dal capitalismo è la questione della riconquista della vita, contro una civiltà che ha ridotto la vita a lavoro, e che in questa e per questa riduzione, ha alienato lo stesso lavoro». A guardar bene, insomma, è ancora l'incapacità di superare la scissione capitalistica lavoro-bisogni che è imputata a Rodano, e che conduce quest'ultimo a dare il primato ad una trasformazione nel modo di consumare; il nodo della rivoluzione è invece la possibilità o meno di ribaltare quell'innaturalità del capitalismo per cui in esso, e simultaneamente, il lavoro è tutto (come lavoro astratto che fonda il capitale, e in quanto tale sfrutta il lavoro vivo) e niente (in quanto lavoro alienato, in cui il lavoratore è separato dalla propria soggettività). In questo senso, «la critica va spostata più a monte e più nel profondo di quanto Rodano non faccia».

Nel 1980 Napoleoni commenta su Nuovasocietà e ancora su Repubblica "Afferrare Proteo"[11]: un ambizioso numero doppio dei Quaderni della Rivista Trimestrale in cui si avanzavano proposte di analisi e intervento sul capitalismo italiano, di cui veniva definito il senso teorico e politico in un capitolo conclusivo. Le tesi del gruppo di lavoro dei Quaderni e le critiche loro rivolte da Napoleoni si muovono su un terreno in parte nuovo: ma non è difficile riconoscere in "Afferare Proteo" il mantenimento di un nucleo significativo del pensiero di Franco Rodano, e non è difficile individuare il persistere delle ragioni di dissenso che già conosciamo da parte di Napoleoni - il quale infatti rileva lui stesso su Repubblica come la proposta principale che viene avanzata, quella del "consumatore collettivo", «discende, con molta coerenza, da quella che è stata la costante ispirazione della Rivista Trimestrale», ossia dalla tesi che «nella società capitalistica l'oppressione e lo sfruttamento abbiano la loro sede nel modo del consumo e non nel modo della produzione». Per esempio, quando nel Quaderno si afferma la possibilità di un mercato non capitalistico, o l'originarietà della scissione tra lavoro e bisogni, o la generalità della categoria di forza-lavoro come fenomeno dell'economia in quanto tale e non specifico del capitalismo: tutte affermazioni contestate da Napoleoni. O ancora, quando il limite del mercato capitalistico è visto nello squilibrio tra la forza del soggetto impresa e la debolezza del consumatore singolo, e dunque il superamento del capitalismo è ricondotto alla proposta del "consumatore collettivo": al che Napoleoni replica in Nuovasocietà, in modo del tutto conforme all'autocritica su Rinascita, che «se fosse possibile definire l'aspetto negativo del mercato come semplice squilibrio tra la forza delle imprese e la forza delle "famiglie", senza fare alcun riferimento alla causa profonda di questo (pur vero) squilibrio, cioè la separazione del lavoro dalle condizioni oggettive del lavoro, quindi del lavoro dal lavoratore, e quindi ancora del lavoratore dall'uomo, allora, certo, la correzione di quello squilibrio avrebbe una precisa valenza anticapitalistica. Ma, poiché quell'operazione teorica non si può fare, la proposta del consumatore collettivo . . . risulta per quello che in realtà è: ossia appunto la correzione di uno squilibrio, all'interno di un assetto sociale dato, dove bisogni e consumi - quali che siano i modi in cui si formano, si manifestano e si fanno valere - risentono in forma determinante della scissione, non originaria e naturale ma alienante, tra lavoro e soggettività» (p. 30). E ancora, su Repubblica: «Io continuo ostinatamente a ritenere che la vera risposta al problema con cui i nostri autori cominciano il loro discorso, cioè quello del "bisogno ricco", consista nella collocazione del rapporto sociale basato sullo scambio di merci in una posizione non più centrale ma subordinata, in una società in cui il rapporto tra gli uomini non sia più, fondamentalmente, mediato dalle cose».

Ad un confronto diretto con Rodano Napoleoni torna due anni dopo in una intervista a Nuova società che segue di poco quella allo stesso Rodano di cui si è già detto nella terza sezione[12]. Napoleoni difende, in questo in accordo con Rodano, il punto di vista della totalità contro le posizioni della cultura moderna impregnate dal positivismo, dall'empirismo, dal pragmatismo[13]. Rispetto alle critiche di Rodano all'antropologia di Marx, Napoleoni non si attesta in una sua difesa puntuale: le proposizioni di Marx sull'alienazione e sullo sfruttamento vengono considerate non il termine di un discorso gnoseologico-antropologico, ma come constatazioni di fatto indice della maturità delle questioni poste da Marx. Sulle questioni di contenuto, però, dichiara Napoleoni, «sono . . . in totale disaccordo» (p. 36). Non è vero, ribadisce Napoleoni, che in Marx vi sia una filosofia della storia: «"il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà" significa semplicemente che la storia dell'uomo non sarà più condizionata dallo sfruttamento; ciò non implica per Marx nessuna palingenesi, nessuna fine del processo storico, nessuna liberazione dalla finitezza dell'uomo» (ivi). Né è vero, come vorrebbe Rodano, che l'antropologia marxiana riduce l'uomo al lavoro, perché «la questione posta da Marx, storicamente attuale allora e attualissima oggi [è] un'altra: come far sì che nella società nuova il lavoro acquisisca caratteristiche tali da poter essere sentito esso stesso come un bisogno, superando la separazione tra il lavoro come costo, negatività, e il bisogno come positività che si esplica dopo il tempo di lavoro» (ivi)[14].

Più positivo il riferimento alla prima Rivista Trimestrale e a Rodano che è contenuto nell'intervista del 1987 su Palomar, dove Napoleoni rivendica una continuità con quell'esperienza[15]. Ma il contesto di questo giudizio è importante: Napoleoni sottolinea la rilevanza per lui (come per Rodano) di una impostazione ontologica, che ha costituito una barriera contro la caduta nel soggetivismo perché comporta una rappresentazione dell'essere umano come finito. D'altronde, nella stessa autocritica su Rinascita, lo si è visto, la positività del finito rimane un punto non contestato. Su Palomar si ribadisce che «il tener fermo questo punto, la finitezza dell'uomo, [è] essenziale a immaginare oggi un processo rivoluzionario» (p. 73). La tesi venuta fuori negli anni sessanta dentro la Trimestrale del «finito come non necessariamente negativo», e quindi «la rivoluzione come non necessariamente salto nell'Assoluto», è una tesi rispetto alla quale «non ho mai avuto nessuna contestazione da fare» (ivi). Uno dei punti di dissenso che lo indusse a interrompere la collaborazione con Rodano, ricorda Napoleoni «storicamente», fu semmai che «mentre lui era assolutamente convinto che Marx fosse questo - cioè fosse la dialettica hegeliana semplicemente rovesciata - e che quindi Marx avesse in mente proprio la rivoluzione come salto nell'Assoluto, io su questo ho sempre avuto dei dubbi . . . E' qui che avvenne, diciamo, la rottura con Rodano» (pp. 73-74). Una rottura che perciò anche in questo luogo viene riconfermata, e semmai pare si suggerisca che essa sviluppa e sanziona una tensione che percorreva già la stessa Rivista Trimestrale.

Vi è dunque una assoluta linearità e coerenza nella critica a Rodano dal 1972 al 1987.


