martedì 27 settembre 2016

Studio su Hegel: LA RELIGIONE - Stefano Garroni



[3] - Ben lungi dal rappresentare una ‘secolarizzazione’ della teologia - come vuole Blumenberg-, Hegel scioglie la sapienza del mondo dalla teologia. (AAVV, 6961.3: 391). Laird, 5196: 12 riconosce, comunque, che il <dio> dell’ idealista Hegel non c’entra nulla con il dio delle religioni. “... il teologo Marheineke (1780-1846) ... tentò di versare la dogmatica cristiana  (luterana) nello stampo speculativo hegeliano il che però implicava un’audace fusione e una pericolosa cristallizzazione. Una simile impresa fu tentata da Goschel (1781-1872), al quale Hegel aveva accordato una lode sfumata.” (D’Hondt, 7836: 48s).
In AAVV, 7376: 263n, la questione delle varie edizioni delle hegeliane Vorlesungen  sulla religione.

[3.1] - “E’ possibile notare come nelle Jugendschriften la religione si dica in molti modi: per quanto articolato tuttavia si presenti il suo concetto, la chiave che sembra in grado di aprirne la comprensione risulta essere non la teologia, ma appunto la vita, intesa anche nel senso di prassi sociale.” (AAVV, 7376: 239s). Il modo in cui Hegel, 1130. 3: 354s descrive la verace religione e la verace religiosità mi confermerebbe nel sospetto che, in definitiva, la wahrhafte Religion/Religiosität, per Hegel, è ... lo Stato: la vera religione e la vera religiosità, infatti, vengono dall’ eticità e sono l’ eticità pensante, ovvero l’ eticità, che diviene cosciente dell’ universalità libera della sua essenza concreta. In altre parole, sembrerebbe possibile dire: la <religiosità> -dunque, l’essenza della religione- sta nel suo essere manifestazione di una forma di vita, di esserne un’articolazione; la <religione>, quindi, -nel senso di questa o quella religione-, una volta stabilito cosa sia la religiosità, richiede uno studio particolare, che consenta di coglierne la determinatezza; è a questo livello che si recuperano le mediazioni nel rapporto con la forma di vita, ovvero, con la società. Cf. Marx. Il tema è ripreso in AAVV, 7376: 269 - l’essenza della religione (la religiosità) è afferrabile non empiricamente, ma con il medio di una teoria generale, di una filosofia; accanto a ciò resta lo studio empirico delle religioni.Ciò equivale a dire che l’analisi che Marx fa della società capitalistica non è comprensibile, fuori da una fds. Cf. la questione <teoria/prevedere> in dial.doc. Il limite della trattazione empirica della storia, in AAVV, 7376: 269a -anche qui continua un tema, che fu pure di Descartes, ovvero la polemica contro un sapere che sia essenzialmente memoria.

lunedì 26 settembre 2016

HEGEL, SCIENZA DELLA LOGICA (1812).*


Quanto segue traduce e commenta il primo capitolo di una delle opere filosofiche più importanti, di certo però la meno facile. Essa oppone infatti alla comprensione il suo stile unico. Mentre di solito gli scrittori espongono delle convinzioni e cercano di renderle credibili argomentandole e confutando quelle opposte, la «Scienza della logica» non propone tesi care al suo autore, ma quelle che si impongono o in forza della legge dell’inizio o come risultato di quanto le precede. Anziché poi argomentarle, Hegel si impegna a confutarle mostrando la contraddizione celata nella loro determinatezza: la dialettica è innanzitutto scetticismo. Non è soltanto scetticismo perché una tesi confutata, lungi dall’essere un nulla astratto, è dimostrazione della verità del proprio negativo. Questa capacità di riconoscere il positivo nel negativo, l’elemento virtuosistico della filosofia – ciò che Hegel chiama speculativo –, è però il culmine soltanto del micrometodo. Anche il negativo riconosciuto come positivo incorre infatti nella sua dialettica, da cui risulta infine un positivo che è negazione del negativo. La successione di positivo, negativo, negazione del negativo rappresenta il macrometodo, lo sviluppo completo di ogni concetto in cui si espone la scienza filosofica. Essa compone tre atteggiamenti che di solito si presentano come incompatibili: quello dogmatico di chi confida nei principi assoluti, quello scettico di chi riconosce soltanto la relatività e la mutevolezza, quello speculativo di chi intuisce la verità come concreta, come conciliarsi di opposti. Poiché ogni volta percorre questi tre paradigmi di pensiero, la filosofia hegeliana resta inafferrabile ai lettori irrigiditi nei loro punti di vista; ne nasce un rancore che la infama con le accuse di aridità, di ciarlataneria, di demenza. Soltanto uno sforzo di comprensione animato da impavida fiducia nella razionalità del testo può dissipare i pregiudizi generati dalle difficoltà ermeneutiche e renderne infine accessibile la debordante ricchezza teorica. 



HEGEL, SCIENZA DELLA LOGICA (1812).
Traduzione e commento del primo capitolo a cura di Paolo Di Remigio  

C a p i t o l o  p r i m o

domenica 25 settembre 2016

L'economicizzazione del conflitto di classe*- Zygmunt Bauman

*Da:   "Memorie di classe" - Einaudi Paperbacks, 1987          http://francosenia.blogspot.it/ 

I processi paralleli dell'«oblio delle origini» e dell'incorporazione delle organizzazioni operaie nel sistema capitalistico (battezzato più tardi come l'«emergere della coscienza di classe») si realizzarono in primo luogo attraverso l'economicizzazione del conflitto. Intendo con ciò la sostituzione della contrattazione del salario e dell'orario di lavoro al conflitto iniziale per il controllo del processo di produzione e del corpo e dell'anima dei produttori. Come l'aggregazione di categorie molto diverse di popolazione e tradizioni culturali in una singola classe di «poveri laboriosi», così l'economicizzazione del rapporto tra lavoratore e datore di lavoro ricevette il suo impulso iniziale dalle pressioni sorte dal mutamento dei rapporti di potere. 

