sabato 3 settembre 2016

Simone Weil* - Riccardo Bellofiore

*in "Nuvole", n. 2, dicembre 1991-gennaio 1992)(seguita da breve antologia, stesso numero) 


La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati a torto o a ragione efficaci. Se la repubblica di Weimar, invece che Hitler, avesse deciso per le vie più rigorosamente parlamentari e legali di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli raffinatamente fino alla morte, le torture non avrebbero per questo un atomo di legittimità in più di quanto non ne abbiano attualmente. E una cosa simile non è affatto inconcepibile.
(Simone Weil, Diario, n. 6, p.4, 1943)


Scrive di lei Georges Bataille in L'azzurro del cielo: "Sentivo che una simile esistenza non poteva avere senso se non per uomini e per un mondo votato alla sventura." E ancora: "Pensai: è macabra, ma è l'unica che capisca." Eccessiva e irritante. Ma anche: un'intelligenza affilata come una lama, un'inesausta volontà di capire e trasformare. La sua inquietudine, e in certo senso anche la sua autodistruttività, si accompagnano a quella domanda tutt'ora inevasa che ci viene da un'esperienza al tempo stesso radicale e razionale. Di chi non ha rimosso, né si è acquietata, nell'impotenza e nella sconfitta. Di chi ha lottato con il cuore caldo e la mente lucida. Di chi ha saputo tenere alti, insieme, i valori dell'individuo e quelli di una liberazione collettiva. Di chi ha saputo, insomma, essere di parte senza mai essere di partito - fosse una qualche Internazionale, o una qualche Chiesa. 

Nasce a Parigi nel 1909, da una famiglia ebraica ma non confessante. Si dichiara bolscevica a dieci anni: ma il suo sarà sempre un comunismo libertario, con tratti anarchici. Allieva al liceo di Alain, si laurea con una tesi su Descartes, autore che non cesserà di amare. Insegnante, sindacalista rivoluzionaria, va in Germania nell'agosto del 1932, e vi vede l'impotenza del proletariato tedesco e del movimento rivoluzionario, la competizione tra le burocrazie socialdemocratica e comunista, la divisione e la cecità della sinistra che preparano la disfatta. Ne cerca le cause dapprima in una analisi non compiacente della crisi sociale ed economica, e poi in un ripensamento radicale del marxismo, della forma e dell'origine dello sfruttamento. Consegnerà le sue tesi ad uno scritto pubblicato postumo, quelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale (1934) a cui premette una frase di Spinoza: "Riguardo alle cose umane non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire." Un atteggiamento stoico che la avvicina a Rosa Luxemburg, cui dedicherà una recensione breve ed appassionata. 

L'anno dopo entra in fabbrica, dove sperimenta la barbarie della fabbrica moderna, il sacrilegio della dignità umana che lì si consuma, la crocifissione degli esseri umani in carne ed ossa. Una scelta, certo, del tutto conseguente alla volontà di superare la separazione tra lavoro manuale e intellettuale, alla critica della astrattezza e dello specialismo della scienza, ad un pensiero che vuole aderire alle cose. Ma anche ad un amore degli operai che non era solo - diceva - spirito di giustizia: "li amo naturalmente, trovo che sono più belli dei borghesi". Una condivisione della condizione materiale dei deboli che la separa dalla casta degli intellettuali, e che le faceva dire a Simone de Beauvoir: "si vede che Lei non ha mai patito la fame". Poi la crisi mistica, nel 1937, non però un distacco dalle cose del mondo. Era voluta andare in Spagna allo scoppio della guerra civile, esperienza non priva di tratti eroicomici, e ne tornerà sconvolta. Pacifista rigorosa prima del conflitto mondiale, si impegnerà nel movimento di Francia Libera, su posizioni sempre più indipendenti e profetiche. Non riuscirà comunque, come avrebbe voluto, a partecipare più attivamente, in prima linea. Colpita dalla tubercolosi, morirà in Inghilterra ad Ashford nel Kent nel 1943, a soli trentaquattro anni, anche per il suo rifiuto di nutrirsi oltre quanto era consentito dal razionamento del cibo in Francia. 