6. L'ultimo dialogo

Sul pensiero di Franco Rodano Napoleoni torna negli ultimi mesi della sua vita, sulla scorta delle sue nuovamente mutate convinzioni teoriche sul marxismo. Negli inediti che ci restano di questa riflessione Napoleoni mette in questione non soltanto la lettura rodaniana di Marx ma anche la sua critica della teologia. Esporrò prima in breve le nuove critiche rivolte a Rodano, ora raccolte in Cercate ancora, e poi il significato che hanno le nuove posizioni nel più generale pensiero di Napoleoni.

Gli inediti di Napoleoni su Rodano hanno come loro centro una critica alle critiche di Rodano alla Scolastica e a Marx. Per quanto riguarda la difesa dell'antropologia tommasiana Napoleoni assume come rappresentativa della posizione di Rodano la formulazione che ne dà Vittorio Tranquilli ne Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino[16]. In quel libro si imputa a Tommaso un compromesso sul rapporto natura-grazia tra la tesi cristiana della autonoma positività del creato e l'antropologia spiritualistica platonico-aristotelica. Se l'essenza dell'essere umano è ricondotta alle attività che fuoriescono dalla necessità naturale, l'affermazione della bontà del finito rischierebbe l'eresia pelagiana, rischierebbe cioè di attribuire all'essere umano la possibilità di realizzare con le proprie forze l'assoluto in terra. Per questo, Tommaso fa della "ferita" inferta dal peccato l'origine di un bisogno di cooperazione divina nell'agire naturale dell'essere umano: la grazia deve dunque intervenire affinché possano compiersi gli stessi fini inerenti al livello della natura. Tale compromesso, teologicamente pernicioso perché fondato sulla confusione di natura e sovranatura, sarebbe peraltro inevitabile sullo sfondo della società medioevale: esso consente infatti a Tommaso di giustificare la servitù come pena del peccato.

Napoleoni obietta alla critica di Rodano (e di Tranquilli) una incomprensione dell'essenziale ambiguità dell'essere umano: «determinato ma non mai legato a una determinazione particolare» (p. 8), «finito ma sempre capace di passare da una data specificazione della finitezza a un'altra» (p. 24); per usare la definizione adottata in un altro scritto, e ancor più esplicita, «l'uomo come essere finito in cui l'infinito si manifesta»[17]. La traduzione teologica è la seguente: se è vero che il peccato riconduce l'essere umano alla sua natura finita, e se questa è in sé buona, ciò non significa che essa sia anche autosufficiente; al contrario, il peccato abbandona l'essere umano alla sua costitutiva indeterminazione, lo  priva cioè della grazia che prima della caduta ne garantiva la "guida", orientandolo al bene e istituendo il necessario rapporto tra finito e infinito. In questa prospettiva la giustificazione tommasiana della servitù va vista non come un errore filosofico determinato da una ontologia deficiente ma come un mero condizionamento storico. Il punto è confermato da un giudizio su Tommaso che Napoleoni scrive sul retro di una pagina della copia originale del saggio su Rodano[18]: «L'idea che la destinazione naturale dell'uomo sia la visione di Dio non è incompatibile con l'idea che l'uomo lavori, purché il lavoro sia libero. Ma Tommaso ha davanti a sé una società (e dietro di sé una storia) che rendono difficile concepire un lavoro libero. Perciò egli vede il lavoro come un impedimento alla visione di Dio. Quindi concepisce la situazione originaria come priva di lavoro (Eden) e il lavoro (necessariamente servile) come conseguenza del peccato. Allora la correzione di quest'ultima idea non comporta affatto che si rinunci all'idea della visione di Dio come fine naturale, comporta solo che si concepisca la possibilità di un lavoro libero».

Per quanto riguarda Marx, Napoleoni riprende qui la vecchia critica a Rodano che abbiamo visto costituire la ragione della rottura del loro sodalizio all'inizio degli anni '70. Lungi dal pensare che il finito è negativo, e che la rivoluzione sia l'uscita dal lavoro, Marx ritiene invece che l'essere umano è essenzialmente lavoro, che il finito è l'unica realtà, che la realtà capitalistica è rovesciata perché alienata e contraddittoria. L'alienazione ha a  sua volta la sua causa in quella "astrazione" del lavoro per cui l'attività nel capitalismo è separata dalla soggettività del lavoratore. La rivoluzione è dunque per Marx, al contrario di quanto pensa Rodano, riappropriazione di soggettività e riconquista della positività del finito, non salto nell'assoluto. D'altra parte, se tanto l'antropologia tomista quanto quella marxiana consentono di attribuire al lavoro "naturale" una possibile libertà nonostante il fatto che esso si svolge storicamente come attività condizionata e non assoluta, e quindi se anche Tommaso come Marx non può essere rinchiuso in una posizione conservatrice come ha fatto la tradizione cattolica,  ciononostante esiste una evidente opposizione tra le due visioni. Nel caso di Marx abbiamo a che fare con una natura umana pienamente "autosufficiente"; nel caso di Tommaso con una natura umana "vulnerata". Nel primo, la "salvezza" è compito storico, che riconduce l'essere umano a una finitezza non trascesa; nel secondo, la stessa "salvezza" storica è compito che richiede una collaborazione divina, ed è strumento di una "salvezza" ulteriore. Tra l'uno e l'altro occorre perciò scegliere: come in effetti fa lo stesso Napoleoni, svolgendo una critica del marxismo che lo separa dalle conclusioni cui giunse nei primi anni '70, e riproponendo dall'interno di una ripresa di Tommaso la tesi di Heidegger per cui "ormai solo un Dio ci può salvare".

Le ragioni della preferenza dichiarata per Tommaso meritano un'indagine attenta. Non ci si può accontentare infatti della affermazione un po' perentoria per cui «la natura resta quel che Tommaso pensava che fosse» (p. 28), e si deve semmai andare a scavare in quei cenni per cui il limite di Marx sarebbe consistito nel pensare a una dialettica non idealistica ma realistica. Secondo Napoleoni, Marx avrebbe colto bene la natura contraddittoria della realtà capitalistica, ma avrebbe invece a torto ritenuto - con Hegel - che fosse possibile un "superamento" o "toglimento" dialettico della contraddizione. La contraddizione consiste nell'affermarsi del capitale come totalità, per cui la legge della cosa domina egualmente tanto i capitalisti quanto i lavoratori, ridotti a semplici rotelle di un meccanismo: l' "oggetto" ingloba in sé il "soggetto" e al limite lo annulla. Il superamento consisterebbe nella possibilità della classe operaia di recuperare la propria piena umanità mediante un intervento politico. Ma la perdita della soggettività, che è la corretta conclusione che Marx trae dall'analisi della totalità capitalistica, impedisce di ritenere possibile il rovesciamento dello svuotamento in rivoluzione.

Vale la pena di sottolineare come queste tesi di Napoleoni, che si prolungano poi nel suo discorso teologico, siano una presa di coscienza radicale delle conseguenze dell'analisi economico-filosofica svolta dal nostro autore almeno a partire dal Discorso. In breve, si tratta di ciò. Marx tenterebbe di sfuggire all'esito inevitabile della propria visione del capitalismo come alienazione ricorrendo alla teoria del valore-lavoro e alla teoria del crollo. La teoria del valore-lavoro, riconducendo il plusvalore, e quindi il profitto, al pluslavoro, farebbe del capitale il prodotto di un atto di sfruttamento del capitalista sul lavoratore, e dunque di un antagonismo tra soggetti. Permetterebbe insomma di mantenere in vita la tesi di una possibile insorgenza rivoluzionaria di "soggetti" dominati contro "soggetti" dominatori, di una rottura interna della società data. La teoria del crollo, d'altra parte, mostrerebbe come tale possibilità sia in realtà una necessità, a causa delle convulsioni crescenti di una realtà economico-sociale destinata comunque a una catastrofe che coinvolgerebbe solidalmente tutte le classi. La teoria del valore-lavoro è però giudicata di nuovo da Napoleoni come fallimentare; mentre ciò che Marx riesce a dimostrare è la possibilità e addirittura la probabilità della crisi, ma non l'incapacità del meccanismo capitalistico di superarla. Sicché, scrive Napoleoni, «l'economia politica non dà a Marx l'aiuto di cui avrebbe bisogno né per stabilire l'elemento soggettivo né quello oggettivo della dialettica»: non si può perciò  «prospettare un'uscita dalla contraddizione per forza intrinseca della contraddizione medesima»[19].       