L'aspetto del cambiamento particolarmente importante in questo contesto fu l'accelerata disgregazione del patronato e del paternalismo - il vecchio schema dello scambio dell'obbedienza con la sicurezza. Come ho già cercato di mostrare, questo schema non crollò sotto la pressione della nuova cupidigia ispirata dal mercato, ma a causa della sua inadeguatezza rispetto al compito di addomesticare e tenere a bada il crescente eccesso di popolazione per la quale la vecchia struttura economica non aveva posto. L'abbandono del paternalismo non fu un processo facile né diretto. Esso restò come norma nella memoria collettiva, presso entrambe le parti del nuovo conflitto, quando ormai aveva cessato da tempo di essere una soluzione valida dei loro problemi. I nuovi schemi dei rapporti di potere si formarono all'ombra di lotte e discussioni ancora attaccate a vecchie questioni e ad obiettivi ora irrealistici. 

Proprio contro questa confusione tra l'ordine normativo suggerito dalla memoria storica e le realtà quotidiane, i fautori illuminati dell'ordine emergente lanciarono la loro lotta per la nuova articolazione della struttura di potere, libera dall'illusione che sarebbe stato possibile ripristinare le vecchie basi del dominio e dell'obbedienza. L'obiettivo principale del loro sforzo consisteva nel ridefinire i rapporti economici come essenzialmente economici.

giovedì 22 settembre 2016

Intervista a JHON SMITH* - Daphna Whitmore


IL VOLUME DI JOHN SMITH SULL’IMPERIALISMO È UN LAVORO INNOVATIVO CHE GETTA UNA LUCE INEDITA SUL SUPER-SFRUTTAMENTO DEL SUD GLOBALE. DAPHNA WHITMORE DI REDLINE LO HA INTERVISTATO A PROPOSITO DEL SUO LIBRO.


DW: Innnanzitutto, vorrei ringraziarti per aver scritto Imperialism in the twenty-first century. Si tratta di un argomento imponente e il tuo libro prende in considerazione un materiale amplissimo e di grande interesse – quanto tempo ha richiesto un simile lavoro?

JS: Alla fine degli anni Novanta, la globalizzazione della produzione e il suo spostamento, a livello globale, verso i paesi a basso reddito stavano prendendo piede su scala così vasta che era impossibile non notarlo; il che valeva anche per ciò che stava guidando tali processi, vale a dire gli elevati livelli di sfruttamento disponibili in paesi come il Messico, il Bangladesh e la Cina. Era indispensabile una teoria in grado di spiegare tutto questo, ma per rendersi conto di ciò che stava accadendo erano sufficienti un paio di buoni occhi. Era naturale studiare il comportamento delle multinazionali industriali, le TNC [Transnational corporation, n.d.t.] non finanziarie, considerato che si trattava dei principali agenti e beneficiari della globalizzazione – ed è appunto ciò che si stava facendo! Del resto, anche una formazione di base comprendente la teoria marxista del valore ci spingeva a prestare attenzione ai cambiamenti nella sfera della produzione… Per tutte queste ragioni, è stato uno shock scoprire che il marxismo, o meglio i marxisti, avevano ben poco da dire riguardo a questi fatti inediti.

Così, influenzato dalle teorie della dipendenza e dello scambio ineguale (o più esattamente, insoddisfatto da quelli che ho definito tentativi euro-marxisti di confutarle), ho iniziato, nel 1995, il lavoro che sarebbe sfociato nel libro, circa il periodo in cui ho abbandonato la Communist League, correlativo dello SWP [Socialist Workers Party, n.d.t.] degli Stati Uniti in Gran Bretagna (venne chiusa la sezione di Sheffield, io restai…). Nel 1997 ho scritto un primo abbozzo – un pamphlet/saggio intitolato, ‘Imperialism and the law of value’. Un ulteriore impegno in questo senso è stato interrotto, a partire dal 1998, dalla campagna contro le sanzioni e la guerra all’Iraq, fino a quando ho lasciato il mio lavoro nelle telecomunicazioni nel 2004, e dato il via alle ricerche per ‘Imperialism and the globalisation of production’, la mia tesi di dottorato portata a termine nel 2010. I contenuti del libro sono più ampi rispetto alla tesi, ma l’argomento di fondo si trova già tutto lì, e ha iniziato a circolare – è stata scaricata più di tremila volte, dunque più della prima tiratura del volume.

DW: A tuo modo di vedere, l’esternalizzazione imperialista dispone ancora di decenni per espandersi verso nuove frontiere, o i suoi limiti sono ormai percepibili?

mercoledì 21 settembre 2016

IL DUALISMO MENTE-CORPO. UN DILEMMA CARTESIANO*- Elisa Angelini**

*Da:   http://www.bancarellaweb.eu - Con alcune modifiche e revisioni questo articolo riproduce il già pubblicato Elisa-Angelini, Mente e corpo. Riflessioni in margine al dualismo cartesiano, in Psicoanalisi e metodo, II, 2002, Pisa, Edizioni ETS, pp. 189-203. - **Università degli Studi di Siena


La filosofia di Descartes è tradizionalmente legata ad alcune tematiche che nel tempo sono diventate veri e propri luoghi comuni. Una di queste è il dualismo, ovvero l’argomento con il quale Descartes ha distinto il corpo e la mente facendone due sostanze di natura completamente diversa e tali da escludersi a vicenda. Con questa distinzione ontologica, che Descartes formulò compiutamente nelle Meditationes de Prima Philosophia1, il dominio della fisica dei corpi veniva nettamente separato dal dominio del pensiero, la materia diventava pura estensione geometrica inerte e la mente, all’opposto, una sostanza immateriale. La tesi cruciale con la quale agli inizi del Seicento Descartes innovava, dunque, gran parte della tradizione psicologica antica e medioevale è che la materia può essere organizzata in modo estremamente complesso, al punto da dar luogo alle funzioni della vita vegetativa, sensitiva e motoria, ma resta incapace di produrre il pensiero e tutte quelle rappresentazioni coscienti che rimangono prerogativa esclusiva della mente. A corollario Descartes aveva elaborato anche la celebre dottrina degli animali-automi, sostenendo che il corpo umano è una macchina, al pari di quello di qualsiasi altro animale, ma che, diversamente dagli altri animali, l’uomo è anche dotato di un principio intellettuale.