Riscoperta nel dopoguerra, per merito di Camus, non le è stata risparmiata una cattiva fortuna. Non mi riferisco tanto alle belle traduzioni di Franco Fortini per Comunità ai tempi di Adriano Olivetti, che avevano origine in un capitalismo ancora capace di un qualche ideale di riforma industriale; e neanche alla lettura cattolica, tutt'ora per molti versi illuminante, di Augusto Del Noce, che vede nella Weil un percorso esemplare anche se incompiuto, dall'esaurirsi interno di una prospettiva rivoluzionaria, al pessimismo sulla capacità autoredentiva dell'uomo, all'approdo religioso. Si tratta di approcci unilaterali, certo, ma in fondo legittimi. E' andata peggio, dopo. Dalla traduzione della Weil nella nuova koiné del pensiero debole proposta da Alessandro Dal Lago, che la accomuna al tema nichilistico del depotenziamento del soggetto, alla lettura speculare e contrapposta diffusa nel recente femminismo essenzialistico, che ne fa un'antesignana di una visione ontologica della differenza sessuale: lei, che voleva un pensiero che desse forza ai deboli, senza farne dei dominatori; lei, pensatrice quant'altre mai dell'universalismo - in questo senso, sì, "cattolica". Per non dire, poi, di un certo operaismo alla Accornero che, se ha giustamente sottolineato la costante attenzione della Weil al lavoro operaio, ha però visto nel suo misticismo una fuga dall'ineluttabilità della condizione di fabbrica. Si salvano soltanto le riproposte recenti di Diario e di Linea d'ombra, e il paziente lavoro editoriale di Giancarlo Gaeta che sta curando le pubblicazione dei suoi scritti in italiano. 

Le ragioni per leggerla stanno altrove. In quella sua analisi del lavoro visto come luogo dove il pensiero metodico, teso a stabilire "un equilibrio tra lo spirito e l'oggetto cui si applica", dovrebbe dispiegarsi, e che invece soggiace all'oppressione di una macchina sociale la quale, cieca al pari della natura, subordina e annienta l'individuo. In quella sua ricerca di proporzione e di armonia, della costruzione di sé come essere intero, di cui non si stanca di indagare le condizioni sociali di possibilità. In quel contrasto doloroso per cui la sete di interezza ed il bisogno di ricomposizione dell'individuo diviso si staccano dalla propria concreta esistenza vissuta come limite, imperfezione, privazione. In quel riconoscere la peccaminosità e insieme l'obbligatorietà della scelta. 

Ma una ragione, a me pare, sovrasta tutte le altre, in una paradossalità che è soltanto apparente. Simone Weil, pensatrice scomoda e dissonante, impedisce ogni identificazione. Non può e non vuole farsi maestra di un sapere già dato, slegato dall'esperienza, fosse pure un sapere "eretico". E' impossibile cercare linearità nel suo percorso umano e intellettuale la cui cifra, ha scritto felicemente Anna Scattigno, fu la "volontà di conoscere": accidentato, dunque, come lo è ogni vera ricerca, a cui vale la pena di prestare attenzione anche quando non se ne possono condividere tutti gli esiti. 

Difficile seguire Simone Weil nella sua critica alla democrazia e al diritto che perde molto, troppo, della tradizione giusnaturalistica e liberale. Ma chi non si interroga sul contenuto positivo della libertà, chi non vede nella democrazia uno strumento impazzito senza valori che gli diano legittimità, chi ha paura di quella domanda di giustizia che sola può dare concretezza a quei valori e forza al diritto, finisce con il fare della libertà la legge del più forte, della democrazia un mercato, del diritto un imbroglio. Difficile non scorgere nell'ultima riflessione sulla "decreazione" - nella sua ripresa del tema della qabbalah secondo cui la creazione è uno zimzûm ("contrazione"), una abdicazione di Dio alla propria onnipotenza - anche il volto inquietante di una visione del finito come male, il presagio di quell'autoannientamento che forse è stata la sua morte. Ma chi non vi sa leggere anche il modello di un potere che si riconosce nel limite, di una rivoluzione che non vuol farsi dominio, è accecato dallo spirito di potenza. A loro non cesseremo di preferire chi non ha dimenticato che "occorre essere sempre disposti a cambiare di parte per seguire la giustizia, questa eterna fuggiasca dal campo dei vincitori."