L'interpretazione della teoria economica sraffiana, cui Napoleoni dedicò gli ultimi mesi[20], approfondisce sul terreno scientifico le conclusioni cui il nostro autore era giunto. Sraffa sarebbe appunto la verifica che l'economia politica, qualora voglia tenersi sul terreno della rappresentazione formalmente coerente di una realtà capitalistica "pura", non può non approdare alla conclusione che il lavoro è ridotto a forza-lavoro, dunque al salario di sussistenza come parte "variabile" di un capitale che ha pieno diritto di assorbire interamente il prodotto netto. Di qui, l'implicazione - certo inattuale ma rigorosa - secondo la quale tra capitalismo e democrazia si dà sul piano logico una incompatibilità, che può essere allentata soltanto sul piano storico da una conflittualità politica arbitraria dal punto di vista meramente economico. 

In questo ragionamento, Marx rimane in ogni caso decisivo, e non si può tornare indietro. Andare avanti significa però riprendere - per paradossale che ciò possa apparire - la linea tomista. Se l'alienazione non può essere interpretata, come fa Marx, quale conseguenza dell'astrazione capitalistica, è però possibile vedere l'astrazione come perfezionamento di una alienazione più antica, consistente in una "dismisura" e "inversione" nel rapporto tra soggetto e oggetto, tra essere umano e mondo, che ha la sua sorgente originaria nella perdita di quell'orientamento al bene, di quella "misura" nel rapporto tra finito e infinito, di quel riconoscimento "retto" del limite di chi si sa creatura e non assolutizza la propria creatività, sostituendosi a Dio. È, insomma, l'atteggiamento di dominio del soggetto sul mondo, riportabile a una iniziale scelta a favore del male (teologicamente, il peccato originale), a dare vita a quella alienazione di cui l'astrazione capitalistica è la massima espressione. La filosofia moderna, culminante e rovesciantesi in Marx, diviene in questa prospettiva il percorso intellettuale che la storia ha imposto di attraversare per poter ritrovare nella teologia di Tommaso il fondamento saldo di una ripresa del discorso filosofico-metafisico oltre lo scetticismo, e per poter riproporre la questione della rivoluzione oltre l'autodissoluzione del marxismo e la tentazione di una laicità che rischia di significare, oggi, l'acquietarsi in un esistente insuperabile.

Ricolleggandoci al filo delle sezioni precedenti, vale la pena di mettere in evidenza un punto. Napoleoni propone una ridefinizione dello sfruttamento rispetto a Marx. Lo sfruttamento non può più esser visto come pluslavoro: cade la sua dimensione quantitativa, "scientifica". Cionondimeno, lo sfruttamento è connaturato al capitalismo: esso non è altro che la stessa alienazione quale si configura in questa società. Continua dunque ad aver torto la prima Trimestrale, che separava alienazione e sfruttamento: ma, in conseguenza delle nuove posizioni, deve mutare la stessa definizione del processo rivoluzionario tanto rispetto all'esperienza con Rodano quanto rispetto alle tesi dei primi anni settanta. All'epoca del Discorso - ma ancora nell'intervista a Palomar - Napoleoni continua a sperare nell'esistenza di soggetti fuori dalla logica del dominio perché esterni alla produzione, che possano farsi portatori di una diversa cultura per la generalità dei soggetti sociali egualmente oppressi dall'alienazione. Sarebbe possibile, in questo modo, «emarginare l'economia  e cercare contenuti nuovi, non competitivi, con cui riempire gli spazi liberi»[21], e «uscire continuamente dal capitalismo per poter continuare a starci dentro, per consentirgli di vivere, perché della sua vita abbiamo bisogno visto che si può produrre, per quanto ne sappiamo, solo così»[22]. Negli ultimi scritti, a me pare più coerentemente, si sottolinea come all'urgenza di una rottura della logica capitalistica, che va sempre più determinando una progressiva disumanizzazione della società intera, corrisponda una drammatica assenza di soggettività in grado di farsene promotrici. Anche coloro che sono esclusi dalla produzione sono infatti inclusi nel consumo, e finiscono con il patire il medesimo condizionamento e la medesima "catastrofe dell'esistenza"; non si vede, in tale situazione, quale appiglio possa avere l'affermarsi di un progetto di trascendimento della società data.

Le stesse conclusioni sono esposte con grande chiarezza e sinteticità in una lettera a Del Noce del 22 aprile 1988[23]. Napoleoni dichiara di condividere la conclusione delnociana di un autodissolvimento del pensiero rivoluzionario, come esito di un percorso diverso che «trae origine, naturalmente, dai problemi dell'economia politica» (p. 75). La falsità tanto della teoria del valore quanto della teoria del crollo comporta il decadere della speranza marxiana di fondare dialetticamente la rivoluzione. Ciò peraltro «non significa che di quel progetto tutto vada perduto: Marx infatti riesce a dare la rappresentazione di una società di pura oggettivazione, e quindi riesce a prevedere con assoluta esattezza la società tecnocratica» (p. 76). Ma questo Marx è un Marx privato della dialettica, e non è dunque più il vero Marx. Criticare Marx secondo Marx, come in effetti fa Napoleoni, impone di andare oltre Marx, visto che conduce al riconoscimento che il suo sistema non sta in piedi. Si conferma così il giudizio di sempre di Del Noce: nella società della secolarizzazione il marxismo simultaneamente si realizza e si confuta. Si deve aggiungere, però, «che, se non avessimo alle spalle il marxismo, la genesi e la natura di questa società ci sfuggirebbero in misura notevole» (p. 77), a conferma dell'essenzialità di Marx alla conoscenza del capitalismo.

Questa nuova "uscita" dal marxismo, ben diversa da quella della prima Trimestrale, non significa, si badi, un abbandono della prospettiva rivoluzionaria e l'approdo ad una soluzione conservatrice: tutt'altro. Tant'è che Napoleoni si chiede, e chiede a Del Noce, quale politica sorregga l'uscita dalla società della secolarizzazione, e «[s]e [tu] mi rispondessi: è una politica ispirata ai valori tradizionali, temo che non sarei soddisfatto, perché mi sembrerebbe una risposta troppo generica» (ivi). Se si rifiuta, come si deve, la laicità della politica rivoluzionaria nella versione di Rodano - e se di conseguenza non ci si muove per il superamento dello "sfruttamento" signorile tuttora persistente dentro il capitalismo, ma per l'uscita dall'alienazione generalizzata, cioè dal dominio delle cose sugli esseri umani - allora la domanda di cosa possa e debba fare la politica è impellente. E Napoleoni domanda a Del Noce, sulla scorta di un suo vecchio testo, se per caso non si possa percorrere quella strada che separa la nozione di rivoluzione da quella di ateismo positivo, e se dunque non debba essere ripensato il rapporto tra religione e politica. Al che Del Noce replica il 26 aprile, con minor fiducia in una politica che si faccia strumento di un processo di liberazione, sulla scorta di Heidegger: «Compito dell'intellettuale [è] di "preparare all'ascolto" analizzando le dimensioni di una crisi che per via politica è insuperabile. Se vuol anche partecipare alla politica, può farlo, ma con la consapevolezza dei limiti che essa oggi presenta» (p. 81). Par di capire che la stessa domanda su un'uscita "politica", sia essa laica o religiosa - la domanda di Rodano, cui Napoleoni rimane tutto sommato fedele pur contestandone la risposta - è priva di senso. La salvezza "storica" si identifica immediatamente con l'escatologia cristiana.