Il dualismo mente-corpo ha reso complessa sia l’antropologia di Descartes sia la sua dottrina della percezione. Non è difficile prevedere alcune sue implicazioni problematiche e le critiche mosse a Descartes già dai suoi contemporanei. Innanzitutto, se la mente è una sostanza realmente separata dal mondo corporeo, come è possibile che le idee rappresentino i corpi, ossia che ci facciano conoscere il cosiddetto mondo esterno? In secondo luogo, se nell’uomo mente e corpo sono distinti per essenza, come si può spiegare la loro interazione di fatto? In definitiva, la prima questione dava corpo al sospetto che la moderna scoperta della soggettività e della coscienza fosse investita dall’ombra lunga del solipsismo e dello scetticismo – il mondo potrebbe essere un puro prodotto o una finzione della mente –, il secondo problema metteva in luce la difficoltà di spiegare tutti quei                                                                                                           fenomeni e quelle esperienze che depongono contro il dualismo e mostrano un’unione evidente fra mente e                                                                                                         corpo.

martedì 20 settembre 2016

Studio su Hegel: LA METAFISICA - Stefano Garroni


[2] - L’unità del mondo, che Hegel cerca di restaurare dopo e contro Kant (Holz, in AAVV, 6961.3: 390) - ovviamente, le cose cambiano se l’unità hegeliana ha, invece, alle spalle la lezione dello scetticismo e quella kantiana. Hegel, scrive ancora Holz, deve rovesciare il rovesciamento copernicano operato da Kant e porsi sulla linea metafisica, già presente in Leibniz e Spinoza[1]; Hegel non può che muoversi dentro i limiti della prospettiva borghese. - Nota il tema <rovesciamento del rovesciamento>: che rapporto ha con la <negazione della negazione>?
“Se è vero che la filosofia kantiana rappresenta per il giovane Hegel un costante punto di riferimento, è vero anche che l’accoglimento del messaggio kantiano si accompagna a forti istanze critiche, fatte valere soprattutto là dove le argomentazioni kantiane non difendono a sufficienza l’autonomia della ragione e prestano il fianco ad attacchi tesi a stravolgere il nocciolo di libertà e di radicale rinnovamento che esse contengono. Questa preoccupazione, che investe in primo luogo la dottrina kantiana dei postulati pratici e della fede razionale, costituisce una costante nel complesso rapporto di riconoscimento e autonomizzazione di Hegel nei confronti di Kant.” (AAVV, 7376: 123a).

[2.1] - Fin dal primo momento della conoscenza (quello della certezza sensibile) per giungere, infine, a quello del sapere assoluto, in Hegel, al soggetto il mondo è dato come contenuto del suo cogito. La ricostruzione del mondo nelle figure del sapere in divenire consente di venir fuori dalla costituzione degli oggetti della conoscenza fondata sulla soggettività, ma porta invece verso la sua realtà obiettivabile, perché comprendente il soggetto stesso ma non esaurita da esso (das Subjekt selbst übergreifender Realität) e approda al ‘sapere assoluto’ il quale, nella sua esteriorità manifestantesi, è la storia e, nella sua concentrazione essenziale, è la scienza che si svolge. (Holz, in AAVV, 6961.3: 390b). “La costruzione di un modello del mondo, in Hegel, è in vista della ricostruzione del processo e della costituzione logica del sapere in divenire. Questa ricostruzione è compiuta dalla Fenomenologia dello spirito e dalla Scienza della logica (la connessione interna a quest’ opera non sarà mai sufficientemente sottolineata). Su questa base è possibile il disegno sistematico dell’ Enciclopedia, all’interno della quale -al contrario di quanto avveniva nella Fenomenologia- lo spirito soggettivo e quello oggettivo si collocano all’interno di un ordine (mentre, in una prospettiva cartesiana, la ricostruzione dovrebbe procedere dallo spirito).” (AAVV, 6961.3: 390). 

lunedì 19 settembre 2016

"Il Pane e la Morte" - Renato Curcio

http://www.libreriasensibiliallefoglie.com/catalogo.asp?sid=76947831120131022091747&categoria=43




Questo libro propone i risultati di un cantiere socioanalitico tenuto a Brindisi nel 2013 sullo scambio salute-lavoro, al quale hanno partecipato una trentina di persone, tra lavoratori e famigliari di operai del Petrolchimico, medici epidemiologi, cittadini impegnati in comitati per la difesa dell’ambiente. Le narrazioni raccolte nel cantiere hanno fatto emergere la stretta connessione fra la produzione e disseminazione di veleni del polo industriale – le Centrali termoelettriche e il Petrolchimico – e l’aumento della mortalità e delle malattie fra i lavoratori e gli abitanti dei quartieri prossimi agli stabilimenti. Ci si è allora interrogati sui dispositivi che hanno reso impossibile, in questi ultimi 50 anni, determinare delle responsabilità e porre dei rimedi alla situazione. Il libro illustra, attraverso il sapere delle persone direttamente coinvolte, tali dispositivi e li inquadra in quella complicità istituzionale che, a Brindisi come in diverse altre parti del mondo, opera privilegiando il profitto a discapito della salute dei lavoratori e dei cittadini.

domenica 18 settembre 2016

Cinque difficoltà per chi scrive la verità (1935)*- Bertolt Brecht

*Da:    "Schriften zur Literatur und Kunste" Shurkamp Verlag, 1967 Edizione italiana "Scritti sulla letteratura e sull'arte", Einaudi 1973, traduzione di Bianca Zagari e nota introduttiva di Cesare Cases

   Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese.