Antologia

Ci battiamo tutti (quando ci si batte) alla cieca. Perché le insurrezioni del tipo della Comune sono ammirevoli, ma falliscono (è vero che il proletariato è molto più forte di allora; ma lo è anche la borghesia). Quelle del tipo dell'Ottobre '17 non falliscono, ma finiscono con il rinforzare la macchina burocratica, militare e poliziesca. E la non-violenza alla Gandhi appare per ora come una forma un po' ipocrita di riformismo. E noi non conosciamo un quarto tipo di azione. Io non riesco a capire perché mai i militanti non pongano con chiarezza la questione, ora che possiamo guardare all'Ottobre con un certo distacco (...) Si direbbe che i militanti temano le riflessioni demoralizzanti. Quanto a me, ho deciso già da qualche tempo che, data l'impossibilità di una posizione "al di sopra della mischia", sceglierò sempre, anche in caso di disfatta sicura, di condividere la disfatta degli operai piuttosto che la vittoria degli oppressori; ma quanto a chiudere gli occhi per timore d'indebolire la fede nella vittoria, questo lo rifiuto ad ogni costo.

[Frammento di lettera, 1933, in S.W., Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990, pp. 36-37]



Non si capisce bene perché l'editore abbia messo in epigrafe una frase senza dubbio sfuggita alla penna di Rosa: "Spero di morire al mio posto: per la strada durante una battaglia o in un penitenziario." Se questa formula traducesse un sentimento profondo, non farebbe molto onore alla sua autrice. Ma la lettura della raccolta non lascia alcun dubbio in proposito. La vita di Rosa, la sua opera, e in particolare queste stesse lettere manifestano un'aspirazione alla vita e non alla morte, alla azione efficace e non al sacrificio.
In tal senso non vi è niente di cristiano nel temperamento di Rosa. E' profondamente pagana. Ogni riga di questa raccolta respira una concezione stoica della vita, nel senso che questa parola poteva avere per i greci e non nel senso limitato che ha preso oggigiorno (...) Contrariamente a tanti capi del movimento operaio, soprattutto i bolscevichi e Lenin in particolare, Rosa non ha ristretto la sua vita entro i limiti dell'attività politica. Fu un essere completo, aperto ad ogni cosa, e a cui niente di umano era estraneo. La sua azione politica era soltanto una delle espressioni della sua natura generosa. Da questa differenza tra lei e i bolscevichi circa l'atteggiamento interiore del militante nei confronti dell'azione rivoluzionaria derivano anche i grandi disaccordi politici che sorsero tra di loro, e che il tempo indubbiamente non avrebbe fatto che accentuare se Rosa fosse vissuta.

["Rosa Luxemburg: Lettres de la Prison", 1933, in S.W., Morale e letteratura, ETS, Pisa 1990, p.71-73. E' stato corretto un errore di stampa]