A questo esito Napoleoni insieme resiste ed è attratto, cercando comunque una traduzione politica collettiva dell'atteggiamento di invocazione, attesa e preparazione di una "nuova venuta"[24]. Un atteggiamento che, benché «va[da] fatto in comune, tra credenti e non credenti» (p. 31), sfugge alla laicità perché «comporta il riferimento al soprannaturale, cioè . . . va al di là di ciò che una morale strettamente immanentistica può prescrivere . . . Io prendo sempre Kant come discrimine, perché questo mi serve proprio per capire le cose. Cioè la moralità di tipo immanentistico, che considera Dio un postulato della ragione non dimostrabile, e quindi si comporta come se Dio ci fosse ma sa che non può dire nulla; questa moralità - laica in questo senso, cioè che non ha riferimento alla dimensione religiosa - arriva fino al punto di dire: gli altri vanno rispettati; gli altri sono fini e non mezzi; non puoi mai "usare" gli altri; ma che cosa c'è al di là di questo? Che l'altro non va solo rispettato, va amato; che l'altro non è solo una persona, è anche un fratello; oppure, se vuoi, che la regola della convivenza non consiste nel fatto che la mia libertà finisce dove comincia la libertà dell'altro; cioè non sta nel fatto che la libertà dell'altro è il limite della libertà mia; sta nel fatto che la libertà dell'altro è la condizione della libertà mia; se l'altro non è libero non sono libero neanch'io» (p. 32, corsivo nel testo)[25].                                       
                                                                                                                                                                        

7. Qualche conclusione: su Marx


Ho esaudito il compito che mi ero proposto, quello di una ricognizione delle posizioni di Napoleoni e di Rodano sull'analisi del capitalismo e sulla teoria della rivoluzione dal punto di vista, particolare ma significativo per entrambi gli autori, del confronto intrecciato con la teoria marxiana e con il pensiero cristiano, e del loro eventuale superamento.

In conclusione, vorrei tornare su alcuni dei punti di questa esperienza, esprimendo alcune valutazioni personali. Non è possibile, evidentemente, entrare nel merito delle questioni sollevate, sia per la loro ampiezza che per la loro perdurante problematicità: è da escludersi, pena l'allungamento di uno scritto già lungo, qualsiasi pretesa di dimostrare alcunché. Mi limiterò, perciò, a proporre qualche interrogativo, e a suggerire alcune linee argomentative, con un tono soggettivo che spero mi venga perdonato. Interrogativi e argomentazioni che non hanno certo la pretesa di procedere da un punto di vista neutrale. Chi scrive ha cominciato a ragionare di economia sotto lo stimolo delle posizioni autocritiche assunte da Napoleoni nei primi anni settanta, posizioni che mi sembrano ancor oggi un buon punto di partenza. Si ricorderà che in quella fase del suo pensiero Napoleoni si proponeva una ripresa critica di Marx: credo che di quell'esperienza non tutti i frutti siano stati raccolti, e che lo stesso Napoleoni abbia troppo affrettatamente e discutibilmente abbandonato il programma di ricerca allora formulato. Credo insomma che la sua critica successiva di Marx sia in larga misura priva di fondamento, anche e soprattutto perché - un po' paradossalmente - trascura di considerare quella sorta di negazione ante litteram che è possibile rinvenire negli scritti di quel periodo. Non che, ovviamente, possa oggi bastare una riformulazione del Napoleoni "marxista", o che non vi fossero delle ragioni teoriche stringenti alla base dell'interruzione di quel programma di ricerca alla metà degli anni sessanta. Quello che voglio dire è che, proprio a partire dalla più ricca riformulazione di Napoleoni, alle difficoltà della teoria marxiana era possibile dare una risposta diversa; e che seguendo questa via alternativa si sarebbe giunti forse ad una più produttiva critica di Marx, dentro Marx.

Darò soltanto tre esempi, riandando a quelle che ho sostenuto essere le cause prossime della svolta di Napoleoni nella seconda metà degli anni settanta. Le difficoltà ruotavano tutte, in sostanza, attorno alla teoria del valore. Si trattava della critica di Colletti, che ne metteva in questione l'essenziale veste filosofica nei termini della logica della contraddizione, e scindeva quindi irreparabilmente aspetto filosofico e aspetto scientifico del marxismo; del riemergere della tesi di un fallimento scientifico della deduzione dei prezzi di produzione dai valori di scambio sulla base dell'esito del problema della trasformazione; dell'identificazione della teoria del valore con la teoria del crollo "sociale".

Per quanto riguarda il primo punto, la critica di Colletti, va eliminato un possibile equivoco. Come già sappiamo, la tesi sulla identità tra teoria del valore e teoria della contraddizione può essere esposta mettendo in evidenza come a parere di Marx nella realtà capitalistica si dia una relazione duplice tra lavoro e capitale: per un verso, il lavoro è ridotto a capitale e incluso in esso, e dunque il capitale è la totalità e il lavoro una sua parte; per l'altro verso, il capitale è prodotto dal lavoro, e dunque il lavoro è la totalità e il capitale una sua parte. Ora, in questa relazione invertita lavorosignifica due cose diverse: nel primo caso, si tratta di lavoro come capacità di lavorare, comeforza-lavoro; nel secondo caso, si tratta di lavoro astratto, cioè del lavoro vivo del lavoratore salariato. Tra forza-lavoro e lavoro vivo la connessione è, evidentemente, essenziale, dal momento che il secondo è il valor d'uso della prima: ma tale connessione non investe il lavoratore in quanto merce, ma in quanto individuo (appartenente ad una classe). La connessione è nascosta, e diviene evidente solo quando è il lavoratore stesso, contro la logica del capitale, a far valere la circostanza che il lavoro è il suo lavoro. La relazione tra i due elementi distinti lavoro e forza-lavoro non è dunque contraddittoria in senso logico di per sé - o, più precisamente, la contraddittorietà esiste solo in potenza. Il funzionamento di un capitalismo senza crisi può essere indagato senza ricorrere  alla logica dialettica. La contraddizione logica si realizza, e diviene un fatto ancheempiricamente accertabile,nel momento in cui l'unità "profonda" tra il momento della capacità di lavorare e il lavoro in atto viene affermata praticamente dalla classe operaia. Non stupisce che quando il capitalismo diviene realmente contraddittorio esso entri in crisi, e che l'uscita da ciò che in potenza è all'origine di questa crisi possa darsi soltanto con una rivoluzione che affermi una riappropriazione del lavoro da parte dei lavoratori. Non sembra, insomma, che vi sia alcunché di incompatibile con la scienza nell'uso controllato della categoria della contraddizione: sembra semmai che in questo modo si possano chiarire, come bene aveva visto Napoleoni, i limiti dei modelli scientifici "naturalistici".