1. Il coraggio di scrivere la verità.

   Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso. Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni fama. Per farlo, ci vuole coraggio. Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che più conta è lo spirito di sacrificio. Quando i contadini vengono ricoperti di onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto. Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro, i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata, ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.

Libertà del volere: un'illusione antica? - Roberta De Monticelli


sabato 17 settembre 2016

Modo di produzione capitalistico*- Alessandro Mazzone

*Da:   https://rivistacontraddizione.  n.140 Luglio-Settembre 2012

MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO, mondializzazione o globalizzazione?

1. Alla fine di questo 1998, centocinquantenario del Manifesto del partito comunista di K. Marx e F. Engels, è – a quanto sembra – pacifico e generalmente riconosciuto: la critica del capitalismo avanzata a metà ‘800 conteneva una singolare capacità di previsione storica – nelle grandi linee, e dunque non necessariamente politica.
Ricordiamo brevemente.
Già nel Manifesto il “mondo” appare come un “mondo”, un processo obiettivo e che si generalizza secondo sue determinazioni interne. Abbiamo:
- la produzione capitalistica, capace di abbattere o sottomettersi tutte le forme precorse di riproduzione della vita umana associata (dunque: espansione illimitata della produzione capitalistica);
- la tendenziale estensione della forma di merce, e del corrispondente “nudo rapporto d’interesse”, a ogni elemento della riproduzione della vita umana e del corpo associato (dunque: trasformazione graduale di tutte le dimensioni societarie in figure “capitalistico-borghesi”);
- la creazione di un mercato mondiale, non come semplice rete di scambi, ma come regolazione vincente di rapporti sociali, politici, culturali (dunque: unificazione, in prospettiva, del genere umano nella – contraddittoria – “civiltà borghese”);
- il primato economico delle “nazioni borghesi” come tendenza alla sottomissione di tutte le altre, o alla loro “integrazione” nelle forme economiche e politiche corrispondenti .
Ce n’è abbastanza – può sembrare – per trovare proprio in Marx un “profeta” del presente, il cui “fantasma” deve inquietare i                                                                                      posteri 1. Ma è un’apparenza superficiale, capace di ogni ambiguità, e sostanzialmente ingannevole.

2. Noi sappiamo [i]bis che nel Manifesto la teoria del modo di produzione capitalistico 2 era appena abbozzata; che Marx, nel 1848, non aveva una sua teoria della forma di valore (cioè del rapporto di produzione generale, e che astrattamente “copre” tutto l’arco del mpc), né del processo di capitale, che, se comprende in sé il semplice rapporto di capitale (lavoro salariato), si svolge poi categorialmente fino all’unica e vera “contraddizione” del mpc: la tendenza allo “sviluppo incondizionato della forza produttiva del lavoro sociale” e lo “scopo limitato” della valorizzazione, entrambe inerenti allo svolgimento del mpc in tutto il suo arco. Di conseguenza, solo nell’elaborazione della teoria del mpc in tutto il corso dell’esperienza scientifica di Marx [ii]bis, si sviluppa anche la teoria marxiana delle classi. Poiché la nozione di “classe” dipende concettualmente da quella di “modo di produzione” essa ha, innanzitutto, uno status teorico del medesimo livello d’astrazione della teoria del mpc. E come questa non è teoria delle singole configurazioni del “capitalismo” (i “capitalismi nazionali”, con le loro determinazioni pregresse e sussunte, “ricchezza” e “tradizioni” storiche peculiari, etc.), né – in prima istanza – una teoria degli “stadi” o “fasi” delcapitalismo se non in quanto processo tendenzialmente universalizzantesi, secondo le sue leggi di moto intrinseche e con sussunzione di altre pregresse figure sociali in genere – così la teoria delle classi è (quanto meno per l’autore del Capitale ) una teoria di forme di moto della riproduzione sociale nella forma del mpc, che solo ulteriormente, nella utilizzazione analitica dell’intera teoria del modo di produzione per lo studio di configurazioni sociopolitiche concrete (singoli “capitalismi” storici, nei loro stati, etc.) può acquistare valenza politica nel senso più lato del termine. Torneremo più avanti su quest’aspetto.

venerdì 16 settembre 2016

Su HEIDEGGER*

*Da:    Ludovico Geymonat, Storia del pensiero scientifico e filosofico, Vol. 7, Sez. Nona, Le grandi correnti filosofiche, Cap.7, L'esistenzialismo,§ IV-V, p.p.153-164.  


Per un ulteriore approfondimento del pensiero heideggeriano proponiamo una lettura "critica" di notevole interesse... (c.f.m. Stefano Garroni)             


 IV.   HEIDEGGER: « ESSERE E TEMPO»

L'opera Sein und Zeit, erste Halfte costituisce senza dubbio una delle tappe più importanti dell'itinerario filosofico di Martin Heidegger. Quando nel 1926 terminò di scriverla era ancora vivamente legato a Husserl, tanto che - come già ricordammo - la dedicò proprio a lui («con ammirazione e amicizia») e, come sede per la pubblicazione, scelse per l'appunto l'husserliano «Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologìsche Forschung» («Annali dì filosofia e ricerca fenomenologica»). Tuttavia l'anno stesso in cui l'opera uscì, cioè il 1927, segnò l'inizio della ben nota rottura fra i due autori, e da quel momento in poi Heidegger proseguì le proprie ricerche filosofiche in modo del tutto indipendente dal maestro, onde è sorto il problema (a cui si è già fatto cenno nel paragrafo II) se tale data rappresenti o no una vera e propria svolta del pensiero heideggeriano. Questo breve richiamo intende chiarire il motivo per cui abbiamo deciso di suddividere in due parti la nostra schematìca esposizione dell'esistenzialismo di Heidegger, dedicando il presente paragrafo a Sein und Zeit e il prossimo ad enucleare -- dai molti scritti successivi -- alcuni ben determinati temi che posseggono un particolare interesse dal nostro specifico punto di vista.