Ora, le due concezioni tra le quali Lenin vuole costringerci a scegliere procedono entrambe dallo stesso metodo: per risolvere meglio un problema, esse ne sopprimono uno dei due termini. Una delle due concezioni nega il mondo, oggetto di conoscenza, l'altra lo spirito, soggetto della conoscenza; tutte e due tolgono così alla conoscenza ogni significato. Se non si vuole costruire una teoria ma rendersi conto della condizione in cui si trova realmente l'uomo, non ci si chiederà tanto come il mondo possa essere conosciuto, ma come, di fatto, l'uomo conosce il mondo; e si dovrà riconoscere l'esistenza sia di un mondo che sta al di là del pensiero, sia di un pensiero che, lungi dal riflettere passivamente il mondo, vi si esercita per conoscerlo e per trasformarlo. Così pensava Descartes, ed è significativo che Lenin, in questo libro non lo menzioni; così pensava, non possiamo dubitarne, Marx (...) Dopo di [Descartes] non ci sono stati che pochissimi eruditi che abbiano saputo mettere in causa i privilegi della loro casta. Quanto agli intellettuali del movimento operaio, essi non hanno neppur pensato di attaccare un ruolo così indispensabile, ruolo pesante, è vero, che implica una revisione critica dell'intera scienza, e soprattutto della matematica, dove si è rifugiata la quintessenza del mistero: ma si tratta di un ruolo che la nozione stessa di socialismo istituisce, e il cui compimento non dipende dalle condizioni esterne e dalla posizione attuale del movimento operaio, ma soltanto da quelli che oseranno assumerselo; così importante del resto che un passo fatto su questa via sarebbe forse più utile all'umanità e al proletariato che molte vittorie parziali nel campo dell'azione. Ma i teorici del movimento socialista, quando lasciano il campo dell'azione pratica e cioé quell'agitazione vana in mezzo alle tendenze, alle frazioni e sotto-frazioni che dà loro l'illusione di agire, non pensano affatto a scuotere i privilegi della casta intellettuale; lungi da ciò, essi elaborano una dottrina complicata e misteriosa che serve da sostegno all'oppressione burocratica in seno al movimento operaio. In questo senso la filosofia è davvero, come dice Lenin, un affare di partito.

[" Lénine: Matérialisme et empiriocriticisme (compte rendu)", 1933. Da Écrits historiques et politiques, II, * , L'engagement syndical (1927-juillet 1934), Gallimard, Paris 1988, p. 285. Trad. dal francese di Marina Spadaro]



La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto tra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine. Poco importa che le azioni in se stesse siano agevoli o dolorose, e poco importa anche che esse siano coronate da successo; il dolore e la sconfitta possono rendere l'uomo sventurato, ma non possono umiliarlo finché è lui stesso a disporre della propria facoltà di agire. E disporre delle proprie azioni non significa affatto agire arbitrariamente.

[Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, 1934, Adelphi, Milano 1983, p. 77]



Viviamo in un'epoca illuminata, che ha scosso il giogo delle superstizioni e degli dei. Essa non rimane ancorata che ad alcune divinità che esigono ed ottengono la più alta considerazione intellettuale, quali la Patria, la Produzione, il Progresso, la Scienza. Sfortunatamente, queste divinità così epurate, raffinate, e del tutto astratte come si conviene ad un'epoca altamente civilizzata, appartengono per la maggior parte alla specie antropofaga. Esse amano il sangue. Hanno bisogno di sacrifici umani. Zeus era meno esigente. Il fatto è che non si sarebbe concesso a Zeus più che qualche goccia di vino e poco grasso di bue. Al Progresso invece - che cosa non si concederebbe? Così si rideva talvolta di Zeus, mentre non si ride mai del Progresso. Siamo una civiltà che non ride dei suoi dei. E' un caso che dall'intronizzazione nell'Olimpo di questi dei di cui non si ride, non c'è quasi più la commedia?
Si può concedere tutto al Progresso, poichè si ignora del tutto ciò che esso chiede. Chi ha mai tentato di definire un progresso? Se si proponesse questo tema in un concorso, sarebbe senza dubbio istruttivo e divertente paragonare le definizioni. Ne propongo una, la sola, a mio parere, pienamente soddisfacente e che si applichi a tutti i casi: si dice che c'è progresso ogni volta che gli esperti possono, dopo aver compilato statistiche comparate, trarne una funzione che cresca con il tempo. Se ci sono in Francia - è solo una supposizione - due volte più ospedali di vent'anni fa, tre volte più di quarant'anni fa, c'è progresso. Se ci sono due, tre volte più automobili, c'è progresso. Se ci sono due, tre volte più cannoni, c'è progresso. Se ci sono due, tre volte più casi di tubercolosi ... ma no, questo esempio non sarà opportuno che il giorno in cui la tubercolosi sarà un prodotto industriale. Conviene dunque aggiungere alla definizione proposta che la funzione deve esprimere la crescita di cose fabbricate.