Per quanto riguarda l'identificazione tra teoria del valore e teoria della crisi, si può osservare come la distinzione tra lavoro e forza-lavoro, sottolineata in quel che precede, gioca analiticamente in modo doppio: da una parte, in modo non contraddittorio (cioè, senza riferimento alla contraddizione), quando si guarda allo sviluppo "normale" del capitalismo, fondato sulla spinta della caccia all'extra-profitto da parte delle singole imprese in concorrenza; dall'altra parte, in modo contraddittorio (cioè, con riferimento alla contraddizione), quando si guarda alla crisi in quanto originata dall'antagonismo nei luoghi di produzione. Tenendo conto delle due dimensioni, sembra ragionevole suggerire che la teoria del valore, come teoria non di equilibrio, non deve essere vista soltanto come una spiegazione "sociale" della crisi, ma anche come un tentativo di fondareendogenamente all'interno del conflitto di classe nei processi di lavoro (come processi di valorizzazione) le ondate di innovazione e di ristrutturazione che reggono la dinamica capitalistica, e determinano quella struttura tecnologica e quella configurazione produttiva da cui è poi possibile derivare i prezzi (di produzione). In questo modo, sembra ridimensionarsi anche il terzo argomento contro la teoria del valore-lavoro marxiana, cioè l'inessenzialità dei valori nella "trasformazione": la spinta endogena al mutamento qualitativo che "spiega" mediatamente i prezzi è infatti ricondotta alla teoria del valore come teoria "diacronica", anche se sul terreno della determinazione "sincronica" le quantità di lavoro tecnicamente contenuto non giocano (comprensibilmente) nessun ruolo.

Per questa via si potrebbe iniziare a rimuovere le difficoltà teoriche che hanno indotto Napoleoni ad abbandonare il suo programma di ripresa del marxismo. E lo si potrebbe fare proprio grazie allo sviluppo di quell'intuizione felice che aveva ricondotto nei primi anni settanta Napoleoni alla teoria del valore di Marx, e cioè la sua irriducibilità alla sola dimensione dell'equilibrio, ovvero il suo essere - potremmo dire oggi - una fondazione macroeconomica del disequilibrio. Seguendo questo filo di ragionamento, d'altra parte, si dovrebbe radicalizzare un altro aspetto del Napoleoni di allora, e cioè la tesi sul legame essenziale tra teoria del valore e teoria del denaro, che conduce a sottolineare gliaspetti monetari del processo capitalistico. Lungo questa strada, però, si scoprirebbero nella teoria di Marx aporie ben più gravi di quelle relative alla trasformazione dei valori in prezzi, e che hanno troppo occupato Napoleoni. Si scoprirebbe cioè come la (necessaria) critica di Marx vada condotta a partire dalla rivendicazione e riduzione a coerenza della sua teoria del valore, non dal suo abbandono. Ma questa è materia che non può essere ulteriormente sviluppata in questa sede.
    

8. Qualche conclusione: sulla laicità

Partendo da questo giudizio su Marx, non mi è evidentemente possibile condividere la via alternativa rispetto a Rodano con cui Napoleoni critica Marx per approdare a san Tommaso e mette in questione la laicità della politica. E' possibile - è certo - che le condizioni della politica, ed in particolare di una politica della liberazione, siano disperate: ma ciò non ha a che vedere con necessità categoriali, anche se il discorso teorico può individuare le origini di una situazione apparentemente senza via d'uscita. Vorrei comunque aggiungere qualcosa sul rapporto tra politica e laicità in Napoleoni e Rodano nella forma della critica "interna" delle rispettive posizioni, perché l'una e l'altra mi appaiono meno semplici di come le si è volute raffigurare.

Per quanto riguarda Rodano, la sua impostazione è spesso raffigurata, con ottimi argomenti, come una posizione del tutto indipendente, sul terreno dell'antropologia e della teoria politica, da qualsiasi visione cristiana. Non credo però che le cose stiano così, e per una ragione molto semplice. Si è visto che Rodano ragiona sulla base di una filosofia di stampo ontologico, che parte da una definizione, data una volta per tutte, di essenza umana - il che non toglie che tale essenza non sia tale da dar luogo, per sua natura, ad uno sviluppo dell'essere umano. Abbiamo visto,inoltre, che la specifica definizione di essenza umana da parte di Rodano è tale da fondarsi sulla tesi di una positività del finito. Abbiamo visto, infine, che compito preliminare e necessario dell'essere umano nella storia è per Rodano realizzare la propria natura umana, come condizione per l'incontro (gratuito) con Dio. Visto in questa luce il ragionamento rodaniano può essere definito, a me pare, come una lettura filosofica della storia di stampo cristiano. Il vero elemento chiave della costruzione di Rodano è la positività del finito, garantita dalla creazione divina, e da ricostituirecome condizione storica della "salvezza" in senso escatologico.

In Napoleoni, già dai primi anni settanta, era caduta questa definizione della storia come mezzo alla salvezza trascendente; nello stesso ultimo Napoleoni, quando si torna a ragionare in un ambito espressamente cristiano e si invoca una "nuova venuta", è quest'ultima - forse un po' discutibilmente dal punto di vista teologico - che appare addirittura porsi come la condizione della salvezza storica. D'altra parte, si è ricordato nelle sezioni precedenti che Napoleoni ha sempre condiviso con Rodano la tesi della positività del finito: nella stessa autocritica su Rinascita, in contrasto con Rodano, questo punto è ricondotto allo stesso Marx; la storia avrebbe inizio da una positività originaria, che va restaurata come conseguenza della rivoluzione. Ho l'impressione che la positività del finito, intesa come un attributo della condizione originaria, sia una posizione del tutto naturale in una prospettiva ontologica di stampo religioso, ed in specie cristiano-cattolica; così come, per fare un altro esempio, l'affermazione più volte ribadita da parte di Norberto Bobbio secondo cui il Male è la storia appare del tutto naturale all'interno di una visione cristiano-protestante, indipendentemente dal fatto che quest'ultima si presenti espressamente come tale. Ma né l'una né l'altra tesi hanno a che vedere con una posizione autenticamente laica - nel senso, beninteso, di puramente razionale. Riprendendo la vecchia lezione del Calogero, si potrebbe infatti sostenere che del finito in quanto tale non si danno giudizi di valore: il finito sarà quello che gli esseri umani ne faranno. La positività del finito va insomma concepita come un risultato: un risultato implicante un giudizio sulla realtà in quanto essa è (in parte) un prodotto dell'agire dell'essere umano, sulla natura e sull'oggettività in quanto (da sempre per noi) mediate dal fare.

Nella discussione originata dagli inediti pubblicati su Cercate ancora, la posizione di Napoleoni è stata, comprensibilmente, etichettata come non-laica, e dunque accantonata in fretta come incompatibile con la sinistra. Che vi sia in quei testi un esplicito rifiuto di quello che è definito il mito della laicità è un fatto. Detto questo, mi sia consentito però di fare l'avvocato del diavolo. Negli ultimi scritti di Napoleoni, inclusi quelli in questione, sono presenti una serie di interrogativi che a me sembrano, al di là del contesto in cui sono inseriti, integralmente laici, e che sono stati invece troppo facilmente messi da parte. Gli interrogativi possono essere brevemente ricordati: si deve ritenere insuperabile la forma salariata ed alienata che ha assunto l'attività umana nel regime capitalistico o è possibile un lavoro libero, non nel senso di incondizionato ma nel senso di non servile? Il capitalismo va visto come una condizione necessaria, se non addirittura sufficiente, della democrazia o non si deve piuttosto concludere che il capitale, almeno allo stato puro, èincompatibile con la democrazia? La libertà va intesa come una nozione essenzialmente negativa, come un semplice limite, sicché la mia libertà finisce dove comincia la libertà dell'altro, secondo la visione del liberalismo classico, o non si deve piuttosto dire che la libertà dell'altro è la condizione della mia libertà, sicché se l'altro non è libero non sono libero neanch'io, con un forte accento sulla libertà come autonomia e come autorealizzazione, sulla libertà positiva? Certo, so benissimo che questi quesiti di Napoleoni, e la sua speranza che si sciogliessero nel senso del secondo corno dei dilemmi, sono stati nei suoi ultimi scritti formulati dentro una visione che, disperando delle forze umane, si affidava ad un heideggeriano"Dio venturo". Ma quegli interrogativi sono, io credo, indipendenti da una visione religiosa. E comunque non riesco a non considerare contrario alla laicità, perché contrario alla ragione, l'atteggiamento di chi reputa addirittura informulabili quelle domande, condannandosi, e condannandoci, all'accettazione dell'esistente come nuovo idolo.