Dallo schema dell'opera (contenuto nell'introduzione) si ricava che essa doveva risultare suddivisa in due parti: la prima di carattere prettamente teoretico, la seconda essenzialmente storico-critico. Ciascuna di esse si sarebbe dovuta articolare in tre sezioni, rispettivamente dedicate ai seguenti problemi: «L'analisi fondamentale dell'esserci nel suo momento preparatorio, esserci e temporalità, tempo ed essere» (1 parte), «La dottrina kantiana dello schematismo e del tempo come avviamento alla problematica della " temporalità ", il fondamento antologico del" cogito ergo sum" di Cartesio e l'assunzione dell'ontologia medioevale nella problematica della"res cogitans", la trattazione aristotelica del tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti dell'ontologia antica» (2 parte). [ Per questa e per le altre citazioni, ci valiamo dell'ottima traduzione dell'opera, curata da Pietro Chiodi (Torino 1969)]. La cosiddetta «prima metà» dell'opera, cioè l'unica effettivamente pubblicata, non include l'intera prima parte, ma soltanto le due prime sezioni di essa.

Volendo che il lettore si faccia un 'idea abbastanza esatta della complessa trattazione, riteniamo opportuno premettere un rapido riassunto dell'introduzione in cui ne sono tratteggiati, a grandi linee, gli argomenti generali.

martedì 13 settembre 2016

intervista a Emiliano Brancaccio*- Giacomo Russo Spena

*Da:    http://temi.repubblica.it/

“L’Unione non è più riformabile. Va fermata la circolazione indiscriminata dei capitali”

“Mettiamocelo bene in testa: in Europa non c’è nessuna svolta, nessun vento federalista di cambiamento. La sostanza delle politiche economiche non è cambiata. L’eurozona resta sull’orlo della deflazione, con effetti tremendi per le economie più fragili e per i lavoratori di tutto il continente. Il sentiero che stiamo percorrendo è palesemente insostenibile”. 

L’economista Emiliano Brancaccio non ha mai aderito allostorytelling renziano sulle possibilità di rilancio del progetto di unificazione europea. Anzi, nel commentare le recenti decisioni di politica monetaria e le proposte di gestione del post-Brexit, Brancaccio mette in luce l’affiorare di crepe sempre più profonde nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione. 

Professore, la settimana scorsa Mario Draghi ha dichiarato che per i prossimi mesi la BCE non immetterà ulteriori dosi di liquidità nell’economia europea. Possiamo affermare che nel direttorio di Francoforte questa volta Draghi ha perso, e che hanno vinto i “falchi” dell’austerity guidati dal tedesco Weidmann?

Il problema non riguarda solo la quantità totale di liquidità erogata, ma anche l’impossibilità di indirizzarla verso i soggetti maggiormente in difficoltà. Le regole attuali impongono alla BCE di acquistare titoli secondo quote pressoché fisse tra i vari Paesi, il che significa che larga parte delle erogazioni della banca centrale finisce in Germania anziché nelle economie che ne avrebbero più bisogno. Per iniziare ad affrontare i problemi di solvibilità dei Paesi più fragili bisognerebbe almeno superare questi aspetti così regressivi della politica monetaria europea. Ma i conservatori, tedeschi e non solo, ormai bloccano anche le più modeste istanze di rinnovamento.

Questo significa che la BCE non riuscirà a perseguire l’obiettivo d’inflazione che si era data?

Le banche centrali non hanno mai avuto il potere di controllare l’inflazione. Il loro vero compito è di definire le condizioni generali di solvibilità delle unità economiche. Con le attuali regole, la solvibilità è del tutto compromessa in Grecia, e in prospettiva non è garantita nemmeno in Italia e negli altri Paesi del Sud Europa.

lunedì 12 settembre 2016

NEO-AMERICANISMO, marxismo ed esercito di miseria di riserva* - Aurelio Macchioro

*Da:   http://www.contraddizione.it/  (N.8, 2015) 

1"Un punto centrale di questo capitalismo post 1945 e post 1970 è il travisamento e l’occultamento spettacolari dei costi esterni. L’auto accelera i tempi? Ma nella misura (grande) in cui crea ingorghi e sprechi di trasferimento di quanto li decelera? Se un’intera insediabilità urbanistica, come quella americana, si è condeterminata e intercondizionata con l’uso dell’auto, quali i risultati globali di entrata-uscita? E se anche l’atmosfera s’inquina? e se accentua le ragioni di ospitalizzazione? La chimica industriale, i fertilizzanti ecc.: quale è il loro attivo di entrata al netto di uscita di costi esterni? L’automazione? Esiste, in proposito una enorme confusione fra efficienza e rendimenti: un calcolatore versatile in un’agenzia bancaria risparmia (efficienza aziendale) sui costi di personale, generalizzando la disoccupazione rende più efficiente un certo controllo interno di personale; ma quando (frequentissimamente) la macchina si inceppa è la paralisi (un’ora, un giorno?) per un’intera comunità di utenti: con quale attivo/passivo complessivo? Ed ancora, in tema di controllo di personale: quanto più all’azienda ridondano benefici di ricatto sul personale generale, tanto più ridondano sprechi di ricatto dal personale specializzato (ricatti sensibilissimi, ad es. nelle compagnie di volo) e si fa ricattare l’azienda dall’avanza­mento tecnologico stesso: dal rapidissimo e artificiale tasso di obsolescenza, dalla specialità dei costi di assistenza ecc. Con quali bilanci globali di entrata e uscita? Se in un ufficio si rende in linea assoluta impossibile il controllo di efficienza o assiduità sul personale\uomo, quali ne sono i costi ai fini dell’utenza finale? Come calcolare (in termini contabilistici) i costi di minor rendimento (specialmente esterni) della efficienza (tecnologica) una volta che questi costi sono diventati sproporzionatamente elevati rispetto ad altre rivoluzioni tecnologiche? E che dire delle applicazioni belliche? E così via. L’occultamento spettacolare di tutto questo è che lo studio di questa nuova contabilità viene tradotto e assorbito nel sistema diffuso sotto forma di americanismo di parata: movimenti ecologici o, meglio, ecologistici, gli indiani metropolitani, la visività contestativa, il profetismo, la fioritura sociologica o, meglio, sociologistica ... la poematica, insomma, come traslato della prosaicità e della contabilistica. Gli occultamenti sono tali che costringono me stesso a occultarmi ; non essendosi creata una”contabilità del globale” e neppure essendosene posto il problema. In mancanza di dati sono costretto a relegare in nota quanto, invece, fa parte principale di testo e contesto; si riduce a spunto e suggerimento – e spuntino postprandiale – quanto invece, se è lecito dire, dovrebbe fondare il prandium."