[Progrès et production, frammento di un articolo forse destinato ad illustrare la rubrica "Potere delle parole" nei "Nouveaux Cahiers", 1937. Da Écrits historiques et politiques, II, * * * , Vers la guerre (1937-1940), Gallimard, Paris 1989, p. 285. Trad. dal francese di Marina Spadaro]



Amore fisico e lavoro.
lavoro: sentire in tutto il proprio essere l'esistenza del mondo.
amore: sentire in tutto il proprio essere l'esistenza di un altro essere? Ma a condizione che non vi sia desiderio, e neppure propriamente voluttà.

[Quaderni I, 1933-1940, 1942, Adelphi, Milano 1982, p.116]



Coppia di contrari dominio-oppressione. Il sogno impossibile di mettere il dominio nelle mani degli oppressi. Ciò che è al di sopra del dominio è il punto di unità, cioè la limitazione del potere. Grazie ad essa i deboli sono più forti dei forti. (UpanisadGorgia). Grazie alla legge. La legge che è equilibrio.

[Quaderni III, 1942, Adelphi, Milano 1988, p. 332]



Oltre all'intelligenza, la sola facoltà umana veramente interessata alla pubblica libertà di espressione è quella parte del cuore che grida contro il male. Ma siccome non sa esprimersi, la libertà per lei è poca cosa. Innanzitutto, bisogna che l'educazione pubblica sia tale che le fornisca il maggior numero di mezzi espressivi. Per la pubblica espressione delle opinioni ci vuole poi un regime che sia definito non tanto dalla libertà quanto da un'atmosfera di silenzio e di attenzione in cui questo grido debole e maldestro può farsi sentire. Infine ci vuole un sistema di istituzioni che porti il più possibile alle funzioni di comando gli uomini capaci e desiderosi di intenderlo e di capirlo.
E' chiaro che un partito occupato nella conquista o nella conservazione del potere governativo non può discernere che rumore in queste grida.

["La Persona e il sacro", 1943, in S.W., Morale e letteratura, ETS, Pisa 1990, p.40]



Esattamente nella stessa misura dell'arte e della scienza, seppur in maniera diversa, il lavoro fisico è un certo contatto con la realtà, con la verità, con la bellezza di quest'universo e con la saggezza eterna che ne costituisce l'ordine.
Perciò avvilire il lavoro è un sacrilegio nello stesso senso in cui è un sacrilegio calpestare un'ostia.
Se coloro che lavorano lo sentissero, se sentissero che per il fatto che ne sono le vittime, ne sono anche i complici, la loro resistenza assumerebbe tutt'altro slancio rispetto a quello che può fornirgli il pensiero della loro persona e del loro diritto. Non sarebbe una rivendicazione; sarebbe una rivolta di tutto l'essere, violenta e disperata come in una ragazza che si vuole mettere a forza in una casa di tolleranza; e nello stesso tempo sarebbe un grido di speranza scaturito dal profondo del cuore (...) Quando gli si parla della loro sorte, si sceglie generalmente di parlare di salari. Loro, sotto la fatica che li schiaccia e rende ogni sforzo d'attenzione doloroso, accettano con sollievo la facile chiarezza delle cifre.
Così dimenticano che l'oggetto su cui si mercanteggia, di cui si lamentano che sono costretti a consegnarlo a ribasso, che gliene viene negato il prezzo giusto, non è altro che la loro anima (...) Questa sinistra farsa è quella recitata dal movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali di sinistra.