E d'altra parte, dovessi dirla tutta, mi chiedo anche se nelle posizioni di Rodano e di Napoleoni si sia fatto pieno uso di quello che è in potenza nel messaggio biblico e cristiano. Tanto l'uno quanto l'altro, nella loro diversa antropologia, che fosse cristiana o marxiana o quant'altro, hanno finito con il fare quasi sempre riferimento ad un essere umano prima della caduta: come in Rodano, dove la natura umana non è ferita dal peccato originale; o come anche nell'ultimo Napoleoni, dove l'intervento divino è pur sempre chiamato a invertire il corso di una storia segnata dalla scelta per il male, e a consentire di sfuggire agli esiti del peccato restaurando le condizioni di un vivere positivo. E', in fondo, l'essenza umana delle prime pagine del Genesi, che precede la storia e deveriaffermarsi nella storia: non l'essenza di un essere umano capace di fare il bene e il male, quell'essere umano che vuol prendere su di sé il compito di una liberazione immanente, dentro la storia. Un essere umano che può forse liberare il mondo dall'oppressione, ma non conciliarlo. Ed in questa mai compiuta conciliazione trova la spinta a trascendere l'esistente: perché «[a]nche se la conciliazione definitiva, alla quale apparterrebbe anche la redenzione dalla caducità e dalla morte, è al di là di tutte le possibilità umane, e anche se quindi non dovesse mai avverarsi, essa è però necessaria al pensiero . . . soltanto essa preserva da concezioni limitate di libertà e potere, violenza e non violenza»[26]. In altri termini, mi chiedo se una antropologia che tenga conto del peccato e una tensione religiosa all'assoluto in terra non siano qualcosa con cui la teoria della rivoluzione - anche in una prospettiva non religiosa - dovrebbe fare i conti e a cui si dovrebbe dare il dovuto, non limitandosi a respingerli come altro da sé.
    
In questa logica, un compito che a me pare irrinunciabile è la critica dell'ontologia, e della conseguente visione della filosofia come fondazione della scienza, che trapassa in Napoleoni, in forme certo mutate, dall'esperienza con Rodano (e con Felice Balbo). Il giudizio marxiano sul capitalismo come realtà rovesciata è per il Napoleoni tanto degli anni settanta come degli anni ottanta il portato di una definizione filosofica dell'essenza dell'uomo, che viene ritenuta capovolta nel capitalismo, e che dovrebbe trovare una conferma scientifica che invece fallisce: e di fronte a questo esito Napoleoni mantiene il Marx filosofo e abbandona il Marx scienziato. Ma questa dicotomia non è necessaria fuori da un punto di vista ontologico. L'essere umano come ente naturale generico è definito, nel Marx dei Grundrisse e del Capitale, sulla base della situazionestoricamente determinata, sulla base cioè del capitalismo come modo di produzione che crea al tempo stesso le condizioni di uno sviluppo onnilaterale dell'individuo sociale, e la sua alienazione. Così, nel processo di valorizzazione, a differenza che nel processo di lavoro che ne è il supporto materiale, sono le macchine a usare il lavoro vivo, e non viceversa: l'essere umano è strumento del proprio strumento. L'inversione che caratterizza il capitalismo non avviene tra una essenza naturale-astorica e una esistenza storico-alienata, ma tra due polarità entrambe costituite comestoriche. Su questo punto si deve dare ragione all'interpretazione di Del Noce: in Marx non esiste un uomo essenziale prima dell'uomo esistente; il "rovesciamento" del rapporto normale tra l'uno e l'altro può essere colto all'interno stesso della realtà oggetto del discorso scientifico, e non richiede affatto che si esca da esso. A condizione, beninteso che la scienza non sia riduttivamente intesa come la rappresentazione di una realtà naturalistica, ma sia piuttosto condotta come indaginecritica dei rapporti sociali.

Anche su questo terreno, di critica della filosofia, i primi passi li aveva mossi lo stesso Napoleoni all'inizio degli anni settanta - sia pure, va ammesso, con non sufficiente decisione. E anche in questo caso le conclusioni cui si era giunti allora si rivelano capaci di criticare i suoi esiti successivi, sul terreno stesso del rapporto da instaurare tra rivoluzione e religione. Sia consentita, a questo proposito, una lunga citazione da un testo inedito del 24 giugno 1973. Lo scritto discute l'autocoscienza come peculiarità dell'essere umano, in cui la coscienza diventa oggetto della coscienza. Il rapporto tra autocoscienza e coscienza può essere descritto come un rapporto tra infinito e finito. «L'autocoscienza è l'infinito nel senso che tutto vi sta, o vi può stare, dentro. La semplice coscienza ha solo contenuti determinati, specifici, quindi finiti. L'autocoscienza, avendo come contenuto lo stesso soggetto cosciente, ha tutti i contenuti specifici di questo; quindi è generica, infinita. D'altra parte essa è sempre coscienza di un limite perché il soggetto autocosciente è uno tra molti, finito, ed [è] soggetto alla morte. Di qui il carattere contraddittorio dell'autocoscienza: la coscienza di sé è coscienza di un contenuto determinato che limita l'autocoscienza stessa e la rende finita; ma questo contenuto è compreso da una funzione che, in questa comprensione di ogni contenuto possibile, è infinita». Il superamento della contraddizione è tentato da Hegel, nella cui filosofia lo Spirito è l'Infinito in atto: in Hegel «la religione [è] la soluzione di una antinomia dialettica presente nella natura dell'uomo. La sua filosofia è una prova antropologica (fenomenologica) dell'esistenza di Dio».