Il fenomeno più saliente su cui vorrei richiamare la vostra attenzione è la coesistenza di sviluppo o sottosviluppo tanto nel suo significato originariamente marxiano (il capitalismo ha per sua intrinseca dialettica la formazione di eserciti di disoccupazione di riserva), quanto sotto forma di scambio ineguale, quanto nelle sue “odierne” specificità di riscoperta della miseria

domenica 11 settembre 2016

La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo. Intervista a Remo Bodei di Francesco Postorino*


Remo Bodei ha recentemente pubblicato Limite (il Mulino), una importante riflessione filosofica sull'idea di limite nell'epoca della globalizzazione. In questa intervista, si ricapitolano di questa riflessione i tratti principali.

Il concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche e, in particolare, nella modernità?

Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura, del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come “concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.

Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.  

Se guardiamo specificamente alla filosofia, nel periodo da Locke a Kant, la filosofia moderna si è interrogata a lungo sui limiti dell’intelletto umano. Fin dove può giungere una solida conoscenza basata sull’esperienza o sul sapere matematico prima di lasciare spazio alla fede o alla metafisica, ossia a questioni indecidibili e a convinzioni non razionalmente argomentabili? Se per Locke ogni idea trae il suo materiale unicamente dall’esperienza dei sensi, è chiaro che non si può attribuire valore di verità a quanto si pone al di fuori di essa. Kant, a sua volta, delimita la sfera di validità dell’esperienza paragonando l’intelletto a un’isola dai confini ben precisi, circondata da un mare di apparenze, verso il quale gli uomini si sentono però irresistibilmente attratti.

La tentazione da evitare è quella di lasciarsi attirare dalle Sirene della metafisica, che invitano allo scriteriato viaggio nell’oceano dell’apparenza, di lasciarsi sedurre da ciò che è inverificabile e contrario all’unica verità alla nostra portata, quella dettata dall’esperienza. Non bisogna quindi abbandonare il solido terreno di quest’isola dai “confini immutabili” per affrontare un’impresa che è, comunque, destinata al naufragio. Sul terreno della dialettica, ossia dell’illusione di poter risolvere problemi insolubili (ad esempio, se l’anima è mortale o immortale o se l’universo è finito o meno), non ci sono altro che “antinomie”, soluzioni in contraddizione tra loro.

sabato 10 settembre 2016

Un discorso di Hegel*

*Da:    http://www.badiale-tringali.it/

(Nel 1808 Hegel assunse l'incarico di rettore del Ginnasio di Norimberga. Nel settembre del 1809, a conclusione del primo anno scolastico, tenne il seguente discorso sul significato degli studi classici. Paolo Di Remigio ci propone questa traduzione commentata. Leggendola siamo stati colpiti dalla lucidità e dall'attualità delle parole di Hegel su cosa siano cultura ed educazione. Per questo ci sembra interessante proporvelo. Ringraziamo l'amico Di Remigio per questa opportunità. Il testo appare anche su "Appello al popolo". M.Badiale)


In occasione del conferimento solenne dei premi che l'Autorità Suprema conferisce agli alunni distintisi per i loro progressi al fine di gratificarli e ancor più di spronarli, sono incaricato da Graziosissimo Ordine di illustrare in un pubblico discorso la storia del Ginnasio nell'anno passato, e di toccare quegli argomenti di cui può essere utile parlare per la loro relazione al pubblico. L'invito alla deferenza con cui ho da compiere questo incarico è proprio della natura dell'oggetto e del contenuto, che consiste in una serie di liberalità del Re o di loro conseguenze, e la cui illustrazione implica la necessità di esprimere la più profonda gratitudine per esse –una gratitudine che, insieme al pubblico, mostriamo alla cura sublime che l'Autorità dedica agli Istituti pubblici di istruzione1. – Ci sono due rami dell'amministrazione pubblica per il cui buon ordinamento i popoli usano essere più di ogni altra cosa riconoscenti: buona amministrazione della giustizia e buoni istituti di istruzione; infatti soprattutto di questi due rami, dei quali uno tocca la sua proprietà privata in generale, l'altro la sua proprietà più cara, i suoi figli, il privato comprende e sente i vantaggi e gli effetti immediati, vicini e individualizzati.

Questa città ha riconosciuto il bene di un nuovo ordinamento scolastico con tanta più vivacità quanto maggiore e più universalmente sentito era il bisogno di un cambiamento2.

Il nuovo Istituto ha poi avuto il vantaggio di seguire Istituti non nuovi, ma antichi, durati più secoli; così gli è si potuta connettere la pronta rappresentazione di una lunga durata, di una permanenza, e la fiducia corrispondente non è stata disturbata dal pensiero opposto che il nuovo ordinamento sia qualcosa di soltanto fuggevole, di sperimentale, – un pensiero che spesso, in particolare quando si fissa negli animi di coloro ai quali è affidata l'esecuzione immediata, finisce con lo svilire di fatto un ordinamento a un mero esperimento3.