["La Persona e il sacro", 1943, in S.W., Morale e letteratura, ETS, Pisa 1990, p.47-48]



La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene. Sono mezzi in vista del bene, stimati a torto o a ragione efficaci. Se la repubblica di Weimar, invece che Hitler, avesse deciso per le vie più rigorosamente parlamentari e legali di mettere gli ebrei nei campi di concentramento e di torturarli raffinatamente fino alla morte, le torture non avrebbero per questo un atomo di legittimità in più di quanto non ne abbiano attualmente. E una cosa simile non è affatto inconcepibile.

["Nota sulla soppressione dei partiti politici", 1943, in Diario, n. 6, p.4]



L'atto della creazione non è un atto di potenza. E' un atto di abdicazione. Con questo atto è stato stabilito un ambito diverso da quello di Dio. La realtà di questo mondo è costituita dal meccanismo della materia e dall'autonomia delle creature ragionevoli. E' un regno da cui Dio si è ritirato. Dio ha rinunciato ad esserne il sovrano, e può accedervi solo come mendicante (...) Dio stesso non può fare che quello che è stato non sia. Quale migliore prova che la creazione è un'abdicazione? (...) La creazione e il peccato originale non sono che due aspetti, differenti per noi, di un atto unico di abdicazione di Dio. E l'incarnazione e la passione sono altresì degli aspetti di questo atto.

[Écrits de Londres, 1943]



Per saperne di più. Lo scritto più equilibrato e coinvolgente su Simone Weil è senz'altro "La volontà di conoscere" di Anna Scattigno, Memoria, n. 5, 1982, ripubblicato con modifiche ed ampliamenti in Paola Melchiori e Anna Scattigno, Simone Weil. Il pensiero e l'esperienza del femminile, La salamandra. Molto utili e informati i numerosi saggi di Giancarlo Gaeta apparsi come introduzioni o postfazioni a diverse edizioni italiane di opere della Weil, daiQuaderni alle Riflessioni, da Sulla Germania totalitaria a La prima radice. Meriterebbe una traduzione il confronto tra la Weil e Wittgenstein proposto da Peter Winch, Simone Weil. "The Just Balance", Cambridge U.P., 1989. Da Gallimard è in corso di pubblicazione l'opera completa. Abbiamo fatto riferimento a: Augusto Del Noce, "Simone Weil interprete del mondo di oggi", introduzione a L'amore di Dio, Borla 1968, ora in L'epoca della secolarizzaziuone, Giuffré 1970; Alessandro Dal Lago, "L'etica della debolezza. Simone Weil e il nichilismo", in Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983; Aris Accornero, Giovanni Bianchi, Adriano Marchetti, Simone Weil e la condizione operaia, Editori Riuniti, Roma 1985; Diotima, Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, Milano 1990.


Bibliografia essenzialeQuaderni I [QI], 1933-1940, 1942, ed. orig. 1951, 1970, Adelphi, Milano 1982; Quaderni II, 1941-1942, ed. orig. 1953-1972, Adelphi, Milano 1985; QuaderniIII [QIII], 1942, Adelphi, Milano 1988; La condizione operaia, ed. orig. 1951, Comunità, Milano 1952 (ora disponibile negli Oscar Mondadori); Écrits de Londres [EL], 1943, Gallimard, Paris 1957; La prima radice, ed. orig. 1949-50, Comunità, Milano 1954 (ora anche edito da ES, Milano); Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale[OL], 1934, ed. orig. 1955, Adelphi, Milano 1983 (ma la traduzione completa di Oppression et liberté è ancora quella di Comunità, 1956); Écrits historiques et politiques, II, * [EHP II *],L'engagement syndical (1927-juillet 1934), Gallimard, Paris 1988; Écrits historiques et politiques, II, * *, L'expérience ouvrière et l'adieu à la révolution (juillet 1934-juin 1937), Gallimard, Paris, 1991; Écrits historiques et politiques, II, * * * , [EHP II * * *], Vers la guerre (1937-1940), Gallimard, Paris 1989; Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990, pp. 36-37; Morale e letteratura [ML], ETS, Pisa 1990; "Nota sulla soppressione dei partiti politici" [N], 1943, in Diario, n. 6S (ora anche in Marka, n. 28).

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