Ma esiste una alternativa: «Se la contraddizione è propria non dell'uomo come tale, ma di un uomo sociale determinato, allora la religione perde il suo fondamento. Questa sarebbe la scoperta profonda di Marx. Cioè: per superare la contraddizione l'uomo non ha bisogno di rapportarsi a Dio, ma di mutare la società (rivoluzione). Ciò implica che la contraddizione tra finito e infinito non è reale, ma è solo un rivestimento, o trasposizione, o mistificazione, della contraddizione reale, che è quella tra individuo e società, tra il lavoro individuale, in quanto esso si presenta come privato, e il lavoro sociale, in quanto esso si presenta come astratto. L'individuo come negazione della società; la società come negazione dell'individuo; ma d'altra parte, società individualistica e individuo sociale (che ha senso solo per la società). Ma in che senso avviene questa trasposizione? Potrebb'essere una confusione tra atto e potenza: la capacità indefinita di crescita è confusa con l'infinito: quest'ultimo sarebbe una semplice estrapolazione. . . Ritornerebbe cioè la verità della posizione kantiana: finito e infinito non sono oggetti di un'esperienza possibile: la loro contrapposizione è la conseguenza di un uso illegittimo della ragione (ragion pura). . . L'autocoscienza è subito coscienza del finito, ossia della morte. Ma d'altra parte la morte è inconcepibile. Di qui l'idea del suo carattere apparente. Se quest'idea dà luogo all'altra dell'immortalità individuale, ne segue la religione. Se dà luogo all'idea dell'apparenza dell'individuo stesso, allora ne segue la filosofia (nella forma dell'idealismo). Il superamento di tutto questo è dunque l'accettazione della morte; e dunque, in primo luogo, la sua intelligibilità. Leopardi: la morte è la meno dolorosa delle situazioni, perché è la soppressione di ogni sentimento». L'infinito è, kantianamente, una successione indefinita di finiti, non «c'è un oggetto ad esso corrispondente. E' il prodotto di un'immaginazione che nasce a partire dall'esperienza. Dunque su di esso non si può basare un processo che abbia per oggetto il mondo. Il passaggio alla metafisica è precluso. Così la filosofia realmente finisce. Hegel aveva ragione nel dire che la filosofia o è idealismo o non è. Se la filosofia non è idealismo, essa non può far altro che fondare la scienza e poi morire».

La coppia finito-infinito, che struttura il ragionamento di Napoleoni almeno a partire dal Discorso, è qui ricondotta ad espressione mistificante, sul piano della coscienza, di una situazione reale rovesciata. Le fondamenta stesse dell'invocazione heideggeriana degli ultimi scritti vengono negate alla radice. La laicità appare il destino dell'essere umano gettato nel mondo: nemmeno un Dio può salvarlo, ma solo, e senza alcuna garanzia, la sua azione responsabile.
           
In una prospettiva che accetti queste conclusioni, come è nel mio caso, vi è ancora spazio per una scelta di fede cristiana? Non saprei. Certo, sembra aprirsi una contraddizione insanabile tra la ripresa di quel Marx che, come giustamente scrive Napoleoni, vede il finito come unica realtà, e la professione di fede nel Cristo crocifisso e risorto. Eppure, non vorrei che anche questa contraddizione venisse chiusa troppo facilmente. Per alcuni della mia generazione - sospettosi dell'ontologia, insofferenti della religione ufficiale - era stata intensa, e liberante, la lettura di Bonhoeffer, per quel suo far ruotare tutto il discorso teologico sulla nozione di "mondo diventato adulto": un mondo che non ha più bisogno di Dio né per la conoscenza della realtà esterna né nelle difficoltà della sua vita interiore. Di fronte a questo mondo, scriveva Bonhoeffer in Resistenza e resa, è fallimentare e perdente, proprio da un punto di vista autenticamente cristiano,la via della "religione", che continua a cercare la propria ragion d'essere nei limiti e nelle debolezze dell'uomo. La "fede", tutt'al contrario, rimane come una possibilità per l'uomo in grado di camminare eretto, perché gli si rivolge nella pienezza della vita vissuta polifonicamente, nei suoi impegni e nei suoi problemi, nei successi e negli insuccessi. L'accettazione dell'autonomia dell'essere umano è radicale: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo - etsi deus non daretur. E appunto questo riconosciamo - davanti a Dio! Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento. Così il nostro diventar adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio». Abbiamo qui di nuovo a che vedere con un ateismo, un singolare ateismo: un ateismo cristiano, compatibile con la "fede" (bonhoefferiana), non con la"religione" (di sempre?). O, se si vuole, un cristianesimo non pavido, capace di pensare insieme un mondo senza Dio (cos'altro è un ateismo?) e la fede.

La fede nella presenza di Dio operante nel mondo non può qui essere altro che la fede in un Dio presente nella sua assenza, nella potenza di Dio che si mostra nella sua debolezza. E' una fede che spera oltre ogni speranza, e che né è conforme alle regole della ragione, né le svilisce. E' una fede che rovescia i criteri dell'essere umano, ma non lo annienta: al contrario, accetta di farsiimpotente. In questa tensione tra contrari si gioca per me tutto l'interesse di Bonhoeffer: e mi accade di pensare che non sia poi un gran male che la sua ultima riflessione non sia stata una riflessione sistematica. Una lettura che voglia farne un teologo a tutto tondo, e ce ne sono, deve o dissolverne il cristianesimo, o limitare lo scandalo di un teologo che non vuole più un Dio tappabuchi, un Dio che risolva ciò che non possiamo o non sappiamo. Ma così andrebbe perso quello che non va perso: il senso di una vita che ha saputo accettare il rischio della frammentarietà e della contraddizione, senza mai arrendervisi come uomo, e senza mai cercare di superarle nella religione, come cristiano. E' forse in questa tensione non risolta che sta il destino, irrimediabilmente non conciliato, di chi, credendo contro ogni speranza, continua a lottare come essere umano con altri esseri umani per una società diversa.

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* Mai come in questo caso sento che non avrei potuto formulare leposizioni che sono contenute in questo scritto senza un dialogo con altri; pure, mai come in questo caso esse sono del tutto personali, e so per certo che molti degli amici che vi hanno contribuito non le condivideranno. Desidero almeno ringraziare, tra i molti che mi hanno aiutato: Mario Reale, Paola Rodano e Vittorio Tranquilli, cui sono grato per la cordialità e l'apertura con cui hanno dialogato con chi, come me, aveva tesi diverse dalle loro; Roberto Finelli, Michele Ranchetti, David Maria Turoldo, che forse non sanno quanto ho preso da loro in conversazioni che poco sembravano avere a che vedere con i temi di questo saggio; Luciano Capucelli, per l'occasione e lo stimolo che mi ha dato a mettere nero su bianco un filo di ragionamento che, soprattutto nella parte finale, sentivo, e sento, ancora grezzo e bisognoso di ulteriori sviluppi. Le conclusioni raggiunte nel testo dovrebbero essere viste sullo sfondo della ricostruzione e della critica più generale del pensiero di Napoleoni che ho condotto in La passione della ragione. Scienza economica e teoria critica in Claudio Napoleoni, Unicopli,Milano 1991. Si è citato dalle carte inedite depositate nel Fondo Napoleoni, costituito presso l'Istituto Gramsci piemontese, grazie al consenso degli eredi.

[1] L'articolo apparve su La Rivista Trimestrale, IV, n. 15-16, settembre-dicembre 1965, pp.387-422.

[2] Le Lettere sono state ripubblicate, con una prefazione di Piero Pratesi, da La Locusta, Vicenza, nel 1986.

[3] Il primo è stato pubblicato da Marietti nel 1986, il secondo dagli Editori Riuniti nel 1990. Andrebbero letti in ordine inverso alla loro pubblicazione, perché le Lezioni su servo e signoreprecedono logicamente e cronologicamente le Lezioni di una storia possibile.

[4] Lo scritto fu pubblicato nel fascicolo n. 12, alle pp. 279-283.

[5] Si veda nel numero del 27 febbraio 1982 "Inchiesta sulle culture del Pci (IV): parla Franco Rodano. Il compromesso fallito e il compromesso cattivo", a cura di Roberto di Caro; e, nello stesso numero, "Franco Rodano. L'uomo, il cattolico, il laico", a cura di Enzo Carnazza.

[6] "Quale funzione ha avuto la Rivista Trimestrale?", nel n. 39,alle pp. 32-33.