Un motivo interno di fiducia è però che, nel migliorare ed estendere essenzialmente il tutto, il nuovo Istituto ha conservato il principio dell'antico e ne è soltanto una prosecuzione. Ed è notevole che questa circostanza costituisca il caratteristico e l'eccellenza del nuovo ordinamento4.

venerdì 9 settembre 2016

CULTURA O IDEOLOGIA?*- Alessandra Ciattini




Quali sono le conseguenze teoriche e politiche dell’impiego della nozione di ideologia e di quella di cultura? Non è contraddittorio richiamarsi ai “fatti” per liquidare le visioni ideologiche e al contempo appellarsi al relativismo culturale per legittimare la propria opinione, qualsiasi essa sia?


Ascoltando con atteggiamento critico il linguaggio politico e quello massmediatico, assai spesso coincidenti, si può cogliere questa paradossale contraddizione: da un lato, le ideologie sono finite ed è quindi opportuno fare costantemente riferimento ai “fatti”; dall’altro, formulando qualche considerazione, ci si appresta a sottolineare che essa è esclusivamente frutto della propria personale opinione, ovviamente sempre rispettabile perché viviamo in un “sistema democratico”.

Sembrerebbe, quindi, che per un verso, si è del tutto convinti che esistano “fatti” osservabili e identificabili indipendentemente dal punto di vista di chi esprime una valutazione; e, infatti, a proposito ad esempio di una certa misura economica da prendere, si ripete ciò non è né di destra né di sinistra, perché sta nelle cose. Per l’altro verso, con una vena relativistica, assai antipatica alla Chiesa cattolica, si ribadisce che ognuno ha legittimamente le proprie opinioni, in cui si esprimono scelte culturali differenti, tutte accettabili.

Nel primo caso si identifica l’ideologia con un insieme di preconcetti, appartenenti ad un passato ormai superato, e applicati in maniera dottrinaria e semplificatoria. Nel secondo caso il richiamo implicito è, invece, alla nozione di cultura, che a sua volta rimanda alla convinzione che l’uomo contemporaneo abbia di fronte a sé una miriade di opzioni culturali, tra le quali potrà individuare quella che gli consentirà una più piena realizzazione di sé. Per verificare il carattere mistificante di quest’ultima affermazione, basta fare un’operazione assai semplice: esaminare i diversi programmi televisivi, offerti dai numerosissimi canali che abbiamo a disposizione, cercando di cogliere punti di vista differenti a proposito di questioni che non siano la scelta tra mode effimere ed evanescenti. Insomma, sostanzialmente ci viene servita sempre la stessa salsa, anche se si cerca di presentarla come innovatrice o addirittura trasgressiva. Quindi, contraddittoriamente, talvolta, ci si richiama alla “positività immutabile dei fatti”, talaltra, invece si mette in luce la possibilità del pluralismo culturale, in realtà praticato assai superficialmente e certamente non in ambiti di cruciale rilevanza (come per esempio il carattere effettivamente democratico dei nostri sistemi politici). Pluralismo culturale che ha anche prodotto la bizzarra equiparazione tra cultura quotidiana e cultura alta, concepite come forme semplicemente diverse, ma ugualmente profonde, di attribuire significati al momento storico, cui appartengono.

giovedì 8 settembre 2016

Il concetto marxiano di bisogno[1]*- Agnes Heller


"Il comunismo è pane e rose, il necessario e il superfluo, una società dove si mangia meglio e di più (non solo pane), dove si lavora meglio e di meno, ma anche una società dove si è più felici, realizzati, liberi" (Marx)


Riassumendo le proprie scoperte economiche, rispetto all’economia politica classica, Marx elenca i seguenti punti:

1. Elaborazione della teoria secondo la quale il lavoratore vende al capitalista non il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro.

2. Elaborazione della categoria generale del plusvalore e sua dimostrazione (profitto, salario e rendita fondiaria sono soltanto forme fenomeniche del plusvalore).

3. Scoperta del significato del valore d’uso (Marx scrive che le categorie valore e valore di scambio non sono                                                                                                                    nuove, ma sono riprese dall’economia politica classica).

Se si analizzano le tre scoperte che Marx si attribuisce, non è difficile dimostrare che in qualche modo sono costruite tutte sul concetto di bisogno.

Esaminiamo dapprima il valore d’uso. Marx definisce la merce come valore d’uso nel modo seguente: “La merce è [...] una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo.”[2] È irrilevante a questo proposito se si tratti di bisogni dello stomaco o della fantasia. La soddisfazione del bisogno è la conditio sine qua non per qualunque merce. Non esiste alcun valore (valore di scambio) senza valore d’uso (soddisfazione di bisogni), ma possono ben esistere valori d’uso (beni) senza valore (valore di scambio), sebbene soddisfino bisogni (secondo la loro definizione). Sia fin d’ora chiaro che Marx è solito definire attraverso il concetto di bisogno, ma non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non descrive nemmeno cosa si debba intendere con tale termine.

mercoledì 7 settembre 2016

KANT - Maurizio Ferraris




http://www.filosofia.rai.it/articoli-programma/zettel-presenta-maurizio-ferraris-kant-e-lilluminismo/31677/default.aspx


  Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/10/kant-brandt-dusing-henrich-hosle.html                                                                  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/husserl-roberta-de-monticelli.html


« L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo. »
(Immanuel Kant da Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?1784)

martedì 6 settembre 2016

Il neoliberismo è un progetto politico*- B. S. Risager intervista David Harvey

*Da:        http://contropiano.org/                            http://www.sinistrainrete.info/  
 Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.


Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.

Gli anni passati da allora hanno visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che di per se spesso mettono nel mirino proprio il “neoliberismo” nella loro critica della società contemporanea.

Cornell West parla del movimento “Black Lives Matter” (il movimento originatosi nella comunità afro-americana contro le continue violenze della polizia contro le persone di colore, ndt) come di “un’accusa verso il potere neoliberale”; Hugo Chavez chiamava il neoliberismo un “percorso verso l’inferno”; e i leader sindacali stanno usando in maniera crescente il termine per descrivere il tipo di struttura più ampia in cui avvengono le lotte per il lavoro. Anche la stampa mainstream ha iniziato ad usare il termine, se non altro per argomentare che il neoliberismo non esiste.

Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? È un bersaglio utile per dei militanti socialisti? E come è cambiato dalla sua genesi avvenuta nel tardo ventesimo secolo?

Bjarke Skærlund Risager, un dottorando presso il Dipartimento di Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, si è seduto al tavolo con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come esso ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra deve ancora essere seria riguardo all’obbiettivo di terminare il capitalismo.

sabato 3 settembre 2016

Simone Weil* - Riccardo Bellofiore

*in "Nuvole", n. 2, dicembre 1991-gennaio 1992)(seguita da breve antologia, stesso numero) 


La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati a torto o a ragione efficaci. Se la repubblica di Weimar, invece che Hitler, avesse deciso per le vie più rigorosamente parlamentari e legali di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli raffinatamente fino alla morte, le torture non avrebbero per questo un atomo di legittimità in più di quanto non ne abbiano attualmente. E una cosa simile non è affatto inconcepibile.
(Simone Weil, Diario, n. 6, p.4, 1943)


Scrive di lei Georges Bataille in L'azzurro del cielo: "Sentivo che una simile esistenza non poteva avere senso se non per uomini e per un mondo votato alla sventura." E ancora: "Pensai: è macabra, ma è l'unica che capisca." Eccessiva e irritante. Ma anche: un'intelligenza affilata come una lama, un'inesausta volontà di capire e trasformare. La sua inquietudine, e in certo senso anche la sua autodistruttività, si accompagnano a quella domanda tutt'ora inevasa che ci viene da un'esperienza al tempo stesso radicale e razionale. Di chi non ha rimosso, né si è acquietata, nell'impotenza e nella sconfitta. Di chi ha lottato con il cuore caldo e la mente lucida. Di chi ha saputo tenere alti, insieme, i valori dell'individuo e quelli di una liberazione collettiva. Di chi ha saputo, insomma, essere di parte senza mai essere di partito - fosse una qualche Internazionale, o una qualche Chiesa. 

Nasce a Parigi nel 1909, da una famiglia ebraica ma non confessante. Si dichiara bolscevica a dieci anni: ma il suo sarà sempre un comunismo libertario, con tratti anarchici. Allieva al liceo di Alain, si laurea con una tesi su Descartes, autore che non cesserà di amare. Insegnante, sindacalista rivoluzionaria, va in Germania nell'agosto del 1932, e vi vede l'impotenza del proletariato tedesco e del movimento rivoluzionario, la competizione tra le burocrazie socialdemocratica e comunista, la divisione e la cecità della sinistra che preparano la disfatta. Ne cerca le cause dapprima in una analisi non compiacente della crisi sociale ed economica, e poi in un ripensamento radicale del marxismo, della forma e dell'origine dello sfruttamento. Consegnerà le sue tesi ad uno scritto pubblicato postumo, quelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale (1934) a cui premette una frase di Spinoza: "Riguardo alle cose umane non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire." Un atteggiamento stoico che la avvicina a Rosa Luxemburg, cui dedicherà una recensione breve ed appassionata. 

giovedì 1 settembre 2016

Studio su Hegel: LA LOGICA - Stefano Garroni

[1] - Hegel, 1130.1, §. 19 - La logica è la scienza (Wissenschaft) della pura (reine) idea, cioè dell’idea nell’ astratto elemento del pensare (Denken)... La logica è la scienza del pensare, delle sue determinazioni e leggi, ma il pensare in quanto tale definisce solo la determinatezza generale o l’ elemento, in cui l’idea è in quanto logica. L’idea non è il pensiero formale, ma (il pensare) in quanto la totalità sviluppantesi delle sue (del pensiero) proprie determinatezze e leggi, che esso stesso si dà -non che ha o trova già in sé.[1]

La logica può esser detta la scienza più difficile, in quanto non ha a che fare con intuizioni (Anschauung) e neppure con astratte rappresentazioni sensibili come la geometria; essa ha invece a che fare con le pure astrazioni e richiede la capacità e la forza di districarsi nel puro pensiero, di muoversi con sicurezza entro di esso, in quanto puro pensiero. (67). La differenza tra logica e matematica -l’argomento è lo stesso fatto per la geometria-, in pp. 70s (cf. Cingoli, 7464: 22).
[Quindi, la logica studia l’idea, ma nell’ astratto elemento del pensare  non nel Dasein; la logica studia l’astratto pensare, come una totalità, che produce le sue stesse leggi e determinazioni. Il tutto avviene entro lo spazio del puro pensiero astratto; qui non compare affatto il Dasein].

Ma la logica può anche esser detta la scienza più facile, in quanto il suo oggetto è il pensare e le sue famigliari (geläufig) determinazioni. -[Si può dire, in questo senso, che Hegel stabilisce una relazione fra logica e conoscenza ordinaria? Per come prosegue il testo di Hegel, per come sottolinea che nelle mani della logica  la Bekanntschaft diventa tale in un senso diverso da quello della quotidianità, direi che è legittima la tesi seguente: l’elaborazione hegeliana si applica sul <comune>, sull’<abituale> -in questo senso, sul <quotidiano>, ovviamente riplasmandolo.]

La logica è utile in quanto apprende a pensare, ad avere in testa il pensieri in quanto pensieri; ma la logica è anche la forma assoluta della verità, dunque, la verità stessa: la logica è utile in quanto assicura il formale uso del pensare.