[7] Si veda "Equilibrio e squilibrio nella teoria marxiana del valore", in "La teoria economica dopo Sraffa. Scritti di Claudio Napoleoni", Economia Politica, n. 1, aprile 1991, alle pp. 29-33

[8] Che lo stesso Napoleoni considerasse distinta la propria riflessione dei primi anni settanta da quella successiva, che sfocia nel Discorso, è confermato per esempio da una lettera dell'11 dicembre 1985 all'editore Paolo Boringhieri. Napoleoni accetta il suggerimento di ripubblicare il volume Smith, Ricardo, Marx, «sostituendo però l'Introduzione (Capitolo I) con un'altra, che sia, come le due che sono state premesse rispettivamente alla prima [1970: rappresentativa della fase della Rivista Trimestrale] e alla seconda edizione [1973: rappresentativa del programma di ripresa anche scientifica di Marx], uno sguardo generale, o uno schizzo, della storia dell'economia politica. . . Volendo si potrebbe pubblicare questa nuova introduzione insieme alle due precedenti, onde mostrare, per così dire la storia del libro».

[9] Si tratta di "Il persuasore del Pci mette Marx in soffitta" e di "Borghesia senza profitti, proletariato senza spinta" rispettivamente del 15 e del 25 di febbraio.

[10] Si veda "Le ragioni di una sconfitta", del 26 giugno.

[11] Il riferimento è a, rispettivamente, "Il capitalismo è duro a morire" su Repubblica del 10 settembre, e a "Il paradosso del quaderno" su Nuova società del 13 dicembre.

[12] Si veda "Quattro obiezioni a Napoleoni. La (impossibile) falsificazione del socialismo", a cura di Roberto di Caro, nel numero del 10 aprile.

[13] Al richiamo dell'intervistatore a Cacciari, secondo il quale il linguaggio dell'alienazione non è un linguaggio determinato, e alla conseguente domanda «Non è meglio, allora, tacere su ciò di cui non si può parlare?» Napoleoni replica: «Non sono sicuro che di questo non si possa parlare. Tendo anzi a ritenere il contrario; e tutto il mio lavoro tende a dimostrare che è ancora possibile parlarne. La crisi del marxismo non inficia il metodo marxiano» (p. 35). E alla osservazione: «Non sono leciti né un punto di vista né un progetto totalizzanti. Il socialismo è un feticcio», Napoleoni risponde: «Allora non è possibile neanche una politica rivoluzionaria. Non è una conclusione che si possa scartare. Ma se è così non è possibile neppure il partito comunista: va abolito o trasformato in un'altra cosa; cominciando con il cambiargli il nome . . . Non è solo una questione di pulizia formale, perché non si possono alimentare equivoci così giganteschi. Ecco, al fondo di tutte le mie posizioni c'è la convinzione che questo passo non si debba fare, che sia profondamente sbagliato, che la perdita sarebbe incomparabile ai vantaggi eventualmente conseguibili» (p. 36).

[14] Sebbene in modo meno immediato, potrebbe essere inquadrato nel confronto di Napoleoni con le posizioni della prima Rivista Trimestrale, e non solo di quella nuova, l'intervento con cui il nostro autore interveniva su alcune tesi di Alessandro Montebugnoli. Si veda: "Funzione imprenditoriale, proprietà e capitalismo", in Rivista Trimestrale, n. s., n. 3, 1985.

[15] "La libertà del finito nel Discorso sull'economia politica. Conversazione con Claudio Napoleoni", Palomar. Quaderni di Porto Venere, n. 3, primavera 1987, alle pp. 9-28, poi incluso inCercate ancora, a cura di Raniero La Valle, Editori Riuniti, Roma 1990, da cui si cita.

[16] Pubblicato dalla casa editrice Ricciardi di Napoli  nel 1979.

[17] Si veda la "Critica ai critici", Rivista Trimestrale, n.s., n. 4, 1986, p. 143.

[18] Il brano non è riportato nel volume Cercate ancora, ed è citato in nota alla pubblicazione di una prima versione del saggio su Franco Rodano. Si veda: "Su Franco Rodano", Teoria politica, n. 3, 1990, p. 155 (corsivo nel testo).

[19] "Economia e filosofia", in Filosofia. Storia del pensiero occidentale , diretta da Emanuele Severino, volume 5, Roma, 1987, pp. 1243-1272. La citazione è alle pp. 1264-1265.

[20] Si veda "Value and Exploitation. Marx's Economic Theory and Beyond", in Marx and Modern Economic Analysis, edited by Giovanni Caravale, Edward Elgar, Aldershot 1991. Parte dell'ultima sezione è stata pubblicata in italiano dal manoscritto originale, conservato presso il Fondo Napoleoni: "Sraffa dopo Marx", Rinascita, n. 26, 5 agosto 1990, pp. 24-25. Si vedano anche l' "Intervento" e la "Replica" contenuti in Piero Sraffa e l'Economia Politica degli anni '80. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto di Economia politica il 22 gennaio 1988, Bocconi-Comunicazione, Milano 1989, pp. 29-36 e pp. 59-62 (poi ripubblicati sotto il titolo "Circolarità del capitale e leggi della distribuzione", in "La teoria economica dopo Sraffa. Scritti di Claudio Napoleoni", Economia Politica, n. 1, aprile 1991, pp. 34-44).

[21] E' quanto scrive in un'intervista al Messaggero del  14 luglio 1985, a cura di Aldo G. Ricci:"Il capitalismo? Serviamocene!"

[22] La frase è presa da "L'ultima rivoluzione", intervista a cura di Roberto di Caro concessa aL'Espresso del 23 giugno 1985.

[23] Il carteggio tra Napoleoni e Del Noce è ora pubblicato su Bozze, n. 3/4, maggio/agosto 1990, alle pp. 73-81.

[24] "Nella storia c'è salvezza? Conversazione con Claudio Napoleoni", Bozze,n. 4, luglio/agosto 1988, pp. 13-44, in cui sono contenute le citazioni che seguono nel testo. La conversazione con Raniero La Valle si svolge il 12 maggio1988.

[25] Già nella lettera ad Adriano Ossicini del 7 aprile è scritto, proprio in riferimento a Rodano e alla sua proposta di sostituire all'antropologia marxiana quella secondo cui il primo bisogno dell'essere umano sono gli altri: «ma come è possibile che l'altro sia posto come bisogno al di fuori di una prospettiva religiosa, al di fuori quindi di una morale non strettamente naturale? Tutto ciò a cui una morale strettamentenaturale arriva è il kantiano "considera gli altri non come mezzi ma come fini", ma essa non può arrivare alla massima: considera gli altri come un bisogno; per quest'ultima massima, occorre l'amore, che è una prospettiva non attingibile sul solo piano naturale. Si direbbe dunque che, alla fine della sua vita, la critica al marxismo si venisse configurando in Rodano in termini tali da compromettere l'altra sua critica, quella alle radici teologiche del pensiero cattolico» (pp. 13-14). Sia consentito comunque sottolineare come l'espressione secondo cui "il libero sviluppo di ciascuno dipende dal libero sviluppo di tutti", identica alla nozione di libertà proposta da Napoleoni, è del Manifesto del partito comunista; che inoltre, e del tutto correttamente, Del Noce qualifica l'antropologia marxiana come caratterizzata dall' "interdipendenza delle libertà"; e che infine l'essenziale relazionalità e imbricazione degli esseri umani l'uno con l'altro è tipica di diversi, anche se non dominanti, filoni culturali della modernità - per limitarmi solo a un riferimento, la si trova nella psicoanalisi freudiana, e in particolare nel filone delle"relazioni oggettuali".

[26] Si veda lo splendido volumetto di Cristoph Türcke, Violenza e tabù, Garzanti,Milano 1991, p. 23.